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Autore Discussione: MATTIA FELTRI.  (Letto 74663 volte)
Arlecchino
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« Risposta #120 inserito:: Ottobre 12, 2017, 06:10:11 pm »


E la rabbia della piazza grillina non salva Bersani: “A mummia”
Viaggio nell'incomunicabilità dei due eventi di M5S e sinistra

Pubblicato il 12/10/2017

Mattia Feltri
Roma

L’attimo di massima comunione: due canuti che non hanno finito le munizioni, arrivano dalla piazza davanti a Montecitorio dei cinque stelle, due minuti a piedi e sono al Pantheon proprio mentre spunta Pierluigi Bersani. Devono esprimergli tutta la stima, se non altro per la battaglia condivisa: «A mummiaaa». E certo: la mia piazza è più piazza della tua. 

E in effetti non s’era mai vista una distanza più siderale, ben oltre quei pochi metri da cui le manifestazioni erano separate, i pochi minuti fra l’eclissarsi della prima e il sorgere della seconda: come se l’onda d’energia si fosse esaurita.

S’era invece abbattuta all’ora di pranzo sulle transenne che tenevano i cinque stelle al di qua di Montecitorio. Uomini e donne su con gli anni, si intende intorno alla sessantina, tendevano le mani verso il palazzo delle frodi, un atto di disperata speranza, e di ultima minaccia. L’ululato: «Fuori! Fuori!». Infami, ladri di democrazia, abusivi. Mi chiamo Domenico, strilla uno all’orecchio. Di cognome? Turano, romano, pensionato. Ha con sé un libretto della Costituzione furiosamente sottolineato, righe gialle rosa blu. Qui c’è un conflitto fra poteri, strilla ancora, e sfoglia, articolo 72, modalità di voto: incostituzionale! Uno da dietro punta l’indice, Boldrini assassina, scrivilo scrivilo, servo! Due di Caserta portano via il cronista, Gaetano Sanfelice e Gerardo Sorice, sono iscritti al meetup, hanno addosso le rotondità di una lunga vita, il sorriso affabile, ascolta noi, dicono. Sono partiti stamattina per guadagnarsi la prima fila. La sanno lunga, loro: questi qui difendono le poltrone e niente altro, ecco perché siamo qui, sono l’immondizia, come Casini che ha cambiato tremila partiti - veramente non è vero, Casini no - ma fa lo stesso, sono tutti uguali, ecco perché siamo qui. È la bolgia che risucchia tutto. Uno sulla trentina, uno dei più giovani, cinge le spalle del cronista, nel tumulto trova l’intimità a un centimetro dal naso: il capitalismo finanziario ha paura soltanto dell’insurrezione del popolo, e noi faremo l’insurrezione, io che altro devo fare nella vita se non l’insurrezione? Sono sei anni che cerco lavoro - come ti chiami? - allora non hai capito, mi chiamo piazza, popolo, Movimento cinque stelle, e sono incazzato nero.

Poi il sole era andato via da un po’, e di fronte al Pantheon era stato tirato su un palchetto. Attorno sventolavano bandiere rosse, tutte uguali, se non fosse per le sigle, Sinistra italiana, Possibile, Mdp, Rifondazione, un placido arrendersi al tempo e al vento, fumo di pipa, tweed, cravatte disegno cachemire, Massimo D’Alema dice che il Pd logora la democrazia, sfilano come su un nastro trasportatore vecchi leader dotati dell’intera casistica dei congiuntivi, Gavino Angius, Guglielmo Epifani, Vincenzo Visco, Corradino Mineo, la corteggiatissima Anna Falcone, un attempato signore illustra la svolta di Fiano Romano dove l’intera giunta ha lasciato il Pd per Mdp, lui compreso, che conobbe gli anni ruggenti di Pci. Si chiama Giuliano Ferilli, è il babbo di Sabrina. Un ragazzo con una bella barba, ha ventotto anni, si chiama Andrea Mazzoni, dalemiano di Perugia, conta si possa costruire una sinistra di popolo radicata in una cultura di governo. Ha un elegante berretto di feltro, maglione di lana sotto la giacca. Un signore immobile reca un cartello con scritto «proporzionale puro». Mi chiamo Claudio Giambelli, sono pensionato di Roma, vorrei dare una struttura sociale e politica basata su dei fondamenti reali. Accanto a lui c’è una signora di 65 anni, mi chiamo Susanna Fratalocca, penso tutto quello che dice Tomaso Montanari, e mi dispiace che qui non ci siano giovani, i giovani in piazza non ci vanno più, le mie figlie non voteranno, dicono che non gli interessa. Sorride amara.

Com’è già distante la furia. Quando davanti a Montecitorio la calca aveva preso di colpo a ondeggiare, a ruggire. Uno ha il collo che esplode, maiale! maiale! Ma sul palco non c’è nessuno - chi sta parlando? - stanno trasmettendo l’aula, dice, credo sia Salvini, il bastardo - no, Salvini no, è europarlamentare. Guarda storto, sono maiali, solo maiali. Si alzano fogli con scritto no all’obbligatorietà vaccinale, un vassoio di cartone dorato con scritto reddito di cittadinanza, una donna di Rieti, sulla sessantina, Silvana Manganero, dice di essere venuta col marito perché ha visto su Facebook l’appello di Alessandro Di Battista che era così giù di corda, accidenti. Siamo venuti perché vogliamo un Parlamento costituzionale. Fuori / la mafia / dallo Stato / fuori / la mafia... Saltellano anziane signore minute e brizzolate, uomini sui cinquanta con t-shirt Harley Davidson, Heineken, Keep Calm che andiamo al governo, I love Formentera, hanno capelli lunghi e code bianche e magliette dei Kiss, residuato del metal novecentesco, giacche di jeans, poche ragazze con le unghie e le scarpe brillantinate, spazzano via tutto con applausi fragorosi quando la Camera viene dichiarata fascista, e sbraitando sul nome dell’ultimo nemico, Sergio Mattarella. Ci avete rotto i coglioni. Vi butteremo fuori a calci in culo. Onestà! Onestà! Faremo la veglia, dicono, staremo qui fino a domani, finché serve. E di là, al Pantheon, era già tutto vuoto, restituito ai turisti, s’era spento giusto un sussulto su Bella Ciao, versione dei Modena City Ramblers; e belle signore avevano ballato in tondo tenendo per mano i mariti, alla gioiosa memoria.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/12/italia/politica/e-la-rabbia-della-piazza-grillina-non-salva-bersani-a-mummia-E18I18RrqPpZKQ16Ugg3nK/pagina.html
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« Risposta #121 inserito:: Marzo 25, 2018, 06:22:36 pm »

Schede bianche e indici alzati: il   debutto degli onorevoli smarriti
Dal leader dei pensionati ai reietti grillini.
Entusiasmo e buone intenzioni ce dono subito il passo alle manovre dei partiti per le presidenze del Parlamento

Pubblicato il 24/03/2018 - Ultima modifica il 24/03/2018 alle ore 15:14

Mattia Feltri
Roma

Poverini: probabilmente erano tramortiti dall’intrico di tattiche e forse persino di strategie. Questi nostri poveri novizi, oltre sei su dieci al debutto in Parlamento, pronti via e già erano dentro il viluppo delle tattiche - riservatissime. 

Smarriti lungo i traslucidi corridoi solcati dai veterani, che brancolavano col telefonino all’orecchio e la mano sulla bocca per non offrire il labiale agli avvoltoi dei giornali, affettuosamente s’intenda. Il senso della legislatura, del Paese intero, potrebbe stare tutto dentro il passo navigato di Rocco Casalino: per i più distratti, passato meritoriamente in un decennio dalla casa del primo Grande Fratello all’alta logistica dei Cinque Stelle. Niente, non c’è friccico né emozione né stupore.

Tutto anestetizzato da questi giri in aula, sotto l’arco di mogano, per votare col bigliettino infilato nel cesto, bigliettino bianco, scheda bianca per ordini superiori, che come in guerra magari non si capiscono ma si eseguono. Tutto volato via quell’entusiasmo di avere in mano il futuro del Paese, le buonissime intenzioni rinviate a dopo la mossa del cavallo per la conquista e la distribuzione delle più alte poltrone della gerarchia statale. Vecchi e nuovi, giovani e anziani, onesti autoproclamati e disonesti conclamati immersi nel medesimo gioco del nascondino, cantilenato dai presidenti provvisori, Giorgio Napolitano al Senato e Roberto Giachetti alla Camera: bianca-bianca-bianca. Che a Dario Franceschini, ministro uscente della Cultura, ha riportato alla memoria la bisnonna Attilia, che anni fa assisteva in tv all’elezione di un presidente della Repubblica, e quando la figlia Bianca rincasò le disse trafelata: «I tà tant ciamè dà la television!».

Fortuna che è arrivata la sera ad animare un poco una giornata di lento casino, nel quale noialtri giornalisti ci si avventurava nelle inesplorate oscurità delle menti politiche al lavoro, trascurando che lì dentro è verosimile soltanto l’inverosimile. Si provava a intuire esiti o almeno sbocchi, quando la soluzione l’aveva data la superanimalista berlusconiana Michela Vittoria Brambilla, che informava di aver depositato una proposta di legge per vietare bocconi ed esche avvelenate. Ma l’azione legislativa in favore dei quadrupedi non poteva ancora fermare il bipede Matteo Salvini. Di mattina ci era invece toccato animarci per la bizzarra collocazione geografica dei F.lli d’Italia, seduti al Senato nei banchi a sinistra, fra i nemici del Pd. «Quelli di Forza Italia si erano seduti a destra, non avevamo spazio. Piuttosto che metterci al centro, abbiamo deciso di metterci a sinistra. Al centro mai!», ha poi spiegato Ignazio La Russa. Ci eravamo incuriositi per l’arcaico armeggiare di Maurizio Gasparri coi giornali di carta, strappava pagine e se le infilava in tasca, si imbatteva in una foto di Giorgio Almirante che nel 1973, come Salvini l’altro giorno in gelateria, non era stato servito per ritorsione democratica - diciamo così - all’autogrill di Barbagallo. «Partirono delle auto da Roma, cariche di camerati, che andarono a distruggere un po’ di stoviglie. Ma come, non servite il mio capo? Ma vaffa... Ecco, prima del vaffa di Grillo ci fu il vaffagrill». 

Ci si aggrappa a questi vecchi (se non si offendono). Roberto Calderoli ha ormai la statura del totem, con quante legislature e sapienze ha sulle spalle. Fanno malinconia i reietti dei Cinquestelle, quelli che si intascarono i rimborsi: il senatore Carlo Martelli, l’ex cavaliere dell’intransigenza, siede solo all’estrema sinistra, vestito interamente di nero, cravatta d’oro zecchino. I più sono irriconoscibili, sia a Palazzo Madama sia a Montecitorio. Cinque anni fa, il primo giorno della scorsa legislatura, gli ufo a Cinquestelle l’avevano scritto in fronte chi erano, indossavano Superga gialle o verdi, jeans sfilacciati, si portavano appresso zainetti no logo. Adesso sono vestiti come praticanti di studio legale, camicia bianca e cravatta amianto; potrebbero essere forzisti di Publitalia (che forse non esistono più). Cinque anni fa si portavano al banco i bicchierini di plastica e sopra ci scrivevano il loro nome: «Sono soldi dei cittadini anche questi!», dicevano. Ora bevono e gettano: non risparmiano in bicchierini ma si risparmiano la caricatura.

Però questo non può bastare al leggendario Pasquale Laurito, decano dei cronisti, qua dentro dal 1947. «In settantuno anni non avevo mai visto tutti i gruppi votare scheda bianca. È lo sgretolamento delle istituzioni, ma che volete, allora c’era Concetto Marchesi che interveniva in latino, e Palmiro Togliatti gli rispondeva in greco». Era un altro mondo. Ora ci baciamo i gomiti per il situazionismo di Vittorio Sgarbi che prova a iscriversi al gruppo dei Cinque Stelle, nonostante il dolore per la mancata elezione di Alessia D’Alessandro, la candidata grillina che si spacciò per collaboratrice di Angela Merkel. «La più bella ragazza (non dice proprio così, ndr) di tutti i tempi. Se l’avessero eletta, avrei aperto il dialogo». Renata Polverini (Fi), in stampelle per un malleolo rotto, ci pare l’essere più saldo del palazzo. Ci pare esoterico ed eccitante il profilo novecentesco di Carlo Fatuzzo, fondatore nella notte della Prima repubblica del Partito pensionati, due miracolose legislature europee, un imbarazzante elenco di fallimenti, l’ultimo un anno fa quando alle comunali di Crema (di Crema!) prese un voto (un voto!). Non si sa come, ora è deputato di Forza Italia. Ma va bene tutto. 

La sera riversa ombre col profilo del governo Di Maio-Salvini. Va bene anche Matteo Renzi che alla buvette elenca le sue serie preferite su Netflix, occupazione di recenti dopocena di quiete. Va benissimo Elio Lannutti, altra presenza spettrale, dallo sprofondo della rettitudine, dipietrista, animatore di associazioni per i consumatori, nemico pubblico delle banche, un giustiziere seriale ora qui col Movimento. Va bene anche lui, almeno finché non si infila nella parte e solleva l’indice in nome dell’onestà, dei sacri valori dell’integrità: è il segnale che la giornata può inabissarsi, le lunghe ore delle astuzie si dissolvono. La notte porterà consiglio ed è il consiglio di esserci, stamattina: via la scacchiera, si passa al randello. 

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Da - http://www.lastampa.it/2018/03/24/italia/politica/schede-bianche-e-indici-alzati-il-debutto-degli-onorevoli-smarriti-RuJkaL1L4KyPD4OY5X9BtJ/pagina.html
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« Risposta #122 inserito:: Aprile 04, 2018, 12:45:41 pm »

Trattative, gimkane e semileader. Un mese vissuto pericolosamente
Trenta giorni dopo il voto un’alleanza di governo sembra lontanissima. Tra liturgie e balletti ipnotici, a perdere finora sono Renzi e Berlusconi
La telefonata. Sono le 20,15 e il telefono di Di Maio squilla: è Matteo Salvini. Si tratta del primo contatto tra M5S e Lega, il nocciolo dello scambio (5 minuti) è sulla presidenza delle Camere e sul taglio dei vitalizi
Pubblicato il 04/04/2018 - Ultima modifica il 04/04/2018 alle ore 07:25

Mattia Feltri
Roma

Finalmente ci siamo, quasi. A un mese e un giorno dalle elezioni, nel tempo fra l’ascesa al Quirinale e la ridiscesa, qualche cosa dovrà ben succedere, e subito. O quasi. E fra questi due avverbi - subito e quasi - c’è l’intera distanza fra le aspettative frenetiche e onnivore di noi spettatori e i tempi lassi della liturgia politica, così che in questo mese più un giorno pare si sia arrancato fra le strategie verbali di leader e semi-leader, nemmeno più tanto raffinate, fra piccole trappole quotidiane, offerte e rifiuti come di filarini ginnasiali. E invece una cosa è già successa, e seria. Matteo Salvini ha fatto fuori Silvio Berlusconi e Luigi Di Maio ha fatto fuori Matteo Renzi. Ci avevano provato i due - Berlusconi e Renzi - a tenere il centro del palco.

Il 5 marzo, poche ore dopo la sconfitta, il primo aveva spiegato che il regista del centrodestra restava lui, e il secondo che di tanti errori commessi il peggiore era stato di non andare a votare nel 2017 (colpa di Sergio Mattarella), che lui a differenza di altri nel Pd aveva vinto nel suo collegio, e che si sarebbe fatto da parte soltanto dopo la formazione del governo, per evitare mani tese ai Cinque Stelle. Eccoli lì, l’uno e l’altro.  

Nella notte fra il 23 e il 24 marzo, Berlusconi cede. Poche ore prima, Salvini aveva annunciato di votare Anna Maria Bernini alla presidenza di Palazzo Madama, e non il prescelto da Forza Italia, Paolo Romani. Sono i prodromi dell’alleanza con Di Maio, la coalizione è finita, dice Berlusconi. Macché. Per non restare tagliato fuori, accetta. In quella notte Berlusconi incassa dai suoi insulti e gesti di disprezzo, ma li incassa per cercare di rimanere in pista. Poi tocca di nuovo al Pd: resta senza questori e segretari d’aula, figure di potere in Parlamento, e non era mai successo in settant’anni di Repubblica che il secondo partito del Paese fosse trattato a quel modo. Un balletto rapsodico e ipnotico: Salvini e Di Maio vincono a mani basse la prima partita. Ci sarebbe un solo motivo al mondo per fermarsi proprio ora?

Il resto potrebbe sembrare tutto senza senso. Non sono trascorse ventiquattro ore dai risultati elettorali, e Di Maio e Salvini - naturalmente nel massimo rispetto delle prerogative del Capo dello Stato eccetera - rivendicano il mandato a formare il nuovo governo. Di Maio perché il suo è il partito con più voti. Salvini perché la sua è la coalizione con più voti. Purtroppo né il primo partito né la prima coalizione hanno una maggioranza da proporre a Mattarella. Si inventano gimkane costituzionali, Di Maio dice che è aperto a discutere con tutti (e non vuole dire niente), Salvini che otterrà la fiducia su punti programmatici dai singoli parlamentari (e vuol dire ancora di meno). Ma su questi presupposti si inizia la lunga barzelletta del contadino che deve portare il lupo, la capra e il cavolo al di là del ponte. Di Maio è aperto a discutere con tutti, ma non con Berlusconi, dice. Salvini è disposto all’appoggio di tutti, ma non del Pd, dice.

E la contabilità si inceppa. Due semplici e comprensibili ostracismi, e i numeri non tornano più. Nessuna maggioranza è possibile, tranne che quella lanciata da Steve Bannon, ex capo stratega di Donald J. Trump, con sfrontatezza americana: Lega e Movimento Cinque Stelle, assieme. I numeri ci sono, e si rafforzeranno.

Scalate a mani nude  
Noi qui a dare credito, almeno per dovere di cronaca, alle scalate a mani nude. Gustavo Zagrebelsky marcia in testa al gruppo d’intellettuali che vorrebbe un governo M5S+Pd. Dalla derelitta sinistra distaccata dal Pd si rimpolpa la prospettiva: M5S+Pd+LeU. Renato Brunetta (Forza Italia) butta lì un piccolo compromesso storico centrodestra+Pd (con premier Salvini, gulp! L’avance sfuma in venti secondi). Si ipotizzano governi istituzionali, del Presidente, di scopo, di garanzia, e in una tale fumisteria la nostra giovane coppia prefigura il futuro. Di Maio se la ride ai vitalizi che «non avranno più scampo», al reddito di cittadinanza (sebbene non sia un reddito di cittadinanza) che sarà definito al primo Consiglio dei ministri; Salvini già sogna il primo def per ridurre le tasse (non al 15 per cento, non lo specifica più) e la poltrona giusta per sfollare gli immigrati.

Il primo giorno di lavoro  
La virtù dilaga, il presidente della Camera, Roberto Fico, il primo giorno di lavoro si muove in autobus perché i galloni non hanno annacquato la sua purezza. La collega del Senato, Maria Elisabetta Casellati, va in Liguria con un volo di linea perché nemmeno lei vola alto, vola alla quota degli altri. Mara Carfagna rinuncia all’indennità di vicepresidente e annuncia che la devolverà alla tale Onlus, operazione che conclusa in dignitoso silenzio avrebbe mancato l’obiettivo: partecipare alla moda recente di rinunciare ai soldi, anziché guadagnarseli, e di offrire la rettitudine alla voracità del popolo. Tutto sembra compiersi, in nome del popolo e nella direzione del popolo. Da oggi si capirà se l’inverosimile è diventato verosimile.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/04/04/italia/politica/trattative-gimkane-e-semileader-un-mese-vissuto-pericolosamente-2RSoXPTMSSja4FpTgd3zVN/pagina.html
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« Risposta #123 inserito:: Aprile 17, 2018, 09:21:30 pm »

Esordienti, dilettanti e nuovi leader.
Ecco la foto di gruppo della futura razza padrona
Jeans, scarpe da tennis e fermezza: quelli che ora dettano la linea

Maurizio Martina.
Debuttò sulla scena come ministro del governo di Enrico Letta, poi riconfermato e ora scelto come reggente del Pd in burrasca Matteo Orfini.
Cinque anni fa esordiva da parlamentare col titolo di ex portavoce di Massimo D’Alema a 43 anni è presidente del Partito democratico

Pubblicato il 08/04/2018 - Ultima modifica il 08/04/2018 alle ore 13:33

MATTIA FELTRI
ROMA

La nuova razza padrona incede di buon passo. Non tanto quello che l’ha condotta al Quirinale senza auto blu (abitudine antica, veramente, e non per frugalità, ma perché a piedi si fa prima), bensì il passo dell’oca dell’irruzione in scena. Basterebbe la foto della delegazione del Pd, spolverini blu, vestiti blu, cravatte blu, guidata dal segretario reggente Maurizio Martina, bergamasco neanche quarantenne che, quando si iniziò la legislatura scorsa, nessuno sapeva chi fosse. Si indagò alla nomina (governo Letta) a ministro dell’Agricoltura; una scelta che aveva il gusto di un omaggio al giovanilismo di cui la politica non sa più fare a meno. E poi Matteo Orfini, che cinque anni fa esordiva da parlamentare col titolo di ex portavoce di Massimo D’Alema, e Graziano Delrio che come Martina si presentò al mondo con l’ingresso nell’esecutivo di Enrico Letta. Ma la vera foto della nuova razza padrona è naturalmente quella dei ragazzi del Movimento, pubblicata sulla prima pagina del Manifesto con un titolo geniale: «Coalizione al sacco». A parte il sempre azzimato Luigi Di Maio, una sfilata di sneakers, di cravatte allentate, colletti slacciati. Ora Di Maio fa parte del panorama, ma quanto tempo è passato, quante cose sono cambiate dalla marcia dei grillini senza volto di cinque anni fa? 

Abbiamo preso confidenza con Danilo Toninelli nei mesi della discussione parlamentare sulla riforma della Costituzione, quando conduceva con enfasi resistenziale i cinquestelle della Camera, dall’alto della sua laurea in legge. Ora è capogruppo al Senato, e accompagna Di Maio insieme con Giulia Grillo, equivalente a Montecitorio, promossa per affinità elettive col capo e per una tendenza a non vedere scie chimiche né invasioni di sirene (è persino favorevole ai vaccini, sebbene non alla loro obbligatorietà). Insomma, serviva quel minimo di contegno che è anche di Riccardo Fraccaro (quasi sempre), attendente del candidato premier, in cui ci si imbatté nel giorno della rielezione di Giorgio Napolitano, che cadde il 20 di aprile, e Fraccaro trovò una coincidenza non così casuale con la data di nascita di Itler (scritto così, senza acca).

Non si dice che a Sergio Mattarella saranno servite le foto segnaletiche (non vorremmo passasse per un’allusione all’onestà della nuova razza padrona), ma insomma. E per assurdo non gli sono servite di certo per riconoscere Silvio Berlusconi, l’unico leader storico tornato al cospetto del Presidente della Repubblica, e nonostante la condanna passata in giudicato (a proposito di foto segnaletiche), e le conseguenze della legge Severino che lo escludono da cariche pubbliche. Era accompagnato da Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini, due ragazze con alcune legislature alle spalle, per cui almeno loro si meritano la qualifica di veterane.

Ma, insomma, questa classe dirigente pare davvero piombata dal cielo per combinazione astrale. I presidenti delle camere arrivano da dorate retrovie, e cioè Maria Elisabetta Casellati, salita sui pendii di qualche notorietà ai tempi di Ruby Rubacuori e di zio Mubarak, quando si batteva coraggiosamente in una trasmissione e nell’altra per l’onorabilità di Berlusconi. Oppure arrivano dalle praterie del clic, ed è il caso di Roberto Fico, che come Di Maio s’è fatto un nome nell’ultimo lustro. Ci avessero fatto vedere queste foto cinque anni fa, saremmo cascati dalla sedia. Gianmarco Centinaio è stato confermato capogruppo al Senato della Lega, carica che ottenne nella scorsa legislatura quando il suo era un partitino del quattro per cento. Giancarlo Giorgetti, alla testa di centoventicinque deputati dopo sei legislature vissute nel vivo, ma sempre un passo indietro, ha ormai l’aria del raffinato stratega, e considerato il mucchio lo è senz’altro. E allora Matteo Salvini, quasi un reduce della politica per costanza televisiva, sembra davvero un vecchio compare invece che l’imprevisto condottiero dell’intero centrodestra, blasone con cui bello tronfio è entrato al Quirinale. Ecco, di rinnovamento in rinnovamento, esigenza che ci insegue (o ci perseguita) da due decenni e mezzo come un’ambizione di catarsi, siamo arrivati a questa foto di gruppo della nuova razza padrona. Va guardata e riguardata, questa foto, per il semplice motivo che qualcuno sembra non averla ancora messa bene a fuoco.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/04/08/italia/politica/esordienti-dilettanti-e-nuovi-leader-ecco-la-foto-di-gruppo-della-futura-razza-padrona-2Sk63URX4IBRHvVevXjRXK/pagina.html
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« Risposta #124 inserito:: Maggio 10, 2018, 08:45:28 pm »


Politici al lavoro con l’Italia al mare.
Le inedite elezioni a luglio celebrano la rivalsa degli anti-casta
La rivincita di un popolo che crede ai complotti e vuole il cambiamento a prescindere

Pubblicato il 08/05/2018

Mattia Feltri
Roma

C’è una sola cosa peggiore di andare a votare a luglio: lamentarsi perché si va a votare a luglio. Dicono: fa caldo. Al Sud ci sono quaranta gradi, chi diavolo va al seggio con quaranta gradi? Eppoi le scuole sono chiuse, qualche madre e qualche padre e soprattutto molti nonni se ne staranno in spiaggia coi ragazzini sfaccendati. Dicono al voto sotto l’ombrellone, che poi è il contrario, qualcuno non andrà al voto proprio perché preferirà l’ombrellone, è faccenda di priorità. Dicono non s’è mai fatto prima, e perfetto, facciamo stavolta. Così la prossima non avremo nemmeno l’imbarazzo. Dicono che agli italiani non puoi rompere le tasche con le miserie politiche mentre se ne stanno in canottiera e infradito a fronteggiare la canicola a fette di cocomero. Non puoi far pagare a loro la burattinata degli ultimi sessanta giorni, col fardello di guai che già gli fiacca le spalle, e specialmente a luglio quando, appunto, fa caldo eccetera (soprattutto eccetera, che non vuole dire nulla). Qui come al solito si sottovalutano gli italiani, che non aspettano altro, in larga parte hanno l’ambizione di una democrazia permamente, diffidano dei riti prudenti di quella rappresentativa, hanno orrore delle macchinazioni di palazzo - così indispensabili in una Repubblica parlamentare, ma ormai ci paiono il parto del demonio - recitano a memoria che la Costituzione affida la sovranità al popolo, sebbene, prosegua l’articolo, la eserciti nei limiti della medesima Costituzione. Ma non nei limiti del calendario, tantomeno del termometro. Sono animati dalla foga di ottenere un governo espressione o almeno impressione della loro scelta, e al più presto. Sarà l’afa il vaporoso nemico della smania di cambiamento?

Faceva molto caldo anche il 26 giugno del 1983, data di elezioni in cui si sfiorò luglio. Allora poi mica si poteva salire al Quirinale con la cravatta allentata, come fa ora Matteo Salvini, sebbene sia maggio. La allenterà di più. Chissà, magari sarà consentito uno strappo al cerimoniale e per le eccezionali condizioni atmosferico-elettorali saranno previste le consultazioni in Lacoste, si alzerà l’aria condizionata a beneficio dei corazzieri con l’elmetto, e pazienza per i cronisti inviati sul piazzale, incaricati di controllare se uno sale a piedi e quell’altro in auto, e di che colore è e di che cilindrata. Faceva molto, molto caldo anche in Grecia, il 17 giugno 2012, ed era trascorso un solo mese dalle elezioni precedenti, e si rivotò con la stessa legge elettorale ma la geografia politica cambiò completamente, e Alexis Tsipras conquistò la maggioranza necessaria. Gli elettori torneranno dai luoghi di villeggiatura, dagli stabilimenti a stabilire il loro futuro, già saccheggiato. Ci hanno rubato il futuro, ecco una frase che si sente così spesso, rivolta alle classi dirigenti, e allora si rincaserà dal mare e dalla montagna per riprendersi almeno il presente, e chi non tornerà, beato lui, si vede che ha un presente già colmo di soddisfazioni. 

Eppoi c’è una spettacolare serie di effetti collaterali. Ci risparmieremo quelle cronache straripanti indignazione per il palazzo che chiude ad agosto, e con un po’ di settembre per la quarantina di giorni di vacanza della casta. Si voterà l’8 o più probabilmente il 15 luglio, saranno tutti lì in pieno agosto a scegliersi i presidenti delle camere, tutti e novecentoquarantacinque (con l’obbligo della giacca! E al Senato pure della cravatta!); se le cose andranno come devono andare saranno lì ad agosto a votare la fiducia al nuovo governo, a costituire le commissioni, sottoposti all’intera serie di ottemperanze che fa dell’esordio il momento a maggior densità per metro quadro dell’intera legislatura. E quando avranno finito gli toccherà mettersi al chiodo per redigere una legge finanziaria, e recuperare il tempo perduto. Non avranno requie almeno fino a Natale. Li guarderemo dall’alto del nostro inedito privilegio di vacanzieri mentre loro stanno al chiodo, sarà così platealmente soddisfatto il desiderio di rivalsa. Sono inetti, almeno lavorino! Non vi pare lo spettacolo della catarsi? E quando sarà settembre, e ricominceranno le scuole, e i primissimi venti autunnali restituiranno refrigerio, godremo del privilegio di un esecutivo avviato, messo su secondo i nostri gusti, pienamente rappresentativo e incaricato di condurci verso una stagione di libertà e giustizia.

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DA - http://www.lastampa.it/2018/05/08/italia/politici-al-lavoro-con-litalia-al-mare-le-inedite-elezioni-a-luglio-celebrano-la-rivalsa-degli-anticasta-Z5eo8ZYj3BLZJb56Glhx0K/pagina.html
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« Risposta #125 inserito:: Giugno 02, 2018, 11:57:54 am »

Calzini a righe, selfie e il broncio di Savona. Esordio senza imbarazzi

Ieri al Quirinale il giuramento dei ministri del governo del cambiamento.

Bongiorno marziale, l’orgoglio di Di Maio e Bonisoli “lumacone” con la Grillo

Pubblicato il 02/06/2018

Mattia Feltri
Roma

Se sarà il governo del cambiamento lo vedremo (sembra già qualcosa che ci sia stato il cambiamento del governo). Per il resto purtroppo siamo alle solite, ma non è colpa di nessuno. E cioè, noialtri cronisti, pigiati nello spazio deputato del Salone delle Feste, avevamo un imperativo categorico: scoprire se ci fosse o meno Elisa Isoardi. In realtà non tutti avevamo coscienza dell’alta missione, ma alla fine ognuno ci si è applicato. Perché la categoria era percorsa da un fermento che non ammetteva replica: «C’è Elisa Isoardi?». «Hai visto Elisa Isoardi?». «Com’è vestita Elisa Isoardi?». 

E quelli con una reputazione da difendere sbiancavano, non avevano una risposta. Non c’era firma, la più celebrata, che confermasse la propria levatura allungando il braccio e puntando l’indice con la sicurezza del fuoriclasse verso lo scoop: «Eccola là, Elisa Isoardi!». Niente. E per fortuna che l’imbarazzo s’è stemperato quando nel salone è entrato Matteo Salvini, che non è Elisa Isoardi, ma ne è il fidanzato e, perlomeno in quel luogo, nell’ombelico del Quirinale, poteva ambire al ruolo del protagonista, persino più della morosa. 

Noi, che avevamo il compito di raccontare la sacralità marmorea del giuramento, cioè l’immobilità al massimo del protocollo, ce lo mangiavamo con gli occhi. È il dettaglio che risuona, ci ripetevamo con sicumera consolatoria. In genere quello è il momento in cui si estrae il Pantone, e si comincia a misurare le gradazioni di blu: il vestito di Salvini è Blu Denim. No, Blu Doger. Sarà mica Blu di Persia?

La battuta su Di Maio “E’ il suo primo colloquio di lavoro” 
Che altro vi possiamo dire, insomma? Poco prima c’era stato un solidale scambio di informazioni sulla tenuta della frugalité: come erano arrivati, i ministri, quassù al Colle? Il premier Giuseppe Conte con una Volkswagen, ma accidenti non c’era unanimità sul modello. Una Polo! Una Golf! Una Arteon! Finché un giornalista concreto non ha sottolineato che comunque era un’auto tedesca, e la cosa avrebbe rassicurato i mercati. I Cinque Stelle erano arrivati tutti insieme su un pulmino, segnale di coesione e di attenzione ai conti pubblici. Altri erano arrivati a piedi. Tutto faceva brodo, nei nostri taccuini. Si è provato a insinuare che il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, fosse arrivato su pattini a rotelle ma dopo un attimo di smarrimento la notizia è stata presa per quello che era, una spiritosaggine fuori luogo. 

Tutti in piedi 

Ma a un certo punto erano tutti seduti, questi ministri esordienti, e alzandosi in punta di piedi, lanciando lo sguardo oltre l’ostacolo della fitta foresta di telecamere, si guadagnava il privilegio di una sbirciata sullo spettacolo. Ecco che cosa ci siamo annotati: Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, aveva l’espressione di uno che sta ascoltando una barzelletta con grandi aspettative; Salvini sedeva come Mourinho sulla panchina del Manchester City, gambe larghe e avambracci poggiati sulle ginocchia: portava una cravatta verde crivellato, tipo vittima di legittima difesa, e calze a righe nerazzurre (la prova che Elisa Isoardi non c’era, altrimenti gli avrebbe stirato quelle blu); il premier Conte aveva un sorriso laterale stile Silvio Berlusconi; Luigi Di Maio risplendeva davanti ai genitori, ospiti nello spazio del pubblico, con l’orgoglio di Napoleone ad Austerlitz; Paolo Savona era scuro come uno che il piano B l’ha subito, cioè l’arretramento alle Politiche comunitarie; il ministro alla Cultura, Alberto Bonisoli, faceva il lumacone con la collega alla Salute, Giulia Grillo (ma questa è un’illazione da cronisti disperati). 

La goliardia 
Questo scrupolo di appunti è andato a farsi benedire, come sempre. Quando Di Maio è andato a giurare davanti al presidente Sergio Mattarella, è venuta fuori un po’ di goliardia. «E’ la prima volta che fa un colloquio di lavoro», ha detto uno, e la facezia ci ha fatti rinascere. Non c’era davvero motivo di essere tanto compresi, anche perché Salvini già si faceva il selfie, un lubrico primo piano diffuso online prima ancora della fine della cerimonia. Giulia Bongiorno, titolare della Pubblica amministrazione, andava a leggere il testo del giuramento («giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione») con un’enfasi marziale, un po’ fuori luogo ma senz’altro suggestiva. 

S’è tutto concluso in pochi minuti, e i ministri sono usciti sul piazzale a dimostrare che non provavano l’emozione dell’esordio (non è gente che s’emozioni, questa), che piuttosto erano concentrati sul gravoso compito. Noi ci siamo precipitati sull’uno e poi sull’altro a sentire frasi riassumibili così: «Abbiamo una grande squadra, lo scudetto è alla nostra portata». Finché non ci siamo precipitati anche su Gian Marco Centinaio (Politiche Agricole) e, mentre lui stava illustrando il progetto di tutela delle nostre eccellenze agroalimentari, è uscito Di Maio, e tutti hanno gridato «Di Maio! Di Maio!». 

E hanno piantato lì il povero Centinaio, a bocca aperta. Il vostro cronista, che non ha nessun senso della notizia, è rimasto solidale a fianco di Centinaio. Ed è lì che si è stagliata la statuaria figura. Laggiù, era lei: Elisa Isoardi!

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Da - http://www.lastampa.it/2018/06/02/italia/calzini-a-righe-selfie-e-il-broncio-di-savona-esordio-senza-imbarazzi-7olAL2JHbMtkGGO2UL0NDO/pagina.html
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« Risposta #126 inserito:: Giugno 10, 2018, 01:04:27 pm »

Prima le élite italiane

Pubblicato il 05/06/2018 - Ultima modifica il 05/06/2018 alle ore 06:54

Mattia Feltri

Per avere negato l’esistenza e la conseguente cura delle famiglie arcobaleno, il ministro leghista alla Famiglia, Lorenzo Fontana, si è guadagnato la stima randellatrice del popolo di Internet. Non solo quella, però. Paola Concia, assessore a Firenze, sposata con una ragazza tedesca, ha garbatamente aggiunto una spiazzante ovvietà: «Non facciamo male a nessuno». Al pestaggio social, Fontana poteva rispondere in molti modi e ha scelto il peggiore, additando le élite del pensiero dominante. Ora, se la Lega è al governo, è facile supporre che il pensiero dominante sia piuttosto quello di Fontana, ma si vedrà. Primo. 

E secondo, presupporre che uno diventi omosessuale per censo, titolo di studio o posizione nella società è una visione strampalata. Si può essere gay in un assessorato di Firenze oppure in una palazzina di Zagarolo, da dove esercitare l’elitarismo è già più complicato. È che questa bella storia del popolo probo contrapposto alle élite farabutte, così fruttuosa nei delitti di massa del Novecento e nell’ultima campagna elettorale, sarebbe il caso di metterla da parte. 

Ma, se è una dialettica a cui proprio tiene, e siccome il concetto di élite è molto relativo, Fontana potrebbe dedicare qualche minuto alla storia di Sacko Soumalya, maliano, regolare, ucciso con un colpo di fucile alla testa a Vibo Valentia mentre da una fabbrica abbandonata rubava lamiere con cui costruire una baracca. Sacko lavorava nei campi per una paga che andava da due euro e mezzo ai cinque l’ora. Ecco, pure pagare così gente che vive così è roba da élite. Anche in questo, prima gli italiani.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/06/05/cultura/prima-le-lite-italiane-Rq5VKs8e5UwklFrbq8iTyI/pagina.html
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« Risposta #127 inserito:: Marzo 27, 2019, 05:18:34 pm »

Che tempi, Medioevo mio

Mattia Feltri 
20 Marzo 2019

Del Buongiorno
Da giorni mi chiedevo perché questi del governo ce l’avessero tanto col Medioevo. Un tafferuglio continuo e con un unico violentissimo scambio di accuse: volete tornare al Medioevo! No alla Tav? Un’idea da Medioevo. Il congresso di Verona sulla famiglia? Nostalgia del Medioevo. L’utero in affitto? Il vero Medioevo. Gli inceneritori? Autentico Medioevo. L’ostilità per la democrazia diretta? Puro Medioevo. Poi gialli e verdi si sono ritrovati di colpo compatti contro gli sconti di pena agli uxoricidi (senza conoscere le sentenze, ché leggere è roba da Medioevo): eccolo il Medioevo! E dunque? Inasprire le pene.

Perché? Per non tornare al Medioevo. Ma, accidenti, il Medioevo ha avuto Federico II Stupor Mundi, ha avuto Carlo Magno, il sommo poeta Dante Alighieri, il magnifico Giotto, pittore e architetto, e pure Francesco d’Assisi, cui ciascuno dice di ispirarsi, se non incombe l’apericena. Pensa e ripensa, ho capito tutto. Il Medioevo si apre con San Benedetto da Norcia, che con la sua regola monastica crea una rete di conventi che è la prima imbastitura culturale dell’Europa unita. E addio a «prima gli italiani».

Poi, intorno all’anno Mille, nasce l’università, oscura fucina di élite dove si impara a dire soltanto quello che si sa, cioè un luogo antidemocratico. Mica è finita. Subito dopo a Genova lanciano la finanza e fondano le banche. Insomma, senza Medioevo non avremmo avuto né Etruria né Draghi né Morgan Stanley. E finalmente questo terribile Medioevo sta per finire e chi ti arriva? Gutenberg. Che proprio all’ultimo si inventa la stampa! Cioè i giornalisti! Che tempi ’sto Medioevo...

Da - https://www.lastampa.it/2019/03/20/cultura/che-tempi-medioevo-mio-bcPEmd5gLbLuMQfEcFEF4H/premium.html
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