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Autore Discussione: "Lo spot di un sapone Così mi innamorai del grande Bergman"  (Letto 3693 volte)
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« inserito:: Aprile 05, 2008, 04:51:23 pm »

"Lo spot di un sapone Così mi innamorai del grande Bergman"

Bibi Andersson a Milano ricorda il regista

di Anna Bandettini

 
Lei aveva 16 anni, lui 35. Lei era una studentessa, bionda, bella, di carattere e col sogno di fare l'attrice.
Lui un regista già cerebrale, già tremendo con le donne, già autore di un film diverso, importante, Sete.
Lui l'aveva vista e aveva decretato: "sì, va bene questa ragazza". La prima cosa che girarono insieme Ingmar Bergman e Bibi Andersson fu nel '51, uno spot pubblicitario per un sapone. Una cosa ironica, brillante dove lei era una principessa che doveva baciare un ragazzo. «Sul set, ricordo, arrivò Harriett Andersson. Mi squadrò e sibilò "Ecco la prossima", riferendosi al via vai di donne che giravano intorno a Ingmar».

L'aneddoto lo racconta oggi con un sorriso sulle labbra, Bibi Andersson sempre incantevole, di quella bellezza elegante, distaccata che incute rispetto. Attrice icona del cinema bergmaniano, con Liv Ullman, Ingrid Thulin, Harriett Andersson, è giunta ieri a Milano per dare il battesimo al Teatro Strehler alla rassegna "Faro su Bergman", film, spettacoli, mostre e incontri che l'associazione Dioniso ha organizzato fino al 13 aprile, omaggio al regista svedese morto lo scorso 30 luglio nell'isola di Faro, la stessa dove Andersson e Bergman hanno girato buona parte dei 13 film fatti insieme.

«Faro era un posto davvero molto bello- ricorda la Andersson- Quando Bergman se ne innamorò decise che i suoi film li avrebbe girati solo lì. E così durante le lavorazioni vivevamo tutti sull'isola per settimane. Un privilegio? Sì, lo fu. Non era un posto confortevole e noi vivevamo come la gente del posto, mangiavamo come loro... Non c'era nessuna mondanità. La sera Bergman ci diceva andate a letto presto così domani siete in forma. Era come vivere un monastero. Era un bel modo di lavorare». Lì, anticipa Bibi Andersson, nascerà la Fondazione dedicata al regista per conservare e tutelare i capolavori che ha prodotto, per conservare la memoria del maestro che è stato. «Quando mi chiedono se esiste un metodo Bergman- dice Andersson- Io ho qualche timore a dire sì. Lui semplicemente era un regista molto vicino all'attore, non perché si intrometteva nel processo del suo lavoro, ma perché ti prendeva la mano e ti accompagnava sul palcoscenico. Era molto rispettoso e insieme intimo. Anche quando non lavorammo più insieme ci sentivamo spesso al telefono. L'ultima volta lo vidi un anno prima della morte.


Fu Liv Ullman, credo, l'ultima che lo vide. Volò a Faro e lo strinse tra le sua braccia. Una cosa molto bella», dice senza ipocrisia.
Perchè le attrici e amanti che giravano intorno al venerato maestro si sono sempre rispettate tra loro, in alcuni casi perfino diventando amiche. «Bergman amava sicuramente le donne, era l'uomo che voleva che ci si innamorasse di lui. Io sono stata con lui due anni. Non so se l'ho amato veramente.
L'amore è una cosa complicata : è difficile dire se lo amavo davvero o solo perché era famoso. So solo che ho impiegato 50 anni per amare un altro. Lui era una persona forte, carismatica. Alcune cose di lui le ho scoperte da poco, dopo aver letto i libri che ha scritto. Prima non li volevo leggere perché credevo di sapere già tutto. Invece da quelle pagine ho scoperto che era più saggio di quello che credevo».

Oggi settantatrenne, Bibi Andersson continua a fare cinema, il 30 aprile uscirà sugli schermi Racconti da Stoccolma del giovane Anders Nilsson, una trilogia di racconti sulla violenza dei rapporti interpersonali, un film che l'attrice («ho solo una piccola parte») definisce pericoloso.
Dei film di Bergman («non proprio un luna park») ricorda la fatica per Persona, «fatica per via del testo enorme da imparare a memoria, ma non ci furono problemi. Se Bergman ha scritto che lui soffriva sul set, non ne dette prova». Ama Sorrisi di una notte d'estate, e soprattutto Il posto delle fragole.

«Vidi il film sette anni dopo e pensai che ero una giovane che si sforzava troppo di fare la giovane. Oggi lo rivedo e mi dico che bello: ero così giovane».


(01 aprile 2008)Ultim'ora Lombardia

Milano, 16:06
 
da milano.repubblica.it

 
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 05, 2008, 04:55:41 pm »



Ingmar Bergamn nasce a Uppsala nel 1918, da un pastore protestante, una figura con cui si troverà spesso a confrontarsi e che ricorrerà di frequente nel corso della sua opera, percorsa di continuo da riferimenti autobiografici.

Inizia la carriera come autore e regista teatrale, e nel 1944 scrive la sua prima sceneggiatura, Spasimo, con cui entra nel mondo del cinema. Un anno dopo realizza il primo film come regista, Crisi, che come i successivi Nave per l'India (1947) e Musica nelle tenebre (1947), affronta tematiche sociali del mondo giovanile, facendo denunce con toni aggressivi. Il modello di riferimento di Bergman, in questa fase, è il realismo, da cui si distacca già nel 1948, con Prigione, allorchè inizia a sperimentare tecniche surrealiste ed espressioniste, che utilizza per approfondire i comportamenti e la psicologia umana. Su questa strada si incontrano opere come Un'estate d'amore (1950), Donne in attesa (1952), Monica e il desiderio (1952), Una lezione d'amore (1954), nelle quali si afferma uno studio attento della psicologia femminile, soprattutto - ma non solo - all'interno del rapporto sentimentale. La donna, infatti, attraverso le interpretazioni di attrici come Ingrid Thulin, Liv Ullman, Harriet e Bibi Andersson, Gunnel Lindblom, Ingrid Bergman, diventa l'immagine della natura umana, vittima di tensioni e di aridità esistenziali, spesso rappresentate attraverso il rapporto con la maternità, la sua ricerca e il suo rifiuto.

Il film che impone Bergman all'attenzione della critica internazionale è Sorrisi di una notte d'estate (1955), commedia sui rapporti sentimentali, che si serve dei modelli del teatro brillante del Settecento francese per osservare con amarezza l'instabilità dei sentimenti e la complessità dei rapporti umani.
É dell'anno successivo uno dei capolavori bergmaniani, Il settimo sigillo (1956), geniale affresco medievale, nel quale l'autore riflette su vita e morte, sul rapporto fra uomo e Dio, sul senso della propria esistenza, sulla miseria e la nobiltà della natura umana.

Gli stessi temi esistenziali, affrontati alla luce della psicanalisi, sono presenti anche nel successivo Il posto delle fragole (1957), dove si racconta il viaggio nel tempo, nel passato e nella fantasia che un vecchio professore intraprende, al termine della propria vita, per ritrovare un'immagine di sé che si era affannato a rimuovere. Una tragedia filosofica, densa di riferimenti culturali che vanno da Joyce a Proust, da Mann a Kierkegaard, per dimostrare come la morte si nasconda dietro le fugaci apparenze della vita.

Temi religiosi trattati con un'ottica laica: il problema del vuoto che si sostituisce alla perdita della fede, la ricerca di una religiosità intima e non formalistica, l'incomunicabilità fra individui, sono al centro delle sue opere successive, fra cui si segnalano La fontana della vergine (1959), Come in uno specchio (1961) e Il silenzio (1963). É in questo momento che si definisce compiutamente lo stile e gli intenti di Bergman che cerca di svelare il mistero che si cela al di là le apparenze, che nasconde i suoi interrogativi dietro schermi fatti di memoria, sogno, psicosi, che mette sempre più in dubbio l'esistenza di Dio, ma la ripropone ogni volta sotto diverse spoglie, che assumono sembianze differenti: prima la morte, poi il sesso, adesso il male.
É anche in questa fase che Bergman comincia ad essere considerato autore difficile, intellettuale ad oltranza, cupo e destinato a pochi, immagine che sicuramente non smentisce nelle pellicole che gira in seguito - Persona (1966), Il Rito (1969), Passion (1970) - trattati sulla morte, la crudeltà umana, il disfacimento della società e la solitudine, sempre più cupi ed angoscianti. Si tratta comunque di opere profonde ed acute, nelle quali il regista si conferma uno dei massimi interpreti dell'animo tormentato dell'uomo contemporaneo.

Sussurri e grida (1973), Scene da un matrimonio (1974, destinato alla televisione) e Immagine allo specchio (1976) sono forse le opere in cui Bergman conduce alle estreme conseguenze la propria filosofia artistica. Con stile rigoroso, semplice fino alla banalità, va ad analizzare le piccole normalità quotidiane per scoprire che sono tutte il frutto di un'ipocrisia, che diventa tanto più patetica perché inevitabile e pericolosa da svelare, in quanto su di essa si fonda il precario equilibrio che le persone riescono a conquistare. Eliminata la presenza di una divinità, il male di vivere bergmaniano diventa un percorso interiore che distrugge ogni sicurezza su cui si appoggia l'esistenza comune.

L'ultimo film di Bergman, Fanny e Alexander (1983), che segue due pellicole dagli intenti psicanalitici ( Sinfonia d'autunno, 1978 e Un mondo di marionette, 1980), è uno splendido racconto, in gran parte autobiografico, su due adolescenti svedesi di inizio secolo, nel quale il regista sviluppa, con una partecipazione mai invadente, i motivi e le emozioni da cui è partito per comporre le sue opere.

da www.mymovies.it
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