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Autore Discussione: NATALIA ASPESI.  (Letto 22898 volte)
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« inserito:: Settembre 22, 2007, 10:24:33 pm »

SPETTACOLI & CULTURA

Esilarante puntata di "Porta a porta" fra sessuologhe e showgirl

Gli ospiti in studio a dibattere sullo spinoso argomento

Se l'orgasmo femminile entra nel salotto di Vespa

di NATALIA ASPESI

 
QUANDO non si sa dove sbattere la testa, né di cosa parlare, e un settimanale femminile ha bisogno di attenzione, e un conduttore televisivo deve evitare almeno una volta i tizzoni della politica quel giorno particolarmente incandescenti, c'è un argomento classico per andare sul sicuro: l'orgasmo femminile! Evento volatile, problema insolubile, mistero insondabile, simulazione inevitabile. E attorno a cui si può chiacchierare per secoli, senza arrivare ad alcuna soluzione neppure da parte di eminenti sessuologi, che da Kinsey in poi, intervistando ma anche molestando e pasticciando gentili cavie umane, sono arrivati a questa dotta conclusione scientifica e realistica: ci sono signore che sì e signore che no; o meglio, ci sono signore che si con uno e no con l'altro; oppure, una volta si e cento no, o una volta no e cento si, con lo stesso; o ancora, ma qui sondaggi, conduttori e sessuologi sono più cauti, per non dire muti, quasi sempre sì signora con signora, addirittura sempre sì signora con se stessa.

L'altra sera a "Porta a Porta" Bruno Vespa cinguettava zuccheroso e disinvolto dell'impervio argomento, con quattro sapienti e bellissime orgasmiche, la timida Flavia Vento, showgirl, la bellicosa Alessandra Mussolini, deputato, la pacificante Alba Parietti, conduttrice, la colta Daniela Melchiorre, sottosegretario alla giustizia: cui poi si sono aggiunti la direttrice di Grazia Vera Montanari, responsabile del sondaggio clitovaginale, il docente di sessuologia medica Emanuele Jannini, e Manuel Casella, un giovanotto che non deve aver difficoltà a compiacere le sue signore dato il fisico e il garbo, le cui credenziali scientifiche sono l'aver partecipato all'Isola dei Famosi e il cui master di fascino è l'essere il compagno di Amanda Lear.

Soverchiandosi con le spinose ma disinibite chiacchiere, le quattro esperte del ramo si sono appellate con generici commenti (e nessun riferimento alla loro probabilmente ricca casistica), al poderoso sondaggio cui ben 15.394 donne si sono affannate a rispondere spiattellando i pro e i contro della loro intimità, forse, come ha fatto osservare cautamente il sessuologo, indorando, come si dice, la pillola.

Inutilmente il conduttore tentava di estrarre dal fracasso oratorio di gelido carattere meccanico e perciò erotico come un disegno dell'apparato genitale sui testi di ostetricia, qualche simpatica porcheria o gossip; per non parlare del gentile Casella, cui non è riuscito di spiaccicare parola, mentre tentava di spiegare che in Oriente, il piacere non è solo in quella cosa là ma in ogni gesto... Figuriamoci le signore, pronte a reclamare quanto loro dovuto, pur riconoscendo sia la precaria disponibilità genitale femminile, che l'inettitudine, in generale, del maschio incaricato della bisogna.

Si è persino rispolverato il famoso Punto G, propagandato da scienziati pazzi degli anni '80, che non essendo mai stato trovato neppure da esploratori tipo Livingstone, è rimasto il massimo cruccio per le signore che se ne immaginavano prive, mentre gli addetti all'impossibile ricognizione se la davano a gambe, stanchi di immeritate figuracce.

Le cifre dei sondaggi si sa sono ballerine, le donne poi, per quieto vivere, simpaticamente mentitrici, tant'è che ben il 44% ha detto di non aver mai simulato l'orgasmo (Parietti educatamente spernacchia), mentre, mitomani, il 74% assicura di essere brava a letto, ma non si specifica in quale, ricevendo la posta del cuore molte lettere di mariti che si lamentano dell'abitudine alla paralisi notturna delle loro signore. O viceversa, peraltro. Vento, angelica: "A me piace se c'è amore". Melchiorre, pratica: "Il 36% lo fa due o tre volte la settimana, ma forse agli inizi, poi dopo una giornata di lavoro..." Mussolini, mussoliniana: "La simulazione è cosa gravissima, l'uomo va educato!" Parietti, saggia: "Ma l'uomo è narcisista, devi farlo sentire appagato, se no si avvilisce".

Come sempre da Vespa o negli altri salottini televisivi abitati da altri famelici conduttori, si parla si parla e non si conclude niente. Del resto su quell'argomento lì, c'è poco da concludere. Verrebbe da dire, vale più la pratica della grammatica, se non fosse che con la grammatica ancora oggi uomini e donne sono spesso dei veri somari, mentre per la pratica, non se ne esce, misteriosamente, e si sa già che il prossimo sondaggio anche fra cent'anni, indicherà gli stessi risultati orgasmici.

(22 settembre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 08, 2008, 06:11:17 pm »

SPETTACOLI & CULTURA

Da venerdì in sala "Riprendimi" di Anna Negri il film prodotto da Francesca Neri

Generazione 30, amore e sesso dalla parte delle ragazze

Quando lui se ne va per "ripensare a se stesso" frase che molte donne hanno ascoltato...

di NATALIA ASPESI

 

MOLTE trentenni si specchieranno in questa storia da cui forse sono passate o che temono le aspetti: giovane coppia con piccino apparentemente felice si sfascia all'improvviso perché lui ha bisogno di "ripensare a se stesso". Frase antichissima, che milioni di donne nel passato hanno dovuto ascoltare, stupefatte, da un uomo in fuga verso libertà, disimpegno e sua felicità (rappresentata da eventuale altra donna).

Ma Riprendimi (che esce venerdì nelle sale) è una storia di oggi perché i trentenni che rappresenta sono labili e fragili, impazienti e soli, senza radici e costretti a non crescere da quella precarietà del lavoro che consente di vivere, inquieti, solo il presente: troppe le aspettative inculcate da pubblicità e fiction, così spesso la coppia subito si disincanta, non regge, perché mai come adesso i sogni di lei, i desideri di lui, sotto il peso della realtà, divergono, prendono altre strade.

Come capita nel film a Lucia (Alba Rohrwacher) e Giovanni (Marco Foschi), giovani sposi con un figlio piccolo e la felicità già franata via, senza che lei se ne sia accorta. Da innamorata Lucia pretende uguale amore e uguali carinerie da Giovanni, che invece si è disamorato perché non era quella, domestica, familiare, modesta, la vita che le sue ambizioni pretendevano. E perché spesso i figli, oggi, con le loro necessità inderogabili, completano la famiglia ma desertificano il letto.

Lui è un attore, precario, di fiction televisive, che sognava quella celebrità che forse non avrà mai; anche lei, che lavora come montatrice, è precaria, ma si sa, per le donne, per le mamme, il lavoro non deve essere così importante. Sarà quindi soprattutto lei a doversi arrangiare tra lavoro e figlio, con il cuore pieno di rabbia per l'abbandono che le appare ingiusto e le amiche con cui confidarsi, anche loro pasticcione in amore.

Il film è un'opera soprattutto femminile, prodotto da Francesca Neri, a cui hanno lavorato molte donne, dalla regista Anna Negri, figlia di Toni Negri, che è autrice del soggetto in parte autobiografico, e cosceneggiatrice con Giovanna Mori, alle responsabili del casting, del montaggio, del suono, del costumi. Girato in digitale, ha avuto pure un budget femminile, cioè molto basso, 700 mila euro. Il titolo del film, Riprendimi, segnala il consenso, anzi il bisogno contemporaneo di diventare immagine e documento, di vedere la propria storia filmata da altri perché diventi fiction, quindi realtà, di tanti ragazzi di oggi, anche se per età Giovanni e Lucia non appartengono più alla YouTube Generation.

Così i due sfigati documentaristi, Eros (Alessandro Averone) e Giorgio (Stefano Fresi), dal documentario sociale e politico sul precariato nel mondo dello spettacolo che volevano girare, si ritrovano a filmare melodramma e sentimento nella crisi di una coppia, a cui si appassionano, diventando i testimoni della fuga di Giovanni e del suo nuovo innamoramento per un'altra bella precaria, l'otorinolaringoiatra Michela (Valentina Lodovini), del dolore e della solitudine di Lucia e dei suoi tentativi di riprendersi il marito e il padre di suo figlio.

È questa smania giovane di farsi immagine a rendere plausibile che Giovanni e Michela si lascino riprendere mentre fanno l'amore, s'immagina scomodamente soprattutto per lei, distesi sui gradini di casa, o che Lucia consenta al documentarista Giorgio di filmarla in camera da letto mentre si addormenta.

Non si sa se è esaltante, oppure scoraggiante, che un film ci ricordi come l'amore, o meglio un uomo, quell'uomo, sia assolutamente centrale per la vita delle donne (c'è pure un suicidio d'amore, episodio non indispensabile). Mentre per un uomo l'innamoramento è soprattutto sesso, e nel momento stesso in cui l'amore comporta responsabilità, un figlio, sopravviene a gelarlo la paura. Il fatto è che la storia, il film, l'ha scritta, l'ha girata una donna. Dalla parte di lei, ovviamente, oggi generalmente sperduta ma anche, e non si trova altra espressione pertinente, molto incazzata.

(8 aprile 2008)

da repubblica.it
« Ultima modifica: Luglio 16, 2008, 10:09:57 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 28, 2008, 05:41:22 pm »

POLITICA

Antonella, Evelina, Elena, Eleonora, Camilla: storia di seduzione e intercettazioni

Tra una telefonata e una raccomandazione inseguendo l'agognata facile celebrità

Le favorite ai tempi del Cavaliere

Le richieste per entrare in paradiso

di NATALIA ASPESI

 

IL POTERE delle donne è sempre passato attraverso quello degli uomini, che ne sono tuttora i veri e soli detentori. Le favorite dei re, le 'grandes horizontales' fine '800, le cinedive di Hollywood che per essere tali dovevano attardarsi sul classico sofà dei produttori, sapevano che la sola forza femminile rispetto alla sola debolezza maschile era quella del sesso: o comunque non c'erano strade diverse dell'autorevole appoggio, dalla condiscendenza, protezione, attenzione, interessamento, intervento di un uomo importante per diventare loro stesse importanti.

Nel tempo le richieste di favori si sono banalizzate: dal titolo nobiliare e dal diritto di mettere il naso negli affari di stato, a gioielli, carrozze e ville, da un ferreo contratto da star per grandi film con registi celebri a, adesso, una comparsata nel luogo più buio della televisione italiana, la fiction casereccia, l'ultimo angoscioso paradiso dell'agognata facile celebrità.

Dalle intercettazioni delle telefonate negli ultimi mesi del 2007 tra i protagonisti di questa storia umiliante, appare per prima cosa stupefacente che sia stato così facile, in questo caso per non poche giovani donne, mettersi direttamente in contatto con un uomo di massimo potere politico e mediatico, in quel periodo non a capo del governo ma che comunque si poteva immaginare superindaffarato sia col business che con gli avvocati che con la potente macchina per vincere le vicine elezioni (che comprendeva anche un gran lavoro per l'ingaggio di alcuni esponenti avversari).

Antonella, Evelina, Elena, Eleonora, Camilla e certamente altre, sapevano di avere tutto il diritto di abusare della sua generosità e di intasargli i cellulari tempestandolo di telefonate ad ogni ora del giorno e della notte, di pretendere favori e raccomandazioni, di comportarsi da 'pazza pericolosa' o da 'frustrata assoluta', di spaventarlo con le minacce, di obbligarlo a chiedere per loro, a suoi dipendenti o a persone ansiose di compiacerlo, particine nel mare di fiction che intasano la televisione; non solo in quelle Mediaset di cui Berlusconi è direttamente padrone, ma anche in quelle della cosiddetta concorrenza, attraverso i premurosi servigi del povero Agostino Saccà, allora direttore di Rai Fiction.

Ognuna di queste questuanti, come tante altre raccomandate da centinaia di altri potenti, non avevano, non hanno, almeno per ora, delle carriere folgoranti. Elena ha un suo sito ufficiale bilingue in cui racconta di essere venuta a Roma da Napoli nel 1993 e di aver partecipato al film 'Baciami Piccinà di Ciampanelli, Camilla ha un blog e ha iniziato come tronista a 'Uomini e donne', Evelina è apparsa un secondo in 'Alessandro Magnò di Oliver Stone, su una copertina di Panorama e in un 'Padre Piò televisivo; Antonella non ha lasciato grandi tracce in 'Casomaì di D'Alatri, né alcun dizionario del cinema segnala 'Balcancan' del macedone Mitrevski in cui ha iniziato la sua carriera: finalmente Saccà ottiene qualcosa e per lei si inventa un apposita particina nella superfiction Rai 'Capri'.

Ma non sempre Agostino ce la fa: per quanto potente sia lui e soprattutto chi gli chiede questi modesti favori, capita che i provini delle ragazze pur raccomandate si dimostrino un tale sfacelo che registi e produttori eroicamente si ribellino all'imposizione. E tuttavia si capisce perché spesso una parte della nostra fiction pur amata dal pubblico, sia così desolata.

C'è questa folla sempre più inquieta di ragazze che sarebbero belle se non fossero tutte uguali, con le stesse pettinature e le stesse boccone e gli stessi reggipetti e lo stesso sorriso privo di seduzione; per uscire dalla palude dell'intercambialità non viene loro in mente magari di studiare, la via più facile è sempre quella, l'aiutino del potente, forse con uno scambio di cortesie. Tanto capita che nessuno chieda a queste 'attrici' non si dice di saper recitare, ma neppure di essere in grado di scandire l'italiano e di esprimere anche a caso una qualsiasi emozione.

(28 giugno 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 30, 2008, 10:45:14 pm »

SPETTACOLI & CULTURA     

L'attrice è a Londra sul set di "Nine", tratto da Fellini insieme a Marion Cotillard, Penélope Cruz e Nicole Kidman

Il ritorno di Sophia Loren gli scatti segreti dell'ultima diva

di NATALIA ASPESI

 
E' A LONDRA a lavorare, e lavorare per lei vuole dire essere se stessa: liberarsi recitando dalla eterna, piccola, indimenticata Scicolone, per essere la Loren; Sofia, anzi Sophia, la grande attrice, la diva internazionale, la donna segreta, la madre orgogliosa di due figli di successo, lontani, Carlo jr. ed Edoardo, la nonna dei piccoli Vittorio, un anno, e Lucia, poco più di due. Sul set di Nine, il film tratto dal musical ispirato a Otto e mezzo di Federico Fellini, andato in scena con grande successo nel 1982, sta vivendo "un'esperienza bellissima, il cinema è fatto così, ti ritrovi ad ogni film in una nuova famiglia, e questa mi pare particolarmente armoniosa. Il regista Rob Marshall è adorabile e poi per noi italiani partecipare a un musical è un'esperienza nuova, coinvolgente. La cosa bella è che canto, tra l'altro una canzone che mi piace molto, intitolata Guarda la luna".

Il regista in crisi creativa, che nel capolavoro di Fellini era Marcello Mastroianni, qui è Daniel Day-Lewis, fascinoso attore appena uscito dal ruolo aspro e desolato de Il petroliere. Sophia è la mamma dei suoi ricordi adolescenti, la donna bellissima e insostituibile evocata con nostalgia e di cui nessun altra è all'altezza: la moglie, l'amante, la musa, l'attrice preferita, l'avventura, le donne che circondano il personaggio Guido Contini, giovani e meno giovani, belle e meno belle, non riescono a cancellare quella figura incombente, quell'ombra di materna, ineguagliata femminilità.

Ma anche nella realtà, Marion Cotillard, Oscar alla miglior attrice per La vie en rose, e Penélope Cruz, e Nicole Kidman, interpreti del film e tutte e tre all'apice di una carriera fortunata, brave, giovani e molto belle, non eguagliano Sophia; non sono, non saranno mai un mito senza tramonto come da sempre è lei, che ha attraversato la vita in assoluta discrezione, immutabile e intangibile, star riconosciuta in tutto il mondo, quasi sessant'anni di cinema, una settantina di film, eppure persona sconosciuta, donna senza segreti da nascondere, eppure del tutto segreta.

"La parola "azione" mi libera, ridivento naturale, le mie inibizioni svaniscono, dimentico tutto", ha detto una volta Sophia. E questa è una delle sue frasi riportate nel libro fotografico Sophia Loren, Immagini di una vita, pubblicato da Tea: una vita raccontata dall'obbiettivo, quindi esteriore, che non intacca il suo geloso ritegno, la difesa dei suoi sentimenti, il suo mistero, che nessuna intervista, nessuna biografia è riuscita a rivelare.

Eppure Sophia è continuamente alla ribalta: solo due anni fa, nell'aprile 2006, una grande mostra a Roma al Vittoriano, Scicolone, Lazzaro, Loren, l'ha celebrata con la sua entusiasta collaborazione. Ricorda: "Per tre mesi ho frugato in tutta la casa, navigando in un fiume di ricordi, belli e brutti, e ho raccolto di tutto, vestiti, fotografie, copertine di giornali, premi. Che vita ho vissuto, una vita pienamente realizzata, ho avuto tutto".

Alla festa veltroniana del cinema, sempre a Roma, nell'ottobre 2007, ha ricevuto uno dei tanti premi tributati alla sua carriera, e mentre risaliva sola il grande tappeto rosso, dietro le transenne c'era una grande folla entusiasta ad applaudirla, a chiederle l'autografo, oggi come sempre, ai tempi della Ciociara e degli Oscar, della nascita dei suoi figli e di Una giornata particolare, della prigione di Caserta e dei trionfi a Hollywood, del calendario Pirelli nel 2007 e di oggi, ovunque vada e lavori.

La storia della sua vita, della sua carriera, dei suoi film, della sua bellezza, continua a incuriosire, e infatti escono adesso, contemporaneamente, due libri: uno di Rizzoli con le belle foto di Tazio Secchiaroli, tra cui quelle più rare, di lei col marito Carlo e i loro due bambini piccoli, immagini di intima felicità domestica, o quelle dei principeschi interni di dimore eccessive, da diva internazionale, che ha lasciato da tempo per il quieto, elegante appartamento di Ginevra.

L'altro volume è quello di Tea, che seleziona nei milioni di fotografie della star, quelle più significative per il curatore Yann-Brice Dherbier, che di lei scrive: "Anche all'apice della sua carriera non si è mai sentita intoccabile, forse a causa della sua educazione, certo per l'impronta del passato, è rimasta vigile, consapevole che tutto sarebbe potuto crollare da un momento all'altro: uno stato d'animo che spiega l'energia e la tenacia che hanno animato ogni tappa della sua vita". Dice Sophia: "Il libro mi è piaciuto, ci sono persino fotografie che non ricordavo. Però nessuno mi ha avvertito che stavano facendo questo libro, nessuno mi ha interpellato, non è la prima volta che mi trattano come un fagotto, ma pazienza, il risultato è buono".
A Londra lavora quattro giorni alla settimana, poi subito torna a Ginevra, in quella casa che per lei è come un fortino che quasi nessuno può espugnare, in mezzo alle sue foto, alle centinaia di premi, e ai quadri d'autore. E in quel vuoto, in quel silenzio che occupa ogni stanza da quando Carlo Ponti, suo marito, si è spento nel gennaio del 2007 e dove lei invece lo ritrova nei ricordi solo suoi, nei pensieri che nessuno conosce: un matrimonio durato più di quarant'anni, una fedeltà coniugale che nessuno dei tanti celebri innamorati né l'informazione più curiosa sono mai riusciti a scalfire.

Per Natale arriveranno tutti, i figli, le nuore, i nipotini. Dice nonna Sophia: "È bello che la vita continui, sapere che una parte di te non si spegnerà mai. E poi, con i nipoti mi diverto molto, fare la nonna forse è ancora più appagante che essere madre perché senti meno il peso delle responsabilità". Il tempo cancella ciò che è effimero, la fama, il successo, la bellezza dei divi, ma non tocca Sophia. Come ha detto una volta Gianfranco Ferrè, quando come direttore creativo di Dior l'aveva vestita sontuosamente, esageratamente, per il film Prêt-à-porter di Altman: "Lei è l'ultima grande diva; non è amata perché è bella, ma perché è vera".

(30 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 13, 2009, 10:28:18 am »

Veronica e le donne al tempo del Cavaliere

di NATALIA ASPESI


Lui un buon uomo addolorato, un marito ferito, un padre che, pur oberato dai suoi impegni internazionali, passa le serate col figlio e spera solo in una riconciliazione, in nome dell'amore e della famiglia: lei una povera donna che è caduta in una trappola mediatica, una moglie che si è fatta plagiare, una persona fragile, incapace di autonomia, forse addirittura disturbata, per non dire matta.

La vera trappola mediatica è invece la "rotocalchizzazione", quella che il potente sbarramento di quotidiani, settimanali, mensili, televisioni, siti al servizio del premier, ogni giorno si spalanca su Veronica Lario, per macchiarla, denigrarla, distruggerla. Per fare di lei non una moglie che non sopportando più le umiliazioni e le stranezze del marito, chiede come è suo diritto la separazione, ma una creatura suggestionabile, instabile, irragionevole, soggetta a incubi, forse addirittura pericolosa a sé e agli altri. É come se all'impero della comunicazione di cui il premier è padrone, fosse stato ordinato non tanto di far rilucere le sante ragioni di un marito sofferente per le folli accuse di una moglie, contemporaneamente sottolineando la sventatezza e i torti di lei: ma piuttosto di rendere questa moglie da subito inaffidabile, incapace di intendere e volere, nel caso decidesse prima o poi di dire la sua: perché nessuno conosce, oltre alle virtù di un marito, i suoi segreti, gli errori, le debolezze, i peccati, gli abissi, più di una compagna di trent'anni di vita.

Ma la signora Lario tace, non reagisce a nessuna provocazione, ha scelto, con grande intelligenza e fermezza, il silenzio, l'ombra, l'invisibilità. E nella volgare ragnatela di pettegolezzi, pareri, offese, diagnosi, barzellette, sondaggi, supposizioni, invettive, sghignazzi, ragazzette e ministre e vecchie foto, che stanno macchiando la sempre più servizievole e provinciale informazione italiana, quel silenzio, quell'ombra, quell'invisibilità, mettono a disagio i lanzichenecchi dell'insulto, li fanno sentire impotenti, nell'incapacità di creare un vero e proprio scontro che consenta loro aggressioni sempre più violente e infamanti.

Il silenzio, per ora, è la lama più affilata che la signora Lario, una moglie come tante, come tante offesa, che ha con sé solo il potere delle sue ragioni e della sua ragione, può opporre non a un marito come tanti, ma a un premier che si crede invincibile e immortale, ricchissimo e certo che tutto sia in vendita, che ha con sé un governo che mai dissente, una maggioranza parlamentare ubbidiente, una moltitudine di avvocati sapienti, una folla di cortigiani disposti a tutto, un muro compatto di giornali e televisioni di massimo cinismo, una parte rilevante degli italiani, uomini e donne, intrappolati da una specie di incantamento che nulla scalfisce. Forse le ultime avventure familiari ed extrafamiliari? Dipende: un sondaggio Swg dice che il 67% degli italiani si schiera con Veronica, mentre dai focus group di parte risulta che stanno con Silvio l'85% delle donne italiane.

Delle donne, italiane! Di sicuro una balla, o una macroesagerazione, ma è vero che le ultime vicende personali di cui è stato protagonista il presidente del consiglio, hanno esasperato una nuova mutazione, un ripiegamento, una perdita di equilibrio del costume italiano, segnando la fine del politicamente corretto di genere, del rispetto verso le donne; di quelle fantomatiche pari opportunità che dopo aver prodotto una deliziosa ministra carica di sue invidiabili opportunità e quindi antifemminista, servono solo a privilegiare ragazze giovani e carine, di cui si decantano le lauree plurime, come se bastassero a sostituire esperienza, passione, sacrificio, competenza.

Le donne sono tornate a essere il bersaglio del maschilismo più fascistoide, con giornali che delle signore che danno fastidio pubblicano subito foto discinte e rastrellamento di ex amanti, perché la donna torna ad essere solo corpo, solo sesso, da disprezzare, irridere, additare al pubblico ludibrio, oppure, se servizievole, da esaltare e promuovere, soprattutto nella freschezza e stupidaggine della minore età. Bastava vedere nell'ormai celebre puntata di Annozero, con che disprezzo virilista l'avvocato Ghedini al servizio del premier e quindi promosso parlamentare, trattava Emma Bonino, la cui fermezza, e intelligenza, e preparazione, e storia, meritano sempre ascolto; ma non per Ghedini, cresciuto alla scuola che se irridi e parli sulle parole dell'altro, quelle parole preziose vengono cancellate. E nella stessa trasmissione si ha avuto la conferma che anche le donne hanno perso la testa: dopo che Noemi Letizia è stata paragonata a Cenerentola, la direttrice di un settimanale rosa, graziosa anche se non minorenne, ha spiegato il suo appoggio al presidente del consiglio in veste di marito perché "è bellissimo" e pure molto galante. Il boato del pubblico l'ha molto stupita, e amareggiata. Tutti i settimanali di gossip, non solo quelli di proprietà berlusconiana, con qualche distinguo, hanno elogiato, in questa occasione di prezioso pettegolezzo, oltre al politico, il tombeur des femmes, dando vita al nuovo Principe Azzurro che fa impazzire le donne: ultrasettantenne, sempre truccato, con cinque figli e due mogli, simpaticamente donnaiolo, e con un patrimonio e un potere immenso che nessun principe azzurro tradizionale si è mai sognato di possedere. Il colpo finale lo ha dato la piccola massima diva del momento, la diciottenne Noemi che con la sua grazia gentile è un clone indistinguibile delle sue coetanee, tutte con capelli biondi e lisci, corpicino stretto, sorriso fisso, pazze per lo shopping, meta Il Grande Fratello, per lei oltre a papi, si capisce.

E' stata lei, in totale incoscienza, a sfoderare una parola che era uscita dal vocabolario di uomini e donne persino in confessionale, che non era più comparsa tra i problemi, le angustie e le indispensabili virtù femminili: proprio lei ci ha ricordato che "la verginità è un valore importante" e chissà come si dispereranno i suoi cloni, che se ne erano dimenticate e potrebbero da adesso sentirsi fuori moda.

(13 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Luglio 02, 2009, 11:50:15 pm »

La storia.

Sembra un reality, invece è la creazione di un finto paesaggio che ai cittadini deve apparire reale

Noemi, Domenico e quell'amore finto costruito dal regista del "Grande Papi"

Ogni puntata è stata scritta dagli sceneggiatori che da sempre si occupano di gossip e rotocalchi della Casa

di NATALIA ASPESI

 
IL FIDANZATO che si facevo fotografare mentre bacia la sua biondina, curvo su di lei come negli spot dei maxiconi, se ne va dal set su cui era stato spinto da registi imprevidenti e pasticcioni. Piantandoli lì, si immagina, in grande imbarazzo ed ambascia. Anche questo è nel copione. Lui era un personaggio chiave di una disastrosa fiction tipo "La vergine di Casoria" o di un disordinato casting di un reality che potrebbe chiamarsi "Il grande Papi"; ma Domenico Cozzolino, 21 anni, bel moro atletico, tronista di "Uomini e Donne" e aspirante al "Grande Fratello 10", si è velocemente stancato del ruolo fasullo di salvatore del buon nome di Noemi Letizia (e non solo): e ha trovato subito un settimanale, rivale di quello cui aveva rivelato il fidanzamento, per annunciare la rottura dello stesso. Per dire, anzi, che a cercarlo era stata Noemi, probabilmente indirizzata da qualcun altro. Se è ormai normale che non ci sia più confine tra il reale e il virtuale, non fa più scandalo neppure la fine della separazione tra la verità e la menzogna, che anche se balorda, smentita, continuamente corretta, divora trionfalmente la verità, la sostituisce, diventa la verità vera.

L'episodio, la puntata, Cozzolino-Letizia, nasce tutta all'interno dello stesso grandioso gruppo di menti raffinate che fa capo alle aziende del premier: infatti, in un momento particolarmente allarmante per il suo privato, il 12 maggio interviene il glorioso settimanale rosa della Casa, "Chi", pubblicando un lungo articolo e molte fotografie romantiche che rivelano come la ragazzina napoletana Noemi Letizia che sta eccitando l'informazione internazionale per l'amicizia sua e della famiglia con il premier, sia fortunatamente provvista di fidanzato, anche un tipo molto probo, il che mette al riparo lei e tutti quanti da vergognose illazioni. E non importa se il fidanzato viene da una trasmissione della Casa, "Uomini e Donne", officiata da una star della Casa, Maria De Filippi. Inspiegabilmente la rivista in cui pullulano showgirl che cambiano marito e fidanzato ogni settimana insiste su un particolare di cui dai tempi della Delly, nessuno si occupava più: l'illibatezza, rimessa in auge solo per la bionda diciottenne, che certo deve difenderla con le unghie e coi denti, visto che nelle foto distribuite ad altre testate-gossip, appare virginale in un abitino nero, con le mani tra le gambe aperte. "Sono ancora illibata" dice il titolone.

Lo show era cominciato domenica sera 26 aprile, nella Sala Miami di un locale di Casoria dove si festeggiavano i 18 anni di Noemi e dove improvvisamente si materializzò addirittura il premier, il che non capita a tutte le fanciulle ancorché graziose che diventano maggiorenni, mentre contemporaneamente, in altri luoghi, altre belle maggiorenni ma non troppo venivano velocemente istruite per potersi candidare alle elezioni europee, ovvio nel partito del generoso premier. In poco più di due mesi, è successo di tutto, di più, sempre sull'onda di un tipo di comunicazione da parte di protagonisti e sceneggiatori che all'informazione, alle notizie, preferiscono il format televisivo da plasmare come si vuole, o come vuole il capo, che conosce bene i gusti dell'audience, quindi del suo popolo. L'accumularsi di diverse verità da parte dei creativi del premier e della prontezza comunicativa del premier stesso, che per ragioni sue in questo caso rifiuta la strada più semplice, quella della totale sincerità, non riesce però in questo caso a cancellare la realtà dei fatti: non bastano le tante signore fedeli al suo fascino che rimbrottano la moglie rea di voler divorziare da uno che frequenta minorenni, che sarà mai, lo fanno tutti, non bastano le sue smentite-fiume nelle trasmissioni condotte da amici che piuttosto di interromperlo preferirebbero la tortura, non bastano i servizi fotografici di lui, nonno appassionato con i suoi bei nipoti che fissano adoranti il suo make up. Ci vuole un colpo di genio e chi è più adatto ad averlo se non gli specialisti dei reality e delle fiction e dei gossip della Casa? Ecco apparire quindi il bel Cozzolino, già volto della Casa con un probabile futuro nella Casa, ben disposto a fidanzarsi con quella ragazzina sapiente la cui principale virtù, a parte essersi fatta da mora, seria e cicciottella (come nel book fatto a 14 anni, già ansiosa di gloria), bionda, maliziosa e sottile, è la verginità, che il padre decanta appena può (in un'intervista sul Mattino del 25 maggio puntualizza la cosa ben 4 volte).

Però il giovanotto non perde tempo: si fa fotografare il 25 giugno con statuario torso nudo insieme a Cristina Tatenko, che si autodefinisce modella russa e che, gentildonna, rivela: è il mio fidanzato, la storia con Noemi è forzata, fa parte del suo lavoro perché ha bisogno di pubblicità per la sua carriera. In tutto il foto-teleromanzo, compare ogni tanto il fastidio della verità, che mette sottosopra la regia del caso: come quando su "Repubblica" del 24 maggio parla per la prima volta Gino Flaminio, giovane operaio con scippo alle spalle che per 16 mesi è stato il vero fidanzato di Noemi: è da lei che ha saputo come il presidente, dopo aver visto le sue foto sul suo book da modella in cerca di scrittura, le abbia telefonato direttamente. Anche Gino ne ha sentito la voce al telefono, a lui lei ha raccontato di essere stata ospite, ancora minorenne, assieme all'amica Roberta che lo è tuttora, e senza i genitori, a Villa Certosa. Noemi e i suoi segreti e le tante verità sono state oscurate dall'irrompere nella cronaca di altre storie, di altre ragazze, legate al modo in cui il premier, col massimo plauso dei suoi sodali, intende rallegrare la sua vita. Ma la graziosa ragazza, che assomiglia molto (solo fisicamente, ovvio), alla escort D'Addario, non ha nessuna intenzione di farsi dimenticare. Anche se ci appare, come tante altre, la pedina di una soap-opera mossa da un regista che sta mettendo in scena qualcosa di molto più grande e pericoloso di un format televisivo, con l'obiettivo di creare un paesaggio fittizio che a noi cittadini e telespettatori deve sembrare reale per consentirgli di meglio occultare le sue bugie.

(2 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 01, 2009, 04:04:06 pm »

IL COMMENTO


La volontà di punire

di NATALIA ASPESI


I nemici della pillola Ru486 hanno trovato un nuovo slogan per combatterla, anche adesso che è stata approvata dai sapienti componenti dell'Agenzia italiana per il farmaco: il suo uso indurrebbe a una "clandestinità legale" chi affronta con quel metodo una interruzione di gravidanza.

Anche se verrà somministrata solo in ospedale, che non si può definire un luogo propriamente clandestino. Come slogan non ha alcun significato, ma consente di riavvicinare alla parola aborto la parola clandestino, cioè a ricacciare quel drammatico evento esclusivamente femminile nell'ombra non solo del peccato ma anche in quella del crimine.

Ancora una volta donne assassine, sia pure in modo legale. Insomma, criminali legalizzate. Sono almeno trent'anni, da quando si cominciò a parlare di una possibile pillola abortiva, che fu giudicata ancora più diabolica dell'intervento chirurgico, pur spaventoso; è da più di venti, da quando in Europa ha cominciato ad essere prescritta negli ospedali e in alcuni casi venduta nelle farmacie (e adesso anche su Internet), che in Italia la si combatte con tanta fermezza che ogni tentativo di introdurla e sperimentarla alla luce del sole, cioè legalmente, è stato contrastato e fatto fallire. Naturalmente la guerra non è finita: agli obiettori di coscienza dell'intervento chirurgico si aggiungeranno quelli della pillola: a meno che, e questo sarebbe un imprevisto capovolgimento, pur di impedire l'uso luttuoso della stessa, si finisca con ritenere un male minore l'aborto tradizionale.

Tra i detrattori della povera Ru486 ci sono quelli che sbandierano i 29 decessi che avrebbe causato non si sa in quanti anni né in quanti paesi: sinceramente quando l'aborto era clandestino e quindi illegale, e al posto della chirurgia c'erano i ferri da calza e della pillola il decotto di prezzemolo, erano migliaia all'anno le donne che morivano. E a meno che ai nostri difensori dell'embrione interessi solo la sopravvivenza delle donne portatrici dello stesso, e da tener quindi lontane dalla eventuale pericolosità della pillola, bisognerebbe impedire agli italiani tutti di guidare la macchina visti i più di 5000 morti l'anno sulle strade, e anche in alcuni casi di lavorare, contando i tre morti al giorno su impalcature, pozzi, fornaci eccetera.

Clandestinità legale e decessi sono le solite espressioni di stanca ipocrisia che si ritengono dovute per ragioni politiche e non certo morali. Allora paiono più accettabili gli anatemi terrorizzanti che neppure Savonarola avrebbe pronunciato e che richiamano antichi dipinti popolari pieni di diavoli che strappano la lingua o impalano dal di dietro certi poveri nudi peccatori. In questi casi non ci si attiene alla realtà e alla logica, ma all'apocalisse più punitiva.
"Veleno letale" è una bella espressione forte, vaticana, ancora più forte "pesticida umano", lanciato come un dardo dal vescovo di San Marino. Il più savio da quelle parti è monsignor Fisichella che ricorda, come è giusto per lui, come è l'aborto in sé ad essere per un cattolico peccato grave, così grave da meritare la scomunica, come ricorda monsignor Sgreccia, appellandosi però non alle coscienze morali e religiose delle persone, ma al solito governo, perché si svegli dal suo torpore sul tema. La parlamentare Carlucci tuona, tanto per dire una sciocchezza, "si legalizza l'aborto fai da te", colpa naturalmente della sinistra anche se molte sue colleghe di coalizione, più accorte, o tacciono o non hanno nulla in contrario. C'è chi da gentiluomo, come il sottosegretario Mantovano, vuole soccorrere le donne che si sa sono sempre incapaci e sventate e guai ad abbandonarle a se stesse come avverrebbe con la pillola. Brilla come sempre per pugnace crudeltà il presidente del Movimento per la Vita Carlo Casini, al fronte antiabortista sin dagli anni 70, e da allora non si è mai fermato. Il suo timore è che la pillola banalizzi l'aborto, che le donne, inaffidabili, la prendano come un bicchier d'acqua, non percepiscano l'abisso del loro gesto, non soffrano abbastanza ed estinguano il senso di colpa e il rimpianto in meno di cent'anni.

Ci sarebbero altre cose da dire, poi viene in mente che da anni si dicono sempre le stesse, anno dopo anno, non solo contro la legge che consente l'interruzione di gravidanza (quella clandestina non interessa), ma anche contro la prevenzione, gli anticoncezionali, i condom, ugualmente degni di scomunica. Si vorrebbe che almeno per una volta visto che siamo anche noi, povere italiane, cittadine d'Europa più che del Vaticano, non si facesse tanto ripetitivo casino attorno a quell'interruzione di gravidanza che non sarà mai sconfitta né da leggi proibizioniste, né da anatemi vescovili, né dal dolore individuale o dal senso di irrimediabile perdita: perché questa è la vita delle donne, oggi di quelle più povere, più abbandonate e più sole, e meno male che adesso c'è (speriamo) la Ru486.

(1 agosto 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Settembre 03, 2009, 05:20:15 pm »

L'atteso film del regista siciliano: una grande epopea accolta in sala con lunghi applausi.

Più tiepida la stampa

Bagheria come l'Italia dall'innocenza alle bustarelle

di NATALIA ASPESI


VENEZIA - Baarìa inizia con un bambino che corre velocissimo lungo una strada di terra tra vecchie case percorse da carretti tirati da muli; 150 minuti dopo si chiude con un bambino che corre velocissimo tra i fitti palazzi della speculazione, nella stessa strada ormai trafficata da un muro di automobili e moto. Sono passati sessant'anni, a Bagheria, 60 mila abitanti, alle porte di Palermo: là è nato 53 anni fa Giuseppe Tornatore, che se l'è tenuta nel cuore anche dopo averla lasciata a 28 anni, e adesso finalmente è riuscito a raccogliere tutte le storie che hanno attraversato la sua infanzia e giovinezza, i personaggi che l'hanno colorata con le loro voci e le loro facce, per farne un grande film, autobiografia sua, di un paese, di un'epoca, di un'Italia che lui stesso non sa giudicare se peggiore o migliore di quella di oggi.

La grande forza del film, da cui gli spettatori italiani saranno privati per ragioni di mercato, è che la folla di attori che lo popolano parla in dialetto baarioto, con quelle grida gutturali che ci ricordano una regione, una nazione che avevamo dimenticato in tutta la sua sottomissione primitiva, la sua superstiziosa rassegnazione, il suo abbandono. In italiano il film, accolto ieri in modo tiepido dalla stampa internazionale, ma con dieci minuti di applausi nella proiezione con il pubblico, sarà più comprensibile, ma certamente meno commovente e ipnotizzante, perché i suoni di quella lingua quasi selvaggia, aderiscono, completamente alle persone e ne esaltano le storie. Ci sono gli anni del bambino Cicco, quelli del fascismo e della mafia più primitiva, che va a fare il pastore sulle Madonie e in cambio la famiglia riceverà una provola e qualche primosale. I raccoglitori di olive vengono perquisiti perché non si nascondano addosso un frutto; se no anche un bambino verrà spinto più volte da due uomini contro un albero, affinché impari la lezione dell'obbedienza. Cicco si rifiuta di cantare l'inno al duce e lo sbattono dietro la lavagna: dovrà comunque smettere di studiare perché la capra gli ha mangiato il libro di scuola. Nella miseria Cicco diventa adulto, mette su famiglia, arriva il figlio Peppino e sua sarà la storia centrale di Baarìa. Lo interpreta il siciliano Francesco Scianna, bravo attore di teatro. È lui il comunista, che il giorno della strage di Portella delle Ginestre, farà sfilare i compagni in silenzio con il bottone del lutto sulla camicia, è lui che dopo la guerra, nel locale dove le donne e gli uomini ballano separati, avrà il coraggio di invitare la ragazza che già ama, e che è la bellissima siciliana Margareth Madè, modella al suo primo film. Peppino è così povero che non può neppure organizzare la fuitina: i due innamorati si chiuderanno in cucina mentre le donne di famiglia fuori gridano al disonore, con poca convinzione, perché così si fa, tanto poi si sposeranno.

Tornatore pensava a questo suo film da anni, raccogliendo storie che gli avevano raccontato la nonna, i genitori, gli amici, ricordi di facce, voci, paesaggi, ma anche fantasie, nostalgie, forse rimorsi. Un film grande, corale, che mostrasse gli infiniti spazi delle meravigliose Madonie e nello stesso tempo gli angusti squallidi luoghi di vita, gli stracci dei braccianti e i cappelli dei padroni, le bocche sdentate dei poveri e quelle luccicanti d'oro dei ricchi, l'architettura sontuosa di villa Palagonia con i suoi mostri e gli antri miserevoli dove si nasce, si vive, si ama, ci si ammala e si muore. La storia del cinema è piena di film sulla Sicilia, non solo italiani: storie di mafia soprattutto, di padrini, ma anche di aristocrazia, di pescatori, di braccianti, di piccola borghesia. Tornatore tutte queste storie le ha riunite in un solo film, coraggiosamente. Con quei suoi modi gentili, quasi indifesi, il regista è riuscito a riunire tutto il meglio del cinema italiano, attori abituati ad essere protagonisti, che hanno accettato ruoli di pochi minuti: Monica Bellucci è in un lampo abbracciata a un muratore, spiata dai ragazzi della scuola col permesso dell'insegnante, Lina Sastri è una mendicante-indovina che gira con un figlio scemo, Luigi Lo Cascio, Raoul Bova un giornalista dell'Unità, Angela Molina la nonna, Ficarra e Picone due amici, Enrico Lo Verso un pastore, Michele Placido l'esponente del Pci. Gli attori professionisti sono 63, i non professionisti 147, le comparse 35.000. Gli episodi sono brevi, si accavallano, dando a tutto il film un ritmo di vita che la musica di Ennio Morricone sottolinea con la solita efficacia.

Tutto appare lieve, fermo in un tempo di cui oggi Tornatore ci fa sorridere, come se il presente fosse diverso, mentre è diverso solo nelle forme, nei rumori, negli abiti che ormai nascondono le differenze e la povertà; la polizia di Stato che disperde le manifestazioni contadine, l'assessore all'urbanistica cieco che si fa fare la pianta della città in rilievo per passarci sopra le mani e prende le bustarelle per le concessioni edilizie, la tracotanza dei politici e la mafia, che solo si è fatta meno rustica e più potente. Poi c'è Tornatore bambino: quando a 5 anni il papà lo porta al cinema a vedere Uno sguardo dal ponte, quando riesce ad avere fotogrammi di Catene, di Salvatore Giuliano, di Il Vangelo secondo Matteo. Di quella Bagheria che ha amato e da cui è fuggito, non rimane quasi nulla e tornandoci a trovare sua madre che abita in campagna, la raggiunge direttamente senza fermarsi in città, se non pochi momenti, per ritrovare gli ultimi amici comunisti.

(3 settembre 2009)
da repubblica.it
 
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« Risposta #8 inserito:: Novembre 02, 2009, 10:38:01 am »

L'Italia pullula di trans, non più da considerare un fenomeno raro

Da Eva Robin's a "La moglie del soldato", cambia l'immagine dei viados

Quei sogni segreti dei nostri uomini


di NATALIA ASPESI


IN questa settimana di intenso teletrans, non ci sono state trasmissioni e conduttori che non abbiano esibito il loro o i loro trans, veri o caricaturali. E per esempio a "Annozero" c'era una signora stile Carmen. Con grande ventaglio rosso, di massima arguzia, serietà e intelligenza, che rendeva particolarmente avvilente il vociare maschile politicosessuale, come sempre del tutto inconcludente. Stessa bella figura e sempre nella stessa arena selvaggia, ha fatto un'altra signora dall'aria intellettuale, che da Milano raccontava come aveva dovuto fuggire da Roma, dove l'eccesso di pretendenti di gran notorietà, in politica e altrove, assediavano e avvilivano la sua vita di donna più completa delle altre in quanto fornita di sesso maschile.

Non è che non si sapesse, ma dopo tanto clamore, non si può più dubitarne; l'Italia (o forse tutto il mondo), pullula di trans, non più un raro fenomeno genetico e psicosessuale riservato a rari intenditori, ma una professione, una corporazione, una etnia, un mondo, un mercato, un popolo, una folla. Dietro la stazione Garibaldi di Milano, per esempio, c'è un vecchio grandioso palazzo abitato soprattutto da trans che, crisi o non crisi, ogni notte saltano giù da enormi limousine abitate da uomini pregiati, e attraversano i cortili verso i loro appartamenti, indossando tanga e poco altro.

Nelle piccole città, dico per esempio a Sarzana perché ci vado spesso, c'è una strada solitaria dove solo a tarda notte, svettavano sino a pochi mesi fa ragazze di sesso maschile particolarmente avvenenti: poi la popolazione non le ha volute più, con la scusa che davano cattivo esempio ai bambini, anche se gli stessi solitamente non dovrebbero aggirarsi dopo mezzanotte nelle strade deserte, né soli né accompagnati. Si sa anche dalle recenti cronache, che il trans, contro ogni idea di peccato e trasgressione, è più diurno che notturno: la massima ressa nelle loro alcove è infatti nelle ore di ufficio, e se lo sapesse Brunetta, altroché fannulloni e tornelli.

Adesso in tv, a mettere in ombra il travestito da oratorio, il pur apprezzato genere Platinette, arriva la fascinosa Carmen, e qui non si ride più: chissà se ai telespettatori maschi di buona famiglia saranno venuti i cattivi pensieri guardando quelle labbra di fuoco e quegli occhi scintillanti di misteri, certo le telespettatrici si saranno impensierite. Nessuna signora conosce un uomo che riveli di frequentare le prostitute, che pure prosperano a centinaia di migliaia e non si sa quindi come, disoccupate, arrivino a fine mese. Figuriamoci se uno dirà mai di averci anche solo provato con un trans, così per curiosità, o per studio sociologico, o per portarlo sulla retta via, o spingendolo alla monacazione, o per altre ragioni umanitarie.

Eppure la fiction americana li ha già sdoganati per quello che sono, non come macchiette o come stravaganze (vedi Grande Fratello): in "Sex and the city" la vispa Samantha (lei stessa assomigliante a un trans, per quanto rigidamente femmina), non riesce a dormire per il casino che fa un gruppo di trans di colore sotto le sue finestre, e l'unico modo per ottenere il silenzio notturno è diventarne amica. Il trans gran signora è tra i protagonisti del magnifico serial "Dirty Sexy Money" putroppo interrotto dopo sole due stagioni per audience insufficiente: si tratta dalla bionda e statuaria Carmelita, di cui è pazzo il candidato al Senato Patrick Darling, al punto di volerla sposare, malgrado sia già sposato. Naturalmente finisce male, ma intanto il ruolo lo ha avuto l'attrice Candis Cayne, che prima di operarsi era l'attore Brendan McDaniel: cioè un uomo che ha scelto di essere donna, quindi un trans già transitato.

Se uno si attiene alle cronache, parrebbe che i trans siano solo brasiliani e che la prostituzione sia la sola loro professione: non è vero, spiega Gianni Rossi Barilli, direttore del mensile gay "Pride", ce n'è di casalinghe e di milanesi, solo che per loro fortuna non fanno notizia. Ciò che lo stupisce "è il panico con cui soprattutto gli studiosi affrontano l'argomento, non riuscendo ad accettare le mille sfumature dell'ambiguità sessuale tanto da preconizzare un immane caos". E per quanto il travestito, l'ermafrodito, l'androgino, il trasgender, l'intersessuale, la donna nel corpo di uomo o viceversa, siano figure antiche, anche mitiche, "il trans come lo si intende oggi è un personaggio molto recente, nato dal momento in cui c'è stata l'opportunità di manipolare genetica e biologia, di costruire il proprio corpo al di là della sua forma naturale codificata dai generi".

Prima si pasticciava e ci si accontentava, aspirando ancora al modello femminile: come la delicata, fragile Eva Robin's, nata Roberto Maurizio Coatti, che quando finalmente apparve sullo schermo, nuda e di fronte, suscitò nel pubblico un hoo sbigottito; o come in "La moglie del soldato", film girato nel 1992 da Neil Jordan, la bellissima mulatta Jaye Davidson, nata Alfred Amey, che quando il terrorista Forrest Whitaker la vede nuda, oltraggiato, le/gli dà uno schiaffo.

Oggi, dice Rossi Barilli, "il trans può costruirsi secondo l'immaginario erotico degli uomini, offrirsi al loro desiderio profondo". Le signore trasecolano, ci rimangono molto male: ma come, non le volevano esili, soffici, tenere, levigate, persino piccine, quasi infantili, insomma femminili, e loro per ansia di piacere, a dieta, a far ginnastica, ad ammorbidirsi e depilarsi ovunque; e poi si scopre che quel che sognano in segreto i loro innamorati sono donnone grandi e muscolose, con seni enormi e contundenti, consentita la barba e la voce profonda, soprattutto indispensabile quella parte del corpo che con tutta la buona volontà di accontentare i gusti degli uomini, proprio si ostina a mancare.

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da repubblica.it
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 04, 2010, 11:08:28 am »

Trent'anni, origine turca, ricercatissima da uomini insospettabili racconta in un'autobiografia choc i suoi incontri a luci rosse.

"Prima o poi qualsiasi uomo vuole provare. Forse non tutti, ma quasi"

Efe Trans: "Vi svelo i segreti dei mariti italiani"

Ha la passione per le auto Bmw, Porsche, Mercedes, Corvette. Veste Chanel, borse Gucci, scarpe Prada

Vorrebbe pagare le tasse. È stata definita "la cerbiatta", "la più bella del mondo"

di NATALIA ASPESI


MILANO -  In attesa che qualche volonteroso seminarista scriva le sue memorie dal possibile titolo Quel che ai Lavori Pubblici ormai sanno, rispunta con una autobiografia un'altra eminente star dell'ingordigia sessuale maschile, tanto di moda qualche mese fa: la trans. Anzi una trans speciale, quella Efe definita "la più bella del mondo", o "la cerbiatta", già molto invitata in tv, intervistata dai giornali, tre siti con 200mila contatti al mese e al mese almeno 120 movimentati incontri, che ha raccontato la sua vita alla giornalista Stefania Berbenni in un libro edito da Mondadori, dal titolo tanto antipatico quanto veritiero, Quello che i mariti non dicono. Tranne quelli, una minoranza, che dalla seducente ragazza, arricchita come l'uranio per l'atomica, da un simpatico "pene molto grosso" come esplicitamente richiesto dai clienti, ci vanno accompagnati dalla loro signora contentissima della variante.

Efe, di famiglia turca di dubbia e tramontata ricchezza, da dieci anni in Italia, cittadinanza italiana, ha 30 anni. È una signorina maschile di aspetto più dolcemente femminile della maggior parte delle donne: a parte l'altezza, 1 metro e 90, infrequente in una donna, per il resto è carinissima; taglia 42, seno piccolo, occhi verdi, capelli corti ramati, non ha niente in comune con le giovanottone brasiliane dai seni contundenti e un po' di barba, che sbucavano da ogni angolo televisivo, ospiti soprattutto di melliflui conduttori arrappati, quando il più attraente (per le donne) presidente di regione, loro fervente estimatore, pur comportandosi come ogni bravo marito, cioè stando zitto, fu meno abile degli altri tanto da provocare un can-can politico-erotico-conventuale.

Con le sue confidenze, subito Efe impensierisce Berbenni: "... prima o poi qualsiasi uomo vuole provare l'esperienza del trans... non dico tutti ma quasi tutti.... Se fossi sposata non mi fiderei. Non c'è cittadino al di sopra di ogni sospetto...". Efe sa cinque lingue, vive a Milano, viaggia dove ricchi sporcaccioni la chiamano, da Roma a Brescia a Malta a Parigi, oppure batte vicino al Monumentale o riceve nel suo appartamentino dipinto di rosa dove la sua mamma sta in salotto a leggere riviste e il rottweiler Goran ringhia: ogni tanto qualcuno la pesta ma pazienza, ne è sempre uscita viva. Intanto si è comprata alcuni appartamenti, da cittadina onesta si sente umiliata per non sapere come pagare le tasse: "Ci vorrebbero l'Ici sul sesso mercenario, la trans-tassa. Servirebbe a ripulire il mercato". Ha la passione delle automobili, Bmw, Porsche, Mercedes, Corvette; veste Chanel, borse Gucci, scarpe Prada, biancheria di seta candida, beauty-case zeppo di preservativi, cui non rinuncia mai: tanto per dimostrare la sua affidabilità, in fondo al libro c'è il suo ultimo referto (dicembre 2009) del test Hiv, naturalmente negativo.

Nelle storie che Efe racconta forse gli uomini non fanno una gran figura, trattandosi normalmente di babbi appassionati e mariti esemplari secondo il loro standard, che non è quasi mai quello delle mogli; maschi che, specchiandosi nel loro stesso sesso e gradendone molto le molteplici performance, si scatenano e si sfrenanano come ovviamente mai capitò con la loro signora. Per esempio il Signor Moderato, famoso per i suoi modi garbati nei dibattiti televisivi, cui lei fornisce bustini panterati e scarpe rosse col tacco a spillo, prima di sottometterlo. Dario, il tipo "Noneroio", adora farsi la povera Efe nel letto coniugale dalle lenzuola di seta rosa, mentre la bella moglie è in vacanza coi piccini. Il giovane supermilionario John si fa raggiungere dove si trova con la moglie e la riceve nel massimo lusso sfidando il pericolo di essere scoperto. Di Umberto che è gelosissimo si innamora, chissà, forse lui lascerà la moglie malata, poi lo scopre che la tradisce con una donna.

Sono migliaia gli uomini che la pagano per fare cose che se mai le raccontassero alla propria donna, anche la più aperta, o innamorata, o indifferente, o cinica, o porca, li butterebbero dalla finestra, fuggendo con i loro figli e svuotandogli la cassetta di sicurezza. "Potrei dire che noi trans siamo avvantaggiate perché, avendocelo, sappiamo come far godere un uomo... eppure ciò che eccita i miei clienti è vedere che ce l'ho duro...". Si potrebbe su questo magari arrendersi, non c'è gara, ma sui cioccolatini ad ogni incontro, e le borse Vuitton in ragalo, e i ristoranti di lusso, e gli alberghi sette stelle, e le coccole e i modi garbati e una luce mai vista nei loro occhi, proprio quello no, non si può perdonare. In più ci si può chiedere: se c'è tutto questo affannoso fornicare con trans, seminaristi o altro, ci vorrà tempo, denaro, complici discreti e disimpegno sul lavoro: sarà per questo che la folla dei distratti, dei pasticcioni, dei collusi, dei corrotti, dei mascalzoni, sta aumentando vertiginosamente?
 

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« Risposta #10 inserito:: Aprile 02, 2010, 08:58:05 pm »

IL COMMENTO

Il peccato delle donne

di NATALIA ASPESI


Potevano essere altri, più fiammeggianti e costruttivi, più remunerativi e sperati, insomma vere proposte di libertà, i primi solenni impegni presi dagli scalpitanti nuovissimi governatori del povero Nord che si avvia malconcio a precipitare nella Padania.  Roberto Cota e Luca Zaia, due non brutti giovanotti in cravatta verde, sono stati eletti a furor di popolo anche da frotte di ammiratrici che ne adorano il celodurismo di partito.

Ebbene, i due si sono subito dimostrati soprattutto devoti, tradizionalisti, forse nostalgici della messa in latino, e soprattutto ben diversi dai faciloni loro alleati pdl, che si sono fatta la brutta fama di perdigiorno dietro escort ambosessi e sempre a gridare su pratiche di giustizia che non interessano ad anima viva tranne una.

Si sa che ormai le donne sono diventate l'anello più floscio della società, loro che pareva avessero in mano il mondo e adesso invece non basta un bel sedere per far carriera, se non sai almeno praticare l'igiene dentale. Quindi prima che agli evasori, agli inquinatori, ai criminali, ai fannulloni e persino ai clandestini, i nuovi ras della Padania hanno preso subito a randellate le donne; che se non ci fossero non ci sarebbe l'aborto, quindi l'obbligo di perder tempo con un grattacapo epocale irrisolvibile, reso stordente dal continuo martellare ecclesiastico che ogni mattina si sveglia, dà un veloce sguardo annoiato sulla montagna impolverata di pratiche pedofile che riguardano i suoi pii fratelli in tutto il mondo, e subito gli viene un diavolo per capello pensando all'infame dal nome innominabile, la diavolessa RU486, che gli fa passare anche la voglia del cappuccino.

Quella pozione luciferina ha qualcosa di veramente abominevole: procura l'aborto senza che chi la ingoia quasi se ne accorga, la paziente non subisce ferri chirurgici o aspiratori, non si sente strappare le viscere, non si dissangua, non prova che lievi dolori. Ignominia su ignominia, i nemici del farmaco sostengono che con questo metodo sbrigativo la peccatrice non ha tempo di sentirsi quello che è, un'assassina, e di continuare a soffrire e chiedere perdono per tutti i suoi giorni. Questo non è vero, perché se non in termini così apocalittici, non c'è aborto che non lasci una ferita in una donna, che sempre si chiederà a cosa ha rinunciato e chi sarebbe stato quella rinuncia una volta diventata persona. Certo, l'interruzione di gravidanza, voluta dalla legge 194 e necessariamente cruenta, piace di più ai nemici dell'aborto, in quanto punitiva: anche se poi, quel che davvero si meriterebbero le donne sarebbe un bel ritorno all'aborto clandestino, quando almeno le malvagie assassine spesso morivano come meritavano.

A questo punto risulta chiarissimo, e senza condizionali, che le parole dei vescovi alla vigilia delle elezioni erano un ordine cui non si poteva disubbidire. E i vincitori hanno subito risposto come dovevano, rassicurato le gerarchie, in cambio dell'appoggio alla vittoria: a questo punto, la morte della RU486, potrebbe anche preludere a una revisione della legge 194. Ci sono ministri mistici o governatori tutto casa e chiesa che si svegliano pensando ai feti, e giù lacrime, e già si armano per mettere definitivamente le donne al tappeto con una legge che renda una interruzione legale più difficile che un Nobel al pensoso erede Bossi.

Il problema è che i feti di Cota, Zaia e tutti gli altri governatori spaventati e inetti, non hanno nessuna riconoscenza; se ne stessero lì, buoni, feti per sempre, non darebbero fastidio: ma pretendono di diventare bambini, di crescere e farsi noiosi e ingombranti e pieni di pretese: e si lamentano dei preti pedofili, e non si accontentano di pane e acqua alla refezione scolastica, e fan fare brutte figure ai giovanotti che li ammazzano di botte, e strillano se li vendono per la prostituzione o li usano per ricavarne organi sani. Cota e amici, giusto martellare la cattiva pillola, ma magari una vostra premurosa occhiata leghista su come vivono i bambini, non potreste sprecarla più per i bambini che per i feti?

© Riproduzione riservata (02 aprile 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Ottobre 17, 2010, 07:15:59 pm »

IL COMMENTO

La miseria nel cuore che fa il pieno di share

di Natalia Aspesi

CHI se la ricorda più la piccola Sarah, dal corpicino sottile e dal sorriso innocente, coi biondi capelli lisci di tutte le sue identiche coetanee, e la minigonna sulle gambe infantili. Quindici anni e l´aspetto ancora di bambina, a vederla nelle immagini del cellulare e dei video di famiglia, mentre fa le smorfie e ha voglia di scherzare, di giocare: di vivere. L´hanno ammazzata, e perciò col passare dei giorni da protagonista si è fatta comparsa, la sua immagine si è affievolita, poi si è annebbiata la sua persona, si è dimenticato che era viva: è uscita di scena, perché anche nei romanzi gialli, nei film noir e nelle fiction thriller, della vittima si finisce col perdere le tracce, ciò che conta sono gli assassini, e meglio se ad ogni capitolo, ad ogni scena, la storia si ingarbuglia, i sospetti crescono, deviano, si fanno sempre più caldi, gli indizi si accumulano, i detective indagano, arrivano le prove scientifiche, poi le confessioni: e la ferocia si estende dall´atto terribile che spegne una vita così breve, alla morbosità del coro sempre più vasto, della moltitudine di estranei che rimuovono le crepe della loro vita immergendosi senza pietà nelle storie macabre degli altri: spettatori di una tragedia che gelidamente infiamma ed eccita, i vicini, il paese, la stampa, ovviamente la televisione che tutto accumula e tutto cancella.

Ci sarà prima o poi un omicidio in diretta, o un suicidio come nel vecchio (1976), preveggente ‘Quinto potere´di Sidney Lumet, e in quel momento il picco di share farà del sagace e fortunato conduttore una star insuperabile? Sino a ieri il protagonista della maratona televisiva da Avetrana era questo Michele Misseri, un orco dall´aspetto intristito e fragile, attaccato al suo cappelluccio come al distintivo della sua modesta persona, in grado di narrare, della sua vita spenta e invisibile di operaio, di contadino, di padre di famiglia, quel momento buio e luminoso, inenarrabile: «È stato un raptus. L´ho strangolata nel garage di casa mia, poi l´ho caricata in macchina e l´ho portata in campagna, l´ho spogliata, ho bruciato i vestiti e ho seppellito Sarah nuda». Dice anche di aver violentato il giovane corpicino cadavere. C´era bisogno di raccontare agli inquirenti tanto orrore, non bastava dire l´ho ammazzata? No, non bastava, forse per liberarsi da un incubo o forse per rendere ancora più appetibile la sua orribile storia alla stampa e soprattutto alla televisione, che appena c´è un´efferatezza l´afferra e la dilaga non ponendosi più alcun limite.

Finalmente nella vicenda che fa perdere la testa a ogni conduttore (pare di sentire le voci di quegli imprenditori che dopo il terremoto dell´Aquila se la ridevano), entra l´immancabile Donna Funesta, che di solito è una fatalona crudele come le sapeva dipingere Boldini. Ma in questa storia la femmina sinistra è una ragazza di 22 anni un po´ cicciotta, con gli occhi azzurri del padre assassino, molto chiacchierina, sicura di sé, e se davvero colpevole, grande attrice: anche lei ha vissuto il suo momento fatale, è uscita dal torpore della vita di paese, ha intravisto il futuro luminoso che tutti pensano l´apparire in televisione possa assicurare. Lei, Sabrina, ragazza senza storia, è stata vista da milioni di persone, che hanno parlato di lei, l´hanno ammirata, compatita, ed ora si divideranno come sempre in innocentisti e colpevolisti.

Lei si dice innocente, e forse lo è, e non basta il suo esibizionismo o forse la sua capacità di mentire a fare di lei una colpevole. Anche perché se lo fosse, bisognerebbe chiedersi da quale miseria del cuore e del pensiero può venire l´odio, il desiderio, il gesto che uccide, anche qui senza ragione: non si uccide per eliminare una rivale di un amore inesistente, non si uccide perché la cuginetta è più carina e più felice, non si uccide per paura che si venga a sapere che il padre è sporcaccione, non si diventa complici del padre assassino che ha appena strangolato la cuginetta ed amica del cuore. A vent´anni non può essersi spento il senso della vita, non si può dimenticare un padre nel momento in cui strangola la sua amica e cugina, senza restarne segnata per sempre.

Ma Sabrina non si è mai mostrata sconvolta e per questo forse si proverà che non è colpevole. O che lo è doppiamente. O forse si può davvero uccidere o diventare complici di un assassino perché succede nei romanzi e negli sceneggiati, dove spesso però c´è chi resuscita (vedi Beautiful) e comunque se sei in gamba, la fai franca. Si sa che è in famiglia, la sacra famiglia che tutti vogliono proteggere, che accadono i fatti più spaventosi, ma ogni volta pare impossibile: lo zio, la nipote, la cuginetta, chissà chi altro, e tutti finalmente in televisione, spettatori, conduttori, a dimenticare la pietà, il rispetto, il dolore. Lo share sarà stato fantastico, a ‘Chi l´ha visto?´, ‘La vita in diretta´, ‘Porta a porta´, ‘Quarto grado´ ‘Matrix´ e continuerà ad esserlo attorno al cadavere della povera Sarah. Ma poi i numeri hanno un senso tutto loro: se l´altra sera ‘Matrix´ ha raggiunto il recordo storico, se ‘Quarto grado´ l´han seguito in più di 4 milioni, vuol dire che la maggioranza assoluta degli italiani ha visto altro, o, più probabilmente, ha tenuto spenta la tv.

(17 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/10/17/news/miseria_nel_cuore-8143460/?ref=HREC1-1
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« Risposta #12 inserito:: Dicembre 01, 2010, 05:31:25 pm »

CIAO MAESTRO

Monicelli e l'Italia dei Brancaleoni Imbrogliona, maschile e colta

Facendo ridere rivelò il nostro lato oscuro.

Con "Amici miei" diede l'addio al paese dei vitelloni provinciali di mezza età.

Il suo talento trasformò piccoli vizi e modeste virtù in irresistibili commedie

di NATALIA ASPESI


ROMA - Probabilmente gli italiani di Monicelli non sono mai davvero esistiti, neppure negli anni in cui si correva nei cinema a ridere di loro. Un pubblico entusiasta che si credeva al riparo da quei personaggi, gli italiani altri: i ladruncoli sfigati, gli imbroglioni pasticcioni, gli opportunisti fifoni, i Brancaleoni, i Perozzi, i Busacca e i Jacovacci, l'Onofrio e il Rambaldo. Maschere meravigliose affidate ad attori grandiosi, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni e Alberto Sordi, Philippe Noiret e Totò, ma anche Capannelle, e Murgia, e Carotenuto e Moschin e Celi, tutti gli eroi di un cinema ricco di intelligenza e forza, divertente e colto, folto di centinaia di film che si presentavano modesti, artigianali, popolari, senza fisime autoriali, e anche per questo grandi. Scritti da geni della commedia bonaria e periferica, che sfornavano storie sublimi, dialoghi impeccabili, aforismi eterni: Steno, Age e Scarpelli, Suso Cecchi D'Amico, Zapponi, Benvenuti e Bernardi.

Come per molti italiani del suo tempo, il mondo di Monicelli era soprattutto maschile: popolato da vizi, debolezze, malinconie, presunzioni, inadeguatezze, sconfitte. Di maschi, appunto maschi italiani, forse esagerati anche allora, che la crudele e nello stesso tempo affettuosa sua maestria di regista rendeva irresistibili. Però il giudizio divertito e talvolta crudele era il suo, un giudizio da uomo sugli altri uomini, non quello delle donne, che negli anni 50 e 60, nella realtà come nei film, era sommesso e sottomesso, e che solo con i mutamenti
sociali degli anni 70, il femminismo, le leggi che liberavano le donne dalla soggezione familiare e sessuale, si era fatto sempre meno indulgente ed ipocrita.

Questo mutare delle donne italiane deve aver colto Monicelli di sorpresa, costringendolo a riconoscere un mondo diverso, alieno, un protagonismo nuovo che in un certo senso rifletteva le sue convinzioni politiche, di democrazia, di sinistra: e infatti per la prima volta, nel 1986, a 71 anni, un suo film, Speriamo che sia femmina, si riempie di donne: Ullmann, Deneuve, De Sio, Sandrelli, Cenci, Lante della Rovere, non più un gruppo di uomini, legati da amicizia, svaghi, infantilismi, guerre, bordelli, fratellanza, complicità, terrori, ma di donne di ogni età, quelle tenute sino ad allora ai margini delle sue storie, ed ora protagoniste forti, vitali, padrone del futuro. Come uno scudo, tra tutte quelle vincenti, Monicelli trascina nel film due suoi amabili maschi, Philippe Noiret e Bernard Blier, in ricordo di quando in altre sue storie, era lui, e non le donne, a giudicare gli uomini egoisti, assenti, fragili: addirittura inutili.

Se il suo cinema coglieva i mutamenti della realtà, era il suo modo di vivere e di pensare che non poteva cambiare. A 59 anni aveva fatto quello che soprattutto nel suo mondo fanno in tanti: si era messo con una ragazza di 19, 40 anni meno di lui, Chiara Rapaccini, artista ironica e femminista, caduta innamorata di quell'affascinante gentiluomo cinico e buono; a 74 anni era diventato padre di una bimba, Rosa, per accorgersi subito dopo che la vita di famiglia, che donne in casa, ingombranti con il loro imperio, il loro amore e il loro mistero, non erano per lui. Gentilmente, le invitò ad andarsene, a lasciarlo in pace, solo, "Per rimanere vivo il più a lungo possibile, perché l'amore delle donne è molto pericoloso", e non quello delle nuove donne liberate, ma proprio di quelle cui aspiravano i suoi coetanei, e non solo loro, donne devote e protettive: alla fine soffocanti. "La donna è infermiera nell'animo, e se ha vicino un vecchio, è sempre pronta a interpretare un suo desiderio... Così piano piano questo vecchio non fa più niente, rimane in poltrona... e diventa un vecchio rincoglionito... Se invece il vecchio è costretto a farsi le cose da solo, rifarsi il letto, uscire, accendere i fornelli, qualche volta bruciarsi, va avanti dieci anni di più".

Nel 1968 Monicelli aveva girato La ragazza con la pistola, un film di cui era protagonista una donna, interpretata da Monica Vitti, l'attrice cinematografica italiana di maggior talento di quegli anni. Era la storia di un paese dai costumi molto arretrati, un'Italia in cui ancora l'articolo 587 del codice penale sanciva la minor punibilità del delitto d'onore. Il pubblico si divertì moltissimo per la ragazza sicula che raggiunge in Inghilterra il giovanotto che l'ha sedotta e abbandonata per ucciderlo, e poi si adatta contentissima al costume di un paese più civile. Il film fu giudicato male per i luoghi comuni sul Sud, eppure quell'articolo di legge esisteva ancora, e fu abrogato solo nel 1981, dopo l'approvazione del nuovo diritto di famiglia e della legge sull'interruzione di gravidanza.

Facendo ridere, Monicelli aveva rivelato agli italiani il loro lato oscuro, insospettato, oltre una retorica di eredità fascista che ne vantava la forza, l'eroismo, il potere, l'imperio sulla donna. Ma era difficile accettare di assomigliare a quegli uomini ingenui e un po' imbecilli, fatui e spesso sfortunati, invecchiati senza crescere e un po' vili: infatti il talento di Monicelli aveva trasformato i nostri piccoli vizi e modeste virtù in irresistibili commedie, che tenevano lontano lo spettatore dallo specchiarsi, negli anni 50, negli incapaci pasticcioni di I soliti ignoti, negli anni 60 negli eroi involontari di La grande guerra, poi negli scalcinati avventurieri medioevali dei due Brancaleone che con il loro linguaggio colto, inventato e irresistibile, sembrava voler opporsi all'impoverimento sbracato dell'italiano televisivo.

Con Amici miei (1975) e Amici miei atto II, (1982), Monicelli dava l'addio a un'Italia forse già scomparsa, quella dei vitelloni provinciali di mezza età, dalle vite giocose e inconcludenti, rivelando del tutto, finalmente, la sua elegante misoginia e la sua forse malinconica, misantropia.
 

(01 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/12/01/news/monicelli_e_l_italia_dei_brancaleoni_imbrogliona_maschile_e_colta-9710249/?ref=HREC1-3
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« Risposta #13 inserito:: Febbraio 14, 2011, 03:54:23 pm »


IL COMMENTO

Il grido delle donne al paese umiliato

di NATALIA ASPESI

Duecentomila a Roma, centomila a Milano e Torino, 50mila a Napoli, 30mila a Firenze, 20mila a Palermo, persino a Bergamo 2000. In tutte le 230 piazze italiane, più una trentina straniere, almeno un milione, forse di più, non ha importanza. Importa l'immenso, forse inaspettato successo, il risveglio improvviso di chi sembrava rassegnato al silenzio, a subire, ad adeguarsi.

Invece il messaggio delle donne, 'se non ora quando?', è corso veloce ovunque, e ha riempito le piazze come un richiamo ineludibile, finalmente sorridente, entusiasta, liberatorio.

Basta, basta, basta! il basta delle donne al di là di bandiere e partiti, il basta contro questo governo e questo premier, il basta contro la mercificazione delle donne ma anche contro l'avvilimento di tutto il paese. Il basta gridato da tutte, le giovani e meno giovani, le attrici e le disoccupate, le studentesse e le sindacaliste, le suore e le immigrate, le casalinghe e le donne delle istituzioni, facce note ma soprattutto ignote, donne tutte belle finalmente, non per tacchi a spillo o scollature o sguardi seduttivi, ma per la passione, e l'indignazione, e l'irruenza, e la coscienza di sé, dei propri diritti espropriati e derisi: e uomini, tanti, finalmente non intimiditi o infastiditi dal protagonismo femminile, consci che il basta delle donne poteva avere, ha avuto, un suono più alto, più felice, più coraggioso, cui affiancarsi, da cui ripartire per cambiare finalmente lo stato del paese. In mano alle donne, ieri, la politica si è fatta più radicale e credibile, perché ha usato le parole, le voci, i gesti, non per le solite invettive e ironie e slogan e promesse che intorbidiscono e raggelano, ma per raccontare il disagio, la paura, la fatica, la rabbia, l'umiliazione, che le donne vere sopportano ogni giorno, come lavoratrici senza lavoro, e madri senza sostegno pubblico, e professioniste la cui eccellenza non le esime dalla precarietà, e giovani donne che non possono fare figli perché senza sicurezze per il futuro, e donne che nessuno protegge dallo sfruttamento, dai maltrattamenti, dall'amore assassino dei loro uomini.

Si sa che l'armata mediatica del berlusconismo che deve il suo imperio alla menzogna e alla capacità di confondere, aveva stabilito che la manifestazione di oggi sarebbe stata dettata dal bigottismo di donne così sfortunate da non poter fare le escort, e da una superba rivalsa contro le vittoriose ragazze di Arcore e altrove. Che delusione! Nessuna, delle tante donne che si sono alternate sul palco, emozionate eppure decise, forti, ha avuto parole arroganti di separazione tra le buone e le cattive. Al massimo è stato detto quello che anche le belle signore del Pdl dovrebbero condividere: che cioè i letti dei potenti più o meno ossessionati dal sesso non dovrebbero essere istantanee scorciatoie per entrare in ruoli pubblici di massima responsabilità. E per esempio la sempre improvvida Gelmini, prima ancora che le piazze cominciassero a riempirsi, annunciò che ci sarebbe stato solo un gruppetto di desolate radical chic, termine così stantio e irreale che forse gli esperti di slogan del governo dovrebbero modificare. Povera ministra da poco mamma e scrittrice di libri per l'infanzia, oltre che falciatrice dell'istruzione pubblica italiana. Davanti a quelle migliaia di persone in ogni piazza, a quel milione accorso al richiamo di un piccolo gruppo di donne arcistufe e finalmente decise a ribellarsi, cosa avrà pensato?

Se persino le donne scese in piazza, persino i partiti dell'opposizione, non si aspettavano un simile successo, figuriamoci gli altri: hanno cominciato a perdere la testa, e prima ancora che vengano dettate dal politburo governativo gli slogan denigratori per negare la realtà, han fatto la loro brutta figura, accusando curiosamente la manifestazione di essere  antiberlusconiana: come infatti vistosamente, fortemente, appassionatamente, voleva essere. I cervelloni berlusconisti da poco tornati a galla come ultima trincea, terrorizzati da quelle piazze gremite, hanno parlato di "odioso sfruttamento delle donne per abbattere il premier" non avendo capito niente dell'autentica civile autonoma rabbia femminile; c'è chi ha vaneggiato di una contro-manifestazione da parte delle ministre in carica, "di orgoglio e di amore anche nelle sue perversioni", e la solita sottosegretaria cattivissima, lei devota ad ogni sospiro del suo idolo e fan delle sue movimentate serate, ha accusato le centinaia di migliaia di donne in piazza "di essere solo strumenti degli uomini", non si sa quali, ma di sicuro non dell'ormai pericolante premier.

Chissà se le tante donne intelligenti e libere che hanno trovato mille colte ragioni per disertare una manifestazione che non risultava loro sufficientemente femminile o femminista, si sono alla fine commosse nel vedere tante altre donne, più sbrigative e meno sofisticate, gridare insieme, senza divisioni, senza distinzioni, il loro bisogno di dignità e di cambiamento. Che poi la differenza è anche questa: le donne non berlusconiane sono in grado di scelte differenti, libere di agire secondo i loro principi in contrapposizione con altre anche se le divergenze sono capillari: nessuna delle signore berlusconiane, dai loro scranni di ministre, sottosegretarie, rappresentanti di partito, osano esprimere non si dice un dissenso, ma un lievissimo, simpatico dubbio. Loro sì, pare, sono al servizio del maschio padrone.

Però una domenica come quella di ieri, così bella, e appassionata, e corale, dovrebbe mettere in guardia anche l'opposizione. Le donne hanno detto basta a questo governo e al suo leader, ma resteranno vigili: dalle piazze ieri è venuta allo scoperto una riserva di energia, di intelligenza, di bellezza, di potere, di senso del futuro femminile, che parevano dispersi o rassegnati. Le donne promettono obiettivi ambiziosi, assicurano che non torneranno indietro, soprattutto che dopo una così straordinaria, spontanea prova di forza, niente, ma proprio niente, sarà più come prima.

(14 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica
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« Risposta #14 inserito:: Maggio 12, 2011, 10:53:06 am »

   
IL COMMENTO

Se questa è una moderata

di NATALIA ASPESI

UNA signora così elegante, non solo nelle borse ma anche nei modi, chi l'avrebbe mai detto? Magari noiosa ma sempre impeccabile, e infatti era del tutto impensabile che la sua nota, signorile compostezza si rifugiasse nella sola sua marmorea cotonatura, e che lei si allineasse ai metodi più che fangosi della sua parte politica. È accaduto ieri nel faccia a faccia su Sky 24 tra lei, Letizia Moratti, sindaco uscente di Milano, ricandidata dal Pdl, e Giuliano Pisapia, che ha l'immane compito di riportare il Comune di Milano al centrosinistra.

La signora è precipitata in una di quelle figuracce che da buona dama milanese educata nel famoso Collegio delle Fanciulle, era sempre riuscita ad evitare. E lo ha fatto con metodo, studiato dai suoi rustici ispiratori, adusi alle massime porcherie, aspettando la chiusura per lanciare la sua immondizia sull'avversario, sapendo che lui non aveva diritto di replica.

Lo ha accusato all'improvviso di essere stato un ladro, più o meno quarant'anni fa, o meglio "di essere stato giudicato responsabile del furto di un veicolo usato per il sequestro e il pestaggio di un giovane. Poi è stato amnistiato". La povera signora sudava e balbettava sventolando un documento, vistosamente affranta perché, pur essendo adusa alle bugie e alle fantasie, non innocue ma neppure fatali, forse non immaginava che sarebbe stata costretta ad arrivare a tanto: a unirsi alla folla della bassa politica berlusconiana, ad usare quei dossier finti e menzogneri di cui devono essere pieni i cassetti del premier e del suo personale di servizio, a diventare lei, una Moratti nata Brichetto Arnaboldi, ricca di famiglia e di petrolio, benefattrice di San Patrignano, ex ministro sia pure mediocre dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, ed ex presidente non luminoso della Rai, un Sallusti, un Feltri, un Belpietro, addirittura uno Scilipoti, una Santanché, uno dei tanti innominabili che hanno tolto ogni dignità alla politica.

Sia il moderatore, Emilio Carelli, che lo stesso Pisapia, che sino a quel momento, elegante come non capita spesso di vederlo, aveva picchiato dura sulla inquieta sindaca, sono rimasti di sale. È stato uno dei soliti momenti cui ormai siamo abituati, in cui i brandelli che restano di una democrazia si sfilacciano del tutto. Carelli non ha avuto la prontezza, dopo la carognata bugiarda, di permettere la replica all'avversario poi, chiusa la trasmissione con quel funesto, vergognoso finale, ha ricordato che da quell'inesistente reato Pisapia era stato assolto con formula piena "per non aver commesso il fatto". Naturalmente gli informatori lo sapevano e non ne hanno tenuto conto, come fanno sempre: si poteva pensare che la Moratti non lo sapesse, ma in questo caso prima di distruggere per sempre la sua già pericolante immagine, avrebbe dovuto informarsi. O forse lo sapeva, ma non è stata in grado di opporre la sua dignità alla violenza distruttiva di chi la comanda, o peggio ancora, terrorizzata dal pensiero che le elezioni si possono anche perdere, e in questo caso non succede niente di grave, soprattutto se una è milionaria e ultrasessantenne, ha scelto di assoggettarsi a un gesto vergognoso, che le toglie per sempre il titolo di "moderata" di cui anche ieri la signora si vantava. E ha continuato a vantarsene, in conferenza stampa, sostenendo di aver usato quella notizia (e pazienza se falsa) proprio per marcare la differenza "tra la mia storia e la sua", una storia, quella morattiana, vistosamente moderata, mentre quella di Pisapia, almeno allora, sul piano politico non lo era. Nella sua giacchina bianca, moderatissima, la sindaca ormai straparlava, non riuscendo nessuno ad afferrare il suo corrucciato ragionamento. In ogni caso, ormai si è capito che "moderato", è definitivamente diventata una brutta parola, visto che si definiscono tali persone che la signora Moratti in altri tempi non avrebbe mai invitato nel suo appartamento milanese su tre piani, e neppure nella casa Batman del figlio, e che ora sono i suoi compagni di viaggio, specialisti nel far uso di estremismo verbale, killeraggio mediatico, attacco alle istituzioni, abitanti di un nuovo mondo dove ogni vergogna è possibile.

L'incontro tra i due contendenti seduti in poltrone fin troppo lontane, come a prevenire un'eventuale scazzottata, poteva essere molto importante per i milanesi sotterrati dai manifesti della ridente fata Letizia che promette da ogni angolo nero di inquinamento della città ben 61mila posti di lavoro nuovi ogni anno e abbraccia coppie di vecchietti adoranti cui promette case gratis, e che di Pisapia conoscono soprattutto l'aspetto e i discorsi ultramoderati, mentre scarpina infaticabile in ogni angolo cittadino per raccontare la sua Milano. Il sindaco magnificava corrucciata il già fatto, preferendo comunque i verbi al futuro, faremo, costruiremo, daremo..., del tutto impermeabile al buon senso pisapiano che le rinfacciava lo stato malinconico della città, le infiltrazioni mafiose, l'Expo ancora per aria. Era la prima volta che i milanesi sentivano parlare di Milano, il che pareva addirittura stravagante, pur trattandosi, per il 15 e il 16 maggio, di elezioni amministrative, cioè dell'elezione del sindaco. Della Moratti. Di Pisapia, non di Berlusconi. Ma poiché gli italiani non possono mai occuparsi di se stessi, dei loro problemi, della loro vita, e nel caso dei milanesi, della disoccupazione, della mancanza di case, delle strade dissestate, della sicurezza in periferia, della solitudine che attanaglia tutti, ma solo del premier, soprattutto questa volta non sono chiamati a decidere se questo sindaco ha amministrato bene, o come capita ovunque esista la democrazia, si può provare a cambiare. Noi disgraziati cittadini siamo chiamati a votare soprattutto pro o contro la magistratura, pro o contro il premier. Ci derubano della nostra città, della nostra quotidianità, di noi stessi. Non contiamo nulla. Forse la pessima figura che ha fatto la Moratti potrà aiutare i milanesi a capire, e come dice Pisapia, a voltare pagina. A non accettare più, oltre alla pessima amministrazione, anche certi metodi politici infamanti e indegni. A sognare di nuovo che Milano torni ad essere la capitale morale del Paese. 

(12 maggio 2011) © Riproduzione riservata
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