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« inserito:: Luglio 05, 2007, 07:03:17 pm » |
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La spallata di Confindustria
Rinaldo Gianola
Il tono è deciso. Le parole inequivocabili. «Meglio un taglio netto, ma limpido, cioè una crisi di governo, che una crisi politica opaca e strisciante» scrive il Sole-24 Ore nell’editoriale di ieri in prima pagina. La voglia di dare una spallata a Romano Prodi deve essere ben forte e motivata in Confindustria.
Dopo le dure esternazioni di Luca di Montezemolo, anche il giornale degli industriali, di solito così misurato ed elegante, spara bordate contro il governo chiedendogli di andare a casa. Sarà forse anche un segno dei tempi se l’attacco è firmato da Guido Gentili, già direttore del Sole-24 Ore nell’epoca oscura della presidenza di Antonio D’Amato, come se nel firmamento confindustriale si volessero ricomporre tutte le divisioni, ritrovare tutte le anime per colpire uniti, e possibilmente affondare, l’esecutivo sostenuto dal centrosinistra.
Le critiche sono già note e ripetute, riguardano in particolare la scarsa propensione «riformista» che Prodi avrebbe messo in campo nella partita delle pensioni e, di più, il giornale della Confindustria (con il riverbero degli altri potenti giornali delle confraternite bancarie e industriali che su pensioni, mercato del lavoro e contratti sono ormai al pensiero unico) rimprovera ai «veri riformisti» di non impegnarsi abbastanza per difendere lo scalone di Maroni e il taglio dei coefficienti. Quello che sorprende, abituati alla dialettica spesso così sopita e sonnolenta della Confindustria, è il crescendo dei toni e degli attacchi al governo, come se Prodi e i suoi alleati, che certo soddisfano poco anche i loro più fedeli elettori, in un anno di governo non avessero fatto nulla, anzi avessero addirittura peggiorato le condizioni finanziarie, sociali ed economiche del Paese.
Eppure sui conti pubblici qualche progresso sostanziale s’è visto, c’è stata la «lenzuolata» di Bersani sulle liberalizzazioni, l’economia è in ripresa e ci sono segni positivi anche sul fronte dell’occupazione. Mettiamoci anche, e per noi non guasta, che c’è stata una lotta serrata all’evasione che ha avuto benefici effetti sulle entrate e soprattutto ha rotto la spirale eticamente devastante di condoni e sanatorie di Berlusconi e Tremonti. In più le imprese hanno portato a casa circa 5 miliardi di euro con la riduzione del cuneo fiscale. Forse non sarà molto, ma è pur sempre un bel gruzzolo. Non per far paragoni, sempre antipatici in questi casi, ma ai lavoratori dipendenti e ai pensionati è andata peggio.
Ma, evidentemente, agli industriali tutto questo non basta. Per gli imprenditori la centralità dell’impresa sconfina nell’esclusività dell’impresa, i loro interessi sono quelli che contano. Gli altri possono aspettare. Siamo in un’altra dimensione. Non si tratta più di criticare e di stimolare, come si conviene a un’organizzazione importante com’è quella degli imprenditori, l’esecutivo e la sua azione, qui si va oltre. C’è qualche cosa di più e di più preoccupante, che potrebbe essere anche una naturale conseguenza dei recenti interventi «politici» di Montezemolo, contro il governo, i partiti, il «sindacato dei fannulloni». Si parte dall’attacco all’esecutivo, si tracima nell’antipolitica perchè destra e sinistra «sono tutti uguali», fino ad arrivare a chiedere la crisi di governo, come se Confindustria fosse un partito dell’opposizione, perchè la riforma delle pensioni non è gradita. Nella latitanza della politica, nel vuoto lasciato dai partiti si infilano gli imprenditori ad occupare ruoli e spazi che a loro, tuttavia, non competono. Qualcuno, anche nel governo, dovrebbe garbatamente ricordarlo agli industriali.
Pubblicato il: 05.07.07 Modificato il: 05.07.07 alle ore 8.40 © l'Unità.
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« Ultima modifica: Luglio 12, 2008, 10:09:46 am da Admin »
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 19, 2008, 11:14:16 pm » |
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Il destino degli operai
Rinaldo Gianola
Non è vero che gli operai non fanno più notizia. Continuano a morire come ieri è accaduto a Porto Marghera a Paolo Ferrara e Denis Zanon. Altri lavoratori, nelle ultime ore, hanno perso la vita nel Padovano e ad Andria.
A Marghera pare che la bombola di ossigeno che poteva salvare i due portuali fosse vuota. Come gli estintori difettosi della ThyssenKrupp a Torino. Non cambia nulla. Tra pochi giorni i morti saranno solo un numero e basta.
Gli operai sono sui giornali e in tv. Muoiono, scioperano, qualcuno pure s’arrabbia e blocca stazioni e autostrade perché magari gli imprenditori, che sono pure loro dei “lavoratori” anche se diversi dai poveri Ferrara e Zanon che certo non godevano di stock option o benefit di varia natura, non vogliono rinnovare il contratto e concedere 117 miserabili euro. Certe categorie di lavoratori devono stare attente: chi muore nel periodo di vacanza contrattuale non incassa nè gli aumenti a regime, nè le una tantum o le altre mance che gli industriali potrebbero garantire in futuro. E’ davvero un peccato.
Ma, d’altra parte, gli operai sono dei rompiballe: continuano a morire nei momenti meno opportuni. I sette della ThyssenKrupp sono arsi vivi proprio prima di Natale, quasi a volerci rovinare le feste. I portuali di Marghera sono asfissiati mentre si prepara il Carnevale veneziano. Se almeno morissero in silenzio e i loro colleghi non facessero tutta quella baraonda di scioperi, cortei, proteste, vuoi mettere come il Paese sarebbe più moderno, più tranquillo, più sereno, più collaborativo. Sarebbe tutto più facile anche per il Partito democratico che ha bisogno di smussare gli angoli, evitare conflitti, usare toni soft che fa anche rima col mitico loft.
Lo sappiamo: a questo punto qualcuno potrebbe alzare il ditino in segno di protesta e chiederci che cosa c’entrano gli «omicidi bianchi» con i rinnovi dei contratti. Perché fare della facile demagogia e mischiare la tragedia della morte con quattro soldi in busta paga, perché legare la sicurezza sui luoghi di lavoro con i metalmeccanici che bloccano le autostrade. Perché, cari signori e cari professori, tutto si tiene. La rabbia e le lacrime che avete visto ai funerali di Torino sono le stesse che trovate oggi a Marghera e nei porti italiani. I problemi di chi non arriva alla fine del mese perché deve pagare il mutuo, le bollette, la scuola sono gli stessi di milioni di famiglie, ed è per questo che vedete gli operai incavolati e offesi per la morte dei loro colleghi e frustrati e rabbiosi perché non gli rinnovano il contratto. È tutto uguale. È un sentimento che si vive dentro, bisogna conoscerlo, ma ha una concretezza palpabile. Basta guardarli, basta parlare con quei lavoratori, ai funerali o alle manifestazioni. Sono testimoni della difficoltà di vivere, di tirare avanti, di emanciparsi, di alzarsi in piedi e camminare spediti, di dare un futuro di speranza ai propri figli senza costringerli a dover elemosinare poche decine di euro per campare al padrone di turno.
La storia è sempre la stessa: ogni volta che uno cerca di andare avanti, di fare un balzo, una forza oscura agisce per tirarti indietro, ti obbliga a restare lì, a non muoverti. La sicurezza sul luogo di lavoro, il salario dignitoso, la possibilità di veder riconosciuti i propri diritti anche economici non sono obiettivi scindibili, sono la stessa cosa. Gli operai di Torino e di Marghera chiedono dignità e rispetto, rispetto per le loro vite e dignità per i loro salari, le loro famiglie, il loro futuro. Rispetto e dignità vuol dire anche che non si possono prendere gli operai per fame, ritardando i rinnovi contrattuali per mesi e per anni, fino alla beffa di leggere sui giornali di lorsignori che i sindacati hanno rifiutato una proposta di aumento superiore alle stesse richieste dei lavoratori. Ma non vi vergognate a raccontare queste balle? Così come ci sarebbe da chiedere a Montezemolo se è davvero moderno minacciare elargizioni unilaterali ai propri dipendenti per tirare uno schiaffo ai sindacati, per fregarsene di mediazioni ministeriali, contratti e firme.
Ma, alla fine di una giornata triste, quello che rimane non è nemmeno la voglia di polemizzare e di litigare, anche se ne vale la pena e non abbiamo alcun timore a farlo. Quello che resta, in verità, è solo il lutto, il dolore, il silenzio per quelli che non ci sono più e una grande, profonda solidarietà per le loro famiglie e per gli operai di Marghera.
Pubblicato il: 19.01.08 Modificato il: 19.01.08 alle ore 10.25 © l'Unità.
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 15, 2008, 09:17:28 pm » |
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Due secoli in Borsa
Rinaldo Gianola
Gli anniversari vanno festeggiati con brindisi e cotillon, a maggior ragione quando i protagonisti sono importanti istituzioni come la Borsa che oggi, presente il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, compie duecento anni. Questo non vuol dire, tuttavia, nascondere i ritardi, i guai e anche i pasticci. Il napoleonico Palazzo Mezzanotte continua a ospitare il mercato azionario che, nel bene e nel male, rappresenta la nostra economia, il capitalismo nazionale in tutte le sue espressioni, le migliori e le peggiori. Se usassimo il metro della Storia si potrebbe dire che Rivoluzione e Congresso di Vienna si sono spesso alternati in piazza Affari.
Eppure, è sempre stato arduo, quasi impossibile, distinguere gli autentici innovatori dai restauratori. Certi protagonisti ti apparivano a prima vista illuminati e coraggiosi, campioni senza macchia e senza paura, ma poi, appena ti illudevi, si palesavano come mascalzoni o peggio. Un vecchio cronista di Borsa, Emilio Moar, cresciuto dai Martinitt, di fronte a inspiegabili successi di certi personaggi commentava in milanese: «Ma se la se gira...», cioè se l’aria cambia vedrete come finiranno i nostri eroi. È una filosofia ancora giusta come dimostrano le cronache di casa nostra e le storie di recenti scandali in America, in Inghilterra, in Francia La Borsa è come il capitalismo tricolore. Capace di grandi imprese, a volte geniale, ma ristretto, oligarchico, spesso familiare o peggio familista, un capitalismo di relazione tra pochi eletti che si ritrovano in circoli esclusivi dove si entra per cooptazione e non per merito. Anche per questo, nonostante il matrimonio con Londra che ci fa partecipare ai grandi giochi, il listino italiano è ancora poca cosa per rappresentare una delle potenze economiche del mondo (ammesso che questo G7 abbia ancora un senso, di fronte a giganti come India e Cina). Le società quotate superano di poco il numero di 300, la capitalizzazione (cioè il valore complessivo di tutte le aziende quotate) sfiora a malapena il 50% del prodotto interno lordo mentre altri paesi a noi vicini raggiungono livelli molto più elevati. In più dobbiamo considerare lo scarso “pluralismo” del nostro mercato azionario. Ci sono pochissimi grandi gruppi, e ci sono poche piccole e medie aziende quotate. Insomma ci manca un pò di tutto. La concentrazione del listino è fortissima: appena sette imprese (Eni, Unicredit, IntesaSanPaolo, Enel, Generali, Telecom, Fiat) coprono oltre il 50% dell’intera capitalizzazione. Interessante è verificare che di queste società solo due (Generali e Fiat) sono di origine esclusivamente privata, mentre alcune sono di Stato (Eni ed Enel) e altre vengono anche dalla sfera pubblica (la privatizzata Telecom, Unicredit che contiene le ex bin Credito Italiano e Banca di Roma, IntesaSanPaolo che ingloba la gloriosa Commerciale).
Da anni economisti, politici, imprenditori si interrogano sul motivo per cui la Borsa sia così ristretta, seppur con una lenta tendenza a crescere, e gli inviti e le sollecitazioni alla quotazione sono continui anche se restano privi di risultati apprezzabili. Spesso gli studi di Mediobanca o di Confindustria ci hanno spiegato che sono migliaia le piccole e medie aziende che potrebbero accedere al listino, raccogliere capitali per il loro sviluppo, rafforzare le loro strutture patrimoniali. In realtà la Borsa è vista ancora, e non solo dalle imprese, come qualcosa di lontano, un veicolo interessante ma pericoloso, col quale ci si può anche far male. Gli italiani sono, o forse erano, un popolo di risparmiatori ma piazza Affari non li ha mai convinti del tutto. Negli anni Ottanta ci fu il boom legato alla nascita dei fondi di investimento e i Bot people si aprirono a nuove opportunità. Per la cronaca va segnalato che proprio nel mese di gennaio appena terminato il sistema del risparmio gestito ha registrato il peggior risultato della sua storia. Poi venne la stagione dei “condottieri” come Carlo De Benedetti, forse il primo industriale italiano capace di usare la Borsa in modo moderno, oppure Raul Gardini che voleva fare la «chimica mondiale» ma finì suicida nella sua abitazione milanese, mentre Silvio Berlusconi, unico grande imprenditore cresciuto lontano dall’ombrello protettore della Mediobanca di Enrico Cuccia, non ha mai amato la Borsa: ha ceduto solo quando per salvare se stesso e il suo gruppo decise di quotare, e con successo, Mediaset.
A ben vedere la storia di piazza Affari è piena di reazionari e di ben pochi “rivoluzionari”. Chi minaccia l’ordine costituito di solito finisce male. Una certa simpatia la ispirò Mario Schimberni che, a metà degli anni Ottanta, sfidò i suoi stessi padroni. Schimberni guidava la Montedison e scalò la Bi Invest della storica famiglia Bonomi che venne disarcionata in una torrida giornata d’estate. Non contento Schimberni si mise poi a scalare la Fondiaria sfidando l’ira di Cuccia e di Gianni Agnelli che sentenziò: «Bi Invest umanum, Fondiaria diabolicum».D’altra parte la Borsa è stata spesso teatro di battaglie e di vere e proprie guerre. Purtroppo quasi sempre combattute in assenza di regole o di arbitri credibili, per cui anche semplici contrasti facevano scappare i risparmiatori. Anche se può apparire un pregiudizio la nostra Borsa è sempre stata in ritardo, sia negli assetti istituzionali sia per le regole che spesso mancavano. Un paio di esempi non guastano.
La prima offerta pubblica di acquisto, la leggendaria Opa Bastogi, venne proposta da Michele Sindona che, diciamolo, non era proprio un galantuomo. Per far entrare davvero in funzione la Consob, l’Autorità di controllo delle società e la Borsa, ci volle il crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, all’inizio degli anni Ottanta. Solo con il biennio 1992-’93, dopo l’esplosione di Mani Pulite che fece emergere la commistione indebita tra politica e affari, le società, in particolare i grandi gruppi, fecero pulizia al loro interno, cancellando fondi neri, conti truccati, tesoretti vari, contributi ai partiti che erano autentiche forme di corruzione. In quegli anni la crisi di Montedison-Ferruzzi, dell’Eni, della Fiat furono la cartina di tornasole non solo di una recessione che colpiva l’Italia, ma la fine di una stagione. U
na nuova epoca, in effetti, venne inaugurata nel 1992 con una politica coerente di privatizzazioni, come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, protagonista di quel periodo in veste di direttore generale del Tesoro, prima di trasferirsi alla Goldman Sachs.Le vendite di aziende di Stato hanno certamente favorito la lotta al debito pubblico, la crescita del mercato azionario, anche importanti processi di aggregazione in particolare nel settore bancario. Ma, a ben vedere, non è stato raggiunto l’obiettivo di rendere più aperto, pluralista e potremmo dire democratico, rischiando l’ossimoro, il capitalismo.
Le privatizzazioni, a volte, si sono risolte nel semplice trasferimento di rendite di Stato o di settori “tariffati” dal pubblico al privato, come nel caso delle Autostrade (perchè mai devono stare nella mani dei Benetton?) o di Telecom, la cui vendita ha rappresentato il maggior fallimento del capitalismo tricolore anche se ci ha regalato l’Opa lanciata dall’Olivetti, una delle poche vere operazioni di mercato realizzate in questo Paese. In conclusione l’unica consolazione per la Borsa e anche per l’intero Paese è che tutti, ma proprio tutti, siamo stati salvati dall’Europa. Meno male che ci siamo dentro, altrimenti chissà che guai in piazza Affari e fuori.
Pubblicato il: 15.02.08 Modificato il: 15.02.08 alle ore 14.43 © l'Unità.
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 30, 2008, 09:34:22 pm » |
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Telecom Italia confidential
Rinaldo Gianola
Se la limatura del contratto di qualche anchorman de La7 ho mobilitato fior di commentatori, se la paura di perdere le interviste della Bignardi tiene alcuni in ansia, se la linea editoriale di Giovanni Stella, in arte “er canaro” neo capo della tv di Telecom Italia, ha fatto gridare allo scandalo perché così poco elegante, allora c’è da chiedersi cosa succederà nei prossimi giorni quando si dovrà discutere dei 5000 esuberi annunciati dal gruppo di telecomunicazioni. Qui non si tratta di rimpiangere le Markette di Chiambretti, ma di sapere come mai Telecom voglia allontanare qualche migliaio di dipendenti per «recuperare efficienza». Questa notizia degli esuberi, di cui pochi si sono occupati anche se ovviamente è più importante delle sorti di Crozza e Ferrara, rappresenta un passaggio importante per capire dove sta andando uno dei grandi gruppi industriali che, dalla fine dello scorso anno, è guidato da Gabriele Galateri di Genola e Franco Bernabè e conta su un nuovo pool di controllo dove la novità è la spagnola Telefonica.
Ora se il tremendo Stella fa quello che può e che deve per tentare di salvare una società che perde un terzo di quanto ricava, e quindi in un’altra dimensione aziendale sarebbe già defunta, la ristrutturazione di Bernabè suscita qualche interrogativo e più di una perplessità. Tanto che i sindacati non hanno affatto gradito le migliaia di esuberi e per venerdì prossimo hanno deciso uno sciopero generale del gruppo.
Dove sta andando Telecom? Il ritorno di Bernabè alla guida dell’ex monopolista, dopo il veloce passaggio del 1999 quando venne esautorato dalla scalata dell’Olivetti, non è stato finora molto fortunato, diciamo così. Se si prendesse in considerazione il mercato, che anche per lady Emma Marcegaglia è il supremo giudice, il bilancio provvisorio non potrebbe essere confortante: negli ultimi sei mesi il titolo Telecom ha perso oltre il 40% del valore. Ma non ci si può legare solo a questo indicatore, che pur ha un rilevante impatto sugli investitori, i risparmiatori e anche sulle stock options dei manager, per giudicare l’operato della nuova compagine di azionisti e dei nuovi vertici. Ci vuole tempo, prima di fare bilanci. Soprattutto solo il tempo dirà se Telecom continuerà ad esistere come entità autonoma o sarà costretta a una fusione magari proprio con l’aggressiva Telefonica.
Bernabè ha iniziato la sue seconda stagione in Telecom con uno stile da partito democratico: buonista, cercando il dialogo e di fare la pace con tutti. Innanzitutto ha avviato un chiarimento con l’Autorità del settore, con la quale la passata gestione di Marco Tronchetti Provera aveva avuto più di un conflitto, e ha stabilito, almeno sembra, rapporti più sereni anche con i più forti competitori presenti sul mercato domestico. Ha detto che non abbandonerà ma anzi rafforzerà la presenza in Brasile, mercato ad alto tasso di sviluppo, vuole investire nei servizi più avanzati, avvierà un discorso con Tiscali (di proprietà del neo editore de l'Unità, Renato Soru), vuole portare la banda larga ovunque (anche il governo, pare, gli sta dando una mano), riducendo l’indebitamento e premiando comunque gli azionisti.
Il titolo, però, continua a scendere. Come mai? Qui non c’entrano solo la crisi finanziaria, i subprime e la recessione. Le telecomunicazioni hanno perso quella valenza forse esagerata che avevano verso la fine degli anni Novanta, sull’onda del successo della New Economy quando le compagnie di telecomunicazioni venivano valorizzate in misura abnorme dal mercato e dai consumatori. Oggi l’interesse è minore. Le telecomunicazioni e tutto quello che le lega a internet, alla tv, alla multimedialità sono ancora molto importanti ma vengono percepite come una merce, una “commodity” o poco più: le compagnie si comprano un pezzo di banda larga in un paese, un po’ di telefonia mobile in un altro, sperimentano una tv in un altro ancora. Non c’è più il tocco magico e nemmeno quell’euforia irrazionale che spingeva tutto al rialzo. Allora bisogna lavorare sui servizi, le tariffe, la competizione.
La scelta di ridurre di 5000 unità la forza lavoro non è una brillante idea manageriale: non c’è bisogno di aver studiato ad Harvard per cacciare qualche migliaio di persone sperando di ridurre i costi e guadagnare qualche euro in più nell’ultima riga del conto economico. In più questi esuberi non sono ben motivati e c’è la spiacevole sensazione che si voglia far pagare ai lavoratori, che certamente saranno tutelati nella loro eventuale uscita, un conto che altri non hanno pagato. Bernabè ha sempre beneficiato di un’immagine di manager progressista, fin dai tempi in cui scampò allo scandalo Enimont e riuscì poi a spingere fuori dall’Eni i partiti delle tangenti. Per questo ci saremmo aspettati da un uomo cui non difetta il coraggio (fummo testimoni addirittura di un suo rock and roll scatenato in coppia con Lilli Gruber a Wall Street nel gennaio 2002...) e anche una sicura abilità dialettica una spiegazione convincente al momento dell’annuncio delle migliaia di esuberi. Perché nelle vicende Telecom degli ultimi tempi sono ancora aperte partite (com’è governata oggi le Security? Che eredità ha lasciato la passata gestione?) che meritano di essere chiarite. Soprattutto da chi si pone come un campione di un presunto capitalismo leale e trasparente, sempre ammesso che non sia un ossimoro.
Facciamo un esempio che può aiutare. A pagina 144 della relazione del bilancio consolidato Telecom del 2007, nel capitolo sulle Risorse Umane, in maiuscolo ovviamente, si legge: «Le società del gruppo riconoscono la centralità delle Risorse Umane, nella convinzione che il principale fattore di successo di ogni impresa sia costituito dal contributo professionale delle persone che vi operano, in un quadro di lealtà e di fiducia reciproca. Le società del gruppo tutelano la sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro e ritengono fondamentale il rispetto dei diritti dei lavoratori». Bene, allora perchè cacciate 5000 persone? Ma poi qualcuno potrebbe anche incavolarsi, e di brutto, passando alle pagine 176-177 dove si parla «delle indennità degli amministratori in caso di dimissioni, licenziamento o cessazione del rapporto a seguito di un’offerta pubblica di acquisto».
Da queste note apprendiamo, a proposito di «efficienza», che l’ex vicepresidente esecutivo Carlo Buora, uscito nel dicembre 2007, è stato corrisposto «un importo pari ad euro 4.400.000». Ma non basta. «Con lui è stato altresì stipulato un patto di non concorrenza di durata biennale, relativo ai business del gruppo e per il territorio europeo, con corrispettivo di euro lordi 4.000.000 da liquidarsi in quattro rate semestrali posticipate a partire dalla chiusura del rapporto». Non è finita, c’è anche la liquidazione dell’ex amministratore delegato Riccardo Ruggiero al quale è stato corrisposto «un c.d. “incentivo all’esodo” di euro 9.915.000». C’è di più. Scrive il consiglio di amministrazione che «la considerazione poi delle particolari circostanze che hanno caratterizzato la vita aziendale dello scorso esercizio e dell’evidenza che di esse è stata ripetutamente data dai media ha suggerito altresì di stipulare con il dott. Ruggiero una c.d. “transazione tombale” mediante la quale Telecom Italia ha ottenuto, a fronte di una corresponsione di una somma di 2 milioni di euro (poco più di una annualità di compensi fissi), la rinuncia a qualsiasi rivendicazione retributiva (...) nonchè la rinuncia a qualsiasi rivendicazione per danni di qualsivoglia natura, anche di immagine». Che spettacolo!
Ci sarebbe anche da raccontare il caso di Antonio Campo Dall’Orto, il genio della “tv dei fighetti” con percentuali di audience da prefisso telefonico difeso da Aldo Grasso sul Corrie della Sera, che grazie a una clausola contrattuale che regolava le dimissioni in seguito alle eventuali modifiche dell’assetto azionario, ha portato a casa un vero e propro tesoretto. Forse Bernabè, che ha dedicato una-riga-una ai 5000 esuberi nell’intervista concessa a Giovanni Pons su Repubblica nei giorni scorsi, potrebbe illustrare almeno che relazione esiste tra certe liquidazioni miliardarie e gli obiettivi di «efficienza» aziendale che spingono a tagliare migliaia di posti di lavoro.
Pubblicato il: 30.06.08 Modificato il: 30.06.08 alle ore 9.04 © l'Unità
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 06, 2008, 12:09:14 am » |
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2008-10-05 21:33
UNICREDIT, PIANO DA 6,6 MLD. MERKEL, GARANZIE SU DEPOSITI
MILANO - Il consiglio di amministrazione di Unicredit ha approvato un piano anti-crisi da 6,6 miliardi di euro per rafforzare la patrimonializzazione del gruppo per raggiungere un Core Tier 1 ratio del 6,7%. Lo si apprende da una nota diffusa dopo una seduta straordinaria del cda, riunita per oltre 5 ore nella sede di Piazza Cordusio.
"Il sostegno convinto dato dai nostri principali azionisti al piano di rafforzamento del capitale è un chiaro messaggio di fiducia nel gruppo, nel suo modello di business diversificato e nella sua solidità finanziaria". "Il consiglio di amministrazione ha voluto sottolineare il suo forte sostegno e la sua completa fiducia nel management". Questo il messaggio del presidente di Unicredit Dieter Rampl al termine del Cda.
"Questa operazione - ha proseguito Rampl - fa di Unicredit uno dei gruppi con il più elevato livello di patrimonializzazione in Italia". Rampl si è poi detto convinto che "la performance commerciale e un'ancora più solida base patrimoniale continueranno a rappresentare gli elementi chiave per la creazione di valore di Unicredit a beneficio dei suoi azionisti, dei suoi clienti e dei suoi dipendenti".
MERKEL: GARANZIE SUI DEPOSITI - Ampliate le garanzie sui depositi e trattative a tutto capo per salvare Hypo Re, al fine di rassicurare il sistema ed evitare che una crisi sul mercato finanziario tedesco possa ripercuotersi sulla maggiore economia europea. La cancelliera Angela Merkel, all'indomani del G4 di Parigi, assicura che il governo tedesco non lascerà fallire nessuna società: "Non permetteremo che le difficoltà di un'istituzione finanziaria mettano in pericolo l'intero sistema. Per questo motivo stiamo lavorando duramente per proteggere e rendere stabile Hypo Real Estate".
La seconda banca tedesca specializzata in mutui immobiliari ha visto svanire in poche ore il piano di salvataggio da 35 miliardi di euro, il maggiore della storia tedesca. Approvato anche dalla Commissione Europea, il progetto avrebbe dovuto coprire i bisogni di cassa di Hypo fino ad aprile. Il consorzio di banche che avrebbe dovuto fornire le linee di liquidità si é però tirato indietro, lasciando così Hypo sull'orlo della bancarotta. L'operazione consisteva in un apporto immediato di liquidità dalle banche e dalla banca centrale con una garanzia fornita dallo stato tedesco per 26,5 miliardi dei 35 complessivi. Per evitare il fallimento della banca, il governo tedesco sta lavorando - spiega il ministro delle finanze tedesco Peer Steinbrueck - a una "soluzione specifica" per l'istituto.
"Abbiamo dovuto ripartire da zero: alla fine della scorsa settimana pensavano di aver trovato una soluzione", spiega Steinbrueck, precisando che Hypo Re accusa mancanza di liquidità per miliardi euro. Una soluzione dovrebbe essere trovata prima dell'apertura dei mercati lunedì. Nel piano allo studio rientra anche l'impegno a punire chi abbia assunto decisioni di mercato sconsiderate, di cui dovrà rispondere, ma anche la garanzia per tutti i depositi. L'estensione delle garanzie riguarderà tutti i conti privati ed è simile alla misura adottata dall'Irlanda nei giorni scorsi: i dettagli della decisione saranno formalizzati nei prossimi giorni ma l'annuncio odierno mira a smorzare le eventuali preoccupazioni dei tedeschi: "Vogliamo inviare un messaggio, e cioé che nessuno deve avere timori di perdere neanche un euro dalla crisi". Attualmente il limite di assicurazione dei depositi in Germania é fissato al 90% per tutti risparmi privati fino a 20.000 euro. Si tratta del limite più basso in Europa.
da ansa.it
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 06, 2008, 06:27:59 pm » |
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La crisi di Profumo
Rinaldo Gianola
Quando il capo di una delle più potenti banche europee entra a sorpresa nelle case degli italiani presentandosi al tg delle 20, nell’ora di massimo ascolto, vuol dire che vive nel terrore.
Se un banchiere come Alessandro Profumo, amministratore delegato di Unicredit, sceglie, come ha fatto pochi giorni fa, di farsi intervistare da Gianni Riotta per tranquillizzare dipendenti e azionisti commette un errore madornale che può essere giustificato solo da due fatti: o Profumo ha un’enorme stima di se stesso tale da fargli perdere di vista le reali dimensioni del problema, o è stato mal consigliato. L’apparizione televisiva di Profumo, banchiere abituato alla riservatezza e al controllo delle parole, ha confermato immediatamente, qualora qualcuno avesse sottovalutato il caso Unicredit, le difficoltà in cui è precipitato uno dei maggiori istituti di credito italiani ed europei.
Vittima della speculazione ribassista oppure di un misterioso gangster londinese che ha osato vendere “allo scoperto” i titoli della banca di piazza Cordusio, Profumo si troverebbe in queste difficoltà, secondo la versione corrente sui grandi giornali, perchè indebitamente attaccato da forze oscure che agiscono sul mercato. Sono giustificazioni parziali che hanno un loro valore in questa congiuntura di Borsa, ma che non riescono affatto a spiegare, tanto per fare un semplice esempio, come mai la capitalizzazione di Borsa di Unicredit sia più che dimezzata in meno di due anni, passando da 100miliardi di euro agli attuali 39 miliardi. Colpa delle vendite “allo scoperto”? Non è una scusa credibile. Nemmeno quella del complotto. Perchè un banchiere così bravo e famoso, passato dalla Bocconi alla McKinsey fino a diventare per la stampa internazionale «Kaiser Alessandro», avrà certamente appreso come alcuni ritengono la speculazione un po’ il sale dei mercati, che si può soffrire quando è al ribasso, ma non risulta che qualcuno si sia mai allarmato quando il rialzo portava il titolo Unicredit a livelli siderali. C’è qualche cosa di più profondo da ricercare, dunque, se si vuole davvero spiegare la drammatica caduta di Unicredit. Se la banca è finita sotto attacco, e probabilmente qualcuno ha anche pensato a un take over ostile in questa situazione, è perchè il mercato ha percepito la debolezza della banca in questo frangente, una debolezza che deve essere stata segnalata anche dal Governatore Draghi se il consiglio di amministrazione ha deciso di correre ai ripari con un’operazione monstre destinata a rafforzare i coefficienti patrimoniali. Certi operatori di Borsa sono come i cani da caccia: “sentono” la preda, la stanano fino ad azzannarla. Unicredit si è dimostata, fino a ieri, una preda debole. Vedremo se si rafforzerà con la cura decisa ieri sera. La parabola discendente di Unicredit e del suo leader Profumo, che speriamo sia finita perchè la banca è troppo importante per l’Italia e l’Europa, non è un fatto episodico, momentaneo. Già da più di un anno la banca sembrava aver perso lo smalto, la brillantezza di un tempo. Nei mesi scorsi si era parlato con insistenza di una eccessiva dimestichezza della banca con i derivati - rammentiamo persino una polemica tra il Sole24 Ore e Unicredit -, altri avevano denunciato l’esposizione delle controllate dell’Est europeo verso i prodotti finanziari tossici, in più non è una novità che tra l’amministratore delegato Profumo e le Fondazioni azioniste (Verona, Torino, Carimonte) siano sorte, a più riprese, tensioni su vari temi, compresa la gestione delle ricche partecipazioni finanziarie.
Ma c’è un momento in cui la stella di Profumo cessa di brillare. C’è un attimo in cui il mercato e la stampa internazionale hanno preso a guardarlo con altri occhi, molto più severi. Il momento della caduta di Profumo inizia quando Unicredit acquista Capitalia. Se si supera la retorica della grande operazione nazionale, dei laudatores dell’integrazione tra due gruppi creditizi che rafforza l’Italia nel mondo, si vede come proprio quando Unicredit tocca livelli record di capitalizzazione e si posiziona tra i primi nella classifica del credito in Europa, inizia in realtà a indebolirsi. Come mai? Non ci sono risposte certe e conclusive. Ma qualche solida ipotesi si può avanzare. Molti hanno pensato, e agito di conseguenza sul mercato, che l’abbraccio tra Profumo e Cesare Geronzi cementasse un affare di potere più che una fusione bancaria. Molti hanno ritenuto che la filosofia di Profumo della “creazione del valore”, di una politica tutta proiettata alla tutela dello shareholder value, sparissero all’improvviso dietro un patto di potere. A Profumo tutto l’impero bancario di Unicredit più le rissose province di Capitalia; a Geronzi la guida di Mediobanca, il santuario della finanza tricolore, con vista privilegiata sulle Assicurazioni Generali. Sarà forse un caso ma da quell’abbraccio Profumo ha perso il tocco magico.
Pur ricercato, spesso inutilmente, dai salotti delle sciure milanesi, pur apprezzato da giornaliste di costume che ne decantano la coraggiosa scelta del tabarro anzichè del cappotto dei comuni mortali, pur godendo della fama di banchiere progressista (con la moglie, la signora Sabina Ratti già in gara alle primarie dei democrats, frazione Rosy Bindi), Profumo non è più lo stesso, sembra aver perso lo smalto del fuoriclasse. E alcuni ultimi episodi testimoniano di una timidezza sorprendente davanti a partite decisive. Quando Geronzi decide che il sistema di governance duale non va più bene in Mediobanca perchè lui vuole contare di più, Profumo fa filtrare la sua apparente contrarietà, salvo poi ripetere il mantra dell’importante «è creare valore» e infine accettare con pochi ritocchi la restaurazione geronziana. Inoltre l’assenza di Unicredit da una sfida improba come quella di Alitalia, mentre i concorrenti di Intesa SanPaolo ispirati dal «capitalismo temperato» di Bazoli si buttavano a capofitto non senza rischi, è apparsa come un’abdicazione a un salvataggio che interessava il Paese e migliaia di lavoratori. Ma Profumo deve aver ritenuto che Alitalia non era un’occasione per creare valore. Sabato scorso, parlando agli studenti del Collegio di Milano, Profumo ha promesso che lascerà il suo incarico a sessant’anni, oggi ne ha cinquantuno. È un segno di ottimismo incoraggiante in questo momento. Bisognerà vedere, però, se i suoi azionisti sono d’accordo.
Pubblicato il: 06.10.08 Modificato il: 06.10.08 alle ore 11.46 © l'Unità.
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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 27, 2008, 03:11:12 pm » |
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Marina nel cda, Berlusconi scala Mediobanca
Rinaldo Gianola
L'ingresso di Marina Berlusconi nel consiglio di amministrazione di Mediobanca, atteso all'assemblea degli azionisti di domani, segna un passaggio importante negli assetti e negli equilibri del potere economico italiano. Sarebbe, infatti, un errore considerare la nomina della figlia del premier, che già ricopre importanti ruoli come la presidenza della Mondadori, come una semplice promozione ai vertici della maggior banca d'affari, da sempre stanza di compensazione del capitalismo tricolore. La novità, invece, segna la definitiva presa di Berlusconi sui gangli vitali della finanza e dell'economia, attraverso la presenza diretta della Fininvest nell'azionariato dell'Istituto e da domani anche con l'esordio della figlia in consiglio.
Un Berlusconi in Mediobanca è davvero una grossa novità, sia per la storia del gruppo Fininvest-Mediaset, sia perchè coincide con la svolta bonapartista imposta da Cesare Geronzi che ha ottenuto la cancellazione del sistema di governance duale (con la separazione tra azionisti e manager, solo un anno fa era soluzione presentata come una rivoluzione...) per tornare a quello tradizionale del solo consiglio di amministrazione di cui proprio Geronzi, «l'unico banchiere non di sinistra» secondo una definizione del premier, sarà presidente. Anche Berlusconi è cambiato. Vent'anni fa, all'epoca della privatizzazione di Mediobanca con la parziale uscita delle ex banche di interesse nazionale (Comit, Credit e Banca di Roma) il tycoon di Arcore rifiutò di partecipare: «Dovrei spendere 40 miliardi per non contare nulla...» disse, con il solito senso degli affari. Ma quelli erano altri tempi: Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi guidavano la banca con il loro ascetismo calvinista, Gianni Agnelli e Leopoldo Pirelli erano la faccia nobile del capitalismo. Il potere si esercitava in poche mani e i neofiti, come Berlusconi, venivano trattati con distacco dall'aristocrazia imprenditoriale. Ma i tempi cambiano e il premier-imprenditore comprende oggi l'importanza di stare in Mediobanca in prima fila, assieme agli amici Geronzi, Ennio Doris, Tarak Ben Ammar, Vincent Bollorè e Salvatore Ligresti (quest'ultimo rappresentato dalla figlia Jonella) con il quale divideva appalti e affari nell'indimenticabile Milano di Craxi. L'avanzata di Berlusconi e dei suoi alleati in Mediobanca è spedita, ben più forte del semplice possesso di azioni. Non ci sono più i vecchi leoni, De Benedetti addirittura è impegnato a scrivere libri per la Mondadori (Ingegnere, ma non poteva scegliere un'altra casa editrice?), non si trovano oppositori. Alessandro Profumo, capo di Unicredit, uno dei pochi che avrebbe potuto esercitare il suo ruolo di grande azionista e contrastare l'avanzata delle truppe berlusconiane, sconta errori e presunzione ed è costretto ad accettare le garanzie della Mediobanca di Geronzi per la ricapitalizzazione di 6 miliardi di euro della sua banca.
Facile immaginare, dunque, che non solo dal governo ma anche dal santuario di piazzetta Cuccia, Berlusconi eserciterà la sua moral suasion sulle imprese. Da Mediobanca si domina sulle Generali, su Telecom, sul Corriere della Sera e mille altre province. La signora Marina, c'è da scommetterci, farà bene il suo lavoro. Negli ultimi tempi non si è accontentata di apparire nella classifica di Forbes delle imprenditrici più potenti. Ha attaccato Veltroni in un'intervista sul Corriere della Sera e ha polemizzato con Barbara Spinelli che aveva osato criticare il papà sulla Stampa. Inizia una nuova epoca: piccoli Berlusconi crescono, si moltiplicano e comandano.
Pubblicato il: 27.10.08 Modificato il: 27.10.08 alle ore 8.57 © l'Unità.
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« Ultima modifica: Novembre 20, 2008, 11:29:49 am da Admin »
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 20, 2009, 05:25:12 pm » |
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Veronica e il rifugio in Svizzera
di Rinaldo Gianola
Berlusconi e Agnelli, il premier e il più potente gruppo industriale privato. L’eredità, il divorzio, lo scontro. La moglie contro il marito. La figlia contro la madre. Veronica e Margherita. E la Svizzera. Il capitalismo italiano anima l’estate 2009 con vicende familiari che minacciano di incrinare un sistema di potere consolidato, di turbare l’immagine di grandi capitani d’industria col sospetto, e anche qualche cosa di più, che fossero pure dei grandi evasori oltre che inflessibili condottieri di stampo sabaudo. Separazioni e litigi che dalla dimensione personale e di portafoglio tracimano nella politica, arrivano, come nel caso della famiglia Berlusconi, alla presidenza del Consiglio, al governo, agli interessi privati e anche di mercato di un imprenditore prestato alla politica.
Poi c’è la Svizzera, patria dei conti correnti e dei caveau, rifugio sicuro (almeno una volta, oggi un po’ meno anche se non abbiamo ancora visto miliardari in fuga come gli anarchici cantando “Addio Lugano bella...”) per chi vuol farsi dimenticare e vivere in silenzio, coi propri segreti e coi propri quattrini. Dal Lago di Ginevra Margherita Agnelli ha lanciato accuse alla sua famiglia e ai fedeli collaboratori di suo padre che minacciano di destabilizzare l’intero gruppo Fiat, di portare gli eredi Agnelli sul banco degli imputati come beneficiari di un patrimonio creato con l’evasione fiscale e l’esportazione di capitali. Tutto si tiene e nulla cambia: ai tempi di Mani Pulite la Fiat aveva in Svizzera un tesoretto che usava per pagare tangenti. Adesso Margherita chiede alla mamma di rivelare dov’è finito un tesoro di circa 2 miliardi di euro. È un pasticcio che richiama l’attenzione dell’Agenzia delle Entrate. Un capitolo esemplare del capitalismo familiare.
Forse andrà a vivere in Svizzera anche Veronica Lario, nome d’arte di Miriam Raffaella Bartolini, 53 anni, moglie di Silvio Berlusconi. Magari è solo una voce che alimenta la torrida estate milanese, ma c’è qualche cosa di fondato e di credibile in questa indiscrezione che spinge la moglie del premier a cercare riparo, rifugio, lontano delle battaglie e dai veleni che la stampa e gli avvocati del marito spargono a piene mani. La mamma di Veronica starebbe ristrutturando una casa acquistata in Svizzera: forse la utilizzerà anche la figlia. Altri dicono che Veronica, che ha un certo fiuto per gli investimenti immobiliari, potrebbe prendere casa al confine, magari nei pressi di Lugano scelta dalla figlia Barbara per far nascere i suoi due figli con la garanzia del pieno rispetto della privacy. Si vedrà.
Per evitare il peggio hanno tessuto la loro opera silenziosa i vecchi amici di Silvio e di Veronica. Hanno speso parole di saggezza Fedele Confalonieri e Gianni Letta, anche Don Verzè ha fatto il suo. Ma la rottura non si può ricomporre, per ora trattano gli avvocati. C’è da tutelare i diritti dei cinque figli Berlusconi: Marina e Piersilvio del primo matrimonio, Barbara, Eleonora, Luigi dall’unione con Veronica. I primi sono già attivi nella conduzione delle società del gruppo. Gli ultimi tre scalpitano. Barbara dice a "Vanity Fair" che non si saranno problemi se suo padre «sarà equo», che sarà forse una battuta ingenua ma risulta una pugnalata. Bisogna trovare posti e spazio: se Piersilvio ha potuto dare un ruolo a un ex compagno di scuola in Mediaset, possibile che Barbara non possa andare alla Mondadori, come vorrebbe?
Sono vicende che possono creare tensioni, anche quando non si vuole. Ci vorrebbe pazienza e collaborazione, ma quando ci sono di mezzi i sentimenti, la rabbia di una separazione, tanti soldi e potere, tutto diventa più difficile. Da una parte c’è Silvio Berlusconi che, sotto la Fininvest, ha messo insieme un gruppo che vale oltre 6 miliardi di euro, più oltre un miliardo di liquidità che sta nella cassaforte della capogruppo (Carlo De Benedetti ha chiesto alla holding di Berlusconi un risarcimento danni proprio di un miliardo per la sentenza comprata del caso Mondadori). Bisogna inoltre verificare se esistono altre attività e interessi all’estero. Dall’altra parte c’è Veronica Lario, la moglie. Anche Veronica si è costituita, in trent’anni di vita con Berlusconi, un tesoretto.
Miriam Bartolini,cioè Veronica Lario, possiede la totalità del capitale della Finanziaria Il Poggio, società a responsabilità limitata che concentra i suoi interessi negli immobili. Il portafoglio immobiliare rende circa il 4% annuo ed è iscritto nel bilancio 2008 per un valore di 20,44 milioni di euro. La società possiede tre appartamenti (Bologna, città natale della moglie di Berlusconi, Olbia e Londra), due immobili per uffici a Milano e Segrate che rendono 1,13 milioni di canone d’affitto. Nell’ultima relazione, curata dall’amministratore unico Giuseppe Scabini, emerge che la signora Bartolini ha proceduto a un impegnativo investimento nei primi mesi del 2009: ha acquistato Palazzo Canova, nel centro direzionale di Milano 2 a Segrate, la prima cittadella creata dal marito quando faceva il costruttore.
Interessante il meccanismo di finanziamento dell’operazione: a fronte di un costo di 27 milioni di euro, l’acquisizione è stata coperta da un altro finanziamento a tasso zero da parte del socio (cioè Veronica) per 7 milioni più un mutuo ipotecario ventennale. L’indebitamento verso soci della Finanziaria Il Poggio è pari a 23,75 milioni, mentre quello verso le banche è sceso da 3,12 a 1,82 milioni di euro. I debiti sono tutti verso il Monte Paschi di Siena, banca “rossa” già assiduamente frequentata da Berlusconi in passato. La finanziaria della signora Lario ha chiuso il bilancio con una perdita modesta (11.565 euro) che si confronta con un utile di 78.735 dell’anno precedente.
Ma non è finita. Alla Finanziaria fanno capo anche la Orchidea Realty di New York e un contratto di leasing immobiliare con la Palace Gate Mansions a Londra. Tra le partecipazioni più significative detenute direttamente da Veronica Lario c’è la quota del 38% del Foglio Edizioni, società editrice del quotidiano di Giuliano Ferrara. Tra un anno vedremo se il divorzio da Berlusconi avrà modificato il patrimonio della signora Lario.
19 agosto 2009 da unita.it
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 09, 2009, 11:38:05 am » |
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Berlusconi ha scelto Formigoni: "Sarà lui il prossimo governatore lombardo"
di Rinaldo Gianola
Nel suo Ipod nano color antracite Roberto Formigoni alterna il rock duro dei Metallica e dei Foo Fighters con il romanticismo dei Beatles e di Battisti. Questo eclettismo musicale, tuttavia, non coincide con la sua lineare e dura azione politica che negli ultimi trent’anni lo ha portato dal Movimento popolare fino alla presidenza della Regione Lombardia, passando per lo scardinamento della vecchia Dc e l’uso del braccio affaristico di Cl, la Compagnia delle opere. Formigoni è stato ieri investito pubblicamente da Berlusconi come il candidato del centrodestra alle elezioni regionali del 2010, facendo così piazza pulita delle aspirazioni leghiste, comprese quelle di Roberto Castelli, ex compagno di liceo del governatore a Lecco.
Formigoni, piaccia o no, rappresenta un record politico. È diventato presidente della Lombardia nel 1995 sconfiggendo Diego Masi, ha trionfato nel 2000 su Mino Martinazzoli, si è confermato del 2005 battendo Riccardo Sarfatti. Se l’anno prossimo gli elettori gli confermeranno il loro consenso, Formigoni potrà arrivare a governare la Lombardia per quattro mandati di seguito, vent’anni. Avrà fatto meglio di Franz Joseph Strauss, il leader dei cristiano sociale tedeschi, spesso citato come esempio dai governatori del centro destra del Nord, che guidò la Baviera per dieci anni fino alla sua scomparsa nel 1988.
Governare la Lombardia significa esercitare un potere enorme. Questa è la regione con il maggior numero di abitanti (circa 9 milioni) e di elettori, produce il 20% del Pil nazionale, il reddito pro-capite è il più alto d’Italia con 22.500 euro a testa. Qui ci sono più ipermercati, più depositi bancari, più dirigenti d’azienda donne rispetto a qualsiasi altra regione italiana. La sola Milano è di gran lunga la città dove si vendono più libri in Italia. Forse questi pochi dati spiegano perchè Formigoni, nonostante i suoi successi elettorali, ha sempre preferito restare al Pirellone piuttosto che conquistarsi un posto nel governo a Roma.
Come un autentico uomo di potere, che abbina l’immagine del sacrificio personale con le notti passate nel convitto seminariale con la realtà più sbarazzina di barche in Sardegna, auto potenti e amiche inquietanti, Formigoni ha compreso che la sua presidenza conta molto di più che non la poltrona di un importante ministero. Forse è sempre stato lontano da Roma anche perchè ne teme le tentazioni e le trame della politica, mentre lui in Lombardia è protetto e governa felice il suo blocco sociale e di potere. Formigoni è come certi sciur brambilla brianzoli che non hanno paura di andare a Bagdad se ritengono giusta la loro missione, ma si sentirebbero insicuri e fuori luogo in qualche salotto.
Culturalmente, anche politicamente, Formigoni può apparire un uomo distante dal berlusconismo populista e irresponsabile. Ma tra i due c’è un evidente coincidenza di interessi: Berlusconi riconosce che Formigoni è un gran portatore di voti, il governatore può far pesare questo ruolo nella divisione della torta. Quello che conta. Il governatore ha costruito la sua fama miscelando un pò di solidarismo cattolico che non guasta mai con l’immagine del manager efficiente. La sanità, l’istruzione, le opere pubbliche sono i suoi cavalli di battaglia, con le truppe fidate dei ciellini piazzati ovunque. Siamo arrivati al punto che il suo amico antiabortista Cesana è diventato presidente della clinica Mangiagalli. E magari, sopita la guerra che ha spinto alle dimissioni Dino Boffo, vedremo un uomo di Formigoni alla guida dell’Avvenire. Il governatore si vanta che la nuova sede della regione, che batte in altezza il grattacielo Pirelli, procede con puntualità svizzera. È vero. Ma anche lui non fa miracoli: la Malpensa non va, è stato un fallimento politico l’incapacità di Formigoni e compagnia di difendere gli interessi dello scalo milanese dall’invenzione della cordata patriottica per Alitalia di Berlusconi. L’inquinamento avvelena Milano, la cassa integrazione cresce del 400% e l’Expo 2015 è solo una scommessa.
Formigoni, però, ci mette la faccia. Lo faceva già quando si picchiava davanti alla Cattolica, lo fa anche ora. Da anni, invece, questa regione è stata trascurata dal centro sinistra, in tutte le sue declinazioni. Sarà dura battere Formigoni. Ci vuole un peso massimo. E senza paura.
09 settembre 2009 da unita.it
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« Risposta #9 inserito:: Novembre 14, 2009, 04:43:05 pm » |
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Sobrietà e consumismo, così i cattolici cercano l'alternativa alla crisi
di Rinaldo Gianola
In Italia ogni persona consuma in media 196 litri di acqua minerale all’anno. Circolano 36 milioni di autovetture, 752 auto ogni mille abitanti, la più alta densità europea. Ogni cento persone sono attivi 122 contratti di telefonia cellulare. In più ogni italiano butta tra i rifiuti 27 chilogrammi di cibo commestibile all’anno. Crisi o non crisi siamo un “bel” popolo di consumatori, anzi di consumisti: spinti dalla pubblicità, dalla comunicazione, da un malinteso senso del benessere, tendiamo a costruirci un mondo opulento dove crogiolarci felici mentre il Titanic affonda, senza rispetto per le risorse di tutti e senza solidarietà verso le ingiustizie patite da molti. Di questo passo non andremo molto lontano: magari ci sarà la ripresa, ci consoleremo con qualche rimbalzino del Pil e alla fine torneremo di nuovo indietro, vittime e ostaggi del nostro modo di vivere.
Ma, complice anche la crisi devastante dell’ultimo biennio, è arrivata l’ora di pensare un nuovo modello di sviluppo, un aggiustamento (se proprio non si può sopprimere...) dell’economia di mercato e un diverso stile di vita. Una forte e apprezzabile dialettica emerge dal mondo cattolico dove più soggetti, a vari livelli di responsabilità e di elaborazione, si interrogano sullo stato di “questa” economia e sulla urgente necessità di cambiarla, cambiando anche noi stessi. Nei giorni scorsi a Milano la Caritas ha promosso un seminario dal titolo «Sobrietà, Solidarietà, Stili di vita» in cui si è dibattuto a fondo sulla liberazione dal consumismo, così come inteso e praticato oggi, e sull’innovazione delle pratiche sociali ed economiche. L’impegno, che appare evidente nel ruolo della Caritas sul territorio, negli interventi pubblici di alcuni vescovi, nella creazione dei fondi di solidarietà, è finalizzato non solo a essere presenti dove gli effetti della crisi sono socialmente più forti, ma anche a definire un nuovo «modello culturale» di vita e di sviluppo. Una strada che, visti i ritardi, potrebbe essere percorsa anche da quelle forze politiche progressiste, come il pd, che dovrebbero sentirsi motivate a creare un “modello culturale” alternativo a quello berlusconiano.
Il recente libro del cardinale Dionigi Tettamanzi «Non c’è futuro senza solidarietà» indica come «uscire dall’attuale crisi è questione non solo di nuove regole per l’economia, ma anche e innanzitutto di stili di vita: di una vita plasmata dalla sobrietà e dalla solidarietà (...), una serie di atteggiamenti profondi da acquisire specialmente mediante i processi educativi in grado di originare modelli di vita rinnovati». Don Roberto Davanzo, 52 anni, direttore della Caritas Ambrosiana, spiega che «oggi stiamo riprendendo le fila di un dibattito e di un progetto che avevano caratterizzato il percorso di preparazione al Giubileo del 2000 quando, grazie al messaggio della "Centesimus Annus" di Giovanni Paolo II, la chiesa aveva posto con forza la questione irrisolta dell’ingiustizia dello sviluppo economico e si era battuta, ad esempio, affinchè fosse cancellato il debito estero dei Paesi poveri. Purtroppo quella speranza, quell’aspirazione all’apertura di una nuova fase, vennero spazzate via dagli attentati dell’11 settembre 2001». E perchè oggi si riparte? «La crisi - sostiene Davanzo - costringe tutti a riflettere sulla necessità di un nuovo modello economico e di diversi stili di vita. Ripartire dalla sobrietà e dalla solidarietà non vuol dire proporre una società neo-pauperista, chiediamo un’economia giusta e libera. Questa può apparire una provocazione, ma le famiglie non possono accontentarsi di quelli che vanno in tv a dire che il peggio è passato e il futuro sarà rosa. La realtà è che il sistema economico è infartuato, non può continuare a funzionare come è accaduto fino a oggi».
In questa battaglia sociale e culturale le esperienze di base del mondo cattolico offrono qualche traccia su cui lavorare. Si tratta di esempi minoritari ma che possiedono la forza e l’ambizione di evocare cambiamenti più profondi e ampi. Don Gianni Fazzini, 72 anni, si definisce «parroco-operaio in pensione», ha lavorato per molti anni in un’impresa di pulizie, è responsabile dell’Ufficio stili di vita della diocesi di Venezia. Racconta:«Liberare le famiglie dalle scelte in economia, nei consumi, negli stili di vita è un fatto eversivo in questo mondo. Dobbiamo riappropriarci del piacere di scegliere e di vivere. Che senso ha consumare tutta quell’acqua minerale? Non è una follia continuare a girare per le nostre città intasate a bordo di un’auto? Qual è la gioia di un bambino che alla festa del suo compleanno riceve venti regali tutti insieme? Nella mia esperienza di base, con i lavoratori e le loro famiglie, mi è apparso chiaro il limite dell’azione della chiesa: abbiamo sempre privilegiato la solidarietà, la carità, ma invece dobbiamo riscoprire il senso di giustizia, l’elemento più forte nel messaggio di Gesù».
Don Fazzini racconta il valore di esperienze come «Bilanci di giustizia»: «Questa iniziativa raccoglie ormai 1200 famiglie, collegate su internet, che provano a superare il consumismo, a riappropriarsi del piacere di vivere attraverso scelte consapevoli e condivise, che cercano di recuperare tempo di vita, di liberare la loro mente dalle imposizioni e dalle costrizioni». Così ci si scambia la ricetta per fare il pane o la pizza in casa, si pratica il silenzio tv, si pianifica la spesa di prodotti biologici, si risparmia sull’energia, si scelgono investimenti etici, si usa la bicicletta in sostituzione dell’auto. E si fanno i bilanci familiari con entrate e uscite, verificando i risparmi indotti da queste scelte. Sarebbe un errore pensare che si tratta solo di un’iniziativa isolata,folkloristica di qualche prete un po’ mattacchione. L’Istituto Wuppertal, un centro di ricerche tedesco, verifica l’evoluzione del grado di benessere delle famiglie coinvolte nel progetto.
In più, forse, siamo in una fase della storia dove il pendolo del cambiamento si sta muovendo dall’individualismo verso la collettività. Mauro Magatti, preside della facoltà di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano, argomenta:«La necessità di modificare gli stili di vita non è una “menata” dei cattolici, è una questione che interessa tutta la società. Questo è il momento in cui è possibile il cambiamento, ci sono dei segnali forti. Ad esempio il varo della riforma sanitaria di Obama negli Stati Uniti è un fatto epocale, siamo lontani dagli anni dell’individualismo di Reagan e della Thatcher per i quali la società non esisteva. Oggi, anche sotto la spinta della crisi, comprendiamo i limiti di questa società tecno-nichilista, ci accorgiamo che lo sviluppo economico non può essere illimitato, riscopriamo la centralità dell’uomo e dell’ambiente. Queste tendenze emergono nella società, anche in Italia ci sono segnali di comportamento diversi, più riflessivi da parte dei consumatori». Forse il pendolo si muoverà anche da noi.
13 novembre 2009 da unita.it
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 03, 2010, 11:16:57 am » |
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Il mago Scaglia, la banda larga non è solo per Internet
di Rinaldo Gianola
Alla fine, uno fa fatica a crederci. Com’è possibile che un manager intelligente, abile, tanto ricco da apparire tra i mille miliardari più miliardari del mondo nel sito di Forbes.com si metta in un giro di fatture false per riciclare denaro sporco a favore della ‘ndrangheta? Com’è possibile che il “mago” dei telefonini e della banda larga sia finito in un giro sporco, pericoloso, portandosi dietro aziende famose e altri manager importanti? Il mandato di arresto per Silvio Scaglia, già fondatore e proprietario di Fastweb, è un fatto clamoroso, che suscita interrogativi inquietanti su certi successi imprenditoriali e sulla formazione di alcuni patrimoni personali. Scaglia è all’estero e, forse, potrà chiarire tutto davanti ai magistrati. Ma con lui sono indagati personaggi come Stefano Parisi, amministratore delegato di Fastweb, già direttore generale della Confindustria nella stagione oscura di Antonio Amato, e Riccardo Ruggiero ex enfant prodige delle telecomunicazioni, ex amministratore delegato di Telecom Italia.
I vertici di Fastweb e Telecom Italia, secondo i magistrati di Roma, portano la responsabilità di non aver vigilato adeguatamente sulle loro attività, e pare di rileggere alcune motivazioni dei giudici di Milano in merito agli spioni di Tavaroli e i suoi sodali. Anche se ne abbiamo viste di tutti i colori, oggi c’è da chiedersi com’è possibile che Scaglia e soci abbiano in qualche modo partecipato «alla più colossale frode di sempre», secondo le parole del gip.
La sorpresa dell’inchiesta nasce dal fatto che Scaglia non è un personaggio comune. Chiunque lo abbia conosciuto nel suo lavoro lo ricorda come un manager di altissimo profilo, uno capace, che non ha paura di nulla. Il suo comportamento e il suo look non è quello del finanziere predatore e senza scrupoli in gessati volgari da Al Capone, appare più con l’aria paciosa di un parroco di campagna ma con una motivazione, una capacità di perseguire gli obiettivi fuori dal comune. Sposato, tre figli, cinquantadue anni, ingegnere elettronico, inizia come consulente alla Bain Cuneo, poi alla Mc Kinsey, alla Andersen Consulting, un passaggio anche alla Piaggio. La sua stella brilla negli anni Novanta. Fa parte del gruppo di “cervelloni” chiamati da Carlo De Benedetti per lanciare Omnitel, la più bella azienda italiana creata nell’ultimo quarto di secolo. Lo ricordiamo in una palazzina anonima a Ivrea, staccata dallo storico Palazzo Uffici, che lavorava con Francesco Caio di cui prende presto il posto. A Ivrea c’era un pacchetto di mischia da far paura, l’Ingegnere stava perdendo l’Olivetti ma aveva messo insieme un gruppo imbattibile: oltre a Scaglia c’erano Vittorio Colao (oggi capo mondiale di Vodafone), Barbara Poggiali, Pietro Guindani e girava un manager di origine indiana Arun Sarin che diventerà uno degli oracoli più ascoltati delle telecomunicazioni.
Uscito di scena De Benedetti, Scaglia si trova a lavorare con Roberto Colaninno mentre Omnitel macina milioni di abbonati e diventa il simbolo di una bella stagione industriale. Quando Colaninno pensa a scalare Telecom Italia, il primo a saperlo è Scaglia che sonda l’operazione con la banca d’affari americana Donaldson Lufkin and Jenrette. Ma prima che venga realizzata l’Opa del secolo, Scaglia se ne va e con una vecchia volpe della finanza come Francesco Micheli lancia eBiscom, che senza una lira di fatturato diventa un caso clamoroso della febbre della new economy in Italia. Grazie ad accordi con il comune di Milano, di cui è direttore proprio quello Stefano Parisi oggi indagato in qualità di amministratore delegato di Fastweb, eBiscom si lancia nella banda larga e nella diffusione di servizi telefonici e internet. Scaglia lancia un giornale on line «Il Nuovo», anticipando l’imminente scomparsa dei giornali tradizionali. Ma si sbaglia, almeno in questo caso, e «Il Nuovo» finisce male.
A metà degli anni duemila, eBiscom si fonde con la controllata Fastweb, dove è concentrata la parte industriale più appetibile, la famiglia Micheli vende e rimane solo Scaglia che, alla fine, cede a Swisscom incassando una cifra spropositata. Per divertirsi lancia una web tv. Ieri il mandato di arresto, Scaglia anche questa volta ci ha visto giusto: è all’estero.
23 febbraio 2010 da unita.it
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« Risposta #11 inserito:: Aprile 01, 2010, 07:33:37 am » |
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Operai, artigiani, imprese. Nell'urna la secessione dei produttori del Nord
di Rinaldo Gianola
«Questo voto assomiglia a una secessione economica...». Giuseppe Berta, storico dell’industria, docente all’Università Bocconi di Milano ha appena finito di commentare i risultati elettorali con un suo collega. Le cartine del voto pubblicate dai giornali indicano il monocolore della destra, in larga parte leghista, dal Piemonte al Veneto passando per la Lombardia. Di cosa stiamo parlando? In sintesi di oltre 19 milioni di abitanti, oltre il 30% del prodotto interno lordo, almeno un terzo dell’export e degli occupati, la più alta concentrazione industriale e di servizi avanzati. «Queste regioni sono qualche cosa a parte dal resto del Paese e se vado al Sud la distanza è violenta, ci troviamo in un altro paese: c’è una diversa regolazione sociale, un diverso circuito economico, una diversa misura della ricchezza» commenta Berta il quale ricorda «quando nel 1992-93 guardavamo al successo della Lega sull’onda di Tangentopoli con un misto di sbigottito stupore e di divertimento snobistico, mentre Bossi oggi detta l’agenda politica e pone le condizioni del vincitore, vuole fare il sindaco di Milano perchè cerca il potere vero, nelle banche, nelle istituzioni e non per ripetere l’esperienza un po’ folkloristica di Formentini».
Da Cuneo, la “Provincia Granda”, fino a Treviso, dagli allevatori e agricoltori alle piccole imprese, agli artigiani, fino agli operai delle fabbriche bergamasche, oggi la politica fa i conti con un bastione solido, un blocco sociale che si fa sentire e decide nell’area più ricca del Paese. E che inizia ad avere una presenza importante anche nelle provincie dell’Emilia Romagna. La Lega misura la sua credibilità sul territorio, non solo alimentando vergognose campagne xenofobe, ma proponendosi come interlocutore politico del disagio, della paura, della protesta sociale, offrendo agli elettori anche un ceto di amministratori capaci. Massimo Calearo, industriale di Vicenza, parlamentare eletto nel pd passato poi con il frazionista Rutelli, assicura di averlo sempre detto: «Gli operai e le piccole imprese, gli artigiani hanno votato Lega e lo faranno fino a quando non ci sarà un interlocutore credibile. Avevano ragione Cacciari e Chiamparino a insistere sul pd federato, un partito con una forte leadership al Nord e calibrato regione per regione, ma nessuno li ha ascoltati, a Roma pensano sempre di essere più bravi e così si perde».
L’industriale osserva: «I veneti sono più moderati della Lega, non hanno intenzione di seguire l’estremismo dei longobardi, ma nessuno gli ha presentato una scelta alternativa. Gli operai e gli imprenditori hanno votato Lega per paura: paura di perdere il posto, di perdere l’azienda, paura della crisi. Il pd ha sbagliato tutto, ha proposto come candidato una figura minore, il direttore del centro studi degli artigiani di Mestre. Doveva puntare su un personaggio forte come Laura Puppato di Montebelluna». Il pd al Nord aveva sperato di poter raccogliere il malcoltento, la delusione di lavoratori e imprese colpiti drammaticamente dalla crisi, senza interventi adeguati da parte del governo sostenuto da Bossi e sodali. Ma operai e piccole imprese si sono ritrovati nel voto perchè si sentono sulla stessa barca. E poi, al Nord, i temi della sicurezza, dello straniero, della paura sono stati ancora dominanti. A Coccaglio, il comune tristemente famoso per l’iniziativa leghista White Chrystmas, la Lega ha superato il 40%; a Rovato, un centro del bresciano dove un marocchino aveva violentato una ragazza, Bossi ha toccato il 42%.
Damiano Galletti, operaio della Beretta in Val Trompia, è il segretario della Camera del lavoro di Brescia (110mila iscritti), ecco la sua analisi:«Il risultato della Lega non è una grande sorpresa qui, anche se ci aspettavamo che gli effetti della crisi e la delusione per l’azione insufficiente della destra potessero dare più ossigeno al centrosinistra. Ma la Lega ha giocato molto sulla questione sicurezza e di fronte alle fabbriche spesso portava la sua solidarietà come se non fosse al governo. A Brescia la crisi ha colpito duro: 100mila lavoratori sono interessati alla Cig su 350mila addetti dell’industria. Il 12 marzo lo sciopero generale della Cgil ha avuto un grande successo, c’erano anche gli operai leghisti in piazza, ma non hanno cambiato voto». Come mai? «Il pd ha battuto qualche colpo, ma ci vuole tempo e impegno dopo anni di assenza. I lavoratori sono pronti a cambiare. Dopo il successo della sinistra in Francia gli operai dell’Iveco hanno scritto un documento in cui chiedevano di unificare tutte le forze di sinistra su un programma di governo».
La realtà, per la sinistra e anche per il sindacato, è dura e impegnativa. L’analisi di Gianpiero Cantoni, milanese, senatore pdl, ex presidente della Bnl, è dolorosa: «Le regioni trainanti dell’economia, le più avanzate, le più industrializzate sono saldamente in mano al centro destra».
30 marzo 2010 da unita.it
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« Risposta #12 inserito:: Aprile 15, 2010, 10:57:19 pm » |
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L’avanzata del boiardo padano: da Enimont e Credieuronord al potere della grande finanza
di Rinaldo Gianola
A pensarci bene, adesso è più chiaro perchè gli azionisti di Mediobanca hanno deciso proprio alla vigilia delle elezioni regionali di scegliere Cesare Geronzi come prossimo presidente delle Assicurazioni Generali di Trieste. Magari anche sulla scelta del vertice della perla più limpida del potere finanziario italiano Umberto Bossi avrebbe voluto dire la sua, forte del successo elettorale. Probabilmente avrebbe mostrato qualche perplessità per la scelta di un uomo simbolo del potere romano, inaffondabile e capace di qualsiasi metamorfosi, o magari si sarebbe accontentato delle garanzie di Silvio Berlusconi. Non è un’ipotesi campata in aria visto che ieri il leader leghista si è dato come obiettivo quello di «prendere le grandi banche del Nord, perchè ce lo chiede il popolo».
E allora si può anche sospettare che, dopo un pressing asfissiante iniziato già prima delle elezioni da parte dei neo-governatori Cota e Zaia , l’Unicredit di Alessandro Profumo abbia acconsentito alla nomina di un country manager per l’Italia, il signor Gabriele Piccini, affinchè la banca possa stare più vicino al territorio, alle migliaia di piccole imprese del nord produttivo e, in larga parte, leghista. Il trionfo elettorale alimenta appetiti furiosi e chi, come Bossi, una volta sognava ingenuamente di raccogliere i risparmi padani nella fallimentare Credieuronord e prima ancora nel progetto di Finanzaria Padana o Lombarda che negli anni Novanta era stata ipotizzata da Giancarlo Pagliarini, oggi può invece puntare più in alto, alle fondazioni bancarie, straordinario centro di potere e di quattrini dell’Italia democristiana, quindi a influenzare banche come Intesa SanPaolo e Unicredit, alla rete delle Popolari e, infine, alle imprese di Stato.
Sarebbe un errore pensare che quella di Bossi è una battuta figlia dell’euforia elettorale, c’è qualche cosa di più e di più concreto e pericoloso. In questi anni la Lega ha maturato non solo un ceto credibile di amministratori locali. Da tempo ha infilato i suoi uomini anche nel mondo delle ex Partecipazioni statali, ha iniziato a pensare in grande per incidere sul potere economico, grazie anche alla vicinanza e ai consigli di un uomo come Giulio Tremonti e alla tela tessuta da Giancarlo Giorgetti, il parlamentare leghista di Cazzago Brabbia, presidente della comissione Bilancio e Tesoro della Camera. Le dolci paroline riservate dalla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia a Parma al successo della Lega testimoniano che il mondo delle imprese è sensibile alla vandea nordista, è disposto a chiudere un occhio sui vizi razzisti dei sodali di Bossi se si tratta di tutelare i supremi interessi dell’azienda. Quello che sta accadendo è una novità rilevante.
Nel mondo degli affari i leghisti, infatti, hanno spesso fatto la figura dei “pirla”. La definizione non è nostra, anche se possiamo condividerla, ma di Umberto Bossi che la usò per illustrare il caso di Alessandro Patelli, ex amministratore della Lega, quando incassò 200 milioni come modesto contributo della tangente Enimont. Pare che la busta di denaro fosse transitata dai manager Ferruzzi al povero “pirla” della Lega al Bar Doney di via Veneto, luogo culto della “Roma ladrona” secondo il verbo leghista. Per questo incidente Bossi è stato condannato in via definitiva a otto mesi per violazione della legge sul finanziamento dei partiti, ma siede sereno in parlamento, come altri. Ìn questi ultimi anni i principi della Lega in campo economico e bancario sono stati molto edulcorati, la vicinanza con le stanze dei bottoni e il profumo del potere hanno fatto miracoli.
La rigidità ideale di un tempo è un ricordo, oggi il pragmatismo e le poltrone, come praticavano un Cirino Pomicino o un De Michelis nella prima repubblica, fanno premio su tutto. Qualcuno ricorderà, ad esempio, che la Lega aveva criticato severamente l’azione dell’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, prima di cambiare repentinamente linea e prendere le sue difese, in nome dell’italianità. La svolta avvenne quando la Popolare di Lodi del raider Gianpiero Fiorani, che si vantava di essere protetto da Fazio, si prese cura della malmessa Credieuronord, la banca leghista prossima al disastro dopo aver dilapidato i risparmi dei sottoscrittori padani. Il tremendo Fiorani, ritemprato al sole della Sardegna in casa dell’impresario Lele Mora, è arrivato al punto di affermare al processo Antonveneta di aver erogato dei contributi al ministro Calderoli.
Così vanno a braccetto la politica e gli affari, anche tra i duri e puri della Lega. Ma ora sono finiti i tempi della banca fatta in casa o di altre “pirlate” leghiste come la Bingonet o la costruzione di un villaggio turistico in Istria. Tutto fallito. Bossi punta oggi al bersaglio grosso, alle banche e alle grandi imprese di Stato. Il suo fedelissimo economista Dario Fruscio è stato sei anni nel consiglio di amministrazione dell’Eni e si vanta di aver salvato la petrolchimica (provi a dirlo agli operai di Marghera o di Porto Torres...), nel consiglio dell’Enel la Lega è presente con il consigliere Gianfranco Tosi, ex sindaco di Busto Arsizio, in Finmeccanica tocca al varesino Dario Galli sventolare il fazzoletto verde. Ma siamo solo all’inizio. La Lega avvia la scalata alle fondazioni socie di Intesa SanPaolo e Unicredit e ha due obiettivi nel breve-medio periodo: sostituire Lucio Stanca alla guida dell’Expo 2015, occupare la carica di amministratore delegato alle Poste con il padano Danilo Poggi al posto di Massimo Sarmi. Con un presidente della Cisl e un leghista amministratore delegato le Poste potrebbero trasformarsi in un ente bilaterale, con la soddisfazione di Bonanni e Sacconi.
15 aprile 2010 da unita.it
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« Risposta #13 inserito:: Aprile 15, 2010, 10:58:09 pm » |
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Un giro di valzer per Emma «la padana» Ora punta su Bossi
di Rinaldo Gianola
La realtà è questa: Silvio non scalda più i cuori come una volta. Anche lui non riesce più a fare troppe promesse, a raccontare troppe balle, sa che nemmeno i suoi più fedeli aficionados seduti nella grande platea alla Fiera di Parma possono reggere più il gioco. L’unica certezza è che il premier ha preparato il libro «Il governo del fare» che vuole distribuire agli associati di Confindustria. Sono passati i bei tempi del 2001 e del 2002, quando Berlusconi trionfava nelle Assise confindustriali di Parma, quando Calisto Tanzi pagava e invitava imprenditori e banchieri nella sua bella villa di Collecchio a mangiare e bere, con i Kandinskij e i De Nittis appesi ai muri.
Perchè uno sarà pur un bancarottiere, ma con la cultura non si scherza. Nessuno, però, si ricorda del grande elargitore, nemmeno la Gazzetta di Parma , la Pra vda locale degli industriali. Ma questa non è giornata per i ricordi, alè si cambia aria. Emma Marcegaglia lancia la svolta e con le sue truppe si prepara a fronteggiare una crisi ancora lunga che, tra il 2008 e il 2009, ha determinato un calo del 6% del pil e la scomparsa di un milione di posti di lavoro. Per la prima volta in due anni la leader di Confindustria ha fatto un discorso che segna un cambio di passo, apre forse un’altra stagione comunque densa di incognite. Accantonato il fastidioso birignano confindustriale, Marcegaglia ha deciso che, a metà del suo mandato finora certo non memorabile, è ora di sparigliare le carte anche con l’azionista di riferimento Berlusconi.
La presidente degli industriali non fa una piega ed è pronta a cambiare cavallo politico: se Berlusconi non riesce nelle sue riforme e insiste solo sulle sue personali questioni giudiziarie, allora si può tentare con Bossi e i suoi leghisti. D’altra parte il risultato elettorale delle regionali non lascia dubbi: la Lega ha vinto al Nord, da Torino a Treviso, dove pulsa l’industria manifatturiera, dove la “fabbrica diffusa” sancisce il patto, o forse solo una momentanea alleanza, dei produttori, operai e piccoli imprenditori il cui destino appare strettamente legato. Come sia possibile per la politica leghista soddisfare le imprese, gli artigiani, i commercianti e il “popolo”, cioè i lavoratori dipendenti è una sfida ancora tutta da vedere.
La Confindustria, sempre attenta ai risparmi e all’efficienza, è pronta addirittura a sposare il federalismo leghista dopo che per anni aveva messo le mani avanti, denunciando il rischio evidente di nuovi sprechi anzichè di una maggiore efficienza nella gestione delle amministrazioni locali e nella distribuzione equa delle risorse. Ora la presidente Marcegaglia è pronta a cavalcare la tigre padana, senza prendere le distanze pubblicamente nemmeno dai suoi chiari istinti xenofobi, perchè le imprese non vivono di promesse, ma di quattrini e affari. E qualcuno, dopo due anni di crisi drammatica, deve portare nuove occasioni proprio per moltiplicare quattrini e affari.
E se Bossi è meno elegante di Berlusconi ma più efficace, allora va bene pure lui. La svolta leghista della Confindustria dovrà essere misurata nelle prossime settimane, ma già ora si può dire che la scelta di Emma da Mantova non è stata un’invenzione dell’ultimo momento, non è stata ispirata da una necessità mediatica. Nelle ultime settimane le piccole e medie imprese hanno fatto capire a Marcegaglia che dopo due anni di allineamento con il governo Berlusconi il bilancio era largamente in deficit. La Confindustria ha portato a casa poco, quasi nulla, certo non i punti elencati ieri come obiettivi prioritari per il rilancio dell’economia e del paese. In più la presidente è uscita, per ora, vincente da un gioco di potere tutto confindustriale, in contrasto con Luca di Montezemolo e soci, e ha rintuzzato le critiche, mai sopite, per la gestione deludente e in passivo di quella macchina da soldi che era una volta Il Sole-24 Ore.
Ma, davanti a una crisi ancora faticosa e in assenza di forti e organici interventi del governo, la fronda confindustriale potrebbe riprendere fiato. In questo giro di valzer di Marcegaglia l’aspetto che appare più preoccupante è la totale rimozione dei meriti, pochi ma ci sono, delle politiche dei governi di centrosinistra, dei Prodi e dei Bersani. La presidente parla delle liberalizzazioni ma si dimentica di ricordare che le lanciò il segretario del pd e oggi il centrodestra le vuole picconare. Cita la necessità di togliere il costo del lavoro dall’Irap, ma evita di ricordare che è la proposta fatta da Epifani.
L’opposizione, il centro sinistra, anche il più grande sindacato italiano scompaiono almeno oggi dall’orizzonte della Confindustria che gioca le sue carte tutte nel recinto del centrodestra. Niente di male, basta saperlo e ricordarsene in futuro. Marcegaglia, in più, non sembra cogliere la negatività dell’asse Sacconi-Bonanni che punta esclusivamente a escludere la Cgil dal confronto sindacale e industriale, come è avvenuto con il blitz sull’avviso comune dell’arbitrato. Comunque vada la Confindustria di Bossi o di Silvio, per i lavoratori saranno guai.
11 aprile 2010 da unita.it
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« Risposta #14 inserito:: Aprile 21, 2010, 11:31:08 pm » |
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A sorpresa Montezemolo lascia il vertice Fiat
di Rinaldo Gianola
A sorpresa, alla vigilia della presentazione del nuovo piano strategico che cambierà gli assetti industriali, finanziari e probabilmente azionari della Fiat, Luca di Montezemolo annuncia le dimissioni dalla presidenza del gruppo. Dopo sei anni di presenza al Lingotto, Montezemolo lascia perchè ritiene di aver terminato la sua funzione di «traghettatore» che aveva assunto nel 2004, dopo la scomparsa di Umberto Agnelli. Al vertice della Fiat sale John Elkann, nipote dell’avvocato Gianni Agnelli e figlio di Margherita che ancora contesta la congruità dell’eredità, il quale raccoglie il testimone del potere della più lunga e contrastata dinastia industriale italiana. John Elkann sarà oggi presidente della Fiat, è presidente della finanziaria Exor degli Agnelli e guiderà pure l’accomandita di famiglia. L’annuncio ufficiale è arrivato ieri con una conferenza stampa in una sala del Lingotto con Montezemolo affiancato da Elkann e da Sergio Marchionne. Sorrisi e abbracci per le tv.La Borsa è felice: il titolo Fiata guadagana il 9%.
Un passaggio delicato Il trasferimento dei poteri in casa Fiat, tuttavia, avviene in un momento delicato, con passagi non proprio sereni e lineari ma assai complessi che hanno interessato sia i componenti della famiglia, che si trova ad affronate una prova storica dell’evoluzione internazionale del gruppo, sia i vertici della holding. Le testimonianze di «affetto» e di «amicizia» espresse ieri da tutti i protagonisti forse non dicono tutto della complessità delle relazioni, della visione strategica, della gestione del potere al Lingotto e dintorni.
Probabilmente le dimissioni di Montezemolo e l’ascesa del rappresentante principale della famiglia (e poi c’è sempre Andrea Agnelli, figlio di Umberto, che scalpita) sono due fatti legati strattamente all’operazione Chrysler in America. È ipotizzabile che, dopo la fase iniziale del salvataggio, oggi l’amministrazione Usa, il sistema finanziario e gli stessi lavoratori americani chiedano un impegno diretto della famiglia Agnelli in vista della possibile, e probabile, presa del controllo della Chrysler da parte del Lingotto entro i prossimi 24 mesi. È una fase di transizione e di metamorfosi del gruppo torinese. Oggi con il piano strategico Marchionne spiegherà la Fiat da qui a cinque anni e la stessa presidenza di Elkann sarà probabilmente diversa solo della Fiat holding mentre la Fiat Auto, destinata ad essere scissa, sarà guidata da Marchionne, che allarga il suo potere e il suo ruolo di capo azienda.
Grazie anche agli operai Montezemolo ha usato poche parole per comunicare la sua scelta: «Oggi Fiat è un'azienda sana e competitiva. È cresciuta a tutti i livelli e in tutti i settori, grazie al lavoro di Marchionne e di tutti gli uomini e le donne che lavorano in Fiat». Ha ricordato i gravi problemi in cui versava sei anni fa: la scomparsa prima di Gianni e poi di Umberto Agnelli, e poi l’incertezza derivante dall’esposizione debitoria verso le banche ( il “convertendo”) e dal patto con General Motors. Ora la situazione è più tranquilla, anche se il mantenimento del controllo da parte della famiglia ha lasciato qualche problema aperto con la giustizia. Montezemolo resterà nel consiglio Fiat, manterrà la presidenza della Ferrari e si dedicherà alle sue attività di imprenditore con la Poltrona Frau e i treni privati con Diego Della Valle. «Non entrerò in politica, ma potrò esprimermi più apertamente» assicura, anche se Marchionne lo prende in giro: «Quando presenterai il tuo programma?». Dopo l’addio di Montezemolo, oggi si vedrà la nuova Fiat di Elkann e Marchionne. Questo è il capitolo che più conta.
21 aprile 2010 da unita.it
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