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Autore Discussione: Pier Luigi BATTISTA  (Letto 109050 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Settembre 15, 2009, 10:28:24 am »

Partiti e progetti

Centro e alleanze confuse

Forse è davvero un po’ prematuro intonare il requiem del bipolarismo. E comportarsi come se fossimo alla vigilia di un’implosione destinata a scardinare l’attuale schema maggioritario benedetto da un voto popolare solo un anno fa, o poco di più. La sindrome della «scossa» rende tutto più frettoloso e convulso. Nuove maggioranze non sono all’orizzonte, perlomeno non in tempi brevi.

Credere il contrario rischia di alimentare disegni velleitari, di intensificare imprudentemente la speranza di un’accelerazione che metta fine a una stagione in cui il ruolo del Centro, grande o piccolo che sia, appare fatalmente meno cruciale che nel passato. Il governo non è nella sua forma più smagliante. Nella maggioranza la compattezza sembra incrinata, minata dalla vigorosa spinta identitaria della Lega e dal duello che divide Berlusconi e Fini, i due principali azionisti di un partito battezzato soltanto sei mesi fa. Anche i rapporti tra il centrodestra e il Vaticano non godono della stessa, piena serenità degli anni scorsi. Perciò appare più che legittimo il nuovo e galvanizzato protagonismo di un centrista doc come Pier Ferdinando Casini e di Francesco Rutelli, espressione dell’anima più moderata, e più attenta alle istanze cattoliche, del Pd. La prospettiva delle elezioni regionali, poi, rende oltremodo decisiva la collocazione del mondo politico e culturale che gravita attorno all’Udc, determinante in molte regioni per la vittoria dell’uno o dell’altro schieramento. L’ingiunzione del «o di qua o di là», vissuta dai centristi quasi come un obbligo ricattatorio, appare sbiadita. Ma si stenta a capire quali sarebbero i connotati della «nuova maggioranza» evocata da Casini a Chianciano. Lo stesso leader dell’Udc ha detto di non volersi prestare a una logica da «santa alleanza» anti-berlusconiana. Ma i numeri sono testardi. E per raggiungere una maggioranza bisogna dire quali sono i fattori che dovrebbero concorrere alla sua formazione. Alternativa alla maggioranza attuale c’è solo la somma dell’Udc, del Pd, di Di Pietro, della sinistra estrema in tutte le sue cangianti articolazioni e di un’eventuale frazione scissionistica del Pdl. Altro non esiste e non può esistere: nella logica, nella matematica e nella politica. Se la «nuova maggioranza» dovesse maturare con questo Parlamento, sarebbe l’ennesima velleità ribaltonista che credevamo confinata nel passato meno onorevole di questo caotico quindicennio. Se invece si configura come un cartello elettorale in vista di (improbabili) elezioni anticipate, Casini avrebbe allora il dovere di dire se è proprio questa la coalizione che ha in mente e, nel caso affermativo, in che cosa allora dovrebbe differenziarsi dalla «santa alleanza» da lui stesso vituperata.

L’ipotesi centrista si fonda su premesse serie, ha una storia e una tradizione che non possono essere liquidate con supponenza e mancanza di rispetto. Ma, se sente di avere una sua attualità ha il dovere di essere chiara, di non generare il sospetto che la sua vaghezza sia l’anticamera di prospettive nebulose e, per così dire, «multifunzionali». Lo stesso Rutelli, che affida al finale non scritto di un suo libro in uscita il disvelamento del suo rapporto (finito?) con il Pd, non può pensare che le sue prossime mosse siano immerse in un’attesa simile a quella che si addensa sul nuovo giallo fanta-storico di Dan Brown. Ma la politica (e anche il Centro) sono diversi da un romanzo

Pierluigi Battista
15 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #31 inserito:: Ottobre 03, 2009, 11:08:37 am »

Dietro il voto per l'unesco

A Parigi sconfitta la realpolitik


Era assolutamente inattesa, fino a pochi giorni fa, l’elezione di Irina Gueorguieva Bokova alla direzione dell’Unesco. E ancor di più la cocente sconfitta di Farouk Hosni, sostenuto da uno schieramento internazionale cementato dalla realpolitik. Sembrava inattaccabile la candidatura al vertice di un organismo culturale dedito alla tolleranza e alla custodia dell’immenso patrimonio culturale dell’umanità di un uomo che voleva sistematicamente escludere gli israeliani (e persino gli «ebrei» tout court) da questo patrimonio comune. Le rivelazioni sulla sua biografia e sulle sue sistematiche dichiarazioni in odor di antisemitismo sembravano insufficienti a minare la compattezza di chi aveva sostenuto, accettato, o subìto obtorto collo, il nome di Hosni. E invece no.

Sarà perché la soglia dell’accettabilità era stata ampiamente oltrepassata, sarà per la resipiscenza di chi pensava si potesse sorvolare sulla smodatezza con cui Hosni aveva auspicato di «bruciare» personalmente i libri israeliani, fatto sta che la candidatura di una donna impegnata sul fronte dei diritti umani, sulla difesa della democrazia, sulla battaglia per l’eguaglianza tra i sessi, la bulgara Bokova, è apparsa più credibile, più adatta a quel ruolo così delicato e cruciale.

Ha perso l’arroganza di chi ha voluto imporre un candidato dalla biografia impresentabile. Ha perso l’acquiescenza dei governi occidentali (compreso quello italiano) convinti, puntando sul nome sbagliato, di aprire una porta di dialogo con il mondo arabo. Ha perso la stessa ragion di Stato israeliana, alla ricerca di un buon rapporto con l’Egitto di Mubarak fino al punto di assecondare la scelta di un uomo che ha ripetutamente tuonato contro l’eccesso di influenza «ebraica» sul sistema mondiale dei media e ha favorito la diffusione nel mondo arabo dei famigerati «Protocolli dei savi anziani di Sion». Ha vinto la ragione sociale dell’Unesco, che non tollera discriminazioni, pratiche censorie e bavagli alla cultura libera.

Da Parigi arriva perciò una buona notizia. E si rafforza, finalmente, la convinzione che non si possa pronunciare qualunque nefandezza senza doverne pagare dazio. Ora a Irina Bokova la responsabilità di rappresentare non la diga per arginare il peggio, ma la scelta giusta nel posto giusto. La sua biografia, a differenza di quella di Hosni, induce all’ottimismo.

Pierluigi Battista

23 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #32 inserito:: Ottobre 09, 2009, 12:03:23 pm »

Il regime che non c'è

In Italia non c’è il regime. Un regime non prevede una Cor­te Costituzionale che boccia una legge di fondamentale importanza per il primo ministro. Un regime non contempla un’articolazione di poteri e di contrappesi, la voce dell’opposizione che si fa sentire attraverso la televisione (pubblica), la protesta sociale di chi patisce gli effetti della crisi, la magistratura che, presumibilmente, è in procinto di rimettere in moto un’attività ibernata per il tempo in cui un Lodo faceva da scudo al premier.

Il regime non c’è, nei fatti. Ma aleggia il suo fantasma, ne­gli spiriti. In quelli di sinistra che non sanno vivere senza la sindrome emergenzialista di una cittadella democratica sul punto di essere espugnata dal tiranno. E in quelli di destra che intravedono in ogni criti­ca un colpo di mano, in ogni critica un complotto nell’om­bra, in ogni sentenza (sfavore­vole) la traccia di un cospirato­re che trama nell’ombra. È come se l’Italia bipolare fosse incapace di vivere sen­za il pericolo del Nemico alle porte. E sono più di quindici anni che quest’ossessione ap­pare dominante. Nella legisla­tura 2001-2006, anch’essa go­vernata da Berlusconi, la pau­ra del regime, anzi la certezza che un regime si fosse già im­posto, portò l’opposizione sulle barricate, ridiede fuoco a una passione politica spen­ta, fece da sottofondo psicolo­gico- politico a quella riedizio­ne quasi ciellenistica del­l’Unione che riportò provviso­riamente il centrosinistra al governo, ma con la fragile e caotica eterogeneità che ne determinò lo squagliamento. A destra la percezione di un leader provvisto di uno strabi­liante consenso elettorale, ma costretto a subire le mano­vre del Palazzo (stampa e ma­gistratura, istituzioni e persi­no il Quirinale) che lo vorreb­be disarcionare, è stata il car­burante di una visione mani­chea quasi impossibile da ab­bandonare. La paura del «re­gime berlusconiano» compat­ta e galvanizza i suoi avversa­ri depressi dalla sconfitta.

La paura del «regime della sini­stra » giustifica l’arroccamen­to del centrodestra nella sua fortezza, il clima di conflitto permanente, l’impossibilità (intravista il 25 aprile attra­verso l’immagine di Berlusco­ni con il fazzoletto partigiano al collo) di pacificarsi con l’Italia, pur minoritaria, che non l’ha votato. Il fantasma del regime è però un veleno che agisce in profondità. Incendia la lotta politica, ma intossicandola con un clima di sospetti incrociati, di guerra civile a bassa intensità, di reciproca e permanente delegittimazione. Non il regime, ma il caos, un ininterrotto comizio che seppellisce la normalità politica rinfocolando un forsennato spirito di fazione che è la deformazione caricaturale del bipolarismo. Il regime non c’è, ma il suo spettro può generare frutti ancora peggiori. Travolgere istituzioni. Alimentare una rissa interminabile tra le truppe contrapposte, ma incomprensibile agli italiani che non sono militanti ma seguono allibiti la politica dei blitz e degli agguati, delle urla e dei proclami stentorei che ci perseguita implacabile da quindici anni. Incapaci, una buona volta, di voltare pagina.

Pierluigi Battista

09 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #33 inserito:: Ottobre 16, 2009, 12:25:12 pm »

L’analisi


Cacciare la teodem «aliena e nemica»?

Torna lo spettro del rito di purificazione

Il Pd e il rischio di mostrare un volto arcigno: ma i grandi partiti sono tenuti all’inclusività


L’espulsione da un partito non è come l’estrazione di un dente: uno strappo traumatico, e poi il dolore passa. Il dolore dell’espul­sione resta: tra i protagonisti, nel partito, ma anche nell’opinione pubblica. Specie se chi viene mes­so bruscamente alla porta non si è macchiato di particolari nefan­dezze, ma ha espresso soltanto un difforme convincimento su un tema ad alta temperatura eti­ca. Un’obiezione di coscienza, co­me emerge dal caso che coinvol­ge il Pd e Paola Binetti. Non è in discussione il merito delle posizioni della Binetti: nel merito lei potrebbe avere torto marcio, ma non è questo il pro­blema (principale). Il problema è che un partito orgoglioso di por­tare da due anni a questa parte un vento di novità si sta incatti­vendo sul dilemma se «cacciare» o tollerare obtorto collo una sua parlamentare che ha più volte manifestato la sua opinione dis­senziente dal partito sulle que­stioni «eticamente sensibili».

Il problema è il torrente di insulti e di invettive che sta sommergen­do la Binetti (nel caotico mondo dei blog addirittura con punte di volgarità sessista che superano di gran lunga la rozzezza maschi­lista di Berlusconi con Rosy Bin­di). Il problema è che la diversità della Binetti viene vissuta come un affronto, una provocazione vi­vente, come il boicottaggio di un’aliena, o addirittura di un’emissaria del nemico: e que­sto è uno spettro di un passato cupo che i responsabili del Pd do­vrebbero, ora sì, «cacciare» con una certa energia. Colpisce l’accorata sincerità con cui Paola Binetti ha confidato ad Aldo Cazzullo che la intervista­va per il Corriere che lei è una cat­tolica di centro che guarda a sini­stra, che per lei l’amore per la giu­stizia sociale costituisce un impe­dimento assoluto a un suo even­tuale passaggio con la destra, che per lei persino Casini è colpevole per essersi associato alla destra lungo quasi un quindicennio. I più agguerriti nemici della Binet­ti dicono che la sua colpa non è di aver manifestato un dissenso occasionale, ma di essersi costrui­ta un ruolo di antitesi permanen­te alla linea del partito. Però la Bi­netti rivendica il Pd come casa sua, e ribadisce che mai si sogne­rebbe di entrare nella casa della destra.

Se il Pd «caccia» dalla sua casa la Binetti, sancisce l’idea che il partito non può convivere con le posizioni che la parlamentare sostie­ne con incrollabile coerenza. La Binetti dovrebbe «abiurare»? O sottomettersi a una disciplina di partito che trasforma una casa in una caserma? Gli stessi esponenti del Pd che hanno agitato il vessillo del­l’espulsione (Franceschini, non Bersani) inorridirebbero, e a ra­gione, se nel Pdl qualcuno propo­nesse di «cacciare» Fini per il dis­senso che il presidente della Ca­mera sta manifestando proprio sui temi su cui è cresciuto il «ca­so Binetti». E non per un princi­pio (pur importantissimo) di tol­leranza. Ma perché i grandi parti­ti che aspirano alla rappresentan­za del 35-40 per cento non posso­no e non devono presentare il vol­to di un monolitismo politico e culturale insofferente di ogni di­versità e di ogni articolazione. Ac­cade dappertutto, non solo in Ita­lia. I repubblicani e i democratici negli Stati Uniti contengono cul­ture a volte in netto contrasto tra loro, sono politicamente variega­ti, multiformi, polifonici: il lin­guaggio dell’espulsione da loro è sconosciuto. Anche in Europa succede così, e persino i laburisti inglesi hanno dovuto affrontare situazioni in cui il dissenso «eti­co » era sul punto di mettere in crisi il governo: ma nessuno è sta­to «cacciato» dal partito. Naturalmente si può replicare che un partito è un’associazione volontaria che prevede regole di vita interna e che chi ne sta fuori non deve interferire in affari che non lo riguardano.

Ma questa in­differenza è possibile solo con partiti a forte caratura identita­ria, con partiti-setta che regala­no a se stessi una franchigia ex­tra- territoriale. Ma i grandi parti­ti che aspirano a governare gli ita­liani (e che addirittura, come nel caso del Pd, nascono essi stessi come una fusione di anime e di sensibilità diverse) sono tenuti a offrire di sé un’immagine acco­gliente e inclusiva, non insoffe­rente al dissenso su temi di accla­rata delicatezza etica. Se la Binet­ti dovesse essere accompagnata alla porta, sarebbe un pezzo, pic­colo, minoritario ma importante della società italiana di centrosi­nistra a essere considerato imme­ritevole di rappresentanza in quel partito. L’ansia di cacciare, espellere, buttare fuori si trasfor­ma in un rito di purificazione in cui il capro espiatorio viene sacri­ficato con un atto di imperio. È lecito sperare che il Pd non vo­glia assumere questo volto arci­gno e sospettoso, proprio all’ini­zio del suo cammino.

Pierluigi Battista

16 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #34 inserito:: Novembre 08, 2009, 05:19:16 pm »

C'È l’atroce sospetto che qualcuno non stia dicendo la verità su una vicenda allarmante

Il prezioso esempio di Ilaria Cucchi Lo Stato la ringrazi, e spieghi

Una cittadina esemplare che non ha esitato a esprimere il proprio rincrescimento per gli atti di violenza che hanno mac­chiato a Roma una manifesta­zione, sacrosanta


Roma

Lo Stato deve a Ilaria, la sorella di Stefano Cucchi, una spiegazio­ne.

Una spiegazione perché la morte del fratello è ancora avvolta nel mistero e la famiglia e l’opinione pubblica vivono an­cora nell’atroce sospetto che qualcuno non stia dicendo la verità su una vicenda allarmante. Un ringraziamento per la di­gnità di una donna profondamente ferita nei suoi affetti, una cittadina esemplare che non ha esitato a esprimere il proprio rincrescimento per gli atti di violenza che ieri hanno mac­chiato a Roma una manifesta­zione, sacrosanta e legittima, a favore della verità. Il lancio di bottiglie, i casso­netti rovesciati, i fazzoletti che coprono i volti di chi vuole tra­sformare una dimostrazione in un’occasione di guerriglia, tutto questo Ilaria Cucchi non lo conside­ra un gesto di solidarietà, ma un «gesto sconsiderato». Riti violenti che non han­no niente da condividere con l’impegno di una famiglia, ma a questo punto di tut­ta una comunità nazionale, tenuta al­l’oscuro sulla sorte del proprio figlio arre­stato non in una feroce dittatura, ma in una democrazia che non prevede la tortu­ra, il pestaggio, la sopraffazione su chi vie­ne fermato in possesso di sostanze stupe­facenti. È stata la famiglia di Stefano Cuc­chi a rompere il muro di omertà. Sono sta­ti loro a diffondere le foto agghiaccianti di Stefano. Lo Stato ha risposto in modo contraddittorio, non fornendo una rispo­sta convincente, ma anzi ufficializzando una ricostruzione piena di lacune e di pun­ti oscuri.

La famiglia Cucchi ha tenuto du­ro. Ma appare ancor più istruttiva la lezio­ne di Ilaria Cucchi che si rivolge ai manife­stanti per dissuaderli da gesti inutili, cari­chi di una violenza dannosa anche per chi non sopporta che nelle carceri italiane un ragazzo possa mori­re senza capire ancora perché, in quali circostanze, con quali responsabilità. Quello di Ilaria Cucchi è un esempio raro: anche per que­sto lo Stato le deve delle scu­se, delle spiegazioni e dei rin­graziamenti. Marcare un confi­ne netto tra la solidarietà, la denuncia, l’in­dignazione civile e la pratica della violen­za costituisce una prova non solo della se­rietà di una famiglia che vuole sapere co­me sono andate le cose. Ma anche della solidità culturale di una battaglia che non può essere ridotta a pretesto di un attacco cieco allo Stato in quanto tale. Questa è la lezione di Ilaria Cucchi. È bene che lo Sta­to se ne accorga.

Pierluigi Battista
08 novembre 2009
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« Risposta #35 inserito:: Novembre 18, 2009, 04:30:27 pm »

Riservate solo a ragazze belle e taglia 42. E nessuno lancia petizioni

Tutti zitti sulle «lezioni» di Gheddafi

Ragazze come gingilli da esibire al cospetto del satrapo in visita ufficiale


Un paio di domande su donne e potere. La prima: perché una ragazza non av­venente o di statura infe­riore al metro e 70 deve es­sere esclusa, e solo a causa di queste presunte «man­chevolezze» fisiche, dagli insegnamenti religiosi im­partiti dal colonnello Ghed­dafi nel suo tour romano? La seconda: si ha per ca­so notizia di qualche peti­zione, di qualche protesta, di qualche indignata consi­derazione che voglia stig­matizzare questa palese of­fesa alla dignità delle don­ne, ragazze come gingilli da esibire al cospetto del satrapo in visita ufficiale?

Le prescrizioni di Gheddafi sono state molto precise. I suoi collaboratori doveva­no contattare circa duecento ragazze attra­verso un sito specializzato per il reperi­mento di hostess da retribuire con una ses­santina di euro (tra l’altro: non esiste un sindacato delle hostess?). Il canone fissato prevedeva che le ragazze fossero di bel­l’aspetto, possibilmente bionde. Che dal metro e sessantanove centimetri in giù di statura sarebbe scattato implacabile l’ostra­cismo. Che fossero vestite di nero, vietate minigonne e scollature, il tacco di almeno sette centimetri, e la taglia, inderogabil­mente, 42. Solo a queste condizioni le ra­gazze sarebbero state meritevoli delle le­zioni di Gheddafi sul Corano e sensibili al­le istruzioni del Libretto Verde, distribuito come cadeaux dopo un paio di notti di in­fervorate diatribe religiose innaffiate, rac­contano le cronache, da dosi massicce di cappuccino.

Dicono inoltre le cronache che una ra­gazza è stata allontanata, perché giudicata troppo bassa e un’altra esortata a lasciare la compagnia (sarebbe meglio dire l’im­provvisato simulacro di un harem?) per­ché non del tutto compatibile con i canoni ideali della bellezza secondo il colonnello Gheddafi: in altre parole, perché bruttina. Ma c’è qualcosa di più feroce di un’esclu­sione dovuta esclusivamente per cause, per così dire, fisiche? Mica quelle ragazze erano state selezionate per un concorso di bellezza, o per il casting di una trasmissio­ne televisiva, o per allietare un evento mondano. No, erano state scelte per ascol­tare la parola di Gheddafi sull’Islam, sul crocifisso, sulle profezie, sulla virtù, sulla conversione. E allora che c’entrano la ta­glia 42 e il tacco di almeno sette centime­tri? Ma se non c’entrano, come mai si è im­provvisamente inaridito il fiume di discor­si e petizioni che in questi mesi si è impo­sto sulla degradazione del corpo delle don­ne, sulle ragazze ridotte e umiliate a stru­mento per allietare le serate dei sultani, al­l’imposizione di un canone convenzionale di bellezza che mortifica l’intelligenza del­le donne, che trasforma le ragazze in oche e veline sottomesse ai capricci dei potenti? E invece adesso c’è il silenzio. Il silenzio as­soluto.

L’imbarazzo ufficiale per le stravaganze di un sultano con cui è obbligatorio (e con­veniente) conservare eccellenti rapporti bi­laterali.
L’imbarazzo civile di chi centellina con un po’ di cinismo (o di malafede?) la propria indignazione, azionandola solo in qualche occasione, imbavagliandola quan­do il bersaglio non è il solito Nemico di cui è persino superfluo fare il nome. Una festa dell’ipocrisia in cui a farne le spese sono un gruppo di ragazze ammassate su un tor­pedone. Taglia 42, tacco di sette centime­tri, abitino nero per regalare al colonnello la soddisfazione di una bella lezione di reli­gione.

Pierluigi Battista

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« Risposta #36 inserito:: Novembre 20, 2009, 10:37:58 pm »

 SCUOLA, LE OCCUPAZIONI CONTESTATE


Il rito stanco dell'onda

Forse qualcosa sta cambiando, nella liturgia d’autun­no che ogni anno si inscena nelle scuole ita­liane. Gli studenti sembra­no disamorati (al momen­to) di cortei e «okkupazio­ni ». Un gruppo di profes­sori si barrica in un liceo romano dopo aver appre­so da un tam tam di Face­book che un gruppo di studenti si stava preparan­do a occupare l’istituto. Si profila persino la minac­cia del 5 in condotta: ar­ma spuntata se ad esser­ne colpiti fossero i grandi numeri; un deterrente mi­naccioso se il movimento dovesse trascinare solo gruppi sparuti.

Qualcuno sostiene che l’Onda è rifluita. Si avver­te una stanchezza, una sa­turazione per forme di mobilitazione sempre uguali, sempre scritte sul­lo stesso copione, sem­pre più rituali, stucchevo­li, ripetitive. Un anno fa il gesto di fierezza dei pro­fessori romani sarebbe stato inimmaginabile. C’erano certo le proposte del ministro Gelmini a ca­talizzare malcontento e spirito di protesta. Ma già allora, dopo la fiammata che sembrò incendiare le scuole di tutta Italia, si era insinuato il dubbio che l’Onda fosse, a parte marginali ritocchi di im­magine, la riproposizione delle stesse dinamiche (stagionali, preferibilmen­te autunnali) coniate nel ’68 e dintorni e poi rical­cate con forme di lotta, coreografie, slogan e tic linguistici come se nel frattempo non fossero tra­scorsi oramai tanti lustri. Vale la pena di mobilitar­si con obiettivi vaghi e confusi, sapendo che tan­to alla fine, passata l’eb­brezza del movimento, il colore delle manifestazio­ni, il calore della comuni­tà, tutto resterà esatta­mente come prima?

Perché, poi, ragioni per protestare ce ne sareb­bero.

Ci sarebbe il furto del futuro che avvilisce le nuove generazioni. Ci sa­rebbe la frustrazione di una scuola che non regge gli standard qualitativi de­gli altri paesi europei. Ci sarebbe una generale mancanza di senso e di si­gnificato che mortifica la scuola e chi ci lavora, a co­minciare dagli insegnan­ti, e chi si sta formando in condizioni quasi sem­pre drammaticamente sfavorevoli. Ma è il rito che appare esausto. È l’usura degli slogan che frena ogni passione. Su­bentra il disincanto, che è cosa diversa (e peggio­re) della pace. La rasse­gnazione. La rinuncia. La successione di cortei e «okkupazioni» appare quasi una vacanza ma­scherata, un modo per sentirsi presenti e parteci­pi. Ma la mancanza di obiettivi credibili genera frustrazione, scontento, apatia.

La cosa peggiore sareb­be che la politica e gli in­segnanti si abbandonasse­ro a un rancore contro un movimento oramai debo­le e sfibrato, a un appello all’ordine destinato a spe­gnere ogni residuo barlu­me di «movimento». È proprio quando molti stu­denti si accorgono del vi­colo cieco in cui sono fini­ti a causa degli stanchi ri­ti degli anni passati che ci sarebbe bisogno di una politica saggia, che non alimenti il senso di scon­fitta e non appaia ritorsi­va verso chi comunque esprime un disagio da non sottovalutare.

Le on­de studentesche rifluisco­no, le vecchie liturgie si appannano.

Ma resta da ricostruire un senso della scuola in cui gli studenti possano sentirsi parte de­cisiva e centrale. Non sarà facile, ma non avrà il sa­pore di antico di mobilita­zioni oramai trite. Che ca­dono ogni autunno, co­me le foglie.


Pierluigi Battista

20 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #37 inserito:: Dicembre 14, 2009, 10:09:37 am »

La degenerazione violenta

Un clima avvelenato


L’odio politico è un mostro che, scatenato, risulta molto difficile da domare. An­che se non è armato da un’ideologia sistematica (come accade con il terro­rismo vero e proprio), an­che se incendia una men­te isolata (e, a quanto sem­bra, malata) come è acca­duto con l’aggressione a Berlusconi ieri sera dietro il Duomo a Milano, l’odio politico si deposita come un veleno che intossica la discussione pubblica. Ri­duce l’avversario a un ber­saglio da annichilire. Da distruggere: in effigie, ma anche fisicamente.

Non è solo una questio­ne di toni esasperati. È l’idea che la lotta politica non contempli confini e contrappesi all’aggressivi­tà verbale. È la degradazio­ne dell’avversario a nemi­co da abbattere. Non la lot­ta politica, anche accesa, che assume le forme di una competizione leale tra schieramenti che si ri­conoscono reciprocamen­te legittimità. Ma la versio­ne primitiva della politica come simulacro della guerra civile. Questa ver­sione sta dominando la politica italiana con un crescendo di ostilità che sfiora la guerra antropolo­gica tra due Italie che si odiano, incapaci di parlar­si.

L’aggressione cruenta di ieri al premier è un frut­to di questa degenerazio­ne. Dovranno capirlo tut­ti: anche chi ha irriso agli appelli contro la militariz­zazione della politica co­me a una faccenda di bon ton, di galateo verbale. O addirittura di diserzione. No: si poteva capire benis­simo dove andasse a para­re la politica come scon­tro totale che equipara ogni moderazione a im­morale cedimento, o a spi­rito compromissorio. Ba­stava ragionare. Le parole con cui il Ca­po dello Stato ha commen­tato l’aggressione al presi­dente del Consiglio sono perciò rivolte contro chi volesse sposare un imba­razzato giustificazioni­smo (se n’è avuta eco nei primi commenti a caldo, decisamente infelici, di Di Pietro). Ma anche contro la minimizzazione dell’ag­guato a Berlusconi come la manifestazione patolo­gica di uno squilibrato so­litario: «all’americana» più che in sintonia con una tradizione italiana di violenza organizzata. In parte, beninteso, è anche così. Chi, come chi scrive, ieri era nella piazza del co­mizio e dell’agguato ha po­tuto intuire subito (consi­derato anche il profilo ca­ratteriale dell’aggressore) che non esiste un legame esplicito tra chi ha scaglia­to sulla faccia di Berlusco­ni un pericoloso oggetto contundente e il gruppo di fischiatori professiona­li che ha contestato l’inte­ro intervento del leader del Pdl.

Ma chi era presente al comizio di Berlusconi ha avuto nettissima la sensazione che chi lo contestava era animato da un’ostilità irriducibile, esasperata e assoluta nei confronti di un Nemico cui non si riconosceva nemmeno il diritto di parola. Inveivano contro la personificazione del Male più che contro il capo di un governo avversario. Si sentivano, anche loro, i portabandiera di una causa giusta quanto può esserlo la cacciata di un tiranno, non di un vincitore di libere elezioni democratiche. È questo il legame, psicologico e politico, che unisce e salda la violenza verbale e quella materiale. È la condivisione di una stessa atmosfera. E non è così pazzesco che ieri Internet sembrava un’arena scatenata e su Facebook un gruppo intitolato «Fanclub di Massimo Tartaglia» ha raggiunto in poche ore migliaia di adesioni.

Il confine tra la violenza verbale e quella materiale è sempre sottile, vulnerabilissimo. Ed è sconfortante che in un Paese che della violenza politica ha conosciuto i frutti più tragici faccia fatica a imporsi la consapevolezza che il linguaggio pubblico improntato all’odio, all’attacco forsennato contro la persona e non contro le idee, può sfociare in gesti sconsiderati sì, ma non privi di un retroterra, di un clima che ne alimenta la follia aggressiva e fa dell’aggressione fisica il culmine di una sfida che non prevede limiti e freni etico-politici. La violenza verbale non arma banalmente il violento che pensa di farsi giustizia da solo: il nesso non è così semplice e meccanico. Ma l’abitudine a trattare chi è contrario alle tue idee come un barbaro da eliminare con ogni mezzo fa del potenziale attentatore qualcuno che si sente nel flusso della storia, che si ammanta delle vesti nobili del vendicatore talmente audace da non fermarsi nemmeno di fronte alla prospettiva di avventarsi contro il nemico che personifica il Male.

Ora questo clima, raggiunto l’apice con i fatti di Milano, deve essere raffreddato e superato. Non per abolire la lotta politica, ci mancherebbe altro, ma per fermarne la degenerazione rissosa, violenta, brutale, profondamente antidemocratica e illiberale. Il che richiede lo sforzo congiunto di tutti: di tutti, nessuno escluso. E l’impegno, oramai da mesi reclamato dal «Corriere», al rispetto reciproco e in primis al rispetto delle istituzioni e degli uomini che le rappresentano. In un passaggio difficile e inedito della nostra vita nazionale. Per superare il quale, l’Italia dovrà mostrarsi molto più matura di quanto non sia apparso fino a ieri.

Pierluigi Battista

14 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #38 inserito:: Gennaio 28, 2010, 08:49:00 pm »

Un eccesso di sicurezza

La Puglia, terra di falliti laboratori di alleanze e di sorprese politiche che rilanciano un inedito plebiscitarismo di sinistra, potrebbe rappresentare anche il boccone più amaro per il Pdl. L'ennesima prova che chi in conclave entra papa può uscirne cardinale. Che la troppa sicurezza e la sottovalutazione dell'avversario possono dare alla testa e suggerire le mosse più sbagliate.

La spaccatura del centrodestra in Puglia può diventare il regalo più grande per Nichi Vendola, ancora inebriato dall'apoteosi delle primarie. Candidare un fedelissimo, Rocco Palese, alla presidenza della Regione risulta come una smagliante gratificazione per il maggiorente Raffaele Fitto che lo ha intronizzato con atto d'imperio, ma chiude la porta a una fetta importante dell'area moderata della Puglia. Fa prevalere una ferrea logica di partito su quella, più aperta, di coalizione. Premia la carriera dei funzionari, a scapito della loro rappresentatività. Cullandosi sulle disavventure degli avversari, compiacendosi delle sue convulsioni e dello spirito caotico con cui il centrosinistra è andato alla conta sconfessando il proprio gruppo dirigente, il centrodestra si è rilassato, scartando candidati che si sottraessero a una logica di apparato, mortificando Adriana Poli Bortone, lasciando a secco il magistrato Dambruoso, alzando un ponte levatoio per umiliare l'Udc. Troppa sicumera. Troppa disinvoltura.

Ma da qui al giorno delle elezioni, tra due mesi, possono succedere tante cose: due mesi fa Vendola, per dire, sembrava già aver imboccato precocemente il viale del tramonto politico. Se la Puglia doveva essere uno dei simboli del trionfo berlusconiano, con la scelta compiuta è meglio aspettare prima di esibire anzitempo il vessillo della vittoria.

La vicenda pugliese, del resto, riflette ed amplifica una sindrome della vittoria sicura che ha sinora condizionato oltremodo la linea del centrodestra nazionale. L'entità delle concessioni all'alleato leghista è tale da rischiare il fallimento della riconquista in Piemonte, sacrificata sull’altare di un candidato della Lega, Roberto Cota, persona moderata ma non tanto da impedire il rigetto di un elettorato moderato piemontese refrattario al lessico del Carroccio. In Campania il Pdl sente come un obiettivo già raggiunto lo sfaldamento del potere del centrosinistra: una prospettiva plausibile, ma non una certezza acquisita. Nel Lazio la figura di Emma Bonino può calamitare consensi anche nel centrodestra, che pure con Renata Polverini ha trovato una candidata di forte personalità.

Lo sbandamento del Pd, la sua interminabile afasia, inducono il partito di Berlusconi a considerare la partita già largamente vinta, come la scelta pugliese sta ad indicare in modo inequivocabile. Ma è sbagliato, e fonte di sicure delusioni, vivere questa stagione come un’ininterrotta sequenza di vittorie. I due mesi di campagna elettorale non saranno inutili. E nel modo con cui la coalizione del centrodestra saprà condurla si misurerà la maturità di un partito che tende ad adagiarsi troppo spesso sulle macroscopiche debolezze dell'avversario. L'andirivieni sulle proposte di riduzione fiscale, per esempio, potrebbe anche stordire un elettorato che, dopo due anni di governo, pretende a ragione risultati e prospettive certe. La scelta pugliese non sembra dettata da questa consapevolezza e da questa urgenza.

Pierluigi Battista
27 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #39 inserito:: Marzo 12, 2010, 10:15:55 am »

ELEZIONI REGIONALI

Il Cavaliere solitario

Silvio Berlusconi ha un vero, grande nemico in questa campagna elettorale: lo scoramento del suo popolo. Un misto di disincanto e di rassegnazione che, se pure non si traduce nella scelta dello schieramento avversario, alimenta una fortissima tentazione astensionista. L'ultimo sondaggio di Renato Mannheimer conferma che il Pdl, sebbene non se ne avvantaggino direttamente gli avversari, soffre gli effetti di una autosecessione silenziosa. La tendenza a disertare le urne, a sancire con il non-voto uno smarrimento che si traduce in disaffezione, disimpegno, delusione. È il fantasma del 2006 che impone al Berlusconi grintoso di queste ultime ore la scelta dell'ennesima corsa solitaria anche a costo di lanciare accuse non provate e parlare di complotti.

Uno contro tutti, come sempre da sedici anni a questa parte. Contro i nemici. Ma anche contro i suoi seguaci troppo fragili e inconcludenti, quando sono orfani di un Capo capace di rimediare ai loro guai. L'immagine simbolo del 2006 è racchiusa nella performance che rimise un Berlusconi già sconfitto al centro della scena. Berlusconi veniva dato per politicamente spacciato, ma gli squilli di Vicenza trasmisero una travolgente corrente d'energia nel suo elettorato. Se il leader del centrodestra rimontò da una condizione di abissale svantaggio nei sondaggi e arrivò a un passo (solo una manciata di voti di differenza) da un trionfo clamoroso, fu perché a Vicenza si mostrò capace di richiamare sul campo di battaglia il suo esercito astensionista.

Rese evidente una legge costante di questa nevrotica Seconda Repubblica: si vince solo se si trascina ai seggi il popolo riluttante che esprime con la minaccia dell’astensione la propria disillusione. Nel 2001 il centrosinistra perse perché molti dei suoi, scontenti e sconcertati, disertarono le urne. Nel 2006 Berlusconi sfiorò una vittoria che sembrava impossibile perché nel rush finale toccò le corde giuste per mobilitare un elettorato stanco e depresso. L'astensionismo è l'arma più micidiale in una democrazia in cui sono rari i passaggi espliciti da un campo a quello opposto. Già Albert O. Hirshmann aveva i d e n t i f i c a t o nell'«uscita» del proprio elettorato, nella tentazione di ritirarsi e di abbandonare a se stessa una leadership deludente. Il nuovo protagonismo di Berlusconi ha lo scopo di tamponare l'emorragia delle «uscite», ma anche le manchevolezze di un partito impacciato e afasico. Uno contro tutti, ancora una volta.

Ma i modi con cui il Pdl (il cui più che precario stato di salute è stato diagnosticato su queste colonne da Ernesto Galli della Loggia) ha dilapidato in pochi mesi una condizione di vantaggio che sembrava inattaccabile, dimostra che nella solitudine di Berlusconi si rispecchia il vuoto del suo partito nato appena un anno fa. Nell’«uno contro tutti» solitamente Berlusconi ritrova il suo terreno favorito, il che dovrebbe sconsigliare il Pd dall'imboccare la strada dell' «unione sacra» antiberlusconiana in cui rischia di farsi risucchiare. Ma ritrova anche la debolezza di una «sua» classe dirigente che, lasciata a se stessa, non è in grado di rappresentare autonomamente un punto di riferimento per l'elettorato. E di fronteggiare con convinzione il fantasma dell'astensione.

Pierluigi Battista

12 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #40 inserito:: Marzo 24, 2010, 08:33:27 am »

Le parole dei vescovi


Alla Chiesa cattolica, e anche alla Conferenza episcopale italiana, non si può negare la facoltà e anzi il dovere di difendere valori da essa considerati irrinunciabili. Troppo spesso, invece, si intima al mondo cattolico l’obbligo del silenzio e dell’acquiescenza rassegnata. O la consegna di confinare in uno spazio invisibile e interiore, lontano dalla sfera della discussione pubblica, l’affermazione di principi dettati dalla fede. Con l’appello pre-elettorale contro l’aborto del presidente della Cei Angelo Bagnasco non potevano mancare perciò le lamentazioni rituali sull’indebita «interferenza» vaticana nelle cose italiane. Ma anche la Chiesa, al netto dell'altrettanto rituale deplorazione degli attacchi «laicisti», non può ignorare il segno che i tempi, i modi, i bersagli e le forme dell’intervento anti- aborto inevitabilmente deposita nel dibattito politico alla vigilia del voto regionale.

I tempi, innanzitutto. Se a tre giorni dalle elezioni regionali viene data eccezionale enfasi a un tema che fino a pochi giorni prima non risultava in cima alle preoccupazioni anche politiche della Chiesa italiana, è fatale che si insinui il sospetto di una sin troppo palese strumentalità politica. La scelta dei vescovi italiani di affiancare successivamente il tema del lavoro a quello dell’aborto, del resto, è il segno che questo sospetto non ha lasciato insensibile nemmeno il mondo vaticano.

L’intervento della Cei voleva sottolineare che l’aborto non è merce di scambio politico, e che, per via della sua non negoziabilità, non è sottoposto alle stesse procedure di mediazione che caratterizzano la dialettica politica vera e propria. Ma la scelta di inserire un tema non negoziabile nei giorni precedenti alle elezioni mescola due ordini di problemi completamente diversi tra loro, confonde l’«assoluto» dei valori non negoziabili con il «relativo» di una normale competizione politica. Suggerisce l’idea che la prevalenza di un candidato anziché di un altro porterebbe a un aumento degli aborti, anche se il tema dell’aborto (pur legato alla sanità di cui le Regioni sono parte determinante) non è contemplato nell’agenda di tutti, ma proprio di tutti i candidati ai vertici delle istituzioni regionali, siano di centrodestra o di centrosinistra.

I modi comunicativi dell’intervento, inoltre, producono inevitabilmente un effetto di divisione nel mondo dei fedeli. Costringono i cattolici che fossero intenzionati a votare Emma Bonino o Mercedes Bresso a sentirsi in conflitto con la propria Chiesa, anche se le ragioni del loro voto prescindono totalmente dall’atteggiamento di quei candidati nei confronti dell’aborto.

Politicizzano una scelta religiosa e un valore morale che dovrebbero riguardare tutti e non solo chi segue le istruzioni elettorali dei vescovi. Permettono infine solo a una parte politica di identificarsi con quei valori, escludendo l’altra metà o confinandola in una scelta, per chi è orgoglioso di appartenere al mondo cattolico, per forza di cose vissuta con senso di colpa e imbarazzo etico. Ma votare con il senso di colpa non è mai un sintomo di salute per le democrazie.

Pierluigi Battista

24 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #41 inserito:: Marzo 27, 2010, 11:03:54 pm »

Il trauma e il coraggio


La Chiesa di Roma sta vivendo forse il momento più difficile del pontificato di Benedetto XVI. Nella sua accorata Lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda papa Ratzinger aveva affrontato con ammirevole coraggio la «vergogna» e il «senso di tradimento» per i sacerdoti che hanno commesso abusi sessuali nei confronti di giovani e bambini. Ma una valanga di accuse, dalla Germania e adesso dal New York Times fino all’inedita e traumatica scena del volantinaggio antipedofilia fin sotto le finestre di San Pietro, ha scaraventato sull’immagine del Vaticano un marchio infamante. Tra i due eventi c’è una connessione evidente: quanto più la Chiesa scommette sulla trasparenza e ha l’audacia di genuflettersi nel mea culpa, tanto più si spalancano i varchi per la riemersione del rimosso, per la fuoruscita pubblica di casi finora sepolti nelle catacombe dell’oblio.

Il ritmo delle rivelazioni si sta facendo troppo tambureggiante per non alimentare i sospetti di una crociata contro una Chiesa descritta come un ricettacolo di pedofili. E il reiterato tentativo di coinvolgere la stessa figura di Joseph Ratzinger in questa triste e imbarazzante storia dei cattolici di tutto il mondo sembra troppo corale e insistito per non ravvisare un’atmosfera di ostilità dichiarata nei confronti dell’attuale Pontefice: dello stesso Pontefice (ecco il paradosso) che nella sua Lettera agli irlandesi non ha nascosto l’auspicio secondo il quale i sacerdoti coinvolti negli abusi rispondano dei loro atti davanti a Dio ma anche nei «tribunali» della giustizia terrena. Ma è naturale che i nemici del Papa e della Chiesa romana approfittino del troppo prolungato silenzio, della troppo tollerata omertà con cui nei decenni passati le autorità ecclesiastiche hanno soffocato lo scandalo di sacerdoti colpevoli di aver tradito la fiducia di tanti ragazzi e tante famiglie. E in taluni casi, se sono vere le circostanze denunciate dal New York Times sulle decine di bambini sordomuti abusati dal reverendo Murphy, macchiandosi di un sovrappiù sconcertante di ignominia.

È il silenzio del passato, rotto con encomiabile forza morale da Benedetto XVI, a generare e alimentare le campagne ostili di oggi. E i fatti nascosti, quando sono scoperti, sono destinati a deflagrare con inaudita forza distruttiva. La scelta peggiore, per il mondo cattolico, sarebbe quello di gridare al complotto della «lobby laicista internazionale». Di rispondere agli attacchi con la tentazione di rinchiudersi in una fortezza assediata. Di non proseguire sulla stessa linea indicata da Ratzinger nella sua lettera all’Irlanda cattolica. Irrompono solo ora i ricordi di episodi che risalgono addirittura a molti decenni fa. Ma il passato riemerge con la violenza di una verità troppo a lungo insabbiata. Sarà compito e missione della Chiesa non nascondere più nulla, non farsi tentare dalla reticenza, ma vincere una delle battaglie più difficili con le armi della verità e della trasparenza, lungo la strada tracciata dallo stesso Benedetto XVI.

Pierluigi Battista

26 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #42 inserito:: Maggio 05, 2010, 11:01:52 am »

Fuori la verità

Dimettendosi da ministro, Claudio Scajola ha dimostrato di avere sensibilità istituzionale. Di non voler coinvolgere il governo in una vicenda personale i cui contorni restano ancora enigmatici. E di aver capito che un ulteriore ritardo di questa scelta avrebbe sfidato lo sconcerto dell’opinione pubblica, stordita dalle rivelazioni sulle modalità molto, troppo particolari che hanno segnato la compravendita di una sua casa.

L’ex ministro Scajola avrà così modo di difendersi, come è suo inalienabile diritto, se e quando l’autorità giudiziaria dovesse metterlo formalmente sotto accusa. Ma dovrà anche fornire una versione univoca e convincente di quanto è realmente accaduto nel 2004. Univoca: perché dopo i primi giorni in cui Scajola ha perentoriamente negato alla radice di aver acquistato un appartamento avvalendosi dei 900 mila euro suddivisi in 80 assegni circolari forniti dal gruppo Anemone, adesso ammette che quel cospicuo versamento di denari ci può essere stato,ma a totale insaputa di chi ne avrebbe beneficiato. Convincente: perché gli italiani, popolo di proprietari di case acquistate con i sacrifici, le ansie e i sudori che tutti coloro che accendono un mutuo conoscono, comprendono perfettamente l’assoluta singolarità e anomalia di una compravendita finanziata con somme tanto considerevoli senza che l’acquirente neppure ne fosse a conoscenza.

I reati, in questo caso, c’entrano poco. Conta il fatto che in tutti i casi, che Scajola abbia torto o ragione, ci troveremmo di fronte a una vicenda grave e preoccupante. In un caso sarebbe davvero sorprendente scoprire che un politico di lungo corso, e avvezzo a ricoprire importanti incarichi istituzionali, sia così smemorato da dimenticare di aver ricevuto una somma tanto ragguardevole. O così sprovveduto da ignorarne addirittura l’esistenza, ritenendo in buona fede di aver pagato una cifra molto inferiore a quella effettivamente sborsata per acquistare una casa. O, ma speriamo davvero che le cose non stiano in questo modo, così bugiardo da negare reiteratamente persino l’evidenza delle testimonianze circostanziate e dei riscontri bancari che attestano l'uso di quei 900 mila euro. Nel caso opposto, e cioè nel caso in cui Claudio Scajola fosse stato vittima di un «trappolone» per incastrarlo, ci troveremmo di fronte (altro che «processo mediatico») a una così colossale e capillare macchinazione ai danni di un politico, da far dubitare davvero della tenuta della nostra salute democratica.

Questo groviglio intricatissimo deve essere sciolto al più presto. Dal ministro Scajola. Dalla magistratura che deve indagare con serenità ed equilibrio. Dalla classe politica che deve finalmente capire quanto sia importante non solo, come è ovvio, tenersi lontani dai reati ma anche attenersi a standard etici di comportamento che si tende con troppa faciloneria ad ignorare. Mettendo fine a quel senso di spensierata impunità che si tende ad esibire con troppa disinvoltura. E i sacri princìpi del garantismo, stavolta, davvero non c’entrano.

Pierluigi Battista

05 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_05/fuori-la-verita-editoriale-pierluigi-battista_10e6e36a-5804-11df-b44b-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #43 inserito:: Giugno 10, 2010, 05:30:37 pm »

PERCHE’ FINI NON ROMPE CON IL CAVALIERE

La rinuncia allo strappo


LA RINUNCIA ALLO STRAPPO Lo « strappo » di Gianfranco Fini dunque non è all’ordine del giorno. La sfida spettacolare lanciata del presidente della Camera in diretta tv nell’aprile scorso non sfocia in una separazione con il premier Berlusconi. L’iter della legge sulle intercettazioni ha conosciuto distinzioni, limature, emendamenti, alterazioni anche consistenti rispetto al progetto originario caldeggiato da Berlusconi, ma al momento decisivo il Pdl, in tutte le sue componenti, si stringe nell’accettazione del voto di fiducia. Soprattutto, Fini mette la pietra tombale su ogni vagheggiamento di disegno neo-centrista che lo possa vedere come co-protagonista. Il confine del centrodestra non verrà oltrepassato.

Questo non significa che il dissenso di Fini sarà riassorbito con facilità. Ma che la leadership di Berlusconi è una cornice che, al momento, non temerà di essere messa in discussione, per lo meno dal lato dell’ex leader di An. Fini, accortamente, lo aveva già detto: non siamo qui per scalzare la supremazia del premier. Ma ogni suo gesto manifestava insofferenza, ogni sua dichiarazione suonava come una contestazione permanente del modo berlusconiano di condurre il partito, la coalizione e il governo. L’insofferenza resta, ma con il ricompattamento sulle intercettazioni si trasmette al centrodestra, e soprattutto a chi fuori del centrodestra immaginava nuovi scenari dettati dall’affrancamento definitivo del numero due del Pdl, l’idea che la tensione voglia essere incanalata in un alveo non autodistruttivo. Non in acque tranquille, ma nemmeno tempestose fino alla tracimazione.

Un Berlusconi in difficoltà è paradossalmente lo scudo migliore per proteggerlo dai malumori di Fini. Una dolorosa manovra economica più subìta che promossa dal premier, per di più destinata a mostrare il marchio impresso dal «rivale» Giulio Tremonti, ha costituito per Fini, se non la ragione di una pace, almeno la condizione per un armistizio. Fini non può permettersi la caduta di Berlusconi che costituirebbe, nelle attuali condizioni, la caduta di tutto il centrodestra. Non può contendere realisticamente la leadership in una battaglia che lo vedrebbe sicuramente soccombente. Ha già ottenuto l’inosabile in un partito a base carismatica come il Pdl: l’accettazione di uno spazio di dissenso inconcepibile in una formazione a gestione così personalistica, per di più uscita vincente in tutte le ultime tornate elettorali.

Ma Fini non può pensare, e lo dimostra con il riallineamento degli ultimi giorni, che un dissenso portato alle estreme conseguenze possa sfociare in una conta drammatica da cui la coalizione ne uscirebbe semplicemente frantumata. Un’ autodissoluzione che il presidente della Camera, con truppe così esigue, non riuscirebbe ad arginare proponendosi come sponda ai malumori che pure serpeggiano nel Pdl. Perciò Fini cerca di ottenere il massimo (le modifiche apportate alla legge) ma finisce per accettare la disciplina del partito. Non sarà la fine di una tensione che avrà mille occasioni quotidiane per manifestarsi. Ma sarà lo sbiadirsi di ogni scenario di rottura. Lo strappo, almeno per ora, viene ricucito

Pierluigi Battista

10 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_10/battista_637cf8c6-7451-11df-b340-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #44 inserito:: Giugno 27, 2010, 12:33:30 pm »

ASCESA E NOMINA DI UN MINISTRO

L’enigma Brancher


La nomina di Aldo Brancher a ministro per l’Attuazione del federalismo è il nuovo, conturbante mistero politico italiano. È stato promosso con velocità fulminea, all’insaputa di tutti, imponendo un doppione creato dal nulla. Se ne sono mostrati sorpresi un ministro di primo piano (La Russa) e il capogruppo del Pdl al Senato (Gasparri). Bossi, il federalista per eccellenza e che per il federalismo ha una esplicita competenza di governo, ha accolto la notizia con una tale contrarietà da suggerirgli sul pratone di Pontida una pubblica e clamorosa sconfessione della scelta di Berlusconi. Perché tutta questa fretta? E che così impellente bisogno c’era di aggiungere il nome di Brancher a quelli della compagine ministeriale?

Mistero. Mistero politico. È misterioso che il presidente del Consiglio abbia deciso di appesantire un governo che si vantava di aver costruito snello, essenziale, senza quelle escrescenze correntizie su cui aveva penato il precedente governo Prodi. È misterioso che, in tempi di austerità finanziaria, si istituisca un nuovo ministero il cui costo viene approssimativamente valutato da Enrico Letta del Pd in un milione di euro: uno spreco.

È misterioso che, invece di nominare speditamente il ministro che da oltre un mese e mezzo dovrebbe prendere il posto di Claudio Scajola allo Sviluppo economico, cioè in un dicastero clou, si cincischi, si rinvii la decisione sine die e nel frattempo si aggiunga un ministero controverso, affiancandolo a uno che già esiste e il cui titolare, Umberto Bossi, lo considera una molesta interferenza. Siamo inoltre, l’ha notato Emma Bonino, al terzo ministero metodologico di stampo orwelliano (il «Ministero della Verità» di 1984), il cui compito dovrebbe essere quello di sorvegliare il lavoro degli altri colleghi: Rotondi e il ministero per l'Attuazione del programma, Calderoli e il ministero della Semplificazione e ora quello per l'Attuazione del federalismo. Uno spreco di competenze, uno sciupio. Senza nemmeno avvertire gli alleati, i ministri, gli esponenti di punta della stessa coalizione. Neanche la stampa. Nella più totale clandestinità. Ancora una volta: perché?

Anche i meno sospettosi, anche chi è più disponibile a rilasciare un credito all’attuale governo e chi ha appena ritenuto positive le ultime scelte, specialmente in economia, è costretto a immaginare che in tanta segretezza frettolosa molto abbia pesato il nome del nuovo ministro, Aldo Brancher, che potrebbe avvalersi, come tutti i ministri, delle nuove norme sul «legittimo impedimento » per procrastinare le vicende giudiziarie che lo riguardano. È un sospetto ingiusto, ma la singolarità della nomina di Brancher autorizza qualsiasi malevolenza. Nemmeno la spiegazione politica a favore della Lega, visti gli stretti rapporti tra Brancher e il movimento di Bossi, appare minimamente convincente.

Allora sarebbe il caso che i responsabili del governo spiegassero qualcosa di più. Mettessero a parte gli italiani di una scelta tanto estrosa. Altrimenti alimenterebbero ogni tipo di sospetto. Diano un significato politico a una decisione che sembra solo molto personalizzata. E di tutto abbiamo bisogno, tranne che di un governo ad personam.

Pierluigi Battista

22 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_22/battista-enigma-brancher_397ab49e-7dbd-11df-a575-00144f02aabe.shtml
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