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Autore Discussione: LA SCOMPARSA di Rinaldi, un giornalista contro gli "inciuci"...  (Letto 8944 volte)
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« inserito:: Luglio 05, 2007, 12:32:28 pm »

5/7/2007 (8:35) -

LA SCOMPARSA DELL'EX DIRETTORE DELL'ESPRESSO

Rinaldi, un giornalista contro gli "inciuci"
 
Denunciò il conflitto d’interessi e le commistioni fra politica e affari

CHIARA BERIA D’ARGENTINE


Claudio Rinaldi ha chiuso la storia di copertina della sua vita a soli 61 anni, ieri, nella sua casa di campagna, vicino a Roma. Sua moglie Loredana, donna d’infinito coraggio, pensava si fosse assopito nel letto della sua stanza trasformata negli anni, tra computer e giornali, nell’ultima redazione della sua tormentata vita. «Claudio non mi risponde», ha subito telefonato Loredana allarmata all’amico di sempre, Bruno Manfellotto, direttore del Tirreno. E, per un attimo, Bruno ha creduto che Claudio, come usava fare quando era troppo stanco, avesse chiuso il suo cellulare.

Cordoglio del presidente Napolitano. Niente più articoli e rubriche per l’Espresso, niente più blog sul sito web del settimanale, niente più sferzate a una casta politica che giudicava indegna. «E Visco non si vuol dimettere», aveva intitolato il suo ultimo pezzo solo due giorni fa.

Andarsene così un giorno d’estate nel sonno, il corpo ormai immobile ma, nonostante tutto, battagliero e lucido: Claudio Rinaldi, straordinario giornalista, direttore di gran fama e, ai bei tempi, ottimo giocatore di poker, ha saputo giocare con estrema classe anche la sua partita più difficile. Mai un lamento. «Ciao, ormai sono una schifezza», era il massimo che diceva Rinaldi agli amici quando s’informavano della sua salute. Ai pietismi preferiva il dialogo con i suoi lettori. Negli ultimi anni non voleva più visite, neanche quelle degli amici più cari, Carlo Caracciolo e l’ingegnere Carlo De Benedetti. Pudore infinito di un uomo romantico che amava fingersi cinico.

«Sclerosi multipla»: fu un grande medico diventato presto suo amico, il professor Renato Boeri, a diagnosticargli più di 20 anni fa una malattia senza speranza. All’ospedale Besta di Milano aveva tolto le lenti a contatto, portava spessi occhiali alla Gino Paoli. Giovane direttore di Panorama - De Benedetti al suo ingresso nella Mondadori di Segrate lo aveva voluto alla guida del settimanale - riuscì fin dall’inizio a non compiangersi. Nato a Roma, studente alla Cattolica di Milano, militante di Lotta Continua più impegnato a giocare a poker al bar Carducci che nelle manifestazioni di piazza, Rinaldi nell’estate del 1974, grazie al suo amico Beck Pecoz, aveva conosciuto Giorgio Bocca. Fu Bocca a segnalare il brillante aspirante giornalista al direttore di Panorama, Lamberto Sechi, che lo assunse come redattore della sezione economica. «Ho perso un fratello», ha detto ieri in lacrime Sechi a chi gli annunciava la morte di Claudio.

A Panorama Rinaldi e il suo grande amico Nazareno Pagani divennero presto le penne di punta nel raccontare le malefatte di certi boiardi. Prima Repubblica, tempi del sequestro Moro e di vacanze spensierate a Itaca con Loredana, sua moglie, conosciuta ai tempi della Cattolica. Chiamato in Rizzoli a dirigere l’Europeo, Rinaldi passò poi alla guida di Panorama: era già nata sua figlia Giulia, quando scoprì di essere malato. Il destino si portò via per primo il suo amico Pagani, in un incidente d’auto; da quel momento Claudio e Loredana Rinaldi non lasciarono mai soli i piccoli figli di Pagani.

Tutto il resto è scoop. Nominato nel 1991 direttore dell’Espresso Claudio Rinaldi schierò senza esitazione il settimanale di via Po sul fronte di Mani Pulite e per primo intuì che la discesa in campo di Silvio Berlusconi (da giornalista economico aveva conosciuto l’imprenditore fin dai tempi di Milano Due) avrebbe cambiato in maniera radicale il panorama politico italiano. Conflitto d’interessi, commistione tra politica e affari. Berlusconi vissuto quasi come un’ossessione. Per anni, Rinaldi al Cavaliere non risparmiò nulla e quando tirò aria d’inciucio tra Berlusconi e Massimo D’Alema, coniò l’irridente termine «Dalemoni».

«Grazie e arrivederci», scrisse nel suo commiato, nel luglio 1999, da direttore. Ormai per lui era difficile camminare, tanto più dirigere un giornale. Tempo di blog e di delusioni. Aveva tanto scritto contro il malaffare della Prima Repubblica, Claudio Rinaldi, ma certo dalla sua stanza non nutriva speranze per questa nuova stagione della nostra Italia.

Non era solo un grande direttore e straordinario giornalista ma un uomo che ha vissuto con un coraggio e una dignità rara la sua lunga e terribile malattia.

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 05, 2007, 12:41:41 pm »

Proponeva un giornalismo laico e severo

Fu direttore di Panorama e Espresso

Addio a Claudio Rinaldi giornalista coraggioso

di GIORGIO BOCCA

 
LA morte di Claudio Rinaldi, che ho avuto come direttore all'"Espresso", mi riporta a un modo di concepire la professione forse poco romantico e piuttosto severo che però alla mia generazione è sembrato il più serio. Il giornalismo di Claudio Rinaldi era intanto un giornalismo laico. Sfogliando le pagine del suo "Espresso" si capiva immediatamente che l'eredità liberale e laica del "Mondo" di Pannunzio vi era rimasta intatta, che nella Città del Vaticano questo giornale roccaforte dello Stato liberale non poteva che collegarsi all'Italia risorgimentale.

Questo era il legame che univa il grande giornalismo quotidiano del Nord, della "Stampa", del "Corriere", del "Giorno" e poi di "Repubblica" a quello del settimanale romano. L'"Espresso" era un cardine di quella grande informazione nazionale antifascista rinata dalle rovine del Fascismo.

"L'Espresso" di Rinaldi era poi un giornale della classe dirigente, un giornale colto e moderno come lo avevano voluto Benedetti e Scalfari. Un giornale che creava un equilibrio, una base omogenea all'informazione nazionale. Fu grazie a questa omogeneità culturale che le fusioni fra il giornalismo quotidiano e quello ebdomadario avvennero in modo naturale, come quando l'esperienza del "Giorno" fu trasmessa a quella di "Repubblica".

Il giornalismo di Claudio Rinaldi e del suo "Espresso" fu anche un giornalismo severo, per nulla piacione. Ho in mente i suoi ultimi interventi critici sul vice ministro Visco forse feroci ma come al potere si addice. È stato anche un uomo stoico che ha sopportato una vita di sofferenze senza voltare mai le spalle a una professione coraggiosa.

(5 luglio 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 05, 2007, 08:35:17 pm »

Un talento in calzoni corti

E’ morto a 61 anni Claudio Rinaldi. Diresse l’Espresso, l’Europeo e Panorama.

Esempio di grande giornalismo, sferzante e anticonformista

di Gianluigi Melega


Si presentò quando era ancora universitario. Veniva da una semplice famiglia romana, voleva fare il giornalista. Erano i primi anni Settanta. Allora, nella redazione romana di “Panorama” vigeva una regola voluta da Lamberto Sechi, che dirigeva il settimanale da Milano: a chiunque si doveva dare una chance.

La trafila era: l’aspirante indicava quale fosse l’argomento di attualità di cui era pronto a scrivere; doveva tornare il giorno dopo con un pezzo di lunghezza medio-corta scritto all’ombra dello slogan rigorosissimo imposto da Sechi (“i fatti separati dalle opinioni”), ed essere pronto ad accettare ogni revisione tecnica sul testo e a firmarlo, nei rari casi in cui già potesse essere pubblicato, con un anonimo “pallino nero”.

Telefonai a Sechi. «E’ arrivato un ragazzo che ha scritto un primo pezzo perfetto. Se sei d’accordo, gliene facciamo scrivere un altro». Non era mai capitato trovare un talento così.
Molte volte, con Claudio, ci capitò di ricordare quel suo esordio, come dicevamo, “in calzoni corti”. Le vicende professionali di tutto un gruppo di giovani giornalisti di quel tempo si dividevano, si intrecciavano, si ricongiungevano, secondo le volubilità delle vite e del mestiere: ma, come sempre avviene, le affinità elettive finivano sempre col fare premio su tutto.

Diventavamo inviati speciali, capiredattori, corrispondenti dall’estero, direttori: si stava lontani magari per anni, ma bastava alzare un telefono per ricreare una sintonia ironica, immediata, capace di definire fulmineamente una situazione, un personaggio politico, con una battuta, come un entomologo infilza una farfalla.

L’affinità elettiva era di cercare di lavorare onestamente, con le proprie partigianerie sotto controllo nei confronti di chi ti dà da vivere: i lettori. Sembra facile, ma non lo è, soprattutto quando, come per Claudio Rinaldi, il talento professionale ti porta a essere desiderato da tutti come direttore, e per di più a essere un direttore che ama scrivere e firmare, mettendo in gioco il proprio nome, il proprio curriculum, la propria integrità.

Fu così che Claudio visse la sua stagione da grande direttore di “Panorama”, dell’”Europeo”, dell’ “Espresso”.

Tante battaglie da quelle testate appaiono oggi poca cosa rispetto a quella, spietata e durissima che si trovò a vivere come vittima di una micidiale malattia progressiva, che negli ultimi anni gli lasciò intatta e come sempre brillante soltanto l’intelligenza e l’ironia. Man mano che le forze fisiche si restringevano, come una compagine di assediati che deve far fronte a nemici lentamente implacabili, l’intelligenza ha resistito fino all’ultimo, circondata dall’affetto di chi lo conosceva.

Ma oggi lo sappiamo, noi che avevamo i calzoni corti: questa volta non potremo alzare il telefono per ritrovarci insieme.

(05 luglio 2007)

da www.kataweb.it/articolo
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 05, 2007, 08:35:43 pm »

Aveva 61 anni ed era da tempo malato di sclerosi multipla

L'ultimo suo blog due giorni fa, sull'Espresso l'ultima rubrica

Addio al giornalista Claudio Rinaldi grande innovatore di settimanali


ROMA - Una malattia lunga eppure il "pezzo" consegnato, puntuale, come sempre, due giorni fa. Costretto a stare in casa perché era diventato difficile, quasi impossibile muoversi, eppure del mondo, soprattutto della politica, non gli è sfuggito nulla. Fino in fondo. L'ultima rubrica consegnata, ad esempio, "Torna a casa Tony" dedicato al Pd e al sistema elettorale per l'Italia. O l'ultimo post inviato il 2 luglio sul suo blog nel sito dell'Espresso, dedicato al vizio tutto italico di non dimettersi mai; Visco, ma non solo lui, dovrebbe lasciare l'incarico.

Claudio Rinaldi, ex direttore dell'Europeo, di Panorama e dell'Espresso, grande innovatore nella storia dei settimanali italiani, è morto oggi pomeriggio. Nel sonno. Da quasi vent'anni combatteva contro la sclerosi multipla. Raccontava che si era accorto che qualcosa non andava quando durante l'intervista a un noto politico dell'allora Dc si accorse di non tenere più bene in pugno la penna.

La diagnosi non lo aveva fermato: non solo ha lavorato fino a ieri, ha diretto L'Espresso per nove anni dopo aver guidato Panorama che lasciò nel momento in cui diventa proprietà di Berlusconi. Come tutti i combattenti, ha sfidato fino all'ultimo il suo male, studiandolo, conoscendolo, tenendolo a bada. Vivendo e lavorando.

Aveva 61 anni. E ha scritto fino all'ultimo la sua seguitissima rubrica sull'Espresso "Contropiede". Sul settimanale curava anche un blog, Italia Loro. L'ultimo intervento è di due giorni fa.

Il sito dell'Espresso ha messo in linea l'ultimo "Contropiede", che comparirà venerdì sul settimanale, dove affronta il problema della leadership nel partito democratico, e le possibili analogie Veltroni-Blair.

Dalla politica al giornalismo. Nato il 9 aprile del 1946 a Roma, Claudio Rinaldi studiò alla Cattolica di Milano. Leader di Lotta Continua, nel 1974 cominciò a collaborare come giornalista economico a Panorama con Lamberto Sechi. Da qui nel 1983 passò all'Europeo, prima come vicedirettore, poi come direttore, per approdare nel 1985 alla guida di Panorama. Nel 1990 diventò direttore generale dei Periodici Mondadori. Ma il cambio di proprietà e l'ingresso nell'orbita Berlusconi lo costrinse a fare la valigia.

L'anno dopo l'approdo alla direzione de L'Espresso, carica che mantenne fino al 1999. Nel salutare il lettori del settimanale, scrisse: "Quando con Giampaolo Pansa arrivai nella palazzina di via Po, nel luglio 1991, gli obiettivi erano chiari. Bisognava arricchire il giornale, aprendolo con generosità ai temi che più sollecitavano l'interesse di un pubblico vasto. Ma occorreva anche mantenerlo fedele a se stesso, alla sua tradizione di battaglie politiche e ideali, alla sua ricerca degli aspetti nascosti della realtà, al suo gusto della critica spregiudicata e, a volte, insolente".

Il messaggio di Napolitano. Cordoglio per la morte di Claudio Rinaldi dal mondo dell'informazione e della cultura. Il presidente della Repubblica esprime i suoi "sentimenti di partecipazione al dolore dei familiari" , Napolitano fa sapere di aver appreso la notizia con "viva commozione". Cordoglio anche dal Presidente della Camera Fausto Bertinotti e del parlamentare di Fi Paolo Bonaiuti nella sua veste di vicepresidente della commissione vigilanza Rai. Commosso il ricordo di Veltroni-giornalista: "Ho avuto la fortuna di avere con lui un rapporto umano molto intenso. Claudio ha contribuito a scrivere la storia del nostro Paese facendo sempre e in ogni caso del rigore dell'informazione, della deontologia professionale e della coerenza personale uno strumento al servizio dei cittadini ... uno spirito libero che lo ha reso un esempio per tanti suoi colleghi". E poi Rutelli, Mastella, Maroni, quella la politica che Rinaldi fino in fondo ha continuato ad osservare e criticare.

(4 luglio 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Luglio 06, 2007, 10:43:29 pm »

CULTURA

Ricordato dai suoi colleghi più cari, da una professoressa di liceo diventata un'amica e da Giorgio La Malfa

L'addio a Claudio Rinaldi le parole e gli applausi

Il mondo della politica e del giornalismo ai suoi funerali



ROMA - Un lungo, composto applauso. Così stamattina è stato salutato Claudio Rinaldi dalle centinaia di persone che si sono radunate nella chiesa di San Carlo ai Catinari, a Roma. Pochi istanti prima si erano succeduti, accanto all'altare, due tra i giornalisti che gli sono stati più vicini negli anni della sua direzione dell'Espresso, Antonio Padellaro, ora direttore dell'Unità, e Bruno Manfellotto, del Tirreno. Insieme a una sua professoressa del liceo diventata amica carissima e a Giorgio La Malfa.

Hanno raccontato il "loro" Claudio. Il ragazzo attento e studioso sin dai tempi dei banchi di scuola. Il direttore di giornale curioso, esigente, preciso e affettuoso. Il giornalista coraggioso e deciso. Il tifoso romanista competente. L'uomo che non lasciava nulla al caso e s'informava puntualmente, perfino se programmava (come faceva nei giorni scorsi) l'acquisto un'automobile. L'uomo, infine, che ha combattuto la sua malattia in silenzio, acquisendo la competenza di un medico, tenendo dentro di sé dolore e lamenti, lavorando sino all'ultimo minuto che la vita gli ha concesso.

L'applauso è stato, così, spontaneo e corale, ma anche tenue, come a voler rispettare il rigore con cui Claudio Rinaldi ha intessuto la propria vita e che tutti coloro che lo hanno ricordato nella chiesa di San Carlo hanno sottolineato più volte.

A battere le mani all'unico giornalista italiano che ha diretto i tre più importanti settimanali del paese (L'Europeo, Panorama, L'Espresso) c'era il suo mondo, quello degli amici e dei colleghi, quello di chi lo ha affiancato nel lavoro e quello della politica, sua grande passione. Quindi Piero Fassino, Walter Veltroni, Francesco Rutelli, Claudio Petruccioli, Luca Montezemolo, Fabiano Fabiani, Carlo De Benedetti, Marco Benedetto, Ezio Mauro, Giulio Anselmi, Daniela Hamaui, Carlo Rognoni, Carlo Rossella, Giampiero Mughini.

(6 luglio 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Luglio 08, 2007, 05:10:43 pm »

L'ultima rubrica

Torna a casa Tony
Claudio Rinaldi

Ecco l'ultima rubrica scritta da Claudio Rinaldi per L'espresso 


Delega
«Gli italiani devono poter scegliere in modo lineare, pieno, consapevole chi li governerà per cinque anni». Il 27 giugno Walter Veltroni, nel candidarsi alla guida del Partito democratico, sfiora anche il tema della legge elettorale. Ma pensa al modello Westminster o a quello dell'investitura popolare del capo, in uso da noi per Regioni e Comuni? Le due ricette sono diversissime. «Nel sistema britannico», spiega Valerio Onida, «c'è una maggioranza che esprime il premier e lo può cambiare; nel sistema a elezione diretta c'è un premier che governa la sua maggioranza». L'ex presidente della Consulta sottolinea «la differenza che passa fra un sistema democratico-parlamentare e un sistema di tipo populista». E non fa mistero di preferire il primo, giacché nel secondo «il rito dell'elezione si trasforma in una cambiale in bianco a favore di una sola persona».

Blocco
All'elezione diretta del premier è contrario anche il politologo Giovanni Sartori: non è un caso, dice, che nessun paese al mondo vi ricorra. La formula introduce nelle istituzioni un dannoso fattore di rigidità, in quanto implica che il premier si possa sostituire soltanto attraverso nuove elezioni. Invece a volte si impone un avvicendamento rapido, per esempio quando scoppia uno scandalo: è la sorte toccata nel 1963 all'inglese Harold MacMillan e nel 1974 al tedesco Willy Brandt. Altre volte il primo ministro va licenziato a causa di un grave errore, come Anthony Eden dopo l'avventura di Suez nel 1956, ma non per questo bisogna troncare la legislatura. Oppure il partito al governo, in crisi, opta per un indolore cambio di cavallo: ecco Gordon Brown che manda a casa Tony Blair, ecco che in Giappone a Junichiro Koizumi subentra Shinzo Abe. Una sana flessibilità è tipica dei migliori regimi parlamentari.

Pericolo
L'elezione diretta all'italiana, inoltre, consegna al plebiscitato un potere senza limiti. Il sindaco eletto dalla gente, infatti, ottiene in regalo il controllo del Consiglio comunale; ma neppure il presidente degli Stati Uniti ha un simile privilegio, visto che il Congresso è indipendente da lui e spesso lo osteggia. A Washington il principio dell'equilibrio fra i poteri viene preso molto sul serio. Perché a Roma resta di moda il cosiddetto ?sindaco d'Italia?, bizzarria lanciata anni fa da Mariotto Segni sul mercato delle riforme?

(04 luglio 2007)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 08, 2007, 05:11:53 pm »

 La scomparsa di Claudio Rinaldi

Il ricordo di Giampaolo Pansa


 E' morto nel sonno, Claudio Rinaldi. Nel piccolo sonno del primo pomeriggio, un'abitudine che per molto tempo non aveva avuto.
Morire nel sonno è il sogno di molti, quando pensano alla morte. Perchè vuol dire andarsene all'improvviso, senza soffrire. Ma Claudio di sofferenze ne aveva patite molte e ne ha patite sino all'ultimo istante, prima di chiudere gli occhi per sempre. Era malato da tanti anni, però non si considerava così. Era un uomo di forte carattere, molto determinato e assolutamente restio al lamento. Anche nei momenti più duri del suo male, ha sempre rifiutato di parlarne.
Gli chiedevi come andava, lui alzava le spalle e cercava subito di passare ad altro.

Per Claudio, l'altro era la politica italiana. Era questo il suo interesse vitale, anche nel senso che lo teneva agganciato a una vita sempre più difficile da affrontare. Ma non era un militante, non lo era mai stato, nel senso classico del termine. Era un giornalista integrale che osservava lo zoo dei partiti con un occhio scaltro, disincantato, pronto a rilevarne gli aspetti grotteschi. Nei suoi articoli e soprattutto nei giornali che aveva diretto, dapprima "L'Europeo", poi "Panorama" e infine "L'Espresso", si avvertiva sempre un sorriso ironico, di grande distacco. Come se volesse dire ai big dei partiti: non prendetevi troppo sul serio, sono ben altre le sfide della vita.

Come direttore, Claudio era anche un comandante. Anzi, un capo banda. Sapeva sempre quel che voleva. E non aveva incertezze nel chiederlo ai giornalisti che lavoravano con lui. Accettava di discuterne solo con i collaboratori più stretti. Ti ascoltava sorridendo, quasi pensasse: sentiamo un po' che cosa vuole questo qui... Se ascoltava un'obiezione convincente, ti diceva soltanto: adesso ci penserò... Quando il consiglio gli sembrava utile, poteva cambiare una briciola del suo programma. Ma tu lo scoprivi soltanto a cose fatte.

Ho lavorato con Claudio all'"Espresso" per otto anni, dal luglio 1991 al luglio 1999. Ero la sua prima "spalla", il condirettore. Ma di fronte a lui mi sentivo come l'ultimo dei redattori. Ossia, sempre sotto esame. Il miracolo del nostro lavoro in comune è che anche lui, nei miei confronti, si sentiva come mi sentivo io. Sempre sotto esame, come direttore. Un giorno mi disse: Giampaolo, mi fai soggezione perché non hai nessuno scrupolo nel mandarmi a quel paese... Ricordo quegli anni come un tempo irripetibile. Claudio amava soprattutto la propria indipendenza di giudizio, anche perché la considerava l'elemento numero uno di successo per il giornale che gli era stato affidato. Era questo il fattore umano e professionale che ci rendeva molto simili. Se qualcuno mi chiedesse com'era Rinaldi, avrei una sola risposta: era un anarchico individualista. Una qualità sempre più rara nel giornalismo italiano.

(04 luglio 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Luglio 08, 2007, 05:14:12 pm »

IL SUO BLOG.

Italia Loro di Claudio Rinaldi

 
E Visco non si dimette
Postato in il 2 Luglio, 2007

Ammetto di non provare una particolare simpatia per Vincenzo Visco. Ritengo sbagliata e inutilmente punitiva la sua politica tributaria; escludo che contro l’evasione fiscale stia facendo i miracoli di cui certuni favoleggiano; trovo disdicevole, in lui come in qualsiasi uomo politico, l’assoluta mancanza di cordialità; e deploro che, davanti alle polemiche sul suo conflitto con l’ex comandante della Guardia di finanza, non abbia sentito il dovere di illustrare personalmente le sue ragioni al Parlamento o all’opinione pubblica.

Dunque non sono obiettivo, tanto che sull’Espresso ho redarguito il governo Prodi perché non ha approfittato dello scontro con la Gdf per liberarsi dell’impopolare viceministro.

Però non mi sento affatto fazioso a danno di Visco se adesso, dopo la notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati della Procura di Roma, dico che farebbe bene a dimettersi dal suo delicato incarico.

Lo so, è possibilissimo che presto le ipotesi accusatorie contro di lui (abuso di ufficio e minacce verso il generale Roberto Speciale) cadano. Glielo auguro sinceramente. In caso contrario, varrebbe anche per lui la presunzione di innocenza che la Costituzione stabilisce per chiunque non abbia riportato una condanna definitiva.

Ma esistono ragioni di opportunità politica che dovrebbero consigliare a Visco un sano passo indietro.

Spiace doverlo ricordare, ma nel sordido governo Berlusconi ben tre personaggi di peso non esitarono a farsi da parte quando, benché non fossero indagati da alcuna magistratura, diventarono bersaglio di duri attacchi politici, a causa di comportamenti di pessimo gusto o semplicemente folcloristici.

Carlo Taormina si dimise da sottosegretario agli Interni perché aveva dichiarato che certi pm milanesi avrebbero dovuto essere arrestati. Claudio Scajola si dimise da ministro dell’Interno perché aveva confidato a due giornalisti che il povero Marco Biagi era «un rompicoglioni». Roberto Calderoli si dimise da ministro delle Riforme perché aveva indossato una t-shirt recante stampata una vignetta antiislamica.

Se si va a casa in seguito a comportamenti del tutto privi di rilievo penale, dubito che sia lungimirante rimanere attaccati a una poltrona dopo che si è appreso di essere oggetto di indagini addirittura per minacce.

Certo Visco non è tipo da farsi tanti problemi, visto che giorni fa si è presentato alla cerimonia di insediamento del nuovo comandante della Gdf benché fosse già stato spogliato della delega al controllo delle Fiamme gialle.

Ognuno ha la sua sensibilità.

Va detto, però, che è l’intero governo Prodi a considerare irrilevante, almeno così sembra, l’iscrizione di un proprio membro in qualche registro degli indagati.

Un esempio? L’ex capo della polizia Gianni De Gennaro è indagato a Genova, eppure ha conquistato senza colpo ferire l’appetitoso posto di capo di gabinetto del ministro dell’Interno.


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Fassino il pollo
Postato in il 19 Giugno, 2007

Povero Piero Fassino. Continua a dire che nella scalata della Unipol alla Bnl, due anni fa, il suo ruolo fu soltanto quello del politico che chiede notizie su un affare in corso. Ma le bugie, si sa, hanno le gambe corte…

Oggi “Il Sole-24 Ore” pubblica stralci dell’interrogatorio reso il 22 marzo 2006 da Antonio Fazio ai magistrati di Milano. A cavallo fra il 2004 e il 2005, mise a verbale il governatore, «sono venuti da me Fassino e altri a chiedere se si poteva fare una grande fusione Unipol-Bnl-Monte Paschi».

Dunque il segretario dei Ds non si limitò affatto a informarsi. Si adoperò attivamente, invece, per favorire la nascita di un colosso della finanza rossa.

Usando il suo peso politico per verificare in anticipo, al di fuori di ogni trasparente iniziativa di mercato, se l’Autorità di vigilanza era o no disposta a dare l’okay alla fusione rossa.

Insisto: nella vicenda Unipol, i capi ds si sono comportati male.

Due volte male.

Primo, perché hanno cercato di pilotare un affare fra società quotate senza avere
alcun titolo per intervenire.

Secondo, perché hanno dato prova di inettitudine: non solo hanno fallito l’obiettivo, ma si sono pure fatti beccare.

Che polli.


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Amato, che follia
Postato in il 13 Giugno, 2007

Sono sbalordito per il modo in cui il centrosinistra sta reagendo alla pubblicazione dei testi delle telefonate che alcuni politici fecero nell’estate 2005 a proposito della scalata della Unipol alla Bnl.

1. Di questi tempi molti big dell’Unione si lamentano per il dilagare di quella che definiscono, con espressione che a me sembra cretina, «antipolitica». Ma come fanno a non capire che quel sentimento, ammesso che esista, viene alimentato e rafforzato proprio da loro, dalla loro voglia matta di impedire la circolazione delle notizie sgradite? Come possono battersi, in combutta con il peggiore berlusconismo, per una legge che, se fosse approvata, di fatto impedirebbe di pubblicare alcunché?

2. Oltretutto il vituperato governo Berlusconi, dopo aver annunciato nei toni più bellicosi un giro di vite sulle intercettazioni, alla fine zitto zitto vi rinunciò. Quale istinto suicida spinge il governo Prodi, adesso, a mostrarsi decisamente più zelante nella difesa dei presunti diritti dei vip?

3. Giuliano Amato martedì 12 ha parlato di «follia tutta italiana» delle intercettazioni. Ma non capisce che non ha senso, anzi: che è odioso cercare di proteggere la privacy dei politici con provvedimenti ad hoc? I cittadini non amano la censura, vogliono essere informati su quanto combinano i loro rappresentanti. In tutti i modi che a tutt’oggi risultano leciti.

4. È spaventoso che, fra i giornali importanti, soltanto “l’Unità” e “il Giornale” abbiano preso una posizione chiara contro il progetto di legge anti-intercettazioni. Oggi tutti gli altri, a mo’ di pappagalli, sparano titoloni sulla «follia» evocata da Amato. Senza rendersi conto di dare voce, così, più alle meschine paure del Palazzo che alle esigenze e alle curiosità dei lettori.

5. Romano Prodi denuncia l’esistenza di una «campagna pericolosa». Ma dove lo vede il pericolo, buon Dio? I partiti sono tutti scatenati nella difesa dei poveri intercettati. I mass media si limitano a dare le notizie, non c’è assolutamente nessuno che faccia campagna o gridi allo scandalo.

6. Prodi, poi, esprime piena fiducia nei politici chiamati in causa dalle intercettazioni. In pubblico non può fare altro, è ovvio. Ma dentro di sé davvero pensa che i D’Alema e i Fassino abbiano fatto bene a intrallazzare per trascinare una grande banca quotata in Borsa nell’orbita del loro partito? Se è così, si salvi chi può.

7. I Ds, infine, si dicono vittime di un complotto. Beh, ecco un caso di sublime sprezzo del ridicolo. Che facce toste! Non sono forse stati loro, due anni fa, a complottare con i Furbetti del Quartierino per mettere le mani sulla Bnl?


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D’Alema-Consorte, brutta storia
Postato in il 12 Giugno, 2007

Due riflessioni sulle telefonate che i capi dei Ds si scambiarono nell’estate del 2005 con Giovanni Consorte, il presidente della Unipol che stava tentando una scalata alla Bnl per la quale non aveva abbastanza soldi.

1. È del tutto fuor di luogo la rabbia dei Ds per la diffusione, avvenuta ieri, dei testi di alcune intercettazioni. Nell’autorizzare gli avvocati a consultarli, la gip Clementina Forleo non ha commesso alcuna irregolarità. La Costituzione e la legge Boato proibiscono l’uso processuale delle intercettazioni di un deputato senza l’okay della Camera, ma non stabiliscono la loro assoluta non conoscibilità. Personalmente trovo inaccettabile che si pretenda di difendere la privacy dei politici anche quando le loro dichiarazioni e i loro comportamenti riguardano vicende di grande interesse pubblico. Se i Ds hanno a lungo brigato per mettere le mani su una banca, è giusto che i cittadini lo sappiano.

2. I testi diffusi ieri confermano che la Bnl, se la scalata della Unipol fosse riuscita, sarebbe diventata una squallida banca di partito. Il colloquio rivelatore è quello del 7 luglio 2005 fra Massimo D’Alema e Consorte. Il primo esclama: «Facci sognare. Vai!», e con questa scemenza da curva Sud mostra di considerare l’eventuale conquista della Bnl non come un successo dell’azienda Unipol bensì come una vittoria politica dei Ds. Ma ancora più grave è la frase finale di Consorte: si sta facendo «uno sforzo mostruoso», dice, «ma vale la pena a un anno dalle elezioni»; ebbene, dal riferimento al voto si capisce che il numero uno della Unipol era pronto a mettere la Bnl a disposizione della Quercia per le sue battaglie politiche.

Lo scenario, insomma, era quello di una totale commistione fra imprese e partito, tanto più losco in quanto sia la Unipol sia la Bnl erano quotate in Borsa.

Nessun reato, certo; ma il tentativo, per fortuna fallito, di un’operazione di potere scorretta e pericolosa.

Post scriptum. Come ignorare la telefonata del 18 luglio 2005 fra il diessino Nicola Latorre e l’immobiliarista Sergio Ricucci, allora impegnato in un’oscuro assalto al gruppo Rcs-Corriere della sera, in cui il secondo si autodefiniva «compagno Ricucci»? Il chiacchieratissimo Ricucci aveva ragione, purtroppo, di sentirsi in cordata con i Ds: il 7 luglio Piero Fassino, in un’infelice intervista al Sole-24 Ore, aveva difeso a spada tratta il suo diritto di impadronirsi del quotidiano. Pur di arraffare il controllo della Bnl, i Ds erano pronti ad allearsi con i più improbabili avventurieri della finanza…


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« Risposta #8 inserito:: Luglio 08, 2007, 05:15:19 pm »

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Povero Floris
Postato in il 6 Giugno, 2007

Trovo deplorevole che a Ballarò, ieri sera, Giovanni Floris non soltanto abbia mandato in onda una telefonata di pseudosmentita da parte di Silvio Berlusconi, non invitato da nessuno, ma gli abbia anche permesso di tenere un comiziaccio su temi del tutto estranei alla trasmissione (compresi gli inesistenti brogli elettorali del 2006!).

Trovo assurdo che sia stato dato tanto spazio all’imbucato Berlusconi, oltretutto senza un vero contraddittorio, a pochi giorni dai ballottaggi per le amministrative.

Trovo ridicolo che Floris abbia continuato fino alla fine a implorare da Berlusconi nuovi interventi, come se l’anziano ex premier fosse una popstar da vezzeggiare e non un politicante meno serio di altri.

Povera sinistra, se un Floris si riduce a pendere dalle labbra di Berlusconi.


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Berlusconi il black bloc
Postato in il 5 Giugno, 2007

Sul caso Speciale, né Vincenzo Visco né l’Unione che lo sostiene hanno ragione. Ma non si può non provare sdegno davanti al modo ottuso e irresponsabile in cui Silvio Berlusconi sta cercando di trarre un suo personale profitto dalla situazione.

A Lucca, oggi, l’ex premier ha minacciato non soltanto di scendere in piazza, come un black bloc qualsiasi, ma addirittura di organizzare uno sciopero fiscale.

L’aveva già fatto il 7 maggio 2006 in un comiziaccio a Milano.

È un appello demenziale, assurdo in un aspirante uomo di Stato.

La spensierata reiterazione della minaccia indica in chi se ne compiace un’intollerabile indulgenza verso le forme più becere e nocive dell’illegalità di massa.

Forse Berlusconi spera, facendo il duro e il durissimo, di procurarsi più consensi.

Ma qualcuno dovrà fargli capire che queste pose da Masaniello da strapazzo distruggono del tutto le sue già scarsissime speranze di tornare un giorno a Palazzo Chigi.


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Visco l’impiccione
Postato in il 5 Giugno, 2007

A tutti coloro che considerano ineccepibile il comportamento di Vincenzo Visco nei confronti della Guardia di finanza consiglio la lettura di un documento pubblicato oggi dal “Giornale”.

È una lettera spedita il 16 marzo scorso dal viceministro al comandante Roberto Speciale. Ecco il testo:

«Signor generale, ho ricevuto la sua lettera in data di ieri con la quale mi informa della designazione del Capo di stato maggiore e del Sottocapo di stato maggiore. Ne prendo atto. Devo peraltro ribadire nell’occasione che eventuali ulteriori ipotesi di designazioni dovranno avvenire solo all’esito di un preventivo e approfondito confronto sulle motivazioni delle stesse con l’autorità politica, cosa che anche in questa circostanza non è avvenuta». Fine.

Faccio tre osservazioni.

1. La lettera dimostra che Visco voleva mettere bocca, sistematicamente, nelle nomine all’interno della Gdf. Non accettava che Speciale designasse chi gli pareva.

2. La lettera dimostra che la pretesa di ingerenza veniva avanzata da Visco con una certa assiduità («Devo ribadire», «anche in questa circostanza»…).

3. La lettera dimostra che lo stesso Visco si rendeva conto, sotto sotto, di avanzare una pretesa del tutto abusiva. Davanti alle designazioni comunicategli da Speciale, infatti, il viceministro ammetteva che erano perfettamente legittime: non adduceva elementi per contestarle, anzi era costretto ad avallarle («Ne prendo atto»). Ebbene, con questo sì pronunciato a denti stretti Visco in pratica confessava che la sua insistente richiesta di concertare le nomine con Speciale non aveva fondamento alcuno.

La mia impressione è che il viceministro, nel volersi impicciare delle questioni interne alla Gdf, non fosse affatto corretto. Avrebbe potuto respingere le designazioni di Speciale, certo; ma non arrogarsi il diritto di imporre a Speciale designazioni di proprio gradimento.

In un giornale, l’editore può dire di no al direttore che gli propone di assumere Tizio o Caio; ma non può costringere il direttore a proporgli di assumere Sempronio, perché quello di proporre le assunzioni è un diritto esclusivo del direttore.


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Contro la faziosità
Postato in il 4 Giugno, 2007

Un paio di precisazioni. A beneficio di chi è così gentile da seguirmi, ma dissente da quanto vado scrivendo.

1. È vero, sono un po’ discontinuo; e me ne dolgo. Spesso pontifico, altrettanto spesso taccio. Il fatto è che da anni devo vedermela con una malattia disabilitante, e ogni tanto mi sento a corto di energie.

2. Non credo di essere del tutto rimbecillito, né tanto meno sto diventando di destra. Però ho sempre cercato di non essere fazioso; e oggi non posso nascondere a me e agli altri che questo centrosinistra si sta comportando in modo molto, troppo deludente.

Qualche esempio?

Sì, è vero, il governo Berlusconi è stato disgustoso nel gestire la Rai; ma questo non autorizza il governo Prodi (peraltro subito stoppato da un Tar) a tentare di licenziare un consigliere d’amministrazione della Rai che non ha commesso alcuna irregolarità.

Sì, è vero, gli evasori fiscali fanno schifo, e Vincenzo Visco fa benissimo a dargli la caccia; ma questo non obbliga nessuno a difendere il viceministro quando, arbitrariamente e concitatamente, chiede la testa di quattro ufficiali della Guardia di finanza che non risultano colpevoli di nulla.

Sí, è vero, la riforma delle pensioni firmata Maroni-Tremonti è fatta con i piedi (fa crescere di tre anni in un giorno solo l’età minima per il pensionamento di anzianità, mentre la riforma appena varata in Germania prevede che l’età del pensionamento di vecchiaia per crescere di due anni ne impieghi ben 22); ma questo non è un buon motivo perché la gente continui a ritirarsi dal lavoro a soli 57 anni anche adesso che l’aspettativa media di vita è salita a circa 80 anni.

Sì, è vero, George W. Bush è un pessimo (e dannosissimo) presidente degli Stati Uniti; ma questo non comporta che si debba giurare alla cieca sull’innocenza di tale Ramatullah Hanefi, l’uomo di Emergency la cui comparsa sulla scena del sequestro Mastrogiacomo ha coinciso con un cinico gioco al rialzo da parte dei talebani e con la condanna di un ostaggio a una morte atroce.

In definitiva, io vorrei parlare bene del centrosinistra; e spero vivamente che la cronaca mi fornisca tante occasioni di farlo. Ma constato che questo per ora non avviene. E, nell’attesa, considero mio dovere segnalare le cose che secondo me non vanno.


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Non difendete Visco
Postato in il 31 Maggio, 2007

È provato, ormai: nel luglio del 2006 il viceministro Vincenzo Visco ha ingiunto al comandante generale della Guardia di finanza di allontanare quattro alti ufficiali dalla sede di Milano. E non si è nemmeno degnato di spiegare perché.
Adesso il centrodestra chiede che a Visco sia tolta la delega al controllo delle Fiamme gialle. Lo stesso chiedono anche alcuni esponenti del centrosinistra. I Ds, invece, difendono il viceministro a spada tratta; e il dalemiano Nicola La Torre suggerisce che al generale Roberto venga  tolta la guida della Gdf.
Ma fare quadrato intorno all’uomo delle tasse sarebbe un errore esiziale, e non soltanto perché l’arcigna politica fiscale di Visco ha dato un contributo decisivo al crollo della popolarità del governo Prodi.
Significherebbe confermare che l’Unione ha una brutta vocazione al  siluramento delle personalità che considera non perfettamente allineate ai propri voleri.
Un anno fa Livia Turco ha deciso, odiosamente, di revocare la nomina dell’oncologo Francesco Cognetti dalla direzione scientifica dell’istituto Regina Elena: voleva fare posto a una sua protetta. Ma ha fatto una figuraccia, perché poco dopo il Consiglio di Stato le ha dato torto.
Poi il ministro Tommaso Padoa Schioppa ha tentato di sloggiare Angelo  Maria Petroni dal Consiglio d’amministrazione della Rai; ma il Tar del Lazio ha bloccato la manovra, come questo blog aveva facilmente previsto.
Cognetti, Petroni, Speciale e i quattro della Gdf milanese hanno due caratteristiche in comune. La prima è che nei rispettivi incarichi non risultano aver fatto alcunché di male. La seconda è che si è  brigato per punirli, o in base a meri pretesti o addirittura senza  motivazioni.
Dunque auspico che Visco faccia un passo indietro, prima che questo gli venga imposto.
Sarebbe il segno che l’Unione considera chiusa, finalmente, la fase degli assalti arbitrari alle poltrone non occupate da fedelissimi.


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Il governo delle tasse sceme
Postato in il 30 Maggio, 2007

Romano Prodi continua a dire che la sconfitta dell’Unione alle amministrative è stata causata dalla dura necessità di adottare politiche di rigore per rimettere a posto i conti pubblici. Ma questa, mi si perdoni la brutalità, è una balla autoconsolatoria.
La verità è che il bilancio dello Stato è stato in parte sistemato, sì, ma in modo politicamente cretino.
Per aumentare le entrate fiscali, quel cervellone di Vincenzo Visco ha pensato bene di inasprire il prelievo sui redditi delle pensione fisiche. Ridisegnando la curva delle aliquote in modo da accentuare la progressività. Ma così ha incautamente messo in allarme tutti i contribuenti, costringendoli per mesi a fare e disfare i calcoli per capire se con le novità ci guadagnavano o ci rimettevano.
Alla fine la stragrande maggioranza dei cittadini si è ritrovata nelle buste paga un po’ meno euro di prima. Conseguenza, il governo Prodi è stato giustamente condannato come «il governo delle tasse». Un  autogol quasi incredibile, se si considera che nel 2006 l’Unione aveva rischiato di perdere elezioni già quasi vinte proprio perché alla vigilia del voto aveva annunciato misure punitive in materia tributaria (ripristino dell’imposta di successione, più tasse sui redditi da capitale).
C’erano altre strade per arrivare al risanamento delle finanze statali? Ma certo.
La migliore, per il bene dell’economia, sarebbe stata una riduzione della spesa pubblica. La sinistra radicale, però, in nome del suo veterostatalismo si sarebbe opposta.
La lotta all’evasione fiscale, meritorio impegno di Visco, non poteva dare risultati eclatanti in tempi brevi.
Rimaneva apertissima, invece, la strada seguita dalla Germania: un deciso aumento (dal 16 al 19 per cento) dell’Iva. Con questo semplice provvedimento Angela Merkel ha accresciuto di molto il gettito fiscale, abbattendo di colpo il disavanzo, senza che nessuno se ne accorgesse. L’inflazione non ha registrato alcuna impennata; il prodotto interno lordo ha continuato a crescere vigorosamente; i contribuenti non si sono  sentiti affatto vessati.
Prodi e Visco, purtroppo, hanno preferito la stangata o stangatina  sull’Irpef. Che errore. Se davvero volevano «guarire l’Italia», come con inutile pomposità proclama il premier, dovevano farlo senza  infliggere al presunto malato sofferenze che potevano essere evitate.


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