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Autore Discussione: Pier Luigi BATTISTA  (Letto 109006 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Novembre 04, 2015, 05:35:29 pm »

Allende, gli Inti-Illimani e Berlinguer.
Il golpe che spaccò la sinistra italiana


Testo di Pierluigi Battista – ricerca fotografica di Leda Balzarotti e Barbara Miccolupi

Il 3 novembre 1970 Salvador Allende diventa Presidente del Cile

Quell’11 settembre (quello cileno, non quello di New York) gli Inti-Illimani si trovavano in Italia per una tournée. Per il Cile di Salvador Allende, stuprato dal golpe di Augusto Pinochet, era il giorno della catastrofe. Per il gruppo di musicisti rivoluzionari cominciava invece l’interminabile liturgia delle Feste dell’Unità commosse dalla musica andina. L’epopea di Unidad Popolar, soffocata dai militari felloni l’11 settembre del 1973, assumeva dimensioni mitologiche. E i combattivi democratici europei alzavano in alto i pugni chiusi dell’indignazione intonando bellicosi «El pueblo unido jamás será vencido», familiarizzandosi tra un inno e un altro con i ritmi languidi e malinconici della chitarra e del «quatro», del «charango» e della «pandereta». La sinistra italiana raggiunse con il golpe cileno il diapason emotivo della protesta e della mobilitazione delle anime. Il cuore batteva all’unisono per i ragazzi che venivano trasportati sanguinanti e pesti sulle gradinate dello stadio di Santiago del Cile, per l’immagine eroica del presidente Allende che con le armi in mano moriva combattendo contro i truci golpisti, per gli oppositori uccisi, incarcerati o desaparecidos. Le emozioni sapevano riconoscere e distinguere il Bene dal Male: il Male era il volto repellente del generale Pinochet, con lo sguardo di ghiaccio nascosto dietro le lenti buie dei suoi occhiali da sole, simili a quelli indossati da tutti i gorilla sudamericani chiamati ad opprimere i loro popoli; il Bene era la democrazia calpestata, la libertà reclusa, il sangue che scorreva nelle città del Cile. Salvador Allende era il santo, Pinochet il demonio. Tra gli angeli, i suoi alleati del Mir e del Partito socialista di Carlos Altamirano, insieme, coralmente, a tutto «el pueblo» del Cile. Tra i diavoli Kissinger, la Cia, i camionisti che avevano spianato la via ai golpisti con i loro blocchi stradali, le massaie eterodirette che minacciavano il governo Allende con le loro casseruole. Le note andine degli Inti-Illimani erano la colonna sonora di questo caldo sentimento di unanimismo democratico, tanto che il loro successo così inarginabile mise in circolo una quantità di non sempre fortunatissime imitazioni. I «Finti-Illimani», si diceva quando negli anni si cominciò a percepire un sentimento di saturazione («la musica andina che noia mortale», copyright Lucio Dalla). E se da una parte gli Inti-Illimani scatenavano la commozione di tutti, dall’altra si replicava con gruppi musicali destinati a un successo incomparabilmente minore, ma pur sempre cospicuo sebbene effimero, come quello che arrise agli oggi non più ricordati Quilapayún.

Di origini borghesi, laureato in medicina e appassionato di politica sin dal 1933, quando partecipa alla fondazione del Partito Socialista cileno, Allende entra per la prima volta in Parlamento nel 1937. Ricoprirà più volte la carica di ministro della Sanità e delle Politiche Sociali, oltre che di Presidente del Senato, e nel 1970 si candiderà per la terza volta alla Presidenza della Repubblica, dopo le sconfitte del 1952 e del 1958

Sembrava tutto così chiaro. Chiaro come la guerra nel Vietnam: anche lì una netta linea divisoria a separare i grandi ideali dalle oscure macchinazioni manovrate dei loschi interessi dell’«imperialismo». E invece? E invece, pur polarizzando le emozioni collettive con un’intensità mai più raggiunta in tutti gli innumerevoli colpi di Stato che avrebbero travagliato l’America Latina (persino gli orrendi gorilla argentini ebbero una sia pur imbarazzata quota di solidarietà internazionale quando la Thatcher l’«imperialista» mosse loro guerra per riconquistare non le «Malvinas», ma le «Falkland»), le reazioni italiane al colpo di Stato in Cile segnarono uno spartiacque profondo e incolmabile. Già nelle piazze si avvertiva qualche stridore, soffocato solo in parte dall’appello al popolo che unito «jamás será vencido», quando la sinistra «extra-parlamentare» rispondeva con un arcigno «Cile rosso» nei cortei dove i «revisionisti del Pci» si gridava «Cile libero». Ma c’era anche la campagna «Armi al Mir», si inneggiava al «Movimiento de Izquierda Revolucionaria», fautore della lotta armata, la componente più radicale e insurrezionalista dell’arcipelago che aveva sostenuto Allende, anche se con scontri cruenti con il super-moderato Partito comunista di Luis Corvalán. Si diceva che Allende aveva perso perché troppo «poco rivoluzionario», perché non aveva saputo dare il colpo di grazia alle forze «reazionarie» (a cominciare dalla Democrazia cristiana cilena), perché non aveva saputo raggiungere tutti gli obiettivi della rivoluzione socialista. Ma questa lettura si scontrò con la lezione, di segno completamente opposto, che ne avrebbe ricavato il segretario del Pci Enrico Berlinguer. E fu proprio infatti a partire dalle «considerazioni sul Cile» che il leader comunista propose la sua strategia del «compromesso storico». Oggi si tende a ricordare molto di più il Berlinguer della «questione morale» di quello del «compromesso storico». E se in quegli anni fosse prevalsa la regressione culturale in cui piomberà più tardi l’odierna Seconda Repubblica, quella proposta sarebbe stata liquidata come un intollerabile «inciucio». Il terrorismo rosso fu più feroce e sbrigativo e lo definì piuttosto un «tradimento» da lavare con il sangue della lotta armata, ma dietro la riflessione berlingueriana traspariva una vena critica molto severa nei confronti di Allende e della sua Unidad Popular. Berlinguer sostenne infatti in quelle note che non si sarebbe potuto governare con «il 51 per cento», con una maggioranza risicata: giustamente le forze liberaldemocratiche e socialiste in Italia replicarono che invece sì, nelle democrazie si governa quando di conquista la maggioranza, non l’unanimità soffocante e monocromatica. Ma il bersaglio polemico di Berlinguer, certo mimetizzato dallo sgomento per le nefandezze della giunta golpista, era soprattutto la pretesa accarezzata dall’Allende al governo di imporre il socialismo con poco più del 30 per cento dei consensi. Era la linea estremista imboccata dal suo governo, anche sotto l’effetto delle spinte oltranziste dei socialisti di Altamirano, e che aveva portato a genuine sollevazioni popolari causate da una scatenata politica di espropri. L’idea di Berlinguer, ancora oggi confermata, malgrado le innumerevoli svolte della storia, è che è suicida per la sinistra governare «contro» la parte maggioritaria della società, che non si deve umiliare per dottrinarismo ideologico interi gruppi sociali, mortificare l’economia e il mercato, punire quella fetta consistente di opinione pubblica che non ha voluto dare il suo consenso alla sinistra stessa. L’idea era che non si potesse governare «contro le masse popolari cattoliche». Un’idea che si sarebbe realizzata molti anni dopo, quando le forze democratiche si unirono per condurre insieme la battaglia referendaria che avrebbe messo fine alla dittatura di Pinochet e restituito il Cile alla democrazia. Difesa non dai fucili della «lotta armata», ma dal consenso popolare. Dal consenso del «pueblo» reale, non quello immaginario.

 Corriere della Sera 10 settembre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/reportage/esteri/2015/allende-gli-inti-illimani-e-berlinguer-il-golpe-che-spacco-la-sinistra-italiana/
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« Risposta #196 inserito:: Novembre 15, 2015, 08:47:00 pm »

Dopo la strage
Gli attentati di Parigi e la Fallaci «Scusaci Oriana, avevi ragione»
Il risarcimento postumo è online
Aspra ma vera, violenta ma realista. Fallaci protagonista su Facebook e Twitter


Di Pierluigi Battista

S u Twitter, su Facebook, sui social network, dopo l’apocalisse di Parigi è tutto uno «scusaci Oriana». Anzi, tutto no. La parte opposta se la prende aspramente, rancorosamente, con «il delirio della Fallaci», con «l’odio fallaciano». Uno ha scritto, come in una disputa teologica, contro il «fallacianesimo». Ma insomma, da una parte e dall’altra fioriscono le citazioni di Oriana Fallaci. Si vede nel massacro di Parigi il frutto della «profezia di Oriana». Si citano brani interi de La rabbia e l’orgoglio, un libro che ha venduto un numero incalcolabile di copie, che ha intercettato un umore popolare, che ha dato voce a un sentimento diffuso. E oggi, dopo anni di dimenticanza e di marginalizzazione, lo «scusaci Oriana» sembra essere la ricompensa postuma, il risarcimento per una sordità, quasi a considerare Oriana Fallaci come una intrattabile estremista. Mentre ora si vede che le sue diagnosi non erano poi così insensate.

Un passo della Fallaci molto citato: «Intimiditi dalla paura di andar controcorrente cioè d’apparire razzisti, non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione». «Brava Oriana», «Scusaci Oriana», «Non ti hanno voluto ascoltare Oriana», si batte e si ribatte sui social network. E giù anche con gli improperi di Oriana Fallaci sull’Italia molle e arrendevole, «l’avamposto che si chiama Italia» come lo definiva beffardamente lei: «avamposto comodo strategicamente perché offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà». E sulla «coglioneria» s’alza la standing ovation dei fallaciani dell’ultimissima ora, o forse della prima perché compravano avidamente i suoi libri ma non avevano il palcoscenico di Internet sul quale esibirsi. E la profezia della Fallaci che viene rilanciata, e poi contestata, e poi brandita come un’arma della guerra culturale, e poi vituperata, e poi sventolata come una bandiera: «Ma presto si scateneranno. Molti italiani non ci credono ancora. Si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi».

E poi, la previsione più precisa, geograficamente circostanziata, in perfetta connessione con l’orrore che ha scosso la Francia: «Parigi è persa, qui l’odio per gli infedeli è sovrano e gli imam vogliono sovvertire le leggi laiche in favore della sharia». La Francia che non ha mai amato Oriana Fallaci. E bisognerebbe anche ricordare che in Francia la Fallaci, assieme a Michel Houellebecq molto prima che uscisse Sottomissione, fu messa sul banco degli accusati con l’imputazione, che assomiglia a una scomunica ideologica, di «islamofobia»: un’impostura intellettuale che diventa reato e che in Francia, nella Parigi che ieri è stata sconvolta dalla follia fanatica dei combattenti jihadisti, è diventata un’arma di ricatto per tacitare la «parola contraria», come direbbe Erri De Luca in un contesto peraltro completamente diverso. La Fallaci del dopo 11 settembre ha sempre diviso l’opinione pubblica: l’hanno amata e l’hanno odiata, hanno comprato milioni di suoi libri e l’hanno bollata come fanatica al contrario, come guerrafondaia scatenata, come una pericolosa incendiaria quando descriveva Firenze assediata e violentata dagli immigrati che orinavano sul sagrato del Duomo, con un’immagine aspra, violenta. Senza che nessuno si chiedesse: aspra ma vera? Violenta ma corrispondente alla realtà? Oggi, dopo il massacro di Parigi, quelle domande tornano di attualità e vengono assorbite e fagocitate da quel grande mostro onnivoro che è il mondo dei social network. «Scusaci Oriana» su Twitter. Neanche una «profezia» della Fallaci poteva arrivare a tanto.

15 novembre 2015 (modifica il 15 novembre 2015 | 10:04)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_15/gli-attentati-parigi-fallaci-scusaci-oriana-avevi-ragione-risarcimento-postumo-online-e39a056c-8b6b-11e5-85af-d0c6808d051e.shtml
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« Risposta #197 inserito:: Novembre 15, 2015, 09:12:06 pm »

I pregiudizi e l’odio nei confronti di Israele
Si colpisce l’ebreo come incarnazione del «sionista», dovunque si trovi, per la sola colpa di esistere.
In Italia Speravamo che l’ombra lunga del terrore antiebraico non avrebbe insanguinato le nostre città

Di Pierluigi Battista

Un ebreo colpito da sei coltellate da un uomo incappucciato in periferia a Milano, davanti a una pizzeria kosher, è una notizia che sgomenta e allarma, anche in mancanza di particolari più circostanziati. Quella che viene definita l’«Intifada dei coltelli», del resto, non prevede nella sua carica di odio distinzioni, distinguo: si colpisce l’ebreo come incarnazione del «sionista», dovunque si trovi, per la sola colpa di esistere. In Europa, del resto, sono stati colpiti supermercati kosher, scuole ebraiche, sinagoghe, luoghi di ritrovo, singoli ebrei braccati e assaliti per strada. In Italia, che pure ha conosciuto nel 1982 l’attentato di fronte al Tempio Maggiore di Roma in cui perse la vita un bambino di due anni, speravamo che l’ombra lunga del terrore antiebraico non avrebbe insanguinato le nostre città. È ancora tutto da verificare quello che è accaduto ieri sera a Milano, la dinamica dell’aggressione, l’identità dell’attentatore, lo spunto da cui è partito l’agguato. Ma la comunità ebraica, e non solo quella di Milano, vive una sindrome terribile di paura. E l’Italia deve preoccuparsi, prendere atto che non esistono zone franche, soppesare le parole, capire che l’odio antiebraico, camuffato da odio antisionista, ha già provocato in Europa lutti atroci in questi ultimi anni. Un segnale, terribile, da non sottovalutare.

Tutto questo avviene alla vigilia della visita in Italia del presidente iraniano Rouhani. Ogni accostamento con i fatti di Milano, beninteso, sarebbe arbitrario: chi lo sostenesse con leggerezza apparirebbe vittima di una furia propagandistica davvero irresponsabile. Eppure è da una parola carica di angoscia, «odio», che occorre partire per una riflessione che sia capace anche di inquadrare l’agguato all’ebreo accoltellato davanti a un ristorante kosher. Infatti il presidente iraniano Rouhani, nell’intervista esclusiva che ha concesso a Viviana Mazza e Paolo Valentino per il Corriere della Sera , ha detto, testualmente, di «amare l’ebraismo» e di rispettare le «religioni monoteiste». Un’apertura importante e significativa, quando anche in Europa gli ebrei vengono uccisi dai combattenti fondamentalisti dell’islamismo politico. Un’apertura tanto più importante perché può dare un segnale molto forte nella visita del presidente iraniano in Italia. Tuttavia c’è un «però» che raggela gli animi e torna a demonizzare l’esistenza stessa dello Stato di Israele proprio quando cittadini ebrei e israeliani sono colpiti dall’odio degli accoltellatori, dai militanti del terrore che non fanno distinzione tra «ebrei» e «sionisti». Il presidente iraniano dice di capire «l’odio» non per gli ebrei ma per lo Stato di Israele. Ma non si possono rispettare gli ebrei e odiare il fatto che gli ebrei abbiano un loro Stato: lo Stato di Israele è lo Stato degli ebrei, che la comunità internazionale ha sancito con una risoluzione dell’Onu.

Ecco perché le parole di Rouhani, che pure sembrerebbero prendere le distanze dal pregiudizio antiebraico, ricadono nello stesso pregiudizio che ha sempre impedito e continuerà ad impedire la possibilità di una soluzione pacifica dei conflitti nel Medio Oriente. Quando Arafat e Rabin si sono stretti la mano con Clinton che faceva da paciere, il riconoscimento reciproco sembrava sul punto di offrire una soluzione storica a una guerra interminabile. Perché il riconoscimento della legittimità dello Stato di Israele è la precondizione della pace, ed è la premessa necessaria affinché anche lo Stato di Israele non possa che imboccare la strada maestra dei «due popoli, due Stati». L’alternativa è un «odio» imperituro, l’antiebraismo che si camuffa con l’antisionismo, una guerra che non avrà mai fine. E i fatti come quello di Milano, che aprono interrogativi angosciosi e impongono a tutti di soppesare le parole e di cancellarne per sempre una: «odio».

13 novembre 2015 (modifica il 13 novembre 2015 | 07:41)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_13/pregiudizi-odio-confronti-israele-2178527a-89ce-11e5-8726-be49d6f99914.shtml
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« Risposta #198 inserito:: Novembre 15, 2015, 09:13:42 pm »

Il lungo assedio
Attentati a Parigi, i segnali rimasti inascoltati
«Charlie Hebdo», Copenaghen, il Canada, l’Australia: fino all'accoltellamento di Milano

Di Pierluigi Battista

Pensavamo di cavarcela con una passeggiata di un milione di persone sui boulevard di Parigi, nel gennaio scorso, dopo la carneficina del «Charlie Hebdo». Tutti insieme, tutti «Je suis Charlie» e dopo dimenticare, rimuovere, scusarsi: «Se la sono andata a cercare». Poi è successo a Copenaghen, quando un convegno sulla libertà d’espressione è stato attaccato da un commando armato, e abbiamo fatto finta di niente. Avevamo fatto finta di niente anche in Canada, quando ad essere assediato è stato il Parlamento. Ma il Canada era lontano, anche l’Australia era lontana. Anche l’Isis sembrava lontanissimo.

E in Italia, cosa poteva accadere, mica che un ebreo sarebbe stato accoltellato a Milano all’uscita di un ristorante kosher, kosher come il supermercato dove, subito dopo la strage del settimanale che aveva osato pubblicare le vignette su Maometto, un altro massacro ha colpito gli ebrei francesi. E adesso l’apocalisse di ieri sera, di stanotte.

Davvero era così imprevedibile? Davvero chi diceva che l’Europa stava diventando un campo di battaglia esagerava, fomentava la guerra di religione, seguiva le orme di Michel Houellebecq che pure è costretto a vivere blindato perché l’islamismo fondamentalista non gli perdona «Sottomissione»?

L’Europa è al centro di questa guerra. E chi la conduce, spargendo sangue lutti e paura, non è un semplice terrorista, ma un combattente di una guerra santa che non conosce confini, così come lo Stato islamico non conosce i confini e le frontiere dei vecchi Stati, dall’Iraq alla Siria, disegnati con il crollo dell’Impero ottomano. Nel giorno della possibile, annunciata morte di Jihadi John, l’esercito dei combattenti fondamentalisti e integralisti che vogliono schiacciare il mondo peccaminoso e satanico degli infedeli fa dell’Europa un bersaglio oramai stabile. Parigi è l’epicentro. La Francia è il terreno molle dell’attacco. Qui hanno assaltato le sinagoghe e le scuole ebraiche. Qui reclutano i militanti della Jihad globale. E contano sulla solidarietà molle e volubile del mondo nei confronti delle vittime. Solo dopo pochi mesi dal massacro di Parigi, in America un nutrito gruppo di scrittori molto alla moda, capeggiati da Joyce Carol Oates, ha protestato per l’assegnazione di un premio nel nome della libertà d’espressione alla testata di «Charlie Hebdo». Hanno detto che con quelle vignette avevano offeso la religione islamica. Magari non meritavano la morte, ma una sanzione per l’abuso della loro libertà doveva pur esserci. C’è da stupirsi se poi i vignettisti superstiti hanno dichiarato che mai e poi mai avrebbero disegnato altre vignette sull’Islam? C’è da stupirsi se, dopo aver scoperto che ragazzi inglesi erano andati a ingrossare l’esercito dell’Isis, nei musei di Londra hanno prudentemente nascosto quadri che raffiguravano, e non in modo offensivo, immagini del Profeta?

Abbiamo fatto tutti finta di non vedere. Hanno decapitato un dirigente industriale davanti a uno stabilimento di Lione e hanno lasciato la testa lì, per terrorizzare, come hanno fatto con il povero archeologo che custodiva con cura i tesori di Palmira. Facemmo finta di niente quando in Olanda ammazzarono il regista Theo Van Gogh, il regista di un cortometraggio intitolato «Submission» come il romanzo di Houellebecq, prima sparandogli e poi colpendolo ritualmente con un coltello, con un foglio in cui si diceva che questo era il destino di chi avesse avuto la temerarietà di criticare l’oppressione della donna nei Paesi islamici. C’è bisogno di ricordare che nessun festival cinematografico ha voluto proiettare il cortometraggio di Van Gogh?

Ci spaventiamo a morte per le bandiere nere del califfato che sventolano nella Libia oramai frantumata, un tratto di mare di distanza dalle coste italiane. Ma speriamo sempre che quello che accade nel cuore dell’Europa, sino alla catastrofe ultima di Parigi, non sia già il segno di un allargamento illimitato del conflitto. Speriamo sempre che la guerra non oltrepassi la soglia del pericolo. Speriamo che la distanza fisica non venga annullata dall’internazionale del terrore.

Non capiamo perché sono presi a bersaglio simboli ebraici, esseri umani ebrei, luoghi di culto ebraici. Perché stentiamo a capire che l’«ebreo» è il nemico numero uno che secondo la visione dei fondamentalisti deturpa la purezza della terra sacra dell’Islam. E anche i simboli cristiani vanno colpiti. E le sale dove si tengono concerti, perché la musica è peccaminosa. E anche gli stadi, perché si permette alle donne di assistere alle gare senza velo. Non è una supposizione: è quello che dicono. Lo dicono in Francia, in Gran Bretagna, in Danimarca dove è partito il tumulto per le vignette su Maometto e dove un vignettista è stato raggiunto in casa da un gruppo di assalitori armati d’ascia. E quanta solidarietà aveva ricevuto Salman Rushdie quando il regime degli ayatollah decretò una fatwa ai suoi danni consentendo agli zelanti fedeli sparsi per il mondo di uccidere lo scrittore blasfemo, il bestemmiatore da punire senza pietà? Si poteva capire. Bastava non far finta di niente. Bastava capire perché vogliono colpire Londra, Amsterdam, Parigi. E Milano davanti a una pizzeria kosher.

14 novembre 2015 (modifica il 14 novembre 2015 | 14:06)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_14/attentati-parigi-segnali-rimasti-inascoltati-8fc46f8e-8a96-11e5-8726-be49d6f99914.shtml
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« Risposta #199 inserito:: Novembre 24, 2015, 06:30:12 pm »

Valori da riconoscere
Ora parole chiare dall’Islam

Di Pierluigi Battista

Scalda il cuore l’immagine dei musulmani delle comunità italiane che scendono in piazza per gridare «no al terrorismo» e per contrastare apertamente chi uccide in nome dell’Islam. Ed è ammirevole il coraggio degli imam francesi che si sono spinti a dirsi disgustati per gli «attentati criminali commessi in nome della nostra religione». Sono passi importanti, il risveglio di una battaglia culturale nel mondo islamico che vive in Europa e in Occidente in cui finalmente si pronunciano parole chiare e non ambigue sullo stragismo jihadista.

Ma con altrettanta chiarezza bisogna aggiungere che sono solo i primi passi. Che ce ne vogliono altri in cui si riconosca senza riserve l’accettazione di valori per noi imprescindibili come la tolleranza religiosa, la libertà dell’arte e della cultura, il pluralismo delle idee, la laicità dello Stato, l’eguaglianza tra uomo e donna e dunque il rifiuto netto, intransigente, assoluto di ogni consuetudine e di ogni comportamento sociale e familiare in cui la donna sia discriminata, minacciata, privata dei suoi diritti fondamentali.

Non è solo il terrorismo che deve essere isolato, ma ogni attacco alla libertà condotto nel nome della religione. Ognuno preghi e onori senza limitazioni il suo Dio. Ma tutti, senza eccezioni, rispettino la stessa cornice di valori che è l’ossigeno di una società aperta e tollerante. Ancora una volta: senza eccezioni.

Quindi le comunità musulmane inglesi non devono sentirsi offese se finalmente in Gran Bretagna il governo di David Cameron mette fine all’eccezione scandalosa dei tribunali islamici che pretendono di applicare un loro diritto ispirato alla Sharia su matrimoni, divorzi ed eredità, compreso il «talaq» ossia il ripudio della donna che è prerogativa esclusiva dell’uomo. Non devono pretendere che la diseguaglianza radicale tra i generi sia formalizzata in una forma di diritto parallelo a quello comune a tutti gli altri cittadini e cittadine. Non devono sentirsi offese perché in uno Stato libero e aconfessionale i diritti sono di tutti, l’eguaglianza di fronte alla legge non è un principio negoziabile e le donne non sono considerate proprietà degli uomini.

C’è un luogo comune molto diffuso secondo cui le forme di intolleranza e di integralismo religioso, e anche una pratica consuetudinaria in cui alla donna viene assegnato un rango inferiore, hanno caratterizzato in passato anche le società ispirate ai valori giudaico-cristiani. E che dunque bisogna aspettare fiduciosamente il futuro, quando le ombre del Medioevo saranno dissipate anche nel mondo islamico.

Purtroppo non è così. L’intolleranza, la violenza, l’integralismo, l’illibertà non sono nel mondo musulmano il residuo del passato, ma sono la novità, catturano i giovani, promettono una radicalizzazione fanatica come rimedio alla fede tiepida della tradizione. La predicazione violenta e fanatica, il bacino ideologico e culturale da cui trae alimento il terrorismo apocalittico di chi vede nello sterminio degli infedeli santificato dal proprio martirio l’unica via che porta al Paradiso, fa breccia principalmente tra i giovani, gli islamici dell’oggi e del domani.

A Istanbul, basta leggere i romanzi di Orhan Pamuk per capirlo, si infittisce la schiera delle donne giovani che indossano il velo e provano disprezzo per gli abiti «occidentali», considerati abominevoli e perversi, come la musica «satanica» suonata nel Bataclan di Parigi. Le fotografie dell’epoca raccontano come a Teheran, al Cairo e persino a Kabul, negli anni Sessanta e Settanta le donne non si distinguessero nel modo di vestire da una donna di Roma o di Parigi. Il radicalismo jihadista è il frutto del risveglio islamista, non di un Medioevo non ancora smaltito.

Le comunità islamiche dell’Occidente devono dire all’Europa laica e tollerante se considerano giusto, degno di esempio, il tumulto cruento, l’assalto alle ambasciate, le violenze, le bandiere bruciate che infiammarono le piazze musulmane quando papa Ratzinger tenne la sua lezione a Ratisbona contestatissima dall’Islam radicale, ma anche da quello moderato. Devono dire se sono preoccupate per la violenza antisemita che colpisce gli ebrei d’Europa con la scusa di un antisionismo amplificato anche nei Paesi islamici «moderati» da serie tv tratte dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, un testo classico dell’antisemitismo idolatrato da Hitler e dai nazisti di ogni tempo e di ogni luogo. E che cosa pensano della persecuzione anticristiana nel mondo islamico (anche nell’Afghanistan «liberato» dai talebani, purtroppo): quella che in Arabia Saudita, non nei territori dell’Isis, comporta la condanna a morte se un cristiano viene scoperto in possesso di un crocefisso o di un rosario nascosti nel cassetto. Cosa pensano dei blogger che da Teheran a Riad, nell’islamismo sciita come in quello sunnita, vengono frustati se in dissenso con i loro governi. E se pensano che sia giusto che Ayaan Hirsi Ali, l’apostata, l’autrice di un libro bellissimo come Eretica , debba vivere blindata, bersaglio dell’odio dei fanatici jihadisti.

Passi necessari, che segnino una lunga durata della dissociazione dalla violenza omicida, e l’avvio di una battaglia culturale che prosciughi il campo dell’intolleranza e del fanatismo.

22 novembre 2015 (modifica il 22 novembre 2015 | 07:43)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_22/islam-parole-chiare-editoriale-battista-e17c55aa-90e3-11e5-bbc6-e0fb630b6ac3.shtml
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« Risposta #200 inserito:: Novembre 29, 2015, 05:25:04 pm »

Manca una classe dirigente
Ora van di moda i giornalisti
Le idee di candidati per le prossime amministrativi: Sallusti e i precedenti, anche nella sinistra

Di Pierluigi Battista

Se i giornali, in tutto il mondo, non godono di salute eccellente, invece per i giornalisti che si situano nel centrodestra, in Italia, sono tempi di grandi gratificazioni. Tutti li cercano, tutti li vogliono, tutti li testano. Il declino di Berlusconi non ha lasciato in eredità una solida classe dirigente. C’erano gli «imprenditori», una volta, a supplire. Ora ci sono i giornalisti, surrogato di classe dirigente, ma dalla forte visibilità mediatica. E allora in Liguria si sono affidati, e stavolta con successo anche grazie ai contorcimenti e agli impulsi suicidi degli avversari di centrosinistra, al giornalista Giovanni Toti. Per Milano, tutti speravano nel sì di Paolo Del Debbio, giornalista. Poi si è fatto il nome di Alessandro Sallusti, giornalista. Il partito dei giornalisti. Tutto il contrario del Pd, che invece pullula di figure esterne, e chiama a raccolta alti profili istituzionali: il partito dei prefetti. Un tempo anche la sinistra portava sul palcoscenico elettorale i giornalisti, possibilmente di estrazione Rai, il grande serbatoio: da Lilli Gruber a David Sassoli, da Piero Badaloni a Piero Marrazzo, compreso lo stesso Michele Santoro, che poi tornò a casa Rai dopo essersi dimesso dal Parlamento europeo. Ora, come si dice, la «politica» ha ripeso nel Pd lo scettro con la leadership di Matteo Renzi, ma con Corradino Mineo si chiude la parabola dei giornalisti «prestati» alla politica. Nel cerchio magico renziano si prediligono altre figure. Nel Pd sparso per l’Italia, altre figure, di segno opposto, assai «radicate nel territorio».
Nel centrodestra, c’è invece il deserto della classe dirigente. E anche il rapporto con la «società civile», con il mondo dell’imprenditoria e delle professioni, che in passato sfociò nelle candidature di Gabriele Albertini e Letizia Moratti, si è sfrangiato fin quasi a dissolversi. Si cercano volti noti. E’ l’ora dei giornalisti.

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28 novembre 2015 (modifica il 28 novembre 2015 | 11:19)

Da - http://www.corriere.it/politica/15_novembre_28/manca-classe-dirigente-ora-van-moda-giornalisti-3794b442-9598-11e5-92c5-a69ccd937ac8.shtml
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« Risposta #201 inserito:: Dicembre 09, 2015, 07:28:44 pm »

Errori
Populista è ormai un insulto non una categoria politica
Le classi dirigenti accusano gli avversari vincitori di essere rozzi, plebei e di aver vinto con un voto «di pancia».
Ma è pericolosa questa presunta superiorità antropologica perché allontana dalla realtà e fa il gioco dei demagoghi

Di Pierluigi Battista

Nel secolo che si è da poco inaugurato, «populista» è il nuovo «fascista», in auge nel ventesimo secolo. È un insulto, non una categoria politica. Un anatema, non una descrizione passabilmente precisa. È l’indicazione di un mostro, o di una strega da bruciare, se si tratta di una donna come Marine Le Pen. Esprime uno stato d’animo di frustrazione. La frastornata incapacità delle classi dirigenti europee di decifrare quel che sta accadendo nel profondo del «popolo» che la retorica democratica continua a definire, sempre più di malavoglia, «sovrano». E allora meglio una moratoria, almeno provvisoria. La messa al bando di un termine che non significa niente ma che funziona come segno di appartenenza a quell’establishment che è la bestia nera dei partiti e dei movimenti sbrigativamente e superficialmente scomunicati come populisti.

Sembra un gioco degli specchi, e purtroppo ad andarci di mezzo è l’Europa, o l’illusione che l’Europa potesse essere qualcosa di diverso, di attraente, capace di suscitare, nientemeno, un sentimento di appartenenza. «Populismo» è l’arma contundente che si usa come fallo di reazione. I cosiddetti «populisti» amplificano l’ostilità per l’establishment, l’élite, la finanza, il «grande», l’«alto», i ricchi, i padroni della cultura, i grandi media («i giornaloni» è diventato il loro mantra, a destra e a sinistra), i partiti tradizionali, il potere della burocrazia, i mandarini di un regolismo ossessivo e asfissiante. Dicono di voler dare voce ai «senza voce», rappresentanza ai «piccoli», esprimere ciò che ribolle nel «popolo»: ma come in un massacrante gioco degli specchi, le élite, l’establishment, la burocrazia del potere rispondono con il disprezzo, la supponenza, l’alterigia. Non con la severità, che pure ha una sua autorevolezza se esercitata con schiettezza ed equanimità, ma con la boria di chi pretende di vantare una superiorità antropologica sul «popolo» grossolano e ignorante. Attenzione al lessico di chi abusa del termine «populismo», basta scorrere anni di rassegna stampa. Quando il popolo dà retta ai «populisti», scatta l’automatismo dei presuntuosi per dire che il popolo vota con la «pancia». Che è preda di un «umore» (mentre gli ottimati usano solo la fredda ragione). Che è «irrazionale», infantile, vulnerabile a ogni «sirena». «Rozzo» (anche questo è stato scritto). «Plebe» (anche questo è stato scritto). E, soprattutto, dominato dalla «paura». Dicono che il trionfo del partito della Le Pen sia il frutto dell’angoscia del Bataclan, ma tutti i sondaggi davano vincente il Front National anche prima del 13 novembre. Quanto avrà portato la paura del Bataclan alla Le Pen: l’1, il 2 per cento? E l’altro 28, come mai nessuno era riuscito a parlarci prima? Perché veniva disprezzato, confinato in un recinto infetto. Una reazione «di pancia» e irrazionale dell’élite: insultare chi ti volta le spalle, non cercare di capire cosa sta accadendo.

Chi ha creduto nell’Europa, nella possibilità che un continente intero vivesse la sua unificazione come un incremento della libertà, libertà di circolazione delle idee, delle persone e delle merci, una casa comune fondata sulla pace e sul benessere che ti faceva sentire cittadino di una stessa patria morale europea, con una moneta unica e istituzioni democratiche aperte ed inclusive, con un solidale sistema di difesa anche militare, oggi non solo deve constatare che almeno un terzo dell’elettorato nei vari Paesi europei dà stabilmente il suo consenso a movimenti e partiti (di destra o si sinistra importa poco) che fanno dell’Europa il loro bersaglio, ma deve anche assistere a una classe dirigente arroccata e senza idee, che insulta ed esorcizza chi si sente ai margini, minacciato nella propria identità e nel proprio benessere. E ora anche con l’Isis. Colpiscono la Francia? Se la veda Parigi, noi al massimo esprimiamo solidarietà. Il centro di Bruxelles a pochi passi dalle maggiori istituzioni europee viene messo sotto attacco? Ci pensi la polizia belga. Non l’Europa, ma il Belgio. L’Europa pensa ad affibbiare l’etichetta «populista». Una moratoria urgente che metta da parte il «populismo»: giusto il tempo di cominciare a pensare.
9 dicembre 2015 (modifica il 9 dicembre 2015 | 09:36)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_09/populista-ormai-insulto-non-categoria-politica-7aa9882a-9e3a-11e5-a090-5b8c3aeb1ca0.shtml
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« Risposta #202 inserito:: Dicembre 26, 2015, 11:14:18 pm »

Il commento
I 5 Stelle, la Consulta e la condanna alla mistica della purezza

Di Pierluigi Battista

Puri. Sempre soli. Mai un accordo, svilito come spregevole compromesso, orrendo inciucio, immorale cedimento. Anche se si elegge come giudice costituzionale un giurista stimato. La Rete ribolle, il sacro blog è percorso da fremiti di indignazione. La «base» si ribella ai parlamentari del Movimento 5 Stelle che hanno votato insieme ai «corrotti» del Pd i nomi che il Parlamento era tenuto ad indicare per la Corte Costituzionale, dopo un vuoto decisionale durato oltre i limiti della decenza. C’è una legge che stabilisce che i giudici costituzionali nominati dalla politica debbano avere un voto che va al di là della maggioranza semplice: l’accordo è una necessità, un obbligo, senza è impossibile nominare un giudice costituzionale. Ma la base dei 5 Stelle pretende la purezza assoluta. E se Grillo e i suoi dirigenti predicano dipingendo un mondo in cui gli unici puri sono a cinque stelle, c’è sempre uno più puro, nel popolo galvanizzato della mitica base, che vuole epurare gli impuri, o i tiepidi.

Eppure, il successo politico era evidente. L’asse tra il Pd renziano e Forza Italia che aveva inanellato una brutta figura dietro l’altra, in una sequenza impressionante di fumate nere, simbolo dell’impotenza, e della fragilità di una intesa nata ai tempi del «patto del Nazareno» oramai fatto a pezzi dopo la spallata di Renzi per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Il premier che aveva dovuto piegarsi a un compromesso con i grillini proprio mentre era in atto l’offensiva sul ministro Boschi. La possibilità per il Movimento 5 Stelle di potersi intestare l’interdizione alla Consulta per il candidato del centrodestra. La fine dell’isolamento, la fine della «narrazione» secondo cui la presenza in Parlamento dei Cinque Stelle non produce mai risultati. E invece dell’applauso, ecco i fischi. Invece della sigla di un successo, i mugugni, le proteste, le accuse, i parlamentari messi sul banco degli imputati per non aver seguito alla lettera la liturgia del movimento, l’inchino rituale alla Rete.

Come se qualunque risultato politico in Parlamento fosse la negazione stessa della funzione dei grillini nel Palazzo, sempre di teatrale agitazione, di urla, di sceneggiate. Che pure sono importanti nella società della comunicazione politica. Ma non è nemmeno detto che in ambiti limitati e «istituzionali» l’opposizione sia meno opposizione se sceglie la strada dell’accordio anziché quella del muro contro muro. Ovviamente hanno anche in parte ragione: i Cinque Stelle hanno la diversità nelle loro insegne, devono stabilire una distanza, e persino una lontananza rispetto al resto del ceto politico se vogliono conservare la loro immagine presso l’opinione pubblica che dà loro ascolto. Ma la mistica della purezza è un’altra cosa. E soprattutto il sospetto ossessivo che qualunque accordo, in materia istituzionale e non in quello delle scelte di governo, sia il frutto di un inconfessabile manovra, di una svendita. Chi ha seminato quest’idea ora si prende i fischi di chi ha voluto abbracciarla fanaticamente. I più puri dei puri.

19 dicembre 2015 (modifica il 19 dicembre 2015 | 07:58)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_dicembre_19/m5s-mistica-purezza-commento-battista-264a58dc-a61d-11e5-b2d7-31f6f60f17ae.shtml
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« Risposta #203 inserito:: Dicembre 29, 2015, 12:24:58 pm »

Il corsivo del giorno
I parlamentari espulsi dal movimento di grillo democrazia diretta o epurazione continua?

Di Pierluigi Battista

Oramai è un’ossessione compulsiva: tagliare, espellere, cacciare, amputare. Una specie di rito di purificazione da osservare con puntuale meticolosità, come se la mistica della purezza non potesse fare a meno di indicare la figura del reprobo come minaccia per la setta.

Ora tocca alla parlamentare Serenella Fucksia. Il sacro blog viene chiamato a deliberare la sua cacciata dal Movimento 5 Stelle. Il motivo? La cittadina Fucksia non avrebbe versato al Movimento la parte di stipendio da parlamentare, rinunciando alla quale i seguaci di Grillo dovrebbero attestare la loro irriducibile estraneità al sistema dei partiti. Ma si tratta di un pretesto, di un appiglio formale per procedere più speditamente all’epurazione che renda più compatto il movimento, lo liberi dalla presenza frenante degli impuri, dei tiepidi, di chi ha perso l’ardore delle origini e soprattutto la fiducia del capo che tutto dispone e tutto decide con la liturgia della democrazia manipolata via web.

Del resto la parlamentare Fucksia non avrebbe neanche i titoli per lamentarsi: non risulta che in passato abbia pronunciato una sola parola di dissenso quando altri suoi colleghi sono passati sotto le forche caudine dell’epurazione e per i primi due anni si è sottoposta con convinzione alla pratica virtuosa dell’automutilazione degli emolumenti.

Resta l’incompatibilità assoluta tra la disciplina fanatica del Movimento e le procedure normali della democrazia, e anche l’impossibilità dentro i Cinque Stelle di posizioni che non coincidono con quelle sancite dalla linea ufficiale, in Parlamento ma anche nelle città e nelle realtà locali. Ogni minima deviazione viene punita, indicata alla pubblica riprovazione del blog: e il rito viene addirittura definito «democrazia diretta». Non c’è possibilità di autodifesa, nemmeno una parvenza di processo democratico in cui l’epurato possa dire la sua. Tutto affidato alla volontà indiscutibile dell’assemblea. Un’ossessione. Una setta.
29 dicembre 2015 (modifica il 29 dicembre 2015 | 08:41)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_dicembre_29/i-parlamentari-espulsi-movimento-grillo-democrazia-diretta-o-epurazione-continua-5e28c7f0-adfe-11e5-a515-a44ff66ae502.shtml
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« Risposta #204 inserito:: Dicembre 30, 2015, 06:01:11 pm »

L’analisi
I gufi, i sindacati e gli altri nemici le parole che raccontano il premier
Scelte (e slide) in conferenza stampa.
Anche i giornalisti nel mirino: abolirei l’Ordine
Da Merkel a Cottarelli
Le critiche piovono, tra gli altri, sull’ex commissario alla spending review

Di Pierluigi Battista

«Sobillare» è parola del vocabolario politico molto impegnativa e carica di (cattiva) storia, e Matteo Renzi l’ha usata in conferenza stampa per denunciare i «sobillatori» sindacali che avrebbero terrorizzato i professori precari agitando lo spettro della «deportazione» scolastica, parola ancor più sovraccarica di storia cattiva e tragica usata irresponsabilmente dai sindacati. Ma la denuncia della «sobillazione» si attaglia perfettamente al racconto che Matteo Renzi vuole dare di se stesso: lui e i nemici, lui contro i «gufi», lui contro chi rema contro, lui contro i rosiconi, lui contro i conservatori. Lui contro. Il racconto renziano, storytelling se si preferisce, è strutturato sull’antagonismo, sul dualismo, tra lo slancio del giovane premier e l’occhiuta resistenza di chi vuole ostacolarlo, animato sempre e inevitabilmente da motivi oscuri e inconfessabili, da malmostosità reazionaria e senile, da autolesionismo dannoso per l’Italia. Se non ci fosse un nemico, Renzi dovrebbe inventarlo. E anche ieri nella consueta conferenza stampa il premier ha creato la regia dell’inimicizia perfetta. Sembrava quasi smanioso, nella ricerca del nemico.

Martedì è apparso così composto da sembrare quasi stanco e svogliato. Il contrario dell’effervescenza ipercinetica della prima conferenza stampa, una raffica di battute, motti di spirito, annunci choc, giovanilismo sfrenato e twittarolo. La conferenza stampa in cui un premier aveva introdotto la «slide» come simbolo di modernità e discontinuità rispetto alle uscite in doppiopetto della vecchia politica pigra e dal passo da dinosauro. Martedì Renzi ha usato una slide per trasmettere il suo messaggio. Ma con una novità: il fumetto del gufo. L’antitesi, il nemico, il sabotatore, il sobillatore. La retorica del gufo disfattista sta diventando un po’ logora? Renzi non può rinunciare al suo messaggio, ma ha bisogno di stilizzarla, renderla più comprensibile, immaginifica. Ecco allora il gufo appollaiato sulla slide. Non il «taci, il nemico ti ascolta», ma «metti il segno più, che il gufo mette il segno meno». Il gufo è la perfetta rappresentazione della coppia amico-nemico, noi-loro. Suggerisce l’idea di qualcuno che trama nell’ombra, si compiace delle sconfitte, vuole che Renzi fallisca e con lui ogni proposito di riforma e di innovazione. Hai dubbi sulla politica economica del governo? Gufo. Ha qualche dubbio che le tasse a conti fatti diminuiranno? Disfattista. Non pensi che la riforma del Senato sia la migliore sulla faccia della Terra? Rosicone. E infatti ieri Renzi ha annunciato nella conferenza stampa dedicata alla costruzione del nemico che sul referendum costituzionale lui, il giovane premier baldanzoso e generoso, giocherà la partita finale, l’Armageddon, lui contro tutti, Russell Crowe solo nell’arena, il gladiatore ad affrontare la triste armata dei gufi di ogni colore.

E quanti ce n’erano di gufi, che Renzi ha stanato in conferenza stampa. I giornalisti, prima di tutto. Maltrattati tramite duello con il presidente dell’Ordine dei giornalisti, organismo che Renzi dice di voler abolire. O meglio, dice che «se fosse per lui», l’Ordine sarebbe bell’e che abolito. Ma lui fa il presidente del Consiglio. Vuole abolire l’Ordine dei giornalisti? Lo faccia (qualcuno protesterà, ma molti saranno dalla parte del premier). Però se lo fa, poi chi potrebbe sostituire quel comodo nemico? Poi i nemici soliti, i sindacati, gufi sobillatori. Poi però la new entry, Angela Merkel e l’establishment europeo, presi a bersaglio nei giorni in cui il governo era in difficoltà per il pasticcio della Banca Etruria, e che ieri sono diventati nuovamente il nemico da respingere, i frenatori dell’Italia, gli umiliatori di professioni che vorrebbero calpestare la nostra giovane e dinamica e intraprendente e rottamatrice Nazione soffocata dall’austerità europea e tedesca in particolare. E poi persino il commissario Cottarelli, quello della spending review, che avrebbe tagliato male secondo il premier che finalmente si è liberato di lui e la cui opera potatrice dunque, per Renzi, sarebbe stata ben peggiore di un governo che alla fine ha deciso di tagliare molto poco. O quasi niente, come dicono i gufi che scrivono, altrimenti detti, altro luogo frequentatissimo nel lessico renziano, «commentatori», oppure «professoroni».

Tra la prima conferenza stampa e questa di fine 2015, le dinamiche posturali (c’è tutta una sofisticatissima bibliografia sulla «prossemica del potere»), il lessico, le stesse espressioni facciali di Renzi sono cambiate moltissimo. Prima era più baldanzoso, ora è meno felice, politicamente si intende. Prima per lui parlava solo il futuro, e il «cronoprogramma» era tutto una promettente avventura. Oggi il tempo scorre inesorabilmente, e il gioco si fa duro: o con me o contro di me, o con il cambiamento oppure nella schiera infetta dei gufi. Meno sorrisi, meno complicità con i giornalisti amicalmente chiamati per nome, come avveniva nella prima conferenza stampa, e più circospezione, più sospetto addirittura. Sembrerebbe un Renzi un po’ preoccupato. Ma forse sarebbe da gufi sottolinearlo.

30 dicembre 2015 (modifica il 30 dicembre 2015 | 08:58)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_dicembre_30/i-gufi-sindacati-altri-nemici-4898dca0-aeca-11e5-8a3c-8d66a63abc42.shtml
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« Risposta #205 inserito:: Gennaio 03, 2016, 06:34:24 pm »

il caso

Capodanno Rai: così la tv pubblica svela il suo volto sfilacciato
Il countdown anticipato, la bestemmia in diretta tv, lo spolier sul finale di «Star Wars»: tutti gli scivoloni di quella che viene definita la «più grande industria culturale del Paese»


Di Pierluigi Battista

Mancavano soltanto pochi secondi, anzi, mancava soltanto un minuto e pochi secondi all’arrivo del 2016 e la Rai ha fatto il botto. Non i soliti botti di Capodanno, la solita gara festosa di stappamenti sincronizzati di spumante, ma il botto di una Rai sfortunata, caotica, gaffeur, scombinata. Allo sbando, per quel minuto maledetto che ha anticipato di soppiatto l’ingresso del nuovo anno per un errore di calcolo. Allo sbando orario. Non lo sbando alcolico del cenone. Ma lo sbando di un’azienda di Stato che percepisce il canone e che non può permettersi, per disorganizzazione e per smania di incassi, di esibire il suo lato più trash. E ora, per quel minuto divorato con sciatteria, la Rai è diventata un caso nazionale. Anzi, da ieri pure internazionale con l’intervento severo dell’Osservatore Romano, giornale dello Stato vaticano. E si sa quanto, Oltretevere, si guardi con sollecita preoccupazione alle faccende di Raiuno. Dove, per sciatteria ripetuta, hanno mandato in onda pure una bestemmia. E passi per la rivelazione del finale di Star Wars, ultimo sfregio di una serata da Peter Sellers in Hollywood Party. Ma una bestemmia, addirittura! Su Raiuno, addirittura! Peggio, molto peggio del minuto rosicchiato agli orologi d’Italia.


Ora, un errore è sempre possibile, persino mandare in onda il segnale orario sbagliato quando gli italiani si aggrappano a quel segnale orario per declamare tutti insieme il conto alla rovescia e fare il brindisi a mezzanotte in punto. Però la Rai rivendica il suo ruolo di servizio pubblico. In nome del quale percepisce un canone che gli italiani devono pagare obbligatoriamente e tra poco, minuto più minuto meno, se lo troveranno nella bolletta elettrica. Dunque non è lecito che si possa comportare come la più scalcinata delle tv locali. Dicono che quella bestemmia è passata perché ogni messaggio in tv erano soldi che entravano: ma il servizio pubblico? Dicono addirittura che qualcuno abbia ritoccato dolosamente il segnale orario per sgambettare la concorrenza, come si fa quando, nelle giornate elettorali, si divulgano con qualche secondo di anticipo i primi exit poll sotto embargo: ma il servizio pubblico? Ecco, è per questa locuzione usurata, «servizio pubblico», che la notte Rai di Capodanno può diventare un caso politico per giorni e giorni. Un «servizio pubblico» può trasferire per giorni e giorni centinaia di persone a Matera, come scrive su queste colonne Paolo Conti, facendo un uso discutibile delle risorse di cui dispone anche grazie al pagamento obbligatorio del canone? Un servizio pubblico può affidarsi ai «filtri esterni», come denuncia lo stesso direttore generale Antonio Campo dall’Orto, cioè, presumibilmente, a produzioni non interne, quando poi i «filtri interni» rimangono inutilizzati con spreco ulteriore delle risorse pubbliche?


Ecco, la Rai, quella che nella retorica nazionale viene ripetutamente definita la «più grande industria culturale del Paese» non può sbagliare così grossolanamente confondendo audience e servizio pubblico, impazzendo dietro giochetti ed espedienti da tv commerciale del tutto legittimi in qualunque azienda sul mercato tranne in quella che con il canone non si può definire una semplice azienda sul mercato. Sei la «più grande industria culturale del Paese»? Allora non puoi proprio mettere l’orologio un minuto avanti, devi stare attento affinché non passino bestemmie in sovrimpressione (povero Leopoldo Mastelloni, che si giocò una carriera) e non solo perché altrimenti ti attacca l’Osservatore Romano. Certo, fare lo spoiler sul finale di Star Wars ha pure un suo perché beffardo e malandrino. Ma mancare per pochi secondi l’appuntamento, che è fatto di secondi fatali, è davvero imperdonabile. Percepisci il canone? Te lo devi meritare, non puoi rispecchiare il volto più caotico e sfilacciato della Nazione. Prima che arrivi il 2017, anche se in anticipo di un minuto.

3 gennaio 2016 (modifica il 3 gennaio 2016 | 10:30)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/16_gennaio_03/capodanno-rai-cosi-tv-pubblica-svela-suo-volto-sfilacciato-599faeaa-b1fb-11e5-829a-a9602458fc1c.shtml
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« Risposta #206 inserito:: Gennaio 09, 2016, 05:49:37 pm »

Gen. 07
L’attacco è alla libertà femminile, a quella emancipazione impossibile in contesti che danno legittimazione al dominio del maschio
È un atto di sopraffazione culturale, non si tratta di semplice bestialità   
Quelle donne libere umiliate a Colonia dal fanatismo

Di Pierluigi Battista

Gli uomini che a Colonia si sono avventati come animali sulle donne in festa per il Capodanno volevano punire la libertà delle loro vittime. Hanno palpeggiato, molestato, umiliato, violentato, picchiato le donne che osavano andare da sole, che giravano libere di notte, che si abbigliavano senza rispetto per le ingiunzioni e i divieti consacrati dai padroni maschi. Consideravano prede da disprezzare e da percuotere le donne che facevano pubblicamente uso di una libertà che gli stupratori e gli energumeni di Colonia considerano inconcepibile, peccaminosa, simbolo di perversione, donne che studiano e lavorano. Che sposano chi desiderano e non il marito oppressore che la famiglia, la tradizione, il clan assegnano loro. Che non sono costrette a uscire solo in compagnia dell’uomo prevaricatore. Che bevono e mangiano in libertà, entrano nei locali, fanno l’amore quando scelgono di farlo, brindano a mezzanotte, indossano jeans e magliette, flirtano, fanno sport e si scoprono per praticarlo, hanno la sfrontatezza di festeggiare il Capodanno con i loro amici maschi. Per chi considera la libertà delle donne un peccato da estirpare, le donne libere sono delle poco di buono da umiliare, da riempire di lividi sul seno e sulle cosce aspettandole all’uscita della metropolitana e con la polizia impotente e immobilizzata. Come si fa con gli esseri considerati inferiori.

Come è accaduto a Colonia in una tragica e sconvolgente prima volta nella storia dell’Europa contemporanea in tempo di pace. È stato un rito di umiliazione organizzato, coordinato, diretto a colpire quello che oramai comunemente viene definito uno «stile di vita».

Nonostante i retaggi del passato, nonostante le tenebre oscurantiste che ancora avvolgono come fumo di un passato ostinato le città e persino le famiglie dell’Europa figlia dell’Illuminismo, malgrado i branchi di lupi che infestano i nostri Paesi e fanno morire di paura le donne che si avventurano sole, le ragazze indifese di fronte al bullismo e al teppismo, malgrado tutto questo, la libertà della donna resta pur sempre un principio e una pratica di vita inimmaginabile in altri contesti culturali, in altri sistemi di valori.

Ed è l’incompatibilità valoriale con questo spirito di libertà che le bande di Capodanno hanno voluto manifestare contro le donne che andavano a ballare, a bere, a baciare anche.

Non capire il senso di «prima volta» che gli agguati di Colonia portano con sé è un modo per restare ciechi, per non capire, per farsi imprigionare dalla paura e dall’afasia.

Così come non abbiamo voluto vedere, abbiamo fatto finta di niente, siamo restati volontariamente ciechi quando al Cairo, nella leggendaria piazza Tahrir, la «primavera araba» diventò cupa e le donne a decine cominciarono in nome dell’Islam ad essere aggredite, molestate, violentate dai super-fanatici del fondamentalismo misogino. Ora dovremmo cercare di capire che nelle gesta di prevaricazione degli uomini che odiano le donne libere si riflette un gesto di aggressività valoriale di stampo irriducibilmente sessista e non lo sfogo barbarico di un primitivismo pulsionale. Un atto di sopraffazione culturale, non di ferocia animalesca e irriflessa.

Con tutte le cautele e il senso di responsabilità che si deve in questo genere di problemi, Colonia ha lo stesso significato di aggressione simbolica dell’irruzione fanatica nella redazione di Charlie Hebdo : lì veniva scatenata un’offensiva mortale contro la libertà d’espressione, considerata un peccato scaturito nel cuore del mondo infedele; qui contro la libertà della donna, la sua emancipazione impossibile e temuta in contesti culturali che danno legittimazione ideale e persino religiosa al predominio e alla sopraffazione del maschio. Certo, è diverso lo sterminio dei vignettisti dalle botte umilianti di Colonia. Ma c’è un comune sostrato punitivo, l’identificazione di un simbolo culturalmente indigeribile che stabilisce una distanza abissale tra uno «stile di vita» libero e una mentalità che bolla la libertà delle persone, uomini e donne allo stesso modo, come una turpitudine, un’offesa, un peccato, un oltraggio.

Rubricare invece le violenze di Colonia come una delle tante, tristissime manifestazioni di aggressione contro le donne che infestano la vita delle città europee significa smarrirne la specificità, la novità, il senso stesso della sua dinamica. Significa non capire cosa ha mosso gli aggressori, il fatto che fossero centinaia e centinaia in un abuso di massa del corpo e della libertà delle donne come non si era mai visto. Loro, gli aggressori, possono dire che le donne colpite e umiliate «se la sono cercata» semplicemente perché hanno scelto un modo di vivere inammissibile e peccaminoso. A noi il compito di difenderlo, questo modo di vivere, e di considerare inviolabili le donne, e la loro libertà.

Da - http://27esimaora.corriere.it/articolo/quelle-donne-libere-umiliatea-colonia-dal-fanatismo/
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« Risposta #207 inserito:: Maggio 30, 2016, 05:48:38 pm »

GIUSTIZIA INGIUSTA

I magistrati al lavoro e l’infermiera di Piombino
Quanto spreco di tempo, spreco di denaro, spreco di lavoro, per arrivare in Italia a costruire inchieste che poi verranno regolarmente scucite dalle sentenze definitive

  Di Pierluigi Battista

Il neopresidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Piercamillo Davigo sostiene che la magistratura italiana, malgrado le apparenze e le interminabili ferie che ne allietano le estati, lavori più dei colleghi sparsi in tutti gli angoli del mondo. Chissà se nel conteggio finale, a corroborare questa ardita tesi, debbano essere anche incluse le ore, i giorni, le settimane (poche) che i giudici del Riesame di Livorno hanno dovuto adoperare per smontare le ore, i giorni, le settimane (moltissime) con cui la Procura aveva motivato un’accusa terribile nei confronti di un’infermiera di Piombino, indicata, con il concorso del sistema corrivo dei media, come una sterminatrice di 13 anziani (anzi 14). Avessero lavorato qualche ora di più, magari avrebbero tenuto conto di tutte le valutazioni con cui il Riesame ha considerato inconsistenti gli indizi a carico dell’infermiera.

Magari l’infermiera non sarebbe stata additata al pubblico ludibrio come un’acclarata assassina seriale prima che un processo regolare ne confermasse l’innocenza, costituzionalmente tutelata fino a sentenza definitiva ma irrisa come una favoletta da tutti i forcaioli d’Italia che in questi anni hanno demolito le fondamenta stesse dello Stato di diritto. Magari le analisi scientifiche avrebbero potuto scagionare chi in pochi giorni ha dovuto subire il processo con condanna incorporata di un’opinione pubblica affamata di mostri. Ed ha subito l’onta e l’angoscia di una carcerazione preventiva usata in Italia con una frequenza da record (questo sì), magari impegnando con un lavoro inutile e supplementare l’attività della polizia penitenziaria.

Sono conteggiate, nel calcolo suggerito dal dottor Davigo, anche tutte le pratiche giudiziarie che finiscono regolarmente nel nulla, che vengono indicate all’opinione pubblica con grande dispendio di strumenti comunicativi e che poi si perdono, tutte le megainchieste, le superinchieste che non riescono a cavare un ragno dal buco. Quanto lavoro, quante ore da aggiungere alla diuturna attività dei magistrati italiani presi da Davigo come un modello mondiale di produttività e di abnegazione. E quanto spreco di tempo, spreco di denaro, spreco di lavoro, per arrivare a costruire inchieste che poi verranno regolarmente scucite dalle sentenze definitive. Errori fisiologici? O non piuttosto, la smania di apparire, di avere un ruolo da protagonisti, di giocare di concerto con i media? Anche a costo di costruire mostri che mostri non erano.

29 maggio 2016 (modifica il 29 maggio 2016 | 14:59)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/16_maggio_30/i-magistrati-lavoroe-l-infermiera-piombino-cdd2677c-259b-11e6-8b7b-cc77e9e204b3.shtml
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« Risposta #208 inserito:: Settembre 07, 2016, 12:03:06 pm »

LA POLEMICA DOPO LE VIGNETTE SUL TERREMOTO

#JeSuisCharlie sempre Anche se non ci piace
Chi stabilisce i confini della decenza quando si parla di satira?
Perché non possiamo gridare alla censura nonostante i contenuti oltraggiosi o che ci paiono una porcheria

Di Pierluigi Battista

#JeSuisCharlie anche se «Charlie Hebdo» pubblica vignette volgari e oltraggiose. Perché la libertà d’espressione è anche diritto alla volgarità. Naturalmente deve esistere una reciprocità di diritti: se la satira vuole vedere riconosciuto quello dell’irriverenza assoluta e offensiva, deve anche riconoscere il diritto altrui a criticare le schifezze che si pubblicano in nome della satira. Se noi volessimo rispettare solo la libertà di ciò che ci aggrada, non ci vorrebbe un grande sforzo. Lo sforzo è riconoscere la libertà di dire e disegnare e rappresentare cose opposte a quelle che pensiamo e che consideriamo giuste, buone, persino sacre. Dicono: ma non si oltrepassino i confini della decenza. Ma chi stabilisce questi confini? La censura è per definizione il campo dell’arbitrio, della discrezionalità, della prepotenza di chi pretende di incarnare il Giusto e il Buono. E allora, dobbiamo accettare passivamente le volgarità sui nostri morti sepolti dal terremoto? Certo che no, nessuna passività. Possiamo dire attivamente che si tratta di una porcheria. Oppure possiamo avvalerci di quell’altra fondamentale libertà che sarebbe da stolti dimenticare, e cioè la libertà di non comprare un vignettificio che non ci piace. Non vuoi «Charlie Hebdo»? Non andare in edicola a comprarlo. Questa è la libertà, a meno che uno non sia costretto a pagare cose che non vuole vedere, come avviene con il canone Rai. Quando c’è la sfida dei fanatici jihadisti che vogliono toglierci ogni libertà, bisogna essere rigorosi nel difendere ogni libertà. Compresa quella che non ci piace. Perciò #JesuisCharlie, anche se stavolta sono stati dei veri farabutti.

2 settembre 2016 (modifica il 2 settembre 2016 | 21:58)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/16_settembre_03/jesuis-charlie-sempre-anche-se-non-ci-piace-29471684-7146-11e6-82b3-437d6c137c18.shtml
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« Risposta #209 inserito:: Dicembre 10, 2016, 11:36:10 pm »

Il caso

«No straccione», «Sì radical chic»
E torna lo stereotipo antropologico
Se il popolaccio vota i populisti, allora, per ritorsione polemica, l’establishment, i privilegiati, gli snob, i radical-chic votano per la minoranza che si considera la serie A

Di Pierluigi Battista

È tornato. Dopo qualche anno di oblio è tornato il formidabile argomento antropologico come chiave per decifrare i fenomeni elettorali e soprattutto per ribadire l’inferiorità appunto antropologica di chi vota in una direzione che non ti aggrada. Laura Puppato, una neo-pasdaran del Sì un tempo molto di sinistra nel Pd ma che per la sua conversione filo-renziana ha dovuto addirittura subire l’anatema e poi l’espulsione dell’Anpi, nota che il Sì vince all’estero: testimonianza che la «fuga dei cervelli», l’espressione è sua, c’è stata veramente e dunque che i più intelligenti, e non i buzzurri, gli incolti, i rozzi, hanno capito le ragioni della riforma costituzionale clamorosamente bocciata nelle urne.

Chicco Testa
Poi c’è il pasticcio geo-antropologico di Chicco Testa che su Twitter si è, per così dire, espresso male: «Il Sì fa il risultato migliore a Milano, Bologna e Firenze e il peggiore a Napoli, Bari, Cagliari. C’è altro da aggiungere?». C’è da aggiungere che Chicco Testa è stato interpretato molto malignamente e travolto da un’ondata di insulti dove «razzista» era uno dei più benevoli. Lui poi si è spiegato, ha detto che non aveva niente contro i meridionali ma voleva suggerire l’idea che il No avesse vinto nei capoluoghi dove massimo è il voto di scambio. Precisazione anche questa problematica, perché qualcuno ha fatto notare che due città su tre, Bari e Cagliari, sono rette da giunte di centrosinistra con sindaci che si sono apertamente schierati per il Sì. Ma insomma la frittata era stata fatta. Solo che la frittata aveva messo in moto una replica di tipo altrettanto socio-antropologico perché un interlocutore ha chiesto: «A Capalbio chi ha vinto?».

La risposta
Ecco il contro-argomento antropologico: se il popolaccio vota i populisti, allora, per ritorsione polemica, l’establishment, i privilegiati, gli snob, i radical-chic votano per la minoranza che si considera la serie A. E dunque Capalbio, ovvio, secondo lo stereotipo più vieto la capitale dello chicchismo benpensante, benestante, aperto (tranne con le quote di profughi), illuminato, progressista. E dunque anche sarcasmi «in Rete» (si dice così) per il fatto che le uniche zone di Roma dove è prevalso il Sì, molto di misura peraltro, siano il centro storico, quello delle terrazze e degli ambienti cool e soprattutto i Parioli, antropologicamente un tempo territorio della destra e dei «fasci» e da un po’ di anni a questa parte tempio dei benestanti benpensanti che votano la sinistra blasonata. Ed ecco l’immediata e velenosa risposta antropologica a chi ha fatto notare che il Sì a Renzi ha la maggioranza nelle zone più avvantaggiate di Milano (mentre l’hinterland ha premiato il No «straccione»): «Consolatevi con un sano happy hour». Ecco non più sezioni, ma apericena: la mutazione antropologica della sinistra bene è tutta in questa dicotomia.

I precedenti
Per la verità l’argomento antropologico ha vissuto il suo momento di gloria attorno al ’94, quando la sinistra «chic» rimase traumatizzata dal massiccio voto popolare a favore della Lega ma soprattutto a favore di Berlusconi, il venditore, il tycoon, la maschera che incarnava l’antitesi antropologica del mondo delle buone letture, come quello di Umberto Eco, che diceva di leggere Kant mentre i suoi connazionali guardavano la tv. Ed è singolare e paradossale che il protagonista della scomunica antropologica nei confronti dell’elettorato credulone e populista che si era fatto abbindolare da Berlusconi rispondesse al nome di Gustavo Zagrebelsky, uno dei pesi massimi del No accusato a sua volta di essere espressione di una inferiorità antropologica. Zagrebelsky scrisse infatti un denso libro, Il «Crucifige» e la democrazia in cui si dimostrava che il popolo lasciato a se stesso («il paradigma della massa manovrabile», si espresse dottamente) non avrebbe fatto altro che scegliere Barabba e condannare Gesù. Da qui l’allarme verso quelle che chiamava «le concezioni trionfalistiche e acritiche del potere al popolo». Un’analisi molto più raffinata del rude argomento antropologico adoperato allora da Dario Fo verso l’elettorato leghista: «gente imbecille». E anche dell’invettiva contro la «porca Italia» che Umberto Saba scagliò contro il popolo che alle elezioni del ’48 si era permesso di optare per lo Scudo crociato anziché per il Fronte popolare. Popolare, non «populista», perché allora il termine aveva tutto un altro significato. L’antropologia come arma per screditare chi vota all’opposto dei suoi desideri. Già sentita. Meglio l’happy hour.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
6 dicembre 2016 (modifica il 7 dicembre 2016 | 09:21)

Da - http://www.corriere.it/referendum-costituzionale-2016/notizie/referendum-costituzionale-2016-no-straccione-si-radical-chic-f7adf972-bbf4-11e6-a857-3c2e3af6f0b6.shtml?intcmp=exit_page
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