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Autore Discussione: D’ALEMA.  (Letto 50059 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Ottobre 15, 2013, 05:04:53 pm »

 Massimo D'Alema su Alitalia: "Ferrovie meglio di Poste".

Renzi? "Uomo solo sotto i riflettori, mi ricorda qualcuno..."

L'Huffington Post  |  Pubblicato: 15/10/2013 08:18 CEST  |  Aggiornato: 15/10/2013 09:59 CEST


"Per Alitalia, sarebbe stata meglio un'intesa con le Ferrovie dello Stato". L'endorsement alle FS - e indirettamente al loro amministratore delegato Mauro Moretti - arriva da Massimo D'Alema, che in una lunga intervista al Sole 24 Ore dice la sua sull'operazione Poste Italiane per salvare la compagnia aerea. Secondo D'Alema, un accordo con Ferrovie sarebbe stato preferibile per "due ragioni". "Credo ci sarebbero state sinergie più robuste e si sarebbero anche svalutate le partecipazioni, risolvendo il problema dei francesi".

Per l'ex premier, l'alleanza con Air France non è convincente. "Mi pare che abbiano una situazione, anche debitoria, complicata. Ma soprattutto penso che, in vista dell'Expo, sarebbe stato meglio puntare su una compagnia non europea che offrisse più opportunità anche al nostro Paese, anche nel traffico turistico".

Da D'Alema, poi, anche una frecciatina al sindaco di Firenze e candidato alla segreteria del Pd Matteo Renzi. "Non è ragionevole destabilizzare il governo, magari per le ambizioni personali di chi ha troppa fretta...". L'ex ministro non ci sta a a sentirsi parte di una intera classe dirigente che, nella lettura di Renzi, ha fallito, impedendo al Paese di crescere. "Bisognerebbe distinguere le responsabilità nel corso di questi venti anni. Almeno per dare una giustificazione a quella parte dell'establishment che sta lì ad applaudire entusiasticamente ai ceffoni di Renzi".

Nelle movenze del sindaco di Firenze D'Alema fa capire di rivedere Berlusconi. "Non mi è mai piaciuto lo stile di un uomo solo con i riflettori puntati addosso, che passeggia sul palco con il microfono in mano. Mi pare di averlo già visto in questi anni...".

Infine, botte anche al federalismo: "così come lo abbiamo praticato - afferma D'Alema - è stato uno dei maggiori responsabili dell'aumento della spesa pubblica. Per non parlare dei danni in termini di efficienza che sono venuti dalla moltiplicazione dei centri decisionali, dalle competenze confuse tra centro e periferia, dal sommarsi delle autorizzazioni".

da - http://www.huffingtonpost.it/2013/10/15/massimo-dalema-alitalia-ferrovie-meglio-di-poste_n_4099568.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #61 inserito:: Dicembre 01, 2013, 05:19:12 pm »

L’InterVISTA

D’Alema: il Cavaliere è ancora in campo

«Nel suo schieramento non si vede un altro leader Ricordo quando nell’89 mi chiese di lavorare per lui»

ROMA — Presidente D’Alema, è la fine di un’era. Lei si è scontrato e incontrato piu volte con Berlusconi. E adesso?


«Sì io mi sono confrontato a lungo con Berlusconi con alterni risultati. Sono stato tra i protagonisti del suo rovesciamento nel ‘94, e uno degli artefici delle vittorie elettorali del ‘96 e del 2006, da cui bisogna pur riconoscere che lui ha saputo sempre risollevarsi con successo. Non credo che scompaia dalla vita politica italiana per la sua decadenza: penso che sia un giudizio politico superficiale».

Berlusconi dice che quel giorno è stato un lutto per la democrazia.
«È un’espressione priva di senso ma non è stato neppure un giorno per brindare. Io personalmente non ho brindato perché l’applicazione della legge è sempre un fatto che va vissuto con serietà e con rispetto verso le persone. Si festeggiano le vittorie elettorali non l’applicazione delle leggi, che dovrebbe essere ovvia. Del resto io avevo dichiarato già mesi fa che Berlusconi avrebbe dovuto dimettersi prima, senza arrampicarsi sugli specchi. Detto questo, non credo che la sua esclusione dal Parlamento significhi la sua esclusione dalla vita politica, anzi penso che in questo momento vi sia persino un moto emotivo di solidarietà nei suoi confronti: i sondaggi lo danno in crescita di popolarità. Certo bisognerà vedere tutto questo quanto regge».

Dunque?
«Berlusconi è un leader in crisi non perché è stato escluso dal Parlamento ma perché non è più in grado di costruire attorno a sé il centrodestra, anzi è un fattore di divisione. La sua decadenza è giusta perché la legge è uguale per tutti, ma lui continuerà a giocare un ruolo politico, anche se in questo momento appare più un peso che una risorsa per il suo schieramento. Però non si vede all’orizzonte un altro leader in grado di sostituirlo. Come si dice, chiodo scaccia chiodo? In questo caso non c’è».

E Alfano?
«Alfano è il leader di una forza minoritaria del centrodestra che è guardata con profonda avversione da tutti quelli che votano Berlusconi. Sembra difficile immaginarlo ora come il federatore, ma ha avuto il coraggio di dire finalmente che l’interesse del Paese è più importante di quello di Berlusconi».

È d’accordo con l’iniziativa di Napolitano?
«Certo: ci vuole un passaggio in Parlamento perché il quadro politico è cambiato».

Tornando a Berlusconi. Se andasse in prigione le dispiacerebbe umanamente?
«Io sono garantista e mi dispiace che le persone finiscano in carcere, spesso senza aver subito nessuna condanna. Il fatto che in Italia quasi metà delle persone in carcere non sia mai stata giudicata è una condizione indegna di un Paese civile. Comunque in galera generalmente ci vanno i poveri, non i ricchi, quindi non credo che Berlusconi ci andrà».

È vero che nell’89 Berlusconi le offrì di lavorare per le sue tv?
«Lo incontrai per la prima volta più tardi, quando ero capogruppo della Camera. Mi disse che ero molto bravo a spiegare la politica anche alle persone semplici, che non parlano in politichese e che gli sarebbe piaciuto se io avessi avuto una trasmissione sulle sue reti. Gli risposi che facevo un altro lavoro. Lui replicò: “Ma anche Ferrara, che è europarlamentare, fa un programma”. Del resto Berlusconi è un tipo seduttivo, cerca sempre di attrarre il suo interlocutore».

Ma come mai vi incontraste?
«C’era in Parlamento un provvedimento al quale erano interessati e contro il quale noi combattevamo, ma non ricordo quale fosse. Me lo presentò Gianni Letta, che avevo conosciuto come direttore del Tempo. Fu un confronto garbato ma noi continuammo a opporci a quel provvedimento. Ricordo che Berlusconi cercava di essere molto affabile».

Lei non lo è sempre stato con lui.
«La lotta politica non è una cena di gala. Anche Berlusconi non me ne ha risparmiata una. Nel 2001 scese su Gallipoli con l’elicottero e disse agli elettori: “Cacciatelo via e mandatelo a lavorare”».

Era l’ultimo voto con il Mattarellum e lei aveva rifiutato il paracadute della quota proporzionale.
«Appunto non mi scandalizza: la lotta è lotta».

Però con Berlusconi ha fatto la Bicamerale, cioè l’inciucio.
«Nessun inciucio, tanto è vero che Berlusconi alla fine ha votato contro e ha fatto fallire la riforma. Aggiungo come è noto a chiunque abbia soltanto sfogliato gli atti parlamentari, che sono stato il presidente del Consiglio che ha cercato con maggior determinazione di fare una legge efficace sul conflitto di interessi. E io ho fatto la norma sulla par condicio in campagna elettorale per porre un argine allo strapotere televisivo di Berlusconi. Tutto questo lui lo sa e infatti alle ultime elezioni per il Quirinale mi chiamò per dirmi: “Non potremo mai votare per te perché sei il nostro avversario più irreducibile”».

A sinistra la pensano diversamente.
«Alcuni nella sinistra hanno diffuso le calunnie sugli inciuci e sugli accordi di potere con Berlusconi. Forse perché essendo una persona non facile da affrontare vis à vis alcuni hanno pensato di pugnalarmi alla schiena usando bugie. Da questo punto di vista riconosco a Renzi il fatto che lui non ha mai cercato di colpirmi a tradimento. Mi ha affrontato a viso aperto, e questo gli fa onore».

Cuperlo dice che Renzi è una versione di sinistra del berlusconismo.
«Non è un’accusa priva di fondamento, ma non è un’accusa morale, bensì politica. Renzi ha una concezione della leadership plebiscitaria non lontana da quella di Berlusconi. Ma il Pd è una cosa diversa: non credo che nasceranno i circoli “Meno male che Matteo c’è” ...».

Tornando al Cavaliere che cosa la colpì di più di lui quando lo conobbe meglio?
«La sua totale inaffidabilità. Quando si conclusero i lavori della Bicamerale Berlusconi fece un discorso commovente. Disse: è stato bello esserci. Dopo un mese buttò tutto all’aria. Il problema è che ogni sua parola, ogni suo gesto, sono dominati da un calcolo d’interesse».

Che consiglio darebbe a Berlusconi adesso?
«Prima di tutto di prenderla con filosofia. Pensi che l’altro giorno una signora mi ha fermato e mi ha chiamato “onorevole”. Io le ho risposto: “Veramente non sono più alla Camera”. E lei, entusiasta, mi ha urlato “Bravo!”. Questo è un segnale inquietante per le istituzioni ma vuol dire anche che si vive bene pure fuori dal Parlamento. Quello che gli consiglio per il bene del Paese è di smettere di esasperare i conflitti con il suo risentimento personale. Si ricordi di essere stato un presidente del Consiglio, non faccia prevalere i rancori e le ragioni personali».

30 novembre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Maria Teresa Meli

Da - http://www.corriere.it/politica/13_novembre_30/d-alema-cavaliere-ancora-campo-7ca278ac-599b-11e3-9117-a8a2b0420a9e.shtml
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« Risposta #62 inserito:: Febbraio 10, 2014, 05:28:43 pm »

Massimo D'Alema e il suo errore più grande: l'ingresso anticipato a palazzo Chigi.
Fabrizio Rondolino su Europa


L'Huffington Post  |  Pubblicato: 08/02/2014 11:32 CET  |  Aggiornato: 08/02/2014 11:46 CET

Il 28 ottobre 1998 Massimo D'Alema arrivò a Palazzo Chigi senza passare dalle elezioni, un salto molto simile a quello che Matteo Renzi potrebbe intraprendere nel caso in cui decidesse davvero di prendere il posto di Enrico Letta senza passare dal voto. Per D'Alema si trattò - come ammise lui stesso - del suo unico, vero, riconosciuto "errore politico".

A fare il parallelismo tra il 1998 e oggi è Fabrizio Rondolino su Europa. Rondolino, che in quel periodo lavorava con D'Alema, traccia diverse similitudini tra l'allora segretario di DS e Renzi.

Massimo D’Alema era considerato l’architetto del “ribaltone” che mandò Berlusconi all’opposizione a pochi mesi dal trionfo elettorale e lo stratega della successiva vittoria dell’Ulivo. Aveva staccato Bossi dal Cavaliere, si era “inventato” con Nino Andreatta la candidatura di Prodi chiudendo un patto di ferro con i Popolari, aveva sfilato Dini al centrodestra. Ma, soprattutto, era percepito come l’uomo nuovo, il “rinnovatore”, il riformista che avrebbe finalmente modernizzato la sinistra e costruito un “Paese normale”. D’Alema piaceva alla Confindustria, incuriosiva gli americani, affascinava gli editorialisti, non spaventava i berlusconiani e, sebbene fosse notoria la sua antipatia per i giornalisti, godeva ogni giorno di un’assoluta centralità mediatica.

Come oggi Renzi, D'Alema veniva paragonato al Blair italiano, cioè a un "leader capace di rompere la crosta conservatrice, consociativa e castale del Paese senza il timore di infrangere i tabù più consolidati della sinistra post-comunista"

 D’Alema era più o meno percepito come oggi Renzi: non tanto, e non solo, come il capo della sinistra, ma prima di tutto come il rinnovatore dislocato sulla frontiera della modernità e proprio per questo capace di raccogliere un consenso trasversale.

Anche rispetto all'allora governo Prodi, D'Alema aveva un atteggiamento simile a quello di Renzi con l'esecutivo Letta: da un lato fungere da pungolo e stimolo all'innovazione, dall'altro aprendo un tavolo costituente. Poi la doppia inversione di marcia di Berlusconi e di Bertinotti scompigliò i piani, avvicinando l'ingresso di D'Alema a Palazzo Chigi. Il resto è storia: il primo governo D'Alema durò poco più di un anno, il secondo appena quattro mesi. Un'esperienza fallimentare che segnò per sempre la sua carriera:

    Quel che è certo, è che dopo quell’esperienza D’Alema non si è più ripreso: il suo profilo di innovatore è stato intaccato per sempre. La questione, tutto sommato, è molto semplice: se vai al governo (o alla segreteria del partito) con i voti degli italiani, ti fai forte di quei voti per neutralizzare tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, ti ostacolano e ti logorano. Se invece è il ceto politico – cioè precisamente coloro che di mestiere ostacolano e logorano – a conferirti l’incarico, il tuo destino è segnato.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2014/02/08/massimo-dalema-matteo-renzi_n_4750163.html?1391855553&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #63 inserito:: Aprile 11, 2014, 11:48:48 pm »

«Non sono stato rottamato Renzi? Ha avuto fortuna»
9 aprile 2014

Massimo D'Alema in studio da Daria Bignardi per l'ultima puntata delle Invasioni Barbariche. L'occasione di una ricognizione a tutto tondo sulla vita politica italiana, da Renzi a Berlusconi passando per le elezioni europee. Bignardi chiede a D'Alema: «Renzi e la Serracchiani non volevano rottamarla?». «No, non era una rottamazione alla lettera», replica D'Alema, che sarebbe stato indicato da Matteo Renzi per il ruolo di futuro Commissario Europeo. «Ma lei si sente adatto a un ruolo europeo?», chiede la conduttrice. «Sì, mi sento adatto. Io presiedo un pensatoio sulla sinistra europea - dice il presidente della Fondazione Italianieuropei - sono grato a Renzi perché lui ha voluto presentare il mio libro alla vigilia del suo primo Consiglio Ue ed è stato un messaggio molto forte, e anche un messaggio amichevole. Ha voluto dire che, per quante polemiche ci possano essere state, noi sulla necessità di cambiar verso all'Europa, siamo uniti».

«Ho deciso - spiega D'Alema - di non entrare nella polemica della vita politica. Quando c'era da dare battaglia l'ho fatto, ma ora penso che stare un po' lontano dalla polemica mi consenta di dare una mano e di non essere mischiato con questo e quest'altro. Io non mi occupo dei nomi, delle liste, mi occupo dell'Europa».

«Io - spiega - vedo un Pd forte. Prodi ha ragione, è l'unico partito vivo».

«Berlusconi inciderà sempre meno. Una delle novità di Renzi, una sua grande fortuna, è che Berlusconi ha un peso sempre più ridotto nella vita politica italiana, e se Renzi potrà fare alcune riforme è per questo».

«Domani - chiede Bignardi - c'è la decisione su Berlusconi, dal punto di vista umano lei è dispiaciuto? ».

«Io non ho alcuna acrimonia personale verso nessuno. Con lui non ho una grande vicinanza, gli ho sempre dato del lei, siamo due persone molto distanti, come stile di vita e come idee. Non ho rancore personale. Però penso che Berlusconi abbia creato danni al nostro paese e questo secondo me per un uomo pubblico è imperdonabile».

«La legge sul conflitto d'interessi fu abbandonata quando io mi dimisi da presidente del consiglio. Ma anche se l'avessimo approvata - spiega D'Alema - noi non avremmo risolto il conflitto perché lui avrebbe ceduto le tv ai figli».

«Berlusconi è stato più bravo di noi nella comunicazione con il paese. Ma noi abbiamo trovato uno che è in grado di sconfiggerlo sul suo terreno. Io continuo ad avere un'altra visione politica rispetto a Renzi, ma la sua abilità è stata nello sfidare l'ex Cavaliere sul suo stesso terreno. Renzi voleva sparigliare. E per ora questa è un'operazione di successo. Renzi si è imposto come cambiamento. Noi siamo un partito e quando uno vince e ha la responsabilità di guidare il paese, nostro dovere è aiutarlo, non quello di fargli le scarpe».

«La legge elettorale? E' migliorabile, del resto aveva un difetto d'origine perché era concordata con Verdini, ma Renzi non se ne deve avere a male perché nessuno potrà negargli il merito di aver riaperto il processo delle riforme».

«Le elezioni europee sono importanti per l'Europa.

Da - http://www.unita.it/politica/d-alema-renzi-bignardi-invasioni-barbariche-pd-berlusconi-prodi-riforme-europee-roma-garcia-padoan-1.562612
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« Risposta #64 inserito:: Aprile 13, 2014, 05:34:11 pm »

12 aprile 2014
D'Alema: ''Dobbiamo organizzarci per non far morire il Pd''

L'ex premier e segretario Ds suona la carica durante l'assemblea della sinistra del Pd a Roma. L'intervento di D'Alema è stato il più applaudito tra quelli dei big della kermesse in particolare quando ha sottolineato come: "Noi rappresentiamo una parte della militanza maggiore del 18% (la percentuale raccolta da Cuperlo alle ultime primarie). Questa forza deve attivarsi, il Pd dobbiamo farlo funzionare noi". D'Alema ha proseguito: "Renzi non fa più stampare le tessere del partito? Facciamole stampare noi per protesta. Su questo dobbiamo lanciare la sfida a Renzi: noi ci siamo, speriamo che ci siano anche loro"
(Di Marco Billeci)

Da - http://video.repubblica.it/politica/d-alema-dobbiamo-organizzarci-per-non-far-morire-il-pd/162518/161008
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« Risposta #65 inserito:: Giugno 17, 2014, 04:46:40 pm »

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Finanziamento ai partiti, D’Alema: “Se qui si facesse come in Usa, arresterebbero tutti”
Ecco parte dell'intervista di Alan Friedman all'ex presidente del Consiglio che sarà trasmessa nella puntata di giovedì di "Ammazziamo il Gattopardo", su La7. "Il dramma dell'Italia non è l'invadenza dei partiti, è che i partiti non ci sono più. L'esaltazione acritica della società civile è una ideologia cattiva. Ma anche il Pd è esposto a fenomeni di opportunismo, carrierismo, gente che salta sul carro del partito che va al potere"

di Redazione Il Fatto Quotidiano | 17 giugno 2014

Giovedì 18 in seconda serata, alle 23.15, esordirà su La7 il nuovo programma di Alan Friedman, che prende il titolo dal suo recentissimo libro: “Ammazziamo il Gattopardo: il Gioco del Potere”. Nella prima puntata c’è un’intervista a Massimo D’Alema, registrata nell’agosto di un anno fa. L’ex premier sfodera il meglio del suo antico repertorio: il primato dei partiti e l’idiosincrasia per la società civile. La parte relativa al finanziamento della politica è antecedente alla nuova legge che prevede di destinare il 2 per mille ai partiti e D’Alema fa un parallelo con gli Stati Uniti. Per la serie: “Lì i magistrati italiani arresterebbero tutti”. Per D’Alema il declino del Paese è iniziato con il crollo dei partiti, sostituiti dai movimenti personali, compreso il Movimento 5 Stelle (Renzi non c’era ancora).

Di Alan Friedman

Questa intervista a Massimo D’Alema, nella sua tenuta umbra di Otricoli, è stata registrata il 20 agosto 2013.

Lei nel 1997, a marzo, a Gargonza, disse che l’Ulivo non era il modello che ci voleva.
A Gargonza dissi una cosa sacrosanta. Siccome dissero “abbiamo vinto le elezioni per merito dell’Ulivo”, dissi “bah, abbiamo vinto le elezioni innanzitutto perché siamo riusciti a fare in modo che Berlusconi e Bossi arrivassero divisi alle elezioni” sennò avrebbero vinto loro, Ulivo o non Ulivo. E tutta questa esaltazione della società civile contrapposta ai partiti aveva un che di retorico. Che cos’è la società civile? Quelli che votano Berlusconi non sono civili?

Sono quelli che votano Grillo oggi?
È una espressione carica di ambiguità, la società italiana. Sono quelli che hanno votato Berlusconi, che ha rischiato persino di vincere le ultime elezioni dopo tutto quello che aveva fatto. Quindi, questa esaltazione acritica della società civile, come se ci fosse una società civile buona e i partiti cattivi, è una ideologia cattiva, cioè che non ha nessuna verità, non aiuta a capire niente. Semplicemente alimenta il qualunquismo contro i partiti. Il dramma dell’Italia non è l’invadenza dei partiti, è che i partiti non ci sono più, dove sono i partiti?

Cosa è il partito di Grillo?
Sono dei movimenti personali, diciamo le cose come stanno.

Ma sono nove milioni di italiani.
Sino a quando il nostro paese è stato guidato dai partiti, prima che iniziasse la crisi dei partiti democratici – che secondo me inizia alla fine degli anni ’70 con la morte di Moro e con il fallimento della solidarietà nazionale – in quel periodo che va dalla Resistenza fino alla morte di Moro, l’Italia, che era un Paese distrutto dalla guerra, è diventata la quinta potenza industriale del mondo. Finché il Paese è stato guidato dai partiti, è cresciuto.

Quell’espressione, “la quinta potenza”, fui io a coniarla sul Financial Times, ricorda?
Esatto. Quindi, finché l’Italia è stata guidata dai partiti è andata bene, quando i partiti sono andati in crisi per la corruzione, per la caduta dei valori, dei principi, delle ideologie, è cominciato il declino, negli anni ’80, non negli anni ’90.

Già con il pentapartito?
Sì, perché la crisi dei partiti comincia 10 anni prima del loro crollo. Se si arriva al crollo all’inizio degli anni ’90 è perché la struttura ormai è marcita, ma fino a quando i partiti popolari hanno mantenuto una loro vitalità, una loro forza, e hanno guidato il Paese, lo hanno trasformato in senso moderno, ognuno nel suo ruolo. La Dc da una parte, i comunisti dall’altra parte, in un modo straordinario. Quindi il male dell’Italia non sono i partiti.

La mancanza, piuttosto.
Finiti i partiti, le istituzioni sono state occupate da una neoborghesia che non ha nessuna ideologia, nessun valore, nessuna cultura politica, nessuna formazione se non quella di vedere nella politica un modo per sbarcare il lunario e per arricchirsi personalmente.

Ma questa borghesia si trova solo nel Pdl (oggi Fi) o anche nel Pd?
Non c’è dubbio che il Pdl ne è l’emblema. È il partito che la rappresenta in modo organico.

Mentre nel Pd?
Anche il Pd è esposto a questi fenomeni di opportunismo, di carrierismo, di gente che salta sul carro del partito che va al potere.

Annullare il finanziamento ai partiti?
Dunque noi saremmo l’unico paese al mondo che non avrebbe una forma di finanziamento ai partiti, se si annulla quello pubblico bisognerà agevolare quello privato.

Con trasparenza, come in America che le banche di settore, le lobby, contribuiscono ma sono pubblicamente identificate come contribuenti.
L’America non è un grande modello, perché il peso di quelle contribuzioni è tale da condizionare la vita politica in modo impressionante. Quando il presidente degli Stati Uniti nomina ambasciatore uno di quelli che hanno contribuito alla sua campagna elettorale è normale. Se lo facessi io, primo ministro italiano, verrei arrestato dal procuratore, perché sarebbe voto di scambio e immediatamente sarebbe un grave reato. Quando io vado alla Clinton Global Initiative e mi guardo intorno penso che se ci fosse un pm arresterebbe tutti, praticamente è una specie di reato di massa. Perché lì ci sono industriali e politici che si incontrano.

Si chiama networking. Il vostro networking è più privato, più intimo. Vi vedete a cena, a Capalbio.
Io non vado a Capalbio, non vado più a cena con queste persone però non deve pensare che queste persone tirino fuori molti soldi. Io penso che la politica ha bisogno di essere finanziata, poi si trova un sistema in cui si decide che anziché essere un trasferimento fisso dello Stato decidono i cittadini come per la Chiesa cattolica, si stabilisce un 8×1000, un 5×1000…

Non rischia di identificarsi all’Agenzia delle entrate, politicamente, a quel punto?
Ho capito ma noi siamo un Paese nel quale se io voglio, posso finanziare la chiesa degli avventisti del settimo giorno e non il mio partito? Ci sarà un sistema? Io capisco che i partiti devono essere messi fuorilegge secondo qualcuno. Verranno i militari come in Egitto, non lo so?

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/06/17/finanziamento-ai-partiti-dalema-se-qui-si-facesse-come-in-usa-arresterebbero-tutti/1030322/
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« Risposta #66 inserito:: Dicembre 01, 2014, 04:35:38 pm »

L’intervista

Sulla riforma del lavoro: «Non credo che con il Jobs act arriveranno investimenti a pioggia o cresceranno i posti di lavoro. Non è l’articolo 18 l’ostacolo alla ripresa»

Di Paolo Valentino

Presidente D’Alema, siamo in piena rievocazione della Terza Via. Lei ne è stato uno degli iniziatori, nel 1999, con il vertice di Firenze. Quale è il suo significato attuale?
«Nessuno. In tempi recenti sono state avanzate critiche anche aspre di quella esperienza: troppo liberismo, troppe concessioni alla deregulation. Ma cosa fu la Terza Via? All’indomani della caduta del muro di Berlino, quindi in un clima di grande mutazione, fu lo sforzo di far incontrare i principi del socialismo con una visione di tipo liberale. Penso ancora oggi che abbia avuto un impatto positivo, sia pure con effetti contraddittori che non possono essere nascosti. Ma è un’esperienza di 15 anni fa. Allora diede i suoi frutti, anche nel nostro Paese. Fu la sinistra al governo che, sulla base di quella visione, ridusse drasticamente la presenza statale nell’economia, avviò le grandi privatizzazioni, lanciò le liberalizzazioni poi continuate nel lavoro di Bersani, riformò le pensioni. Pose fine a una politica di deficit spending, tanto che noi portammo il debito pubblico dal 127 al 102% del Pil, realizzando sistematicamente un avanzo primario del 3% e liberalizzò il mercato del lavoro, per certi aspetti perfino troppo, visto che si produssero forme contrattuali che poi sfociarono in una eccessiva precarizzazione. Quindici anni dopo, i problemi sono completamente diversi. Bill Clinton, non un pericoloso estremista, ha scritto tre anni fa un libro, Back to work , sostenendo che il principale limite di quella esperienza fu di aver sottovalutato il ruolo dello Stato. La Terza Via fu pensata in una prospettiva ottimistica della globalizzazione, che si è rivelata fallace. L’eccesso di liberalizzazione ha portato a enormi diseguaglianze sociali, a grave instabilità economica e, in ultima analisi, alla crisi del 2008».

La Terza Via corresponsabile della crisi del 2008?
«Guardi che la deregulation finanziaria, il “liberi tutti” per banche e speculatori, in America, la fece Clinton, lui stesso lo ha riconosciuto. Quello che io trovo incredibile è che, nel tentativo di offrire un retroterra teorico nobile al governo Renzi, oggi si faccia un’operazione anacronistica. Chi ci spiega che la velocità del mondo, le nuove tecnologie impongono il cambiamento poi ci propone una piattaforma ideologica della fine del secolo scorso come la Grande Novità di oggi. Sul piano culturale è sconcertante. Primo, la riduzione del ruolo dello Stato era il tema di vent’anni fa. Secondo lo abbiamo fatto. In qualche caso forse troppo. Terzo, alcuni dei protagonisti riflettono criticamente su quell’esercizio. Oggi tutto il pensiero economico ruota intorno ad altri tempi. Ci sono Stiglitz, Piketty, Krugman. Il Financial Times ha dedicato una pagina intera al libro della Mazzuccato sulla necessità di riscoprire il ruolo dello Stato come forza propulsiva dello sviluppo. Quelli che invocano la Terza Via sembra abbiano saltato le letture degli ultimi 10 anni, ammesso che avessero fatto quelle precedenti».

E qual è invece il dibattito giusto?
«La crisi di oggi ha radici nella debolezza della politica e dell’azione pubblica, sia a livello europeo sia nazionale. E non si può uscirne senza politiche in grado di promuovere gli investimenti, anche pubblici. Altro che meno Stato. La crisi ha evidenziato i limiti dell’approccio liberista e ha messo la politica di fronte alla responsabilità di promuovere gli investimenti e ridurre le diseguaglianze. La crisi europea si caratterizza soprattutto come crollo della domanda interna. Oggi l’Europa è esportatore netto, malgrado l’euro. Ma il problema è il crollo dei consumi europei che deriva da un impoverimento delle classi medie e del mondo del lavoro».

Lei sta contestando la necessità delle riforme strutturali, che ci chiedono la Commissione, la Banca centrale di Mario Draghi, a cominciare da quella in corso del mercato del lavoro, per dargli più flessibilità?
«Secondo i dati Ocse, non miei, il mercato del lavoro è più flessibile in Italia che in Germania e in Francia. In ogni caso, trovo stravagante e incomprensibile che oggi, con i dati economici peggiori dell’eurozona, sia la riforma elettorale la priorità di un governo che dice di voler rimanere in carica fino al 2018. Non credo che l’Europa ci chieda questo. Detto ciò, la riforma del mercato del lavoro contiene molti aspetti positivi, io sono favorevole al contratto unico a tutele crescenti perché riduce la precarietà del lavoro. Ma contesto il fatto che la nuova generazione di occupati non possa accedere alla tutela dell’articolo 18, che invece rimane per i lavoratori già assunti. A partire dai principi stessi enunciati dal governo, il meccanismo proposto introduce quindi un elemento che li contraddice, fra l’altro stabilendo una diseguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, dubbia sotto il profilo costituzionale. Inoltre non credo che, approvato il Jobs act, arriveranno investimenti a pioggia o cresceranno tumultuosamente i posti di lavoro».

Quali dovrebbero essere le priorità di un governo di sinistra?
«La riforma dello Stato, delle amministrazioni, compreso il funzionamento della giustizia, la sicurezza. A livello europeo, la prima riforma dovrebbe essere quella dei mercati finanziari. Cominciamo, per esempio, a stabilire che all’interno dell’eurozona non sia possibile la concorrenza fiscale. Non possiamo scoprire solo ora che il Lussemburgo è un paradiso fiscale, magari per indebolire Juncker e con lui la nuova Commissione».

E come la mettiamo con i nostri obblighi, quelli che ci impongono i Trattati?
«Sono convinto che l’austerità come premessa della crescita sia una ricetta sbagliata».
Ma su questo c’è accordo. Il governo Renzi si è battuto per cambiare i termini dell’equazione, privilegiando la crescita.
«C’è accordo a parole. Nella sostanza siamo di fronte solo ad annunci. Dei 300 miliardi del piano di investimenti di Juncker pare ce ne siano solo 21. I segnali di cambiamento sono estremamente timidi. Siccome non c’è più flessibilità nella moneta, si continua a premere su misure di contenimento dei salari. Il punto vero è questo. Ma questa politica è all’origine del crollo del mercato interno europeo. Tanto è vero che oggi perfino in Germania si apre un dibattito: gli industriali tedeschi mettono in guardia da un eccessivo contenimento dei salari. All’ultimo G20 lo snodo centrale è stata la polemica tra Obama e la Merkel sulla politica dell’austerità: è Obama che ha detto alla cancelliera che l’Europa deve spendere più nella crescita. È questo il vero ostacolo alla ripresa, non l’articolo 18».

Siamo alla fine della presidenza semestrale italiana dell’Unione Europea. Che bilancio ne fa?
«Devo dire che, anche per ragioni oggettive, le vicende della Commissione, la battaglia sulle nomine, non mi pare abbia lasciato un segno così indelebile nella storia dell’Unione Europea».

29 novembre 2014 | 12:30
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_29/d-alema-renzi-lasci-terza-via-bisogna-riscoprire-stato-dac59766-77b8-11e4-8006-31d326664f16.shtml
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« Risposta #67 inserito:: Agosto 29, 2015, 10:16:22 am »

Massimo D'Alema apre lo scontro d'autunno con Renzi: "Non si sputa sul passato per far finta di essere grandi"

Andrea Carugati, L'Huffington Post
Pubblicato: 27/08/2015 21:28 CEST Aggiornato: 27/08/2015 21:30 CEST

“Non dico che bisogna sempre ispirarsi al passato ma nemmeno sputarci sopra per far finta di essere grandi”. Arriva quasi al Novantesimo minuto, ma non per questo l’affondo di Massimo D’Alema contro Matteo Renzi è meno pesante. Come a Bologna nel 2014, è lui, l’ex leader maximo, ad aprire le danze alla festa nazionale dell’Unità sparando a zero contro il rottamatore a palazzo Chigi.

D’Alema prova a stare nel merito del tema dell’incontro sul socialismo europeo e la minaccia del populismo (ospiti anche paolo Gentiloni e David Sassoli), e a suo dire ci sta, perché l’accusa ai governi progressisti “che fanno a gara a tenersi buona la Merkel per avere qualche margine di flessibilità dalla Commissione” non riguarda solo l‘Italia. Ma per togliere ogni spazio ai dubbi precisa che “il governo italiano è attivo in questa competizione”, in questa “subalternità ai conservatori tedeschi”. Poi, per essere ancora più chiaro, aggiunge che “quei margini di flessibilità magari servono per tagliare un po’ le tasse”. E a Paolo Gentiloni che aveva lodato la battaglia di Renzi e Padoan in Ue per la crescita, replica durissimo: “Non ho visto il Pd con in mano la spada della crescita, e neppure un protagonismo dentro il Pse. Al recente congresso non sono stati inviati neppure i 50 delegati che spettavano all’Italia. Sono arrivati da Roma due simpatici signori che hanno votato 50 schede contro il candidato migliore, Baron Crespo, e hanno contribuito ad affondarlo”.

A pochi giorni dalla battaglia in Senato sulla riforma costituzionale, il clima dentro il Pd torna subito rovente. A D’Alema replica a strettissimo giro il braccio destro di Renzi Luca Lotti, con toni durissimi: "Reduce da felici circumnavigazioni estive, l'onorevole Presidente D'Alema sostiene che il Pd abbia perso 2 milioni di voti. Come noto, invece, il Pd nelle ultime elezioni nazionali ha preso nel 2013 il 25.2% con la guida di Pierluigi Bersani e nel 2014 il 40.8% con la guida di Matteo Renzi, con buona pace dell’on D’Alema, diciamo". "Le prossime elezioni nazionali - sottolinea Lotti - si terranno nel 2018. Se il Presidente D'Alema ritiene di poter fare meglio di Renzi avrà la possibilità di candidarsi nel congresso del 2017. Lo attendiamo impazienti per un confronto con gli iscritti e con i partecipanti alle primarie", prosegue il Sottosegretario.

A dare il “la” alla tirata dalemiana è stata una frase del ministro degli Esteri Gentiloni, che aveva riconosciuto alcuni risultati dell’Italia ai tempi del vecchio centrosinistra. D’Alema non si trattiene: “Mi fa piacere apprendere da Paolo che gli ultimi 20 anni non sono stati un annullarsi reciproco tra berlusconismo e antiberlusconismo. Ma che l’Ulivo è ancora un riferimento. Bisognerebbe trovare una via di mezzo, fare come diceva Croce, distinguere nel passato ciò che è vivo da ciò che è morto. Si scoprirebbe che del nostro vituperato centrosinistra ci sono alcune cose che si potrebbero utilmente riscoprire come riferimento…”. D’Alema cita la missione di pace in Libano (2006), quelle in Albania e Kosovo (“ma potrei citare molti altri successi”), anche come esempio per parlare delle emergenze di oggi sull’immigrazione “gestite dall’Europa senza umanità ma soprattutto senza razionalità, e così alimentando l’allarme sociale”.

Il tema internazionale, la critica alle forze di sinistra che “non sono in grado di uscire dal paradigma dell’austerità tedesca, favorendo il populismo”, finisce per tornare sempre sull’Italia. A Gentiloni che aveva parlato del Pd come “unica forza del Pse avanti nei sondaggi”, l’ex leader replica: “Dal 40% delle europee nei sondaggi ora siamo al 30%, abbiamo perso per strada oltre due milioni di voti. Ci sarà una ragione?”. Poi descrive il bivio di fronte a cui si troveranno le forze di sinistra in Europa: “O allearsi con i conservatori per fare diga al populismo, e difendere lo status quo, oppure ricostruire un nuovo centrosinistra, come sta cercando di fare il Psoe alleandosi in alcune grandi città con Podemos. In Grecia i socialisti, alleati dei conservatori, sono finiti al 5% e dunque hanno risolto il problema. Il Pd che farà davanti a questo bivio?”. La risposta è aperta. “Una possibilità è l’alleanza con Alfano, Casini, Cicchitto e Verdini. Non è un paradosso, è l’attuale maggioranza di governo”, dice D’Alema sornione. “Ma quello con i conservatori rischia di essere un abbraccio mortale”. Applausi dalla platea. “L’altra possibilità è ricostruire un centrosinistra, cercando di assorbire come in Spagna anche le spinte più radicali”. Da “studioso”, come D’Alema si definisce per tutto l’incontro alla festa di Milano, “voglio capire dover andrà il Pd”.

Tocca a Gentiloni replicare, quasi un braccio di ferro tra due idee di Pd che appaiono molto distanti. “Io dico che c’è anche una terza strada, e cioè sono d’accordo a ricostruire un centrosinistra per provare a vincere, e la nuova legge elettorale ci favorisce in questa direzione”. “Se saremo costretti a fare le larghe intese”, sottolinea perfidamente il ministro, “sarà perché come nel 2013 non saremo riusciti a vincere”. Il riferimento è al Pd di Bersani, a quel 25% che i renziani da tempo imputano alla vecchia ditta”. Gentiloni batte e ribatte contro la sinistra “della nostalgia”, quella “che preferisce essere pura nei principi dalla postazione comoda dell’opposizione”, come “rischia di fare il Labour”. “A me va bene un nuovo centrosinistra che ambisca a prendere la maggioranza tra gli italiani”.

I toni non salgono mai, il confronto è civile, e sui temi dell’immigrazione e dell’impegno dell’Italia nel Mediterraneo e sui fronti della Libia e della Siria si colgono molti punti di affinità tra il titolare della Farnesina e il suo predecessore. Come ad esempio il cauto ottimismo per le recenti iniziative della Germania, ma anche dell’Austria, sul tema dei profughi. D’Alema riconosce all’Italia il ruolo di “eccezione positiva” sul fronte europeo dei migranti, e chiede una “coraggiosa riforma della Bossi-Fini, una legge criminogena che penalizza gli immigrati migliori e favorisce la clandestinità”. Su questo punto il ministro lascia aperto uno spiraglio. E si mostra pronto ad ascoltare i consigli di “Massimo” che “ha saputo esercitare la sua leadership da tutte le postazioni”. Ma se Gentiloni punta su sensibilità e umanità verso gli immigrati come “elemento distintivo per una forza di sinistra come il Pd, insieme ai diritti civili e alla battaglia per la crescita”, e spiega che il Pd “deve farsi promotore per attivare canali legali per una immigrazione europea, con delle quote legate al fabbisogno dei Paesi Ue”, D’Alema non è d’accordo: “Il vero grande problema dei socialisti europei è la mancanza di un progetto alternativo di sviluppo. Un progetto che sappia creare crescita, occupazione e redistribuzione del reddito”.

“Il populismo”, spiega l’ex premier, ” guadagna terreno non solo per la paura degli immigrati, ma per questo cocktail che ha al centro la crisi, il disagio sociale e le risposte che non arrivano. In Europa continua a dominare il mainstream neoliberista, gli investimenti promessi da Juncker sono solo parole, per questo la crescita è allo zero virgola, e non solo in Italia”. “Si continuano a fare politiche per ridurre i diritti del lavoro e diminuire le tasse ai più ricchi”, attacca D’Alema, con un altro chiaro riferimento a Renzi: “Questa è una filosofia conservatrice, subalterna alla Merkel, a un’idea che sacrifica la crescita alla stabilità finanziaria. Poi ci si può anche dire di sinistra ma, come dicono in Francia, è una “sinistra soi disant…”. Il dibattito finisce, strette di mano, poi D’Alema si concede un giro tra gli stand. Ma ha detto davvero che Renzi sputa nel piatto del centrosinistra?, gli chiedono. Lui sorride beffardo e muove il dito: “No, no, siete voi che avete capito male…”. Anche quest’anno, nella festa più renziana di sempre, dal titolo “C’è chi dice sì”, tutta dedicata a celebrare le azioni del governo, l’uomo coi baffi ha detto il suo no. “Da studioso”, naturalmente.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/08/27/massimo-dalema_n_8050730.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #68 inserito:: Settembre 01, 2015, 04:39:45 pm »

Caro D’Alema, sei stato superficiale. Quando darai una mano?
Un’analisi politica seria dimostra che il Pd con Renzi ha guadagnato voti, mentre li ha persi con Bersani. Il congresso sarà nel 2017, fino ad allora lavoriamo insieme per le riforme

Caro Massimo,
da “studioso”, come ti sei più volte definito nel corso del dibattito di ieri alla Festa de l’Unità di Milano, mi sorprende che tu abbia ceduto alla tentazione di una analisi così sbrigativa e superficiale della situazione del Pd. Non solo. Perché dire che il Pd ha perso 2 milioni di voti è semplicemente sbagliato. Due milioni rispetto a cosa? A quando? Quale sarebbe il tuo termine di paragone?

Da “studioso” non ti dovrebbe sfuggire che una analisi politica deve muovere avendo come parametro di fondo qualcosa di comparabile. Elezioni di carattere nazionale con elezioni di carattere nazionale, ad esempio. E allora, certo che da “studioso” apprezzerai questa mia riflessione, mi permetto di evidenziare a te e ai tanti votanti, simpatizzanti e iscritti del nostro partito, come si sono evoluti i numeri elettorali del Pd negli ultimi anni.
Alle elezioni politiche del 2013, il Pd ha preso poco meno di 8 milioni e 650mila voti (il 25,4%), una cifra che come ben sai è stata molto al di sotto delle attese, ha impedito a Bersani di poter governare e ha decretato la nascita di un governo insieme a Berlusconi.

Un anno più tardi, nel 2014, il Pd (che nel frattempo aveva legittimato con un congresso l’elezione a segretario di Matteo Renzi, scelto sia dalla maggioranza degli iscritti sia da quella degli elettori delle primarie) ha preso alle Europee 11 milioni e 172mila voti nonostante alle urne fossero andati 6 milioni e mezzo di persone in meno. La differenza è un semplice calcolo matematico: sono due milioni e mezzo di voti in più. In dodici mesi.

Se poi volessimo essere ancora più pignoli e fare un confronto politiche su politiche, vedremmo che dal 2008 al 2013 il Pd di voti ne ha persi quasi 3 milioni e mezzo. Eppure, in quel periodo, non mi risulta che ti sia posto le stesse domande o abbia avuto la stessa solerzia nel chiedere ripetutamente che gli allora vertici del partito si facessero delle domande (e soprattutto provassero a dare delle risposte).

Chi si è fatto delle domande (e si è dato delle risposte) sono certamente gli iscritti, i militanti e gli elettori del Pd. Che hanno scelto inequivocabilmente nel congresso da quale parte stare. Il congresso, però, non si rinnova ogni settimana o ogni mese. Il prossimo sarà nel 2017. Ognuno, in quella sede, potrà legittimamente presentare la propria idea di partito, la propria proposta, le proprie risposte alle domande che tu giustamente dici sia necessario farsi.

Fino ad allora, però, sarebbe bello se tu, come altri, contribuiste in maniera costruttiva e non distruttiva a portare avanti un cammino di riforme che mai si era visto negli ultimi anni (nemmeno quelli in cui tu hai avuto un ruolo di primo piano all’interno dell’esecutivo e in cui rivendicavi la necessità di quelle stesse riforme che oggi critichi). Che non giudicaste con sdegno chi sta portando avanti un percorso di rinnovamento e di cambiamento come se stesse facendo uno sgarbo a chi lo ha preceduto.

Sono i (tanti) cittadini e i (tanti) elettori che hanno riposto la fiducia in Matteo Renzi e nel Pd che lo chiedono. Quei due milioni e mezzo in più (non in meno) che in un anno hanno deciso di stare dalla nostra parte. E quelli che, spero, continueranno a darci fiducia nel costruire davvero e finalmente una Italia migliore.

Antonio Mazzeo   
@mazzeo77
· 28 agosto 2015

Da - http://www.unita.tv/opinioni/caro-dalema-sei-stato-superficiale-quando-darai-una-mano/
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« Risposta #69 inserito:: Settembre 06, 2016, 04:32:24 pm »

D’Alema apre la campagna per il no al referendum: “Ma non creo un partito”
L’ex premier: «Ci sono milioni di persone che hanno smesso di votare, vogliamo dare loro un’occasione di impegno civile»
05/09/2016

«Non siamo qui per un’iniziativa che vuole dividere il Pd, a noi si sono rivolte molte persone non del Pd perché ci sono milioni di persone che hanno smesso di votare. Alle ultime amministrative, il Pd ha perso più di un milione di voti. C’è un partito senza popolo e un popolo senza partito, al quale non vogliamo dare un partito ma un’occasione d’impegno civile». Così Massimo D’Alema aprendo la sua campagna per il No al referendum. 
 
«Sono un estimatore di Matteo Renzi perché riesce a sostenere tutto: la legge elettorale ora torna tema da Parlamento dopo che lui sull’Italicum mise la fiducia. C’è un doppio regime: se c’è un guaio è materia del Parlamento altrimenti fa il governo» - ha proseguito l’ex premier - «Il tema - sostiene - non è riforma «Sì» o «No» ma buona o cattiva. La Costituzione è stata cambiata 36 volte da dopo la guerra e negli ultimi anni si sono fatte riforme anche discutibili». 
 
Quanto all’Italicum, che secondo D’Alema è parte del problema, «si poteva scegliere fra la manutenzione della legge Calderoli o tornare allo spirito dell’Ulivo... si è scelta la manutenzione sempre che la Consulta se la beva». 
 
L’affondo di D’Alema: “Ammiro Renzi, perchè è capace di dire ogni cosa”

PERCHE’ IL NO 
La riforma costituzionale fatta da Silvio Berlusconi «non è molto diversa da questa per cui è difficile che chi si oppose allora voti ora a favore di una riforma che riprende dei temi in qualche caso peggiorandoli». 
 
L’ex ministro sostiene ragioni di metodo e di merito. «Se la Costituzione viene derubricata a legge ordinaria viene meno la stabilità delle Istituzioni - sostiene D’Alema - che è molto più importante della stabilità di governo. Secondo l’ex premier il mix tra riforma costituzionale e Italicum riduce «la questione democratica al tema della governabilità, ma la democrazia non può essere ridotta a governabilità e non sono le leggi elettorali a garantire la stabilità dei governi». Secondo D’Alema, «la teoria la sera stessa si saprà chi ha vinto è priva di fondamento: se l’Italicum sarà riconosciuto costituzionale basta che 35 deputati cambino opinione e la governabilità è finita». 
 
Massimo D’Alema: “Il Referendum è un pastrocchio che spacca il Paese”
 
GLI SCENARI POST REFERENDUM 
«Si è cercato di spaventare i cittadini con scenari apocalittici poi si è capito che non andava e ora si dice che non cambia niente. È accaduto di tutto. Ma se vince il «No» al referendum ci dovrà essere una radicale revisione della legge elettorale, ma non ci saranno elezioni anticipate». Sostiene ancora D’Alema: «Il governo andrà avanti o se ne formerà un altro, è un problema che non dipende da noi. Le persone devono poter votare liberamente e non è vero che con la vittoria del «No» sarà preclusa una nuova riforma della Costituzione con un intervento limitato su pochi punti e non un volume che è un mostriciattolo confuso, un ginepraio che esporrà a lungaggini e a contenziosi».
 
 Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati

Da - http://www.lastampa.it/2016/09/05/italia/politica/dalema-apre-la-campagna-per-il-no-al-referendum-ma-non-creo-un-partito-2m7L2HSehMBV9bBXrHOF5K/pagina.html
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« Risposta #70 inserito:: Ottobre 15, 2016, 07:46:30 pm »

Referendum, Massimo D'Alema presenta il suo ddl per rompere lo schema del plebiscito.
Ecco cosa c'è dietro.

Pubblicato: 12/10/2016 19:58 CEST Aggiornato: 3 ore fa

Lui, il leader Maximo riesce persino nell’impresa di riunire Gasparri e Fini: “Non ho provato disagio per la presenza di Fini – dice il vicepresidente del Senato – perché per fortuna c’era D’Alema”. A pochi metri di distanza ecco Pippo Civati, uno che qualche anno la nomenklatura comunista (o post) l’avrebbe rottamata o, anche lui, arsa col lanciafiamme: “Io sono d’accordo con la proposta che è stata fatta in questa sede, anche perché coincide con la mia. Parliamoci chiaro: già vedo i siti che ironizzano sulle facce presenti qui. Ma non farei il gioco delle facce in questi termini visto che dall’altro lato ci sono Verdini e Alfano. Ragionerei della proposta politica”.

Ecco: la prima, vera, proposta che non sia solo un no alle riforme di Renzi, ma anche un sì a una riforma alternativa ha i baffi di Massimo D’Alema, pubblico nemico del renzismo. Messa nero su bianco e presentata nel corso di un incontro organizzato dalla Fondazione ItalianiEuropei e Magna Carta di Gaetano Quagliariello, ex ministro per le riforme del governo Letta. Un disegno di legge in tre punti: riduzione del numero dei parlamentari, elezione diretta dei senatori e istituzione di una Commissione di Conciliazione tra Camera e Senato, sul modello americano. Più che di testimonianza, di mossa politica si tratta, perché – spiegano fonti informate – entro una settimana “il ddl raccoglierà un centinaio di firme”.

Parterre trasversale in sala, perché, dice Quagliariello, “quando si parla di Costituzione, la normalità è che collabori chi la pensa diversamente”. Parecchia Forza Italia applaude, da Paolo Romani a Maurizio Gasparri ad Altero Matteoli: “Certo che – dice Lucio Malan – la Bicamerale era la nona sinfonia di Beethoven rispetto alla musica di Renzi”. Lui, dal palco, suona la musica ascoltata in un silenzio quasi religioso: “Chiariamo che non esiste uno schieramento politico del no, mentre esiste un blocco politico del sì, il partito della Nazione, che coincide con parte della maggioranza di governo, coeso, minaccioso, sostenuto anche da poteri forti, e da parte del sistema dell’informazione che lancia insulti che non dovrebbero appartenere al confronto cui siamo chiamati, alimentando un clima di paura e intimidazione da far sentire in colpa chi è per il No come se portasse il paese verso il baratro”.

Massimo Mucchetti, che non ha perso l’immediatezza del giornalista di razza, dà la chiave: “Significa che il 5 dicembre, nel caso vincesse il no, non sarebbe la fine del mondo, ma si apre un confronto in Parlamento su alcuni punti. Lo ha capito il Financial Times, lo capiranno gli italiani. Non finisce il mondo né la legislatura”. Prosegue infatti D’Alema, con tono quasi pedagogico: “Non credo che la vittoria del no possa avere effetti catastrofici, in termini di crisi politica, cosa che non si può dire in caso di vittoria del sì che potrebbe spingere a elezioni anticipate sulla scia del plebiscito. E, in caso di vittoria del no, sarebbe un obbligo la revisione della legge elettorale. Un obbligo, non la concessione di un sovrano, diciamo”.
Si intravede, neanche tanto nascosto, l’abbozzo – attorno ai tre punti “limitati”, “chirurgici”, “che si approvano in sei mesi” – se non il programma di un nuovo governo di scopo, quantomeno la trama di una maggioranza per il 2018. Un disegno per disinnescare il plebiscito. Orfini, allievo che ha rinnegato il maestro, da tempo lo ha spiegato a Renzi: “Per la prima volta da tempo, al netto del rancore, Massimo ha un disegno. Un governo che arrivi al 2018 e cambi la legge elettorale, nel frattempo si fa il congresso… è ovvio che il candidato loro è Letta”. Sia come sia, la notizia è che si appalesa un terzo punto di vista, tra il sì di Renzi e il no di stampo grillino, che in fondo al premier piace. Ed è un “no per le riforme”: “Nello statuto del mio partito – dice D’Alema c’è scritto: mettere fine alla stagione delle riforme fatte a maggioranza. Ecco, difendo i valori fondamentali del mio partito che chi dirige ha dimenticato”.

Interessante il parterre di Forza Italia, dopo che Confalonieri ha detto al Corriere, di fatto, che vota sì. Arriva Maurizio Gasparri, per dirsi pronto al confronto. Poi, con Romani, si allontana proprio per parlare del Biscione, sdraiato sulle ragioni del governo. Lui, dal palco, non rinuncia al gusto della sferzata: “Chi accusa il fronte del No al referendum di tirare la volata a M5s dovrebbe ricordare che è stato il Pd a consegnare la capitale del paese a Grillo con operazioni che resteranno scritte nei manuali della politica, per spiegare come non si fa la politica. Un minimo di riflessione autocritica, prima di rilanciare accuse”. Diciamo. Esce Cirino Pomicino: “Qua se vince il sì debbo andare in clandestinità”.
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« Risposta #71 inserito:: Novembre 08, 2016, 11:09:49 pm »

Un’altra strana coppia del No: Massimo D’Alema e Paolo Flores d’Arcais
Il professionista della politica rimasto senza apparato e il precursore dell’antipolitica che ha trovato un partito.

Massimo D’Alema. Il professionista della politica rimasto senza apparato

A guardarlo adesso, mentre mena fendenti a destra e a sinistra contro avversari che lo accerchiano da ogni lato, costretto a difendersi dall’assalto dei nemici non meno che dalle frecciate degli ultimi compagni di strada, viene da chiedersi chi glielo abbia fatto fare, a Massimo D’Alema. Perché diavolo non se ne sia rimasto seduto sulla riva del fiume, a godersi la sfilata dei commentatori che lo avevano accusato di avere pugnalato alla schiena il leader del centrosinistra, essere andato a Palazzo Chigi senza passare dal voto, avere voluto cambiare la Costituzione con Silvio Berlusconi. Quindici anni di rivincite avrebbe potuto prendersi, restandosene buono buono a osservare tanti feroci detrattori riabilitare una per una tutte le scelte per cui lo avevano crocifisso. Ma forse la verità è che questo è l’unico ruolo che D’Alema, per sé, non ha mai voluto, la sola parte che non ha mai saputo recitare: quella del buono. Nel corso degli anni, non per niente, gli hanno attribuito le fattezze di tutti i supercattivi della storia della letteratura, del cinema e del fumetto: da Ming il Terribile a Saruman il Bianco. Ma sono frecce che mancano il bersaglio, perché D’Alema non ha nulla del freddo calcolatore che trama nell’ombra. E se fosse un personaggio del Signore degli Anelli, non sarebbe Saruman, il mago che tradisce i buoni per vendersi all’oscuro Sire, ma semmai Boromir: il guerriero impavido e arrogante, pronto a tutto pur di riportare il suo popolo – e la sua dinastia con esso – all’antico splendore, e che per questo risulta subito antipatico a lettori e spettatori di tutte le età. Ma nel momento decisivo, quando lo vedranno ergersi, da solo, contro la marea montante dei nemici, non emetteranno un fiato. Anche il pubblico più ostile lo seguirà con il cuore in gola mentre si lancia alla carica contro avversari troppo superiori per numero, il corpo interamente ricoperto dalle loro frecce, ferito a morte ma deciso a portare con sé più nemici di quanti ne abbia mai fatti a pezzi lama d’acciaio o dichiarazione d’agenzia. Il primato della politica, questa è stata sempre la sua bandiera. I partiti come architrave della democrazia, ecco il suo grido di battaglia. La politica come professione e vocazione, di più, come «ramo specialistico delle professioni intellettuali». Pensando a quel parlamento da cui D’Alema è uscito nei giorni in cui vi entrava Alessandro Di Battista, e in cui dopo vent’anni di berlusconismo e leghismo è esploso il fenomeno grillino, non può stupire che il campione di una simile concezione della politica sia stato sopraffatto. Stupisce, semmai, che non sia stato sopraffatto prima. Arrivato alla guida del Pds nell’estate del 1994, con la sinistra al minimo storico, Forza Italia primo partito, il governo Berlusconi appena insediato e la prospettiva di una esclusione dell’Italia dall’unione monetaria considerata quasi scontata, D’Alema rovescia il tavolo in sei mesi. È il famoso «ribaltone». Il segretario del Pds, giocando di sponda con Umberto Bossi, innesca la crisi del governo, appoggia con centristi e Lega un esecutivo guidato da Lamberto Dini che fa la riforma delle pensioni e dopo un anno, nel 1996, porta l’Italia alle elezioni. La Lega corre da sola e contro la destra si presenta la nuova coalizione di centrosinistra, l’Ulivo, guidata da Romano Prodi. È la campagna elettorale che Nanni Moretti racconterà in Aprile, con il regista che davanti al dibattito tra D’Alema e Berlusconi urla al televisore: «D’Alema, di’ qualcosa di sinistra!». In compenso, per la prima volta, la sinistra che viene dal Pci quelle elezioni le vince. Ma la somma dei voti presi da Lega da un lato e centrodestra dall’altro è persino superiore al ’94, come D’Alema non manca di sottolineare subito, con la consueta amabilità. La sua tesi è che la vittoria del centrosinistra non si debba a u n’ondata di adesione popolare, che non c’è stata, ma a una superiore capacità di manovra politica (cioè a lui). Sul piano dei numeri la ricostruzione è inconfutabile. Sul piano della politica, che non si fa con i numeri ma con le persone, il discorso non risulta particolarmente accattivante. Figuriamoci per chi allora, in nome dell’Ulivo, si trova al governo. La guerra non scoppia subito perché l’esecutivo è impegnato a portare l’Italia nell’euro e D’Alema è impegnato a cercare di riformare la Costituzione con Berlusconi. Ma quando nel ’98 l’obiettivo dell’euro è centrato e la Bicamerale fallita, il conflitto deflagra, anche perché nel frattempo Fausto Bertinotti ha tolto la fiducia al governo. Convinto che l’eletto – rato di centrosinistra lo punirà, Prodi vuole tornare al voto. Convinto che l’elettorato di centrosinistra sia una minoranza, e figurarsi senza Rifondazione, D’Alema non vuole saperne. E c’è la guerra del Kosovo alle porte. Il risultato è che alle elezioni non si va e a formare il nuovo governo è D’Alema, che lascia la guida del partito a Walter Veltroni, cioè al più ulivista dei diessini (nel frattempo, infatti, D’Alema ha anche rifondato il postcomunismo, con un’ambiziosa operazione che si può riassumere nel fatto che il Pds perde la P e resta Ds). Tutto il resto, a leggere le ricostruzioni dei protagonisti, è un’infinita serie di complotti e tradimenti che seguono sempre lo stesso schema. In sintesi: 1998, complotto di D’Alema per far cadere Prodi; 2000, complotto di Veltroni e Prodi per far cadere D’Alema; 2007, complotto di Veltroni per far cadere Prodi e D’Alema; 2013, complotto di Renzi e D’Alema per non fare arrivare Bersani a Palazzo Chigi e Prodi al Quirinale. Sintesi che non rende giustizia a nessuno dei protagonisti, finendo per oscurare il merito e i risultati di tante loro battaglie. Fatto sta che la vicenda del centrosinistra è stata raccontata da loro stessi, con raro autolesionismo, proprio così: come un’eterna guerra dei Roses. Non stupisce che dopo quindici anni lo slogan della rottamazione abbia avuto tanto successo. Curioso è semmai che a prendersi la maggior parte delle accuse di intelligenza con il nemico per le sue battaglie contro il radicalismo giustizialista, il complottismo antiberlusconiano, l’antipolitica movimentista, sia stato quello stesso D’Alema che è stato anche la prima vittima dell’ascesa renziana, segnata proprio dall’abbandono dell’antiberlusconismo giustizialista. Mentre l’antico campione del primato della politica, schierandosi con il no al referendum, ha finito per scivolare progressivamente sulle posizioni dei suoi vecchi contestatori. Che lo hanno accolto con l’amicizia e la considerazione di sempre.

Paolo Flores d’Arcais. Il precursore dell’antipolitica che ha trovato un partito

Nella politica italiana, si sa, non mancano dirigenti e intellettuali sempre pronti a cambiare casacca, idea e ideali, al primo cambio di vento: talmente numerosi che non servono esempi. Ma ci sono anche, all’estremo opposto, quelli che non cambiano mai. Quelli come Paolo Flores d’Arcais, il cui primo appello per la formazione di una lista della società civile contro i vecchi apparati della sinistra risale al 1987, e l’ultimo, tale e quale, alle europee del 2014. «Il difficile comincia ora», spiega ad esempio sul Fatto quotidiano del 15 febbraio 2011, all’indomani della grande manifestazione femminista dei comitati «Se non ora quando?», invitando le organizzatrici a non fare «l’errore compiuto dai girotondi, e poi dai viola, e dal movimento degli studenti, e da tutti i movimenti di lotta che hanno mantenuto civile e vivo questo paese nel “quasi ventennio” cupo che abbiamo vissuto». L’errore cioè di delegare «ai soli partiti il momento elettorale». E pensare che a ciascuno dei movimenti citati, nessuno escluso, era arrivato di volta in volta l’argomentato appello di Flores, come l’anno dopo sarebbe arrivato alla Fiom (e certamente arriverà a qualsiasi cosa si muova a sinistra, al di fuori dei partiti di sinistra, finché Flores avrà carta e penna a disposizione). Ma il frutto più maturo della sua visione – che si riassume in una politica non professionale, figlia di una sorta di spontaneismo sociale che si autorganizza e al tempo stesso si autodissolve – arriva qualche mese dopo, quando il filosofo torna a rivolgersi alle incolpevoli organizzatrici di «Se non ora quando?», esortandole a procedere alla svelta, e naturalmente sotto la sua attenta guida, verso la formazione di «liste di cittadini senza partito, che giurino di fare i parlamentari per una sola legislatura». Liste, sia chiaro, che «in più punti saranno in dissonanza tra loro e soprattutto con il Pd e gli altri partiti, di modo che il programma di governo nascerà dai risultati concorrenziali che usciranno dalle urne». Ma questa è forse solo la versione più estrema di un’elaborazione instancabile, frutto di una vita di appelli, piattaforme, infatuazioni improvvise e non meno rapide delusioni. Un passato nel ’68 romano e nell’area della sinistra extraparlamentare, direttore del Centro culturale Mondoperaio nel Psi craxiano (che però, alle sue prime critiche, gli toglierà i fondi), Flores, incredibile a dirsi, aveva cominciato nella Fgci. Da cui però era stato presto espulso per attività frazionista –e questo è meno incredibile, ancorché non bello –a causa della sua militanza trotzkista. Emarginato anche nel Psi, fonda con Giorgio Ruffolo la rivista politico-culturale MicroMega, da allora in poi sua unica collocazione stabile. Illuminante, per studiare l’evoluzione del suo pensiero politico, l’incipit dell’articolo «Per ritrovare le città», uscito su Repubblica il 3 gennaio 1987. A dimostrazione di come in lui categorie, lessico e obiettivi dei successivi venticinque anni fossero già pienamente definiti. «In mano ai professionisti della politica, ai padroni dei partiti, nuova oligarchia dominante e inamovibile –esordiva –la vita quotidiana delle nostre città (quelle grandi, soprattutto) diventa ogni giorno più insostenibile». Dopo «quasi dieci anni di governo delle sinistre» il responso degli elettori era stato una «pressoché generalizzata bocciatura elettorale». Facile indovinare, a partire da questa cruda analisi, la soluzione escogitata da Flores nel 1987: «Il rimedio che qui si intende suggerire… è una rivolta del cittadino che assuma la forma pacifica, ma inequivoca di un uso diretto e autonomo dello strumento elettorale nelle elezioni amministrative, attraverso la costituzione di liste di impegno civile». Il punto di partenza è sempre lo stesso: «Oggi è diffuso un disagio… che riguarda soprattutto uomini e donne tradizionalmente orientati a sinistra…che negli schieramenti della sinistra organizzata, e nella prassi quotidiana dei rispettivi partiti, trovano ormai difficoltà insormontabili a riconoscersi. Chiamiamoli, questi uomini e queste donne, sinistra sommersa». Degli zombie, insomma, si può scommettere che avrebbe chiosato, fosse stato lì in quel momento, Massimo D’Alema. Vale a dire l’uomo politico che più di ogni altro ha rappresentato l’incarnazione di tutto ciò contro cui Flores si è sempre battuto. Persino più di Silvio Berlusconi, di cui pure Flores è stato uno degli oppositori più radicali. Anzi, lo stesso carattere dell’opposizione a Berlusconi è stato forse il discrimine fondamentale, nella stagione dei girotondi,tra radicali e riformisti, fan di Nanni Moretti e sostenitori del primato della politica, floresiani e dalemiani. Non può stupire, pertanto, che dopo una breve stagione da garante della Lista Tsipras –del resto non più breve della durata della lista stessa –Flores abbia finito per ritrovarsi al fianco del Movimento 5 Stelle, forse la cosa più vicina alla sua idea di non-partito della società civile che sia mai stata concretamente realizzata. Con la differenza, in verità, che quando parlava di società civile Flores pensava a candidature del calibro di Umberto Eco e Gianni Vattimo, non ad Alessandro Di Battista. Ma neppure questa è una differenza insuperabile. «A sinistra non ci sono più corpi da rianimare, ha ragione Di Battista», ha scandito in un convegno del 2015, pur intitolato «Europa in debito di sinistra». Un debito che evidentemente Flores ritiene preferibile estinguere, nel senso biologico del termine, se alle ultime amministrative, di fronte alla sfida tra Piero Fassino e Chiara Appendino, non ha esitato a rivolgersi ai torinesi con queste parole: «Fassino costituisce la quintessenza… della degenerazione costante, progressiva, e infine galoppante del Pci… da partito dei lavoratori, degli oppressi, degli emarginati, a coacervo dei più vieti e non sempre confessabili interessi di establishment ». Dire che oggi abbia aderito al fronte del No alla riforma costituzionale sarebbe dunque improprio. Semmai, è il fronte del No ad avere aderito a lui, che contro ogni possibile riforma della Costituzione e accordo con Berlusconi tuona da svariati decenni. Quanto al fatto che al fronte contrario alla riforma voluta da Berlusconi abbia ormai aderito lo stesso Berlusconi, è una contraddizione che un filosofo come Flores non avrà difficoltà a superare dialetticamente. Per quanto riguarda D’Alema, invece, a chi ha provato a stuzzicarlo in proposito, Flores ha risposto con la fermezza di sempre: «Imbarazzato? No, D’Alema si è accodato». Di tutte le accuse che gli ha rivolto in questi anni, per lui, senza dubbio la più infamante.

>>> Guarda le puntate precedenti <<<

Da - http://www.unita.tv/focus/unaltra-strana-coppia-del-no-massimo-dalema-e-paolo-flores-darcais/
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« Risposta #72 inserito:: Novembre 14, 2016, 05:46:12 pm »

13 NOVEMBRE 2016

D'Alema: "Dopo il referendum torno a Bruxelles, so già a chi lasciare il comando"
"I comitati 'Io dico No' stanno recuperando militanza, persone se ne erano andate. Non credo che questa rete si debba sciogliere dopo il referendum. Io tornerò ai miei studi a Bruxelles, ma ho già in mente a chi consegnare le chiavi di questa rete". Così Massimo D'Alema parlando con il vicepresidente della Regione Lazio Smeriglio a Roma durante un'iniziativa di "Alternative". D'Alema però non si è sbottonato sul nome di chi immagina alla guida di questo soggetto che, ha specificato, dovrà agire "nell'ambito del centrosinistra"
(di Marco Billeci)
"Dopo il referendum torno a Bruxelles"
"Il No apre a speranza, il Sì a vittoria M5s"

Da http://video.repubblica.it/dossier/referendum-costituzionale/d-alema-dopo-il-referendum-torno-a-bruxelles-so-gia-a-chi-lasciare-il-comando/259011/259311
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« Risposta #73 inserito:: Novembre 14, 2016, 05:47:36 pm »

Massimo D'Alema: "Al di là del risultato del referendum dopo il voto non mi occuperò più di politica italiana"

L'Huffington Post  |  Di Redazione
Pubblicato: 12/11/2016 18:39 CET Aggiornato: 57 minuti fa

"Comunque vada a finire, che vinca il Si e che vinca il No, quando finisce questa campagna elettorale tornerò pienamente al mio lavoro, quello di presiedere la Fondazione culturale dei Socialisti europei a Bruxelles e quindi non mi occuperei della politica italiana". Lo ha affermato l'ex premier Massimo D'Alema a margine della tre giorni di 'Alternative-associazione a sinistra' a chi gli chiede se lascerà il Pd in caso vinca il Sì. E sul rinnovo della sia tessera spiega: "Credo che sia quinquennale...".

In merito alle polemiche sulla lettera inviata dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, agli italiani all'estero, D'Alema ha detto: "Sulla vicenda degli italiani all'estero credo si debba fare chiarezza perché voglio capire se è vero quello che viene detto da più parti e cioè che il governo ha abusato del suo potere e questo sarebbe molto grave e non bisogna mai dimenticare che la nostra diplomazia non è al servizio del governo ma dello Stato, del Paese".

D'Alema dice la sua anche sulla vicenda dell'assenza della bandiera dell'Unione europea alle spalle del premier Matteo Renzi. "Sono d'accordo con Prodi", ha detto D'Alema, riferendosi alla posizione dell'ex presidente della Commissione europea che ha criticato la scelta di Renzi.

L'ex premier ha riservato anche una stoccata a Jim Messina. "Questo guru al quale pare abbiano dato 400mila euro pare abbia detto, ai primi risultati della Florida, 'è fatta per Hillary'. Certo i soldi possono essere spesi meglio, certe previsioni si possono avere a prezzo migliore", ha detto D'Alema.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/11/12/dalema-politica-referendum_n_12929798.html?1478972460&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #74 inserito:: Dicembre 10, 2016, 11:48:07 pm »

Massimo D'Alema: "Spero che a Matteo Renzi sia passata la voglia di rottamare, il Partito della Nazione è stato battuto"

L'Huffington Post | Di Redazione
Pubblicato: 05/12/2016 01:58 CET Aggiornato: 05/12/2016 09:19 CET

"Era lui che voleva rottamare gli altri. Spero che questa passione sia passata a Renzi". Massimo D'Alema si toglie più di un sassolino dalla scarpa nel commentare l'esito del referendum costituzionale e le dimissioni del premier Matteo Renzi. "Al Pd - ha aggiunto D'Alema - serve una profonda svolta politica. Un certo disegno neocentrista, il Partito della Nazione, è stato battuto insieme alla proposta di riforma costituzionale. Bisogna ricostruire l'unità del partito e recuperare quelli che se ne sono andati, milioni di elettori. Alcuni dei quali sono tornati per votare No".

Nel comitato 'Scelgo No' si respira l'aria di una vittoria "che appartiene a tutti gli italiani", sottolinea D'Alema, che abbraccia Roberto Speranza, altro esponente di spicco della minoranza del Pd e sostenitore del No. Niente voto però per la minoranza dem. "Andare a votare ora - sottolinea D'Alema - sarebbe irresponsabile anche perché la Consulta deve ancora pronunciarsi sull'Italicum. E mi auguro che l'assunzione di responsabilità possa essere la più ampia possibile". Sulla stessa lunghezza d'onda anche Speranza: "Nessuno di noi - afferma - hai mai chiesto le dimissioni a Matteo Renzi. Renzi, sbagliando totalmente il terreno lo ha trasformato in un plebiscito su di sé. Prendiamo atto della sua scelta, massima fiducia nel lavoro che il presidente della Repubblica costruirà nella prossime ore. Il Pd ha 400 parlamentari e non può che essere il perno per garantire la governabilità. Il Pd dovrà sostenere questo sforzo. C’è bisogno di dare una nuova legge elettorale al Paese".

Sul suo futuro, D'Alema è perentorio. "Io riprenderò il mio lavoro a Bruxelles", un lavoro "più culturale ma a ridosso della politica. Quindi sono interessato al futuro del Pd ma se mi si chiede se voglio 'incrociare le lame', se questo significa competere per incarichi, non competo per alcun incarico. Lo farà una generazione nuova. Sulla politica esprimerò le mie opinioni, questo non me lo può impedire nessuno".

Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/12/05/dalema-renzi-rottamare_n_13420234.html
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