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Autore Discussione: MATTIA FELTRI.  (Letto 74979 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Dicembre 08, 2014, 11:21:08 am »

Ma che figura i miti salvifici del nuovismo

07/12/2014
Mattia Feltri

Bella fine hanno fatto le nostre ricette miracolose per una buona politica, quelle idee stagionali di rivoluzione etica: il ricambio generazionale, i nuovi sistemi di finanziamento ai partiti, la paleontologica discussione attorno alle preferenze o alle nomine.

La vicenda di Roma, intermedia fra cinepanettone e le mani sulla città, ha tirato fuori il velleitarismo delle vertenze da salotto, animate da contendenti tutti con la pietra filosofale in tasca. Abbiamo fatto, di faccende incidentali, miti così inconsistenti che la volta dopo, costernati, saremo pronti a ribaltare tutto, con altrettanta certezza salvifica: l’esperienza contro l’inesperienza, il pubblico contro il privato, la selezione dall’alto contro il plebiscito dal basso. Vent’anni fa ci ammalammo di nuovismo - si usava questo termine - per cui ciascun residuo di Prima repubblica andava accantonato per qualcosa di inedito e dunque di per sé migliore; si fece spazio a ogni genere di saltimbanco della società più o meno civile, e a ogni sopravvissuto delle idee assassine del Novecento, in grado però di esibire mani pulite. 

Ora, nel passaggio alla Terza repubblica (davvero?), soprattutto per emulazione di Beppe Grillo e di Matteo Renzi, ci siamo buttati in uno sfrenato giovanilismo, in una curiosa e ferrea fiducia nell’implume. Ecco, andiamo a vedere che si dice a Roma di questi semi-esordienti figli della rottamazione - introdotti come si vede da una terminologia sfrontata. Certo, sotto accusa ci sono Gianni Alemanno e il capo delle cooperative, Salvatore Buzzi, che sono avviati alla sessantina, ma il grosso degli indagati sono poco più che piccini, tutti compresi fra i 34 e i 42 anni (Daniele Ozzimo ed Eugenio Patanè del Pd, Luca Gramazio di Forza Italia e Mirko Coratti che ha già fatto in tempo a militare in entrambe le formazioni), e della stessa età sono gli altri tirati in ballo dalle intercettazioni, ma non sotto inchiesta: Micaela Campana (37), Giordano Tredicine (32) fino a Tommaso Giuntella (28) che grida la sua innocenza come la gridavano, inascoltati, i campioni della senilità corrotta (vogliamo parlare del pluriassolto Clemente Mastella?). 

Nel frattempo l’alta teoria imperversa. Dal Nuovo centrodestra si difende la battaglia per le preferenze nonostante i mascalzoni dei consigli comunali e regionali, coi loro compari nella malavita e i loro famelici e fantasiosi rimborsi spese, ne vantino a migliaia e decine di migliaia; la risposta è che pari delinquenti sono usciti dalle liste bloccate, ma con le medesime tesi e antitesi si potrebbe andare indietro nei decenni, almeno fino ad Alfredo Vito, che con i suoi centomila voti e i suoi processi per collusioni con la camorra (prosciolto, però) divenne l’incarnazione del male al tempo in cui le preferenze erano poco di moda.

E non è andata diversamente con l’abolizione del finanziamento pubblico, che dovrebbe essere un caposaldo democratico se non venisse usato per ostriche e vibratori; le cene di fundraising organizzate dal Pd di Renzi erano state presentate, con quel po’ di prosopopea da colonizzatori di terre sconosciute, come la formula nuova del partito fresco e dinamico, capace di mantenersi da sé. La questione formidabile - e formidabilmente dimostrata nella circostanza - è che se alla cena di fundraising arriva Salvatori Buzzi - per il semplice motivo che è capo delle cooperative e dunque affine alla casa - il problema non è la regola. Se ladruncoli e ladroni entrano in circolo indifferentemente se scelti dai cittadini o dalle segreterie, il problema non è la regola. Se ladruncoli e ladroni sono padri e figli, giovani e vecchi, il problema non è il ricambio generazionale. Il problema delle regole è che ne siamo allergici, a qualsiasi regola, dalle strisce blu dei parcheggi alla grande corruzione di palazzo, e - come diceva il saggio - la regola è una sola: finché non cominceremo a spazzare il tratto di marciapiede fuori da casa nostra, il mondo non sarà mai pulito.

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/07/cultura/opinioni/editoriali/ma-che-figura-i-miti-salvifici-del-nuovismo-jHMaPt3VztuTMoqnwYTYeP/pagina.html?ult=1
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« Risposta #106 inserito:: Agosto 23, 2016, 11:31:10 pm »

Emma Bonino: “Dominano le agende nazionali. L’Ue trattata come un robivecchi”
L’ex ministro degli Esteri: «Francia e Germania hanno le elezioni, noi il referendum. Difficile ripartire da Ventotene.
Sul burqa ha ragione la Merkel»

Radicale
Emma Bonino, storica leader del movimento dei diritti civili, è stata ministro degli Esteri nel governo Letta

20/08/2016
Mattia Feltri
Roma

«Angela Merkel ha ragione quando dice che bisogna regolamentare l’uso del burqa nei luoghi pubblici. Io sono senza fiato, da quanto lo ripeto», dice Emma Bonino, radicale, ex ministro degli Esteri ed ex commissario europeo agli Aiuti umanitari.

Fra il no al burqa di Merkel e il no al burkini del premier francese Valls c’è una differenza.  

«Naturalmente, intanto il burqa e il burkini sono due cose diverse: il burkini lascia scoperto il viso e il burqa no quindi impedisce l’identificazione di chi lo indossa. In Italia una legge che impedisce di circolare col volto coperto è stata varata negli anni del terrorismo. Non è una questione religiosa, sennò se turba l’esibizione di simbolo confessionale poi toccherà vietare i turbanti dei sikh o i payot degli ebrei, cioè i boccoli. La questione è che chi sta in un luogo pubblico, dalle scuole alle strade, deve essere identificabile. La nostra è una società basata sulla responsabilità individuale, peraltro elemento indispensabile per qualunque politica di integrazione».

E col burkini si è identificabili.  

«Esatto. Come impedirne l’uso? Non c’è nessun dettato costituzionale, neanche in Francia, su cui poggi una legislazione di ordine vestimentario, diciamo così. E mi inquieterebbe uno Stato che mi dicesse come devo vestirmi. O svestirmi. Poi possiamo discutere della libertà di cui spesso le donne islamiche non godono. La strada della loro emancipazione sarà lunga, tortuosa, difficile. E segnalerei che per molte musulmane il burkini è un passo importante, che consente loro di stare in spiagge non segregate, cioè insieme con gli uomini. Non per tutte ovviamente, in alcuni Paesi pur a religione musulmana le donne sono già più avanti».

 Difficile che si discuta di questo nel vertice di lunedì a Ventotene. Renzi ci punta molto, anche per la suggestione del posto, dove Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi hanno scritto il loro Manifesto. Ma non pare esserci un’agenda sull’integrazione.  

«In politica i simboli sono importanti se sono seguiti da iniziative politiche e l’impressione è che per Hollande, Merkel e Renzi domineranno le agende nazionali. Del resto in Francia e in Germania si vota e in Italia c’è il referendum, e questo non mi sembra un periodo in cui le spinte all’integrazione federalista europea siano particolarmente popolari. Temo sia inevitabile che la ripartenza del progetto europeo di cui parla Renzi rimanga ai margini, o sia ulteriormente ritardata ma l’importante è che non venga archiviata come un robivecchi, e rimanga l’obiettivo per cui lavorare».

Lei ritiene che un giorno si potrà ricominciare a lavorare per l’integrazione, su cui oggi siamo così indietro?  

«Per come vedo il mondo, non credo che gli Stati nazionali possano essere all’altezza delle sfide. Ma io rimango fedele alla straordinaria sintesi di Adenauer: Ventotene fu la visione di pochi, è diventata la realtà per molti e diventerà una necessità per tutti».

C’è stata la Brexit a complicare le cose.  

«E sarà una difficoltà non da poco, anche perché Francia e Germania hanno idee diverse su come gestirla, più drastica quella francese, mi pare appoggiata dall’Italia, e più soft quella tedesca. E ricordo quando uscì la Groenlandia, cioè due pesci e due pescatori, e ci si mise tre anni. Figuriamoci stavolta».

E intanto il mondo brucia. Come trovare un’azione unica in Libia?  

«E’ un problema enorme che dimostra come le capitali europee abbiano e perseguano interessi diversi. La Francia più vicina a Tobruk, e dunque all’Egitto e agli Emirati Arabi, altri più vicini al governo nazionale. Aggiungiamo che negli ultimi anni nel Mediterraneo sono nati Stati e sono emerse aree geografiche con obiettivi contrastanti. Aggiungiamo che le monarchie del Golfo sono contro i Fratelli musulmani per questioni non certo religiose ma di predominio economico. Che in Siria c’è una vastissima coalizione in cui ognuno segue obiettivi e strade proprie. Insomma, è un groviglio di cui non si vede neanche un’ipotesi di soluzione».

 

Inutile così sperare in passi avanti nella sicurezza.  

«E’ quello che sto dicendo. Nel 2015 ci sono stati 11 mila attentati di matrice islamica, soprattutto in Afghanistan, Pakistan, Sudan e Somalia, con sconfinamenti europei. Per ora non c’è possibilità di soluzione, anche in Europa, visto che tutto è affidato agli Stati nazionali che non mettono in comune neanche le liste dei sospettati. La sicurezza è affidata agli Stati, i confini esterni agli Stati, le politiche dell’integrazione dei migranti pure. Non so che cosa debba ancora capitare perché si cambi direzione».

Un’ultima domanda: Aleppo non rischia di diventare una nuova Sarajevo, il punto dove i civili muoiono e un nuovo disastro si annuncia?  

«Lo è già, basta guardare le cifre. Aggiungo che oggi il Kosovo e la Bosnia, e soprattutto Sarajevo, la città simbolo della secolare convivenza religiosa, sono brulicanti di donne in burqa, prima inesistenti, e sintomo di un’islamizzazione interna finanziata dai sauditi. Un’altra minaccia che continuiamo a non vedere».

 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/08/20/italia/politica/emma-bonino-dominano-le-agende-nazionali-lue-trattata-come-un-robivecchi-2aO8RDGgm0yyFIzsO5xF9O/pagina.html
« Ultima modifica: Gennaio 24, 2017, 06:00:38 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #107 inserito:: Ottobre 15, 2016, 07:33:29 pm »

Dario Fo, dalla fedeltà a Salò all’ostilità per l’Occidente
Volontario nella Rsi, simbolo della gauche, antisionista: la parabola dell’estremismo attraverso il Novecento

14/10/2016
Mattia Feltri

Sarebbe forse un errore attribuire a Dario Fo - come fanno molti antipatizzanti - una volatilità ideologica, per le militanze dall’estrema destra all’estrema sinistra, fino ai cinque stelle. Ma a guardare bene, la vita politica del Nobel ha seguito una linea di coerenza espressa attraverso un ribellismo giovanile simile a quello adulto e senile: il giuramento di fedeltà al manifesto di Verona, fondativo della Repubblica di Salò, contemplava la lotta per l’«abolizione del sistema capitalistico interno e contro le plutocrazie mondiali» che tanto assomiglia alla dichiarazione d’intenti del Soccorso Rosso, la struttura degli Anni Settanta che si riprometteva di «sostenere compagni incarcerati nel corso delle lotte antifasciste ed antimperialiste a livello nazionale ed internazionale». Il linguaggio è soltanto leggermente diverso, da «plutocrazie» si passa a «imperialismo», ma è comunque una dichiarazione di guerra alla società occidentale, o almeno a quella maggioritaria, capitalista e liberale, che si è opposta prima al nazifascismo poi al comunismo vincendo entrambe le sfide. 

Ora, va specificato che Fo ha sempre ridimensionato la sua partecipazione da volontario al fascismo della bella morte di Salò, prima dichiarandosi una quinta colonna della Resistenza, poi uno che cercava di «salvarsi la pelle», e sarebbe comunque ingiusto attribuire valore storico alle sentenze di tribunale che autorizzano a definirlo «rastrellatore». Ma, insomma, una linea fra quelle due fasi della vita, disconosciuta la prima e rivendicata la seconda, è abbastanza visibile e anche dolorosa. La Repubblica sociale era nata, fra l’altro, qualificando stranieri «gli appartenenti alla razza ebraica» e «appartenenti a una nazionalità nemica». In uno spettacolo teatrale del 1972, al feddayn (che dava nome all’opera) si consegnava la dimensione di «nemico numero uno dell’imperialismo, del sionismo e della reazione araba».

Anni dopo, rifacendosi a un testo di Nelson Mandela, Fo ha paragonato la situazione dei palestinesi a quella dell’apartheid sudafricano e, ancora di recente, in un’intervista per i suoi novant’anni, ha sostenuto che gli ebrei si avvalgono della «loro brutalità contro chi segue altre religioni». Sono frasi per cui Fo si è guadagnato esorbitanti accuse di antisemitismo, almeno per il Fo post-Salò, ma l’antisionismo, quello sì, era orgogliosamente rivendicato. Ed era parte fondante dell’antimperialismo che lo ha condotto ad analizzare l’11 Settembre prima come una reazione dei poveri sui ricchi («questa violenza è figlia legittima della cultura della violenza, della fame e dello sfruttamento disumano»), poi a fare da voce narrante di un documentario cospirazionista scritto da Giulietto Chiesa, e secondo il quale gli attentati del Wto e del Pentagono erano strumento di un grande complotto a sfondo petrolifero. Proprio come succede sempre, disse Fo, «fin dall’omicidio Kennedy». 

Per un intellettuale di tale formazione era naturale finire dalle parti di Beppe Grillo. Alla lunga il sugo è sempre quello: la realtà offerta è una realtà contraffatta: il mondo occidentale è basato sullo sfruttamento di pochi forti su molti deboli, e con la collaborazione della menzogna.

Del resto sono sentimenti ai quali è in parte ispirata la terribile lettera del 1971 all’Espresso - firmata da Fo e da parecchi altri - nella quale si giudicava il commissario Luigi Calabresi colpevole della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, e nella quale si proclamava una ricusazione di coscienza «rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni». Era soltanto una grande recita a cura di istituzioni statali a cui non era più riconosciuta cittadinanza. Soprattutto al commissario Calabresi, che in quel coro furente era indicato come agente della Cia, e cioè avanguardia degli oppressori, gli imperialisti, gli oscuri nemici di sempre.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/10/14/cultura/dalla-fedelt-a-sal-allostilit-per-loccidente-6WbhpnpsVFHTi9L0QWRI5L/pagina.html
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« Risposta #108 inserito:: Ottobre 25, 2016, 05:15:26 pm »

“Tu fai più schifo di me”. E la Camera diventa un mercato
Brunetta: gli stipendi siano uguali al reddito precedente
Oggi è previsto l’arrivo show di Beppe Grillo. La proposta M5S di dimezzare le indennità nasce dai giorni di polemica intorno all’uso disinvolto dei rimborsi da parte di Di Maio

25/10/2016
Mattia Feltri
Roma

«Tu fai più schifo di me»: ecco l’arma segreta. Non si direbbe un’arma vincente, specie in una pluridecennale fase di discredito della politica. Eppure continua ad andare forte. Ci sono deputati, qui alla Camera, che sembrano le scimmie di 2001 Odissea nello Spazio, brandiscono ossa, se le danno vicendevolmente in testa e poi si battono il petto. L’onorevole Alan Ferrari, del Pd, ha trovato arguto e contundente spulciare nelle rendicontazioni dei cinque stelle, ossia 12 mila euro di taxi qua e quasi 17 mila di trasporti extra di là, a dimostrare l’immoralità dei moralizzatori. Poi toccherà rispondere alla domandina del grillino Alessandro Di Battista che impegna dieci secondi - mentre gli altri avevano da dipanare architetture logiche per minuti e minuti, e qui tocca segnalare Dore Misuraca del Nuovo centrodestra che, in un discorso della alte proprietà sedative, è riuscito a riproporre la citazione più citata di tutti i tempi, di Pietro Nenni («Nella gara fra i puri trovi sempre uno più puro che ti epura»), e a iscrivere Umberto Terracini al Pd, «se qualcuno non lo ricordasse». Ed è vero, non lo ricordava nessuno, visto che il costituente Terracini è morto nel 1983.

La domandina di Di Battista era la seguente: «Siete d’accordo a dimezzarvi gli stipendi, quindi guadagnare 3 mila euro netti, più spendere tutto quel che dovete spendere per l’attività politica, e restituendo ai cittadini italiani tutto quello che non spendete per la vostra attività politica?». (Subito dopo lo ha ripetuto Luigi Di Maio che evidentemente non si era accordato con Dibba e ha rimediato la figura del bagonghi). Del resto, se il livello del dibattito è questo, tante parole non servono. Né pare un suggerimento alla riflessione, per tornare al piddino Alan Ferrari, quello a proposito degli emolumenti riservati al sindaco di Roma, la cinque stelle Virginia Raggi, e cioè se i 10 mila euro lordi d’indennità siano «meritati». Nel calcio si dice buttarla in tribuna, a Roma buttarla in caciara, e dunque per una volpe come Renato Brunetta è stato un gioco venirne fuori da gigante, con un discorso quasi sussurrato, saggio, ironico, come non se ne sentivano da un po’. 
 
«È noto come in tutti gli ordinamenti ispirati alla concezione democratica dello Stato sia garantito ai parlamentari, rappresentanti del popolo sovrano, un trattamento economico adeguato ad assicurarne l’indipendenza», ha detto Brunetta, trascurando volutamente che si pensava la questione chiusa da un centinaio d’anni almeno, e prima che arrivassero i nuovi interpreti della virtù. L’indennità, ha proseguito Brunetta, ha permesso «il superamento del Parlamento degli aristocratici, dei possidenti, dei notabili, e l’ingresso dei ceti popolari». Per cui la faccenda è: un parlamentare non deve arricchirsi, d’accordo, ma deve impoverirsi? Meglio pensare a una legge, ha detto Brunetta, meno marmorea, che sollevi meno sospetti: «Proponiamo di calcolare l’indennità da corrispondere ai deputati e ai senatori sulla base del reddito percepito prima dell’elezione». 

L’onorevole che faceva l’operaio continuerà a guadagnare da operaio, chi faceva il professore universitario continuerà a guadagnare da professore universitario, e se arrivano miliardari come l’ottimo Alberto Bombassei, titolare della Freni Brembo, si studierà un tetto. Una proposta forse seria, di sicuro studiatamente comica, e col finale a sorpresa: e chi era disoccupato (molti dei cinque stelle)? «Reddito di cittadinanza», ha detto Brunetta, ed è pure «un’utile sperimentazione di uno strumento che tanto sta a cuore ai nostri amici del Movimento».

E la storia potrebbe chiudersi qui, non fosse che ricomincerà oggi, con tifoserie grilline all’esterno e il gran capo Beppe Grillo in tribuna. È il gioco piccino, e da entrambe le parti, attorno al referendum: chi sostiene che le riforme fanno risparmiare, chi sostiene che bastano due tagli per risparmiare di più. Peccato che ieri in aula ci fossero solo settanta o ottanta parlamentari: il modo migliore per far risplendere la paccottiglia. 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/10/25/italia/politica/tu-fai-pi-schifo-di-me-e-la-camera-diventa-un-mercato-dMzFxZUWK4bWDetSSFrvmN/pagina.html
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« Risposta #109 inserito:: Novembre 03, 2016, 12:07:40 pm »

Il dovere di ascoltare i loro cuori

02/11/2016
Mattia Feltri

L’importante è che ascolti. C’è anche una sedia, per te, pure se sei un giornalista, oggi eccezionalmente non sei uno scocciatore: siedi e ascolta. «Ho bisogno di parlare», diceva due giorni fa Gabriela, che a 69 anni aveva scoperto il mare, lì al camping Holiday di Porto Sant’Elpidio, sua destinazione di sfollata. «Parlo e mi calmo un poco», aveva detto. Venga qui, ascolti, avevano detto gli abitanti di Pieve Torina, i pochi rimasti, mentre il loro sindaco discuteva su che fare col presidente della Marche, Luca Ceriscioli; avevano allargato il cerchio e aperto un posto per il cronista. 

Devi ascoltare anche se non puoi fare niente. «Avrei bisogno di soldi», aveva detto una signora, una vecchia curva con lampi d’intelligenza, seduta nel cortile dell’hotel Velus di Civitanova Marche: era scappata di casa con cinquanta euro in tasca perché pensava di tornare presto, e poi i cinquanta euro sono finiti alla svelta.

«Le posso dare qualcosa, signora? E’ solo un prestito». «No, ma che dice? No, ho bisogno di soldi ma non da lei, non mi dia niente, quando la rivedo? Ascolti, mi ascolti un po’: ho bisogno che mi facciano tornare in casa perché i miei soldi sono lì: ascolti bene, e scriva». 

Ascolta: uno ha bisogno di biancheria intima, uno ha bisogno di sapere se la scuola dei figli sarà organizzata in campeggio o al paese, uno ha bisogno di un’auto per tornare dalle sue pecore, uno ha bisogno di salire al paese perché ha due prosciutti e vuole portarli in albergo per offrire l’antipasto, uno ha bisogno di andare a Rieti dove vivono i figli che per la paura dormono in macchina, uno ha bisogno di cibo per il cane, uno ha bisogno di sistemare le bollette perché sono in scadenza e non le ha pagate, uno ha bisogno di un supermercato per comprare il dentifricio, uno ha bisogno che qualcuno parli con la madre e la tranquillizzi un po’, uno ha bisogno di stringere una mano e di dire grazie, «grazie di essersi fermato un po’ con noi».

C’è anche chi non ha bisogno di niente, di essere lasciato in pace. Poi non c’è soltanto il bisogno, c’è anche il desiderio. Per fortuna gli italiani lo sanno quanto è fondamentale il superfluo. Arrivano i giocattoli per i bambini, i fumetti, le carte da gioco, le saponette, i profumi, le donne in macchina ad accompagnare questa gente dove deve essere accompagnata. A Civitanova, in una settimana, gli sfollati sono stati ospitati in tre ristoranti diversi, per un pescetto alla griglia, una pizza, qui tutti insieme, quel che si può. Certo, all’inizio è facile, c’è tutto lo slancio del cuore, e poi alla lunga ci si distrae e si dimentica.
Ma ecco che cosa serve: esserci, ascoltare, portare i pasticcini, le parole incrociate, i figli perché giochino coi figli degli altri. Oggi, e poi domani, e sarà necessario soprattutto la settimana prossima e il prossimo mese e finché durerà. Questa è gente che è stata costretta ad abbandonare tutto, e adesso ha paura di essere abbandonata. Basta sedersi e ascoltare, è già più di un po’. 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/02/cultura/opinioni/editoriali/il-dovere-di-ascoltare-i-loro-cuori-IDy88oBxpCVBCSYFlvThfI/pagina.html
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« Risposta #110 inserito:: Novembre 26, 2016, 09:12:01 pm »

La fascinazione italiana per Fidel e quel grande equivoco romantico
Da Gianni Minà a Raffaella Carrà al rapporto tra Pci e Cuba: in fondo conta più quello che rappresenta di quello che è stato

Pubblicato il 26/11/2016 Ultima modifica il 26/11/2016 alle ore 10:54
Mattia Feltri

Il grande equivoco romantico è che Cuba fosse la trasposizione fisica e geografica di Macondo. E che Fidel fosse l’incarnazione storica di Aureliano Bendìa, che aveva promosse guerriglie e sommosse a decine, dove la vittoria bastava fosse ideale. E infatti il luogo e l’eroe di Cent’anni di solitudine avevano fatto del suo autore, il sommo Gabriel Garcia Marquez, l’amico e il garante della purezza di Cuba.

Ancora, infatti, fra i sostenitori del piccolo stato caraibico contro il Golia americano anche in Italia c’erano (o ci sono) molti campioni della cultura e dello spettacolo, prima ancora che dei partiti. Gianni Minà era il totem, diciamo così, attorno a cui ruotavano il filosofo Gianni Vattimo e il maestro Claudio Abbado, il riverito giornalista Alberto Ronchey e l’illuminato editore Giangiacomo Feltrinelli, la popstar Zucchero e la decana dell’entertainment a colori, Raffaella Carrà. E poi ancora Gina Lollobrigida, che all’elogio del rivoluzionario faceva precedere quello delle mani, «così belle», e Carla Fracci, cosciente del regime dittatoriale cubano, e però niente poteva prevalere sulla «grande considerazione che il balletto gode nei paesi socialisti».

E dunque tutti castristi, per ragioni diverse, e con diverse intensità, talvolta rafforzate e altre indebolite dal tempo, dall’annacquarsi dell’utopia, e così anche il più giovane dei castristi, Gennaro Migliore, ora nel Pd, fu visto una sera a Milano ad ascoltare con attenzione Mario Vargas Llosa, Nobel per la letteratura e irriducibile nemico di Garcia Marquez.

È che il rapporto fra il Pci e Cuba non è mai stato semplicissimo: grande attenzione e simpatia all’inizio, poi una certa diffidenza proprio per la natura un po’ eccentrica del comunismo cubano: andarono sull’isola Enrico Berlinguer e Luigi Pintor, Pietro Ingrao e Rossana Rossanda, tornando sempre con più perplessità che entusiasmi. E lasciando progressivamente il castrismo e il guevarismo alle fascinazioni sessantottine, e poi ai partiti minori della seconda Repubblica, dove si ricorda un «lunga vita, caro comandante», spedito da Fausto Bertinotti a Castro per i suoi ottant’anni nel 2006.

In fondo conta più quello che rappresenta di quello che è stato, purtroppo, così anche oggi non soltanto l’eterno Marco Rizzo, rivalutatore di Stalin, ma pure il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, possono ricordarlo come un liberatore, piuttosto che come un tiranno.

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« Risposta #111 inserito:: Dicembre 05, 2016, 04:32:01 pm »

Se col referendum tornano guelfi e ghibellini

Pubblicato il 03/12/2016
Ultima modifica il 03/12/2016 alle ore 07:45
Mattia Feltri

Cominciamo subito: «Ora che siete arrivati voi siamo in perfetto equilibrio, due per il Sì e due per il No». Lui è un caro amico, di destra per storia familiare, passato dal Movimento sociale a Silvio Berlusconi fino al disperato voto a Roberto Giachetti al ballottaggio per Roma («Aho, me so’ buttato a sinistra!»); lei, la sua compagna, è di sinistra ondeggiante fra la grande casa madre e le formazioni più estreme, o più pure. Non sono mai stati d’accordo su niente, ma ora è tutto un bacetto, un’affinità politica che ha dello struggente, accomunati da rinnovate convergenze parallele: lui pensa che la caduta di Matteo Renzi riporterà in gloria il berlusconismo, lei che la medesima caduta le restituirà una sinistra pensosa. Noi che li raggiungiamo siamo elettori più disillusi, per niente ideologici, però il derby è inevitabile: l’abbrivio era quello, il resto una conseguenza dall’antipasto all’ammazzacaffè, e con toni così costruttivi che in paragone un duello Salvini-De Luca passerebbe per un seminario a Tubinga. 

Non è che siamo partiti piano: subito accuse di cecità, dabbenaggine, demenza senile, e per usare qui sinonimi pubblicabili. Ci si è lasciati in una fase di tregua, con la promessa che ci saremmo rivisti soltanto a referendum celebrato, anche se lo sconfitto probabilmente avrà ancora molto da ridire.

Ecco che cosa è diventata questa campagna elettorale: non soltanto lo sciagurato e avvilente spettacolo dei talk show, ma quello ben più misero delle nostre vite private. Abbiamo ritrovato i più scorrevoli terreni di scontro, la perfetta polarizzazione, bianco o nero: abolito il terzismo. E così che la coppia di amici ha imprevedibilmente siglato il suo piccolo patto Molotov-Ribbentrop, e così che gente più contenuta ha riscoperto il gusto dell’irriducibile partigianeria. O di qui o di là, come diceva una trasmissione televisiva di Pialuisa Bianco di oltre venti anni fa, al tempo in cui la nuova legge elettorale maggioritaria ci aveva sottratto il voto da palla buttata in corner per obbligarci a quello manicheo, irrimediabile, destra o sinistra, e soprattutto con Berlusconi o contro Berlusconi, l’uomo attorno a cui sono ruotati i destini dei nostri rapporti parentali e amicali. E finché la consunzione del Cav non ci aveva di nuovo liberati dalla logica del ring. 

 Macché, ecco Renzi e siamo punto e capo, bene assoluto contro male assoluto perché dire «Renzi non è male» procura accuse di mercenarismo e leccapiedismo, mentre dire «Renzi non mi convince» equivale a essere sfascisti e populisti. Andate a vedere che cosa succede sui social: vecchi amici o alleati che rompono i rapporti, speriamo momentaneamente, attraverso reciproche e violentissime denigrazioni. E’ il nostro giardino di casa: nei giorni della morte di Claudio Pavone, che per primo a sinistra definì civile la guerra di liberazione, provocando una nuova guerra civile, viene da pensare che la guerra civile è sempre, come lo fu su Craxi e su Berlusconi, e così ancora, escludendo che l’avversario, e cioè il commensale, il collega, il vicino di casa, abbia motivazioni meno che meschine.

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« Risposta #112 inserito:: Gennaio 24, 2017, 06:02:35 pm »


“Efficiente”; “Un disastro” Le giravolte dei politici sulla Protezione civile
Il giudizio cambia se si è maggioranza o minoranza
Criticità. Chi accusa la Protezione civile parla di carenza di turbine, aiuti lenti e previsioni del tempo ignorate

Pubblicato il 21/01/2017
Ultima modifica il 21/01/2017 alle ore 08:51
Mattia Feltri

I soccorsi non si sa, ma le polemiche sono state tempestive. «Il simbolo di questo terremoto è il campanile di Amatrice, l’emblema dei ritardi di questo governo», ha detto mercoledì Luigi Di Maio dei cinque stelle a terra ancora tremante. E dopo un giorno di collaborazione offerta, ieri Beppe Grillo ha scritto sul blog di «situazione allo sbando», di «mutismo che non possiamo accettare», e di «Italia messa in ginocchio da nevicate ampiamente previste». Matteo Salvini in questi giorni ha girato nelle zone devastate denunciando il «governo che dorme», di «politicizzazione della Protezione civile», anche lui in approfondimento meteorologico a proposito della bufera annunciata (tesi molto diffusa in queste ore), e fino a un’annotazione etnica sorprendente: «I primi ad arrivare all’hotel Rigopiano sono di Belluno. Forse una Protezione civile più efficiente a Pescara ci avrebbe potuto mettere meno». Giorgia Meloni (F.lli d’Italia) è andata a colpo sicuro: «Il governo pensa più alle banche che ai terremotati». Forza Italia si è affidata ai talenti agonistici di Maurizio Gasparri: «È apparsa sostanzialmente inadeguata l’azione di soccorso alle popolazioni terremotate», e dopo aver rifiutato il processo mediatico ai carabinieri per il caso di Stefano Cucchi, lo ha chiesto per i responsabili della sottovalutazione (sempre che tale sia stata) del disastro Rigopiano: «Fuori i nomi». 

Si sarà notata la tradizionale spaccatura fra chi critica, tutti all’opposizione, e chi no, tutti in maggioranza, per cui si può supporre, con un po’ di malizia, che a ruoli invertiti si sarebbero invertiti gli atteggiamenti, come si è sperimentato in precedenti casi, per esempio all’Aquila. Le tesi d’accusa sono suggestive e ampie: dalla carenza di turbine, agli aiuti lenti, alle previsioni del tempo ignorate, a direttive sui modi per ripristinare l’energia elettrica fino a temerarie indicazioni su come si pilotano gli elicotteri al buio e sotto la tormenta. Venire a capo di ipotesi così vaste e spericolate, e in una situazione di dimensioni e gravità enormi, è molto complicato, ma qualche contributo si riesce a darlo. A proposito delle nevicate «ampiamente previste», il sito della Protezione civile conserva i bollettini. Dunque, lunedì 16 si lancia un codice arancione, cioè «moderata criticità», sebbene con pericoli; è un codice più basso del codice rosso, «elevata criticità» con molti pericoli. Il codice arancione resta nei bollettini del 17 e del 18, mercoledì, il giorno delle quattro scosse a cinque gradi di magnitudo. Quindi l’eccezionalità delle nevicate non era «ampiamente prevista». Secondo i calcoli di Daniele Izzo, del centro Epson Meteo, in quei giorni sull’Abruzzo (coste comprese) è caduto «mediamente un metro di neve», fino a zone sommerse da due metri. Non succedeva da decenni. La neve, il vento, soprattutto le scosse di mercoledì hanno fatto cadere un numero imprecisato di tralicci che hanno tolto elettricità a centinaia fra paesi e borghi. Le scosse, poi, hanno provocato le slavine che sono state il vero insormontabile ostacolo ai soccorsi.

Un funzionario della Protezione civile di Chieti (è anonimo, ma lo abbiamo scelto perché lavora sul territorio ed è meno costretto alla propaganda) ci ha detto: «La nevicata più le scosse hanno creato lo scenario peggiore che si potesse ipotizzare. Il che significa che era ipotizzabile, ma non che fosse probabile». E poi, sulla scarsità di turbine: «E’ difficile stabilire quante ne avessimo, perché sono coinvolte quattro regioni, varie strutture, dalla protezione civile, alle province, all’Anas. Ma è sicuro che si sono rivelate insufficienti. Ma allora dovremmo dotarci di un parco mezzi che poi, molto probabilmente, si rivelerà esorbitante per dieci o venti o trent’anni? Forse sì, forse no, francamente non so. Ma non è che poi voi fra qualche anno scrivete un pezzo sugli sprechi dei mezzi antineve fermi nei box con quello che sono costati?». Il nostro interlocutore non è un fan di Guido Bertolaso, il vecchio capo della Protezione civile (che in questi giorni dice: «E’ stata disarticolata la catena di comando e controllo. Chi comanda? Chi è che dà gli ordini?»), ma condivide l’analisi, sebbene con un puro slancio analitico: «Dopo gli anni di Bertolaso si è deciso di avere un minimo di efficienza in meno per avere il massimo della trasparenza. Penso sia la strada giusta, ma se si vuole il massimo dell’efficienza bisogna rinunciare a un po’ di trasparenza. Tutto non si può pretendere». 

Sono soltanto alcune annotazioni delle molte che si potrebbero fare non per un’assoluzione collettiva, ma per dare la dimensione di una storia immane, e soprattutto per dare a chi critica strumenti offensivi meno vaghi, da usare magari in momenti più opportuni. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/21/italia/cronache/efficiente-un-disastro-le-giravolte-dei-politici-sulla-protezione-civile-mV4DLcGyF3n6bujyHEk3lK/pagina.html
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« Risposta #113 inserito:: Gennaio 29, 2017, 08:28:06 pm »


Europeisti pentiti e fan di Putin. Il debutto della destra sovranista
Il leader del Carroccio: “Reintroduciamo la leva obbligatoria”.
Ma la proposta più applaudita è legalizzare la prostituzione

Pubblicato il 29/01/2017 - Ultima modifica il 29/01/2017 alle ore 10:02

Mattia Feltri
Roma   

Primo risultato raggiunto dai sovranisti: via del Tritone ripulita dai giapponesi. Per ora un successo incidentale. Ma alla fuga dei turisti dalla via di shopping, percorsa dal corteo della destra quasi unita, dovrebbero seguire risultati secondo progetti più ambiziosi. E le cui premesse sono state illustrate dalla signora del pomeriggio, Giorgia Meloni leader di F.lli d’Italia, sul palco di piazza San Silvestro, a due minuti a piedi da palazzo Chigi. «Seguite il ragionamento», ha detto Meloni, e noi lo abbiamo seguito, eccome, e non è stato nemmeno complicato perché il ragionamento era il seguente: «L’immigrazione è pianificata per fornire manodopera a basso costo al grande capitale». Dunque, si ritmava, «via gli stranieri dall’Italia», e non per questioni etniche, ma per far fronte al complotto planetario del «grande capitale» ma, è stato detto nel corso degli interventi, anche delle «lobby col potere saldamente in mano», della «finanza globalizzata» e naturalmente dei «poteri forti». Un nemico di tale inafferrabile vastità meritava uno slogan all’altezza, sebbene, per una folla di destra, dalla sorprendente assonanza leninista: «Il popolo al governo» («L’insurrezione è la risposta più energica, più uniforme e più razionale di tutto il popolo al governo», dal celebre discorso del «Che fare»). 

Se si fosse un po’ superficiali si obietterebbe che un impegno politico tanto vibrante e impegnativo avrebbe meritato una partecipazione più massiccia di quella di una piazza di media grandezza non più che pienotta, ma chi segue la politica sa che le «manifestazioni oceaniche» sono rimaste nella mitologia del secolo scorso e forse dei primissimi anni di questo. È meno banale notare il meticciato ideologico fatto di sigle che andava dai leghisti (qui nella versione centromeridionale di «Noi con Salvini») al Partito liberale di Giancarlo Morandi (volenterosa ma esangue reincarnazione del vecchio Pli), che alle elezioni Europee del 2014 stava in una lista che si chiamava «Scelta europea», e adesso aderisce a scelte antieuropee, e fino al movimento di Gaetano Quagliariello (Idea) e ai ragazzi di Patria e Libertà, di cui ignoriamo colpevolmente i contorni, ma li si possono intuire dalla pagina Facebook, illustrata da una foto di Yukio Mishima con la katana. 

E poi c’erano anche quelli di Forza Italia, capeggiati dal governatore ligure Giovanni Toti e da un Renato Brunetta naturalmente rissoso («il centrodestra unito vince, e chi non ci sta se ne assume la responsabilità»), ma la loro presenza non ha impegnato il partito, visto che non una bandiera forzista s’è unita allo sventolio. A caratterizzare lo spirito dell’iniziativa sono state bandiere più suggestive, per esempio quella russa, innalzata da una delegazione guidata da un moscovita con crocefisso ortodosso impugnato a benedire il mondo; una giovane donna di Odessa aveva con sé una drappo nero-arancione, ridisegnato sui colori del nastro di San Giorgio che in Russia simboleggia patriottismo e indipendenza. «Arancione come il fuoco, nero come il fumo», ha detto la donna per evocare la risolutezza di un sentimento: infatti è di Odessa, cioè Ucraina, ma si sente una donna della Grande Madre, e l’ovvia conseguenza del gruppo di cui faceva parte erano due grandi icone di Vladimir Putin e Donald Trump. 

Però poi a distinguerci siamo sempre noi italiani, soprattutto con i cori che hanno seguito la tradizionale etichetta di happening di questa natura: «Gentiloni / fuori dai cog...» si direbbe il più apprezzato da un popolo con una visione del mondo non sempre lineare, per esempio fermo nel dichiarare abusivo il presidente del Consiglio (lo avrebbe fatto più tardi anche Giorgia Meloni), nonostante gli sia stato affidato l’incarico dal presidente della Repubblica secondo le più consolidate - e forse usurate - obbedienze costituzionali, e cioè secondo la dottrina di quella Carta che tutti questi hanno difeso con enfasi nel referendum di dicembre. Probabilmente sono soltanto sofismi, la posta in gioco, per tornare all’inizio, è la sovranità. «I nostri soldi li prendono così / miliardi a clandestini e banche del Pd», si cantava. Bisognerà mandare al diavolo Bruxelles e Francoforte, la burocrazia e la finanza, ristabilire i confini e controllarli armi in pugno. Reintroduciamo il servizio di leva, ha detto Salvini, e creiamo eserciti regionali: un insuperabile progetto fascioleghista, e che però non è stato accolto con l’atteso nerboruto entusiasmo. Legalizzare la prostituzione, ecco l’idea di Salvini più applaudita: non è questione di destra o sinistra, è che siamo italiani. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/29/italia/politica/europeisti-pentiti-e-fan-di-putin-il-debutto-della-destra-sovranista-gD2w1srVqGUo281pV94uUN/pagina.html
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« Risposta #114 inserito:: Febbraio 01, 2017, 08:48:14 pm »

Hasta la sconficta
Pubblicato il 01/02/2017 - Ultima modifica il 01/02/2017 alle ore 06:53

Mattia Feltri

Gianni Cuperlo (è vero, non bisognerebbe mai cominciare una rubrica con la parola Cuperlo, scoraggia la lettura, ma Cuperlo è simpatico e intelligente, fidatevi), insomma Gianni Cuperlo ha detto che Benoît Hamon, vincitore delle primarie socialiste in Francia, è «un ammonimento per il Pd», e anche per «una sinistra che ha detto troppi sì alle ricette dei nostri avversari». 

Un po’ come Walter Veltroni («Con José Luis Zapatero il pendolo della storia sta tornando a oscillare verso la nostra direzione») poco prima che l’esercito di Zapatero sparasse sui clandestini; e un po’ come Massimo D’Alema («Caro Blair, la tua straordinaria vittoria premia quella sinistra che ha avuto il coraggio di rinnovarsi») poco prima che Blair facesse la guerra a fianco di George W. Bush; e un po’ come Bersani («La vittoria di François Hollande può essere un passo determinante per invertire il ciclo disastroso della destra»), poco prima che Hollande andasse nei consensi sotto Marine Le Pen; e un po’ come Stefano Fassina («Renzi dovrebbe imparare dal discorso di verità che Syriza e Tsipras fanno»), due ore prima che Tsipras si consegnasse alla Trojka; e un po’ come D’Alema, di nuovo lui («la vittoria di Barack Obama è la sconfitta della cultura di Silvio Berlusconi»), molto prima che Obama, sconfitta la cultura di Berlusconi, vedesse sorgere la cultura di Donald Trump. 

Ecco, siamo proprio curiosi di vedere quale carognata combinerà adesso Hamon alla sinistra italiana. 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/01/cultura/opinioni/buongiorno/hasta-la-sconficta-8jOto57GPknGdkPshpRkiI/pagina.html
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« Risposta #115 inserito:: Aprile 07, 2017, 12:52:25 pm »

Il Paese più ricco del mondo
Pubblicato il 07/04/2017 - Ultima modifica il 07/04/2017 alle ore 06:52

MATTIA FELTRI

Di chi è la colpa se siamo ridotti così? Della politica, naturalmente. E perché in questo Paese non funziona nulla? Ma perché c’è la casta che si mangia tutto. Per quale motivo c’è disoccupazione, ci rubano il futuro e noi cittadini vogliamo un mondo migliore? Facile: perché non siamo ladroni come chi ci governa, e dunque avvampiamo d’indignazione. Bene, alle premesse necessarie per scampare alle accuse di collusione col potere farabutto manca di dire che va abolito ogni privilegio pensionistico per i parlamentari, ridotta la paga agli assenteisti d’aula e sospese le garanzie costituzionali per i sospettati di corruzione. Ma ora, se non spiace, si prova ad aggiungere un piccolo elemento d’analisi. 

L’amministratore delegato di Equitalia, Ernesto Maria Ruffini, ha raccontato in un’audizione alla Camera che 21 milioni di italiani, metà della popolazione adulta, ha debiti col fisco per 817 miliardi di euro. E, attenzione, è una somma che non ha nulla a che vedere coi 100-110 miliardi l’anno di reddito in nero: qui si tratta di evasione accertata dell’Irpef, dell’Iva, multe mai pagate e così via. Magari il numero in sé non dice molto, i numeri sono sempre aridi. Però 817 miliardi sono circa il quaranta per cento del nostro debito pubblico. Se ne recupererà, se va bene, un quarto e ci vorranno lustri. Però se domani mattina, per magia, lo Stato, cioè noi, riavesse i suoi 817 miliardi, ci eviteremmo la manovra finanziaria per almeno venticinque anni. Ecco, per dire che il futuro ce lo sgraffigniamo anche un po’ l’uno con l’altro.

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« Risposta #116 inserito:: Aprile 22, 2017, 05:21:05 pm »

Complotti e altri demoni

Pubblicato il 22/04/2017 - Ultima modifica il 22/04/2017 alle ore 06:32

MATTIA FELTRI

Hit parade dei complotti di giornata.
10) Secondo il quotidiano spagnolo As, il sorteggio per le semifinali di Champions è stato pilotato contro Atletico e Real Madrid.
9) Il Movimento Cinque Stelle pretende le scuse da Alessandra Moretti del Pd per aver detto che un bambino è morto a Roma dopo il morso di un topo.
Fico Il Pd pretende le scuse dei Cinque Stelle perché effettivamente il bambino non è morto, ma soltanto perché era vaccinato.
7) Matteo Salvini sospetta che la Chiesa se la intenda coi grillini per evitare i pagamenti dell’Imu.
6) Il senatore Michele Giarrusso (M5S) ha capito che questo regime sta con la ’ndrangheta.
5) Lo scrittore francese Marek Halter segnala che i terroristi organizzano attentati per far vincere Marine Le Pen.
4) Il deputato di F.lli d’Italia, Fabio Rampelli, ribatte che piuttosto la strategia della tensione, da che mondo è mondo, fa il gioco di chi detiene il potere.
3) L’ex pm Piercamillo Davigo dice che gli italiani credono al pifferaio magico di turno - Mussolini, poi Berlusconi, ora Renzi - che li incanta e poi delegittima la magistratura.
2) Una studentessa tunisina ha scritto una tesi in cui certifica che conformemente al Corano la Terra è piatta, le teorie scientifiche di Copernico, Galilei e Einstein non valgono niente, e le stelle servono ad Allah per lapidare i diavoli.
1) «Bruxelles: nella stessa città la sede delle Istituzioni Ue e il quartier generale dei terroristi islamici. La cosa fa parecchio riflettere». E con questa, Giorgia Meloni vince al ballottaggio sulla Terra piatta.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/22/cultura/opinioni/buongiorno/complotti-e-altri-demoni-AGsopE5pJefzqQPfbWWwOJ/pagina.html
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« Risposta #117 inserito:: Giugno 19, 2017, 05:22:46 pm »


“Se me lo chiede il Paese, mi sacrifico”. L’effetto rieccolo della politica italiana
Da Berlusconi a D’Alema, da De Mita a Orlando: è la riscossa dei rottamati
Entrato in Parlamento per la prima volta 30 anni fa, si dice pronto a tornare «se me lo chiedono i pugliesi»

Pubblicato il 18/06/2017  -  Ultima modifica il 18/06/2017 alle ore 07:27

Mattia Feltri
Roma

Ci si distrae un attimo e rieccoli tutti lì: Romano Prodi e Silvio Berlusconi, Massimo D’Alema e la sua vecchia costola Umberto Bossi, Leoluca Orlando che non ha nemmeno il buon gusto di incanutire, persino Ciriaco De Mita accompagnato dalla discrezione di un pensiero. Riemergenti per necessità, non loro, ma del Paese che parrebbe spingerli al solito atto di responsabilità, e cioè ancora al sacrificio. D’Alema sembra prendere la parola a nome di tutti: «Noi sentiamo l’urgenza di offrire agli italiani un’altra possibilità». Uno slancio colmo di nobiltà, e un uomo avveduto come D’Alema non avrà trascurato un’opzione: che gli italiani non sentano la medesima urgenza, e cioè di offrirla a lui un’altra possibilità. Ma è la democrazia. La sconfitta di Matteo Renzi al referendum e le trattative non particolarmente auliche né stentoree sulla legge elettorale hanno rimesso fiato a uomini e ambizioni (e spirito di servizio, diciamo): una legge della politica, e della vita, è che col tempo si scoprono le indispensabili virtù dell’esperienza. Compreso De Mita, ognuno dei riemergenti ha avuto la consapevolezza di essere il nuovo, sospinto dalla storia all’incarico del rinnovamento.

Per Berlusconi e Bossi non serve sostanziare, per Orlando nemmeno, forse neanche per Prodi, ma per D’Alema sì. Nel Pleistocene della nostra memoria fu un innovatore sin dai tempi della Federazione dei giovani comunisti negli anni Settanta, e poi del Pci negli anni Ottanta quando si trattò di sostituire Alessandro Natta con Achille Occhetto, e di nuovo un innovatore del Pds quando si trattò di sostituire Occhetto con sé medesimo, cioè il volto nuovo, finalmente. Nel 1992, venticinque anni fa, D’Alema già sentiva le urgenze: «Un governo con programmi diversi e volti nuovi». L’idea che circolava di un altro governo Craxi gli faceva intravedere la «sciagura», poiché, ancora, «servono volti nuovi». Settembre 1997 (poi non vi annoiamo più): «Si sta formando una classe dirigente che ha caratteristiche ben diverse da quella che ci ha preceduto. Una classe dirigente giovane, appassionata, che mostra al Paese intero il volto di una nuova Italia». Ecco, siamo stati tutti rottamatori. Magari con un lessico più contenuto e risultati migliori. E che c’è di più naturale che resistere alla ruota che gira? L’altra sera, a Bari, D’Alema ha spiegato perché non si tira indietro: «È evidente che per un movimento che nasce ci sarà bisogno di candidare delle personalità. Quindi se i cittadini pugliesi mi chiederanno di essere candidato, mi prenderò le mie responsabilità». 

Ecco, la personalità si sacrifica. Non si sottovaluta il rischio di avere affiancato D’Alema a Renzi, e ora di affiancarlo a Berlusconi, ma «sacrificio» e «responsabilità» sono stati i motori, per autodichiarazione, di un’intera carriera politica. «Restare a Palazzo Chigi e alla guida del centrodestra vi assicuro che è un grande, grandissimo sacrificio» (Berlusconi, giugno 2011). «Il senso di responsabilità verso il mio Paese mi ha costretto a scendere in campo anche adesso». Quest’ultima è dello scorso novembre e chissà il novembre prossimo, dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo avrà giudicato l’incandidabilità di Berlusconi. In genere ci vogliono sei mesi (quindi si va a maggio 2018) per la sentenza, ma l’arrivo delle elezioni potrebbe consigliare alla Corte un po’ di sollecitudine. L’idea che il vecchio capo rimetta insieme la vecchia squadra ha innescato la contromossa permanente: Prodi! Il quale Prodi ha sufficiente amor proprio per restare zitto, e vedere l’effetto che fa, mentre a sinistra la potenziale coalizione s’allarga e s’allarga, e più s’allarga più necessita del miglior federatore di tutti i tempi. Prodi! Sembra di tornare ai tempi dei Bellissimi di Retequattro, i film di seconda serata con Cary Grant e Ingrid Bergman, intanto che qui si controllano i rendimenti azionari di Netflix. 

E non è una semplice impressione. Non è soltanto la deformazione della nostalgia. È proprio l’urgenza di cui parla D’Alema. Se Berlusconi ritorna al futuro gli vanno dietro tutti, ognuno con la propria urgenza. «La stella polare del Nord è la Padania, non la Lega. La Lega è uno strumento, e se uno strumento non serve lo puoi fare anche sparire», ha detto Umberto Bossi al raduno del Grande Nord, il movimento dei leghisti intolleranti del sovranismo nazionale di Matteo Salvini. «Siete troppo legati al presente. Inventate una via d’uscita dalla palude che ha creato Renzi, non rassegnatevi. Gli ex democristiani del Pd non parlano, sono muti, non so se sono vivi o morti», ha detto Ciriaco De Mita una settimana fa a Napoli. «Non voglio fondare un quarto polo, voglio stanare i democristiani», ha detto. Visto da qui, e con la folla vociante, De Mita è diventato un colosso, alla cui ombra sognare la rinascita della Dc. Insieme alla rinascita di D’Alema, dell’Ulivo, della Padania, dello spirito forzitaliano del ’94, cose così diverse e così lontane tenute assieme dal vero immarcescibile: Leoluca Orlando, che fu sindaco di Palermo con la Dc nel 1985, e rottama rottama, ancora sindaco è.
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« Risposta #118 inserito:: Luglio 30, 2017, 06:16:18 pm »


L’onore di Roma svenduto dalla politica per un pugno di voti
Gigantesche calunnie, indignazioni roboanti, danni letali.
La mafia non c’era ma è servita a tutti, dal Pd ai Cinquestelle

Pubblicato il 21/07/2017 - Ultima modifica il 21/07/2017 alle ore 07:04

Mattia Feltri
Roma

Ieri i giudici hanno stabilito che Roma è stata vittima di una calunnia entusiastica, colossale e globale da parte di spensierati calunniatori che hanno fatto a gara a chi calunniava meglio per due spicci di guadagno. 

Mafia capitale non esiste, come era politicamente chiaro a chi volesse vederlo sin dall’avvio dell’inchiesta e a maggior ragione quando l’ex sindaco di destra, Gianni Alemanno, era stato prosciolto dall’aggravante mafiosa insieme a tutti gli altri politici coinvolti nell’inchiesta (tranne cinque o sei e non per mafia, fra cui Luca Gramazio che, siccome ieri è stato condannato, torna a casa: uno dei luminosi paradossi della giustizia italiana). È stata calunniata Roma, le sue amministrazioni, fallimentari ma non mafiose, i suoi cittadini e la sua trimillenaria storia che in giro per il mondo porta ancora il titolo del trionfo, malgrado evidenti e abissali disastri. Mafia capitale non era mafia, era una banale, banalmente grave storia di corruzione e delinquenza arrivata a toccare il Campidoglio, senza però stringerlo fra tentacoli di piovra, come era stato raccontato a partire dal 2 dicembre 2014, giorno in cui furono arrestati Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. E lì è partita la carneficina. 

Per paradosso, in quei giorni, l’unico a tirare fuori due frasi da statista fu il sindaco Ignazio Marino: «Io mi rifiuto di avvalorare l’idea che Roma sia una città di mafiosi. Prima c’era la Roma ladrona, ora la Roma mafiosa. Non è così». È quello che avrebbe dovuto dire Matteo Renzi, presidente del consiglio e segretario del partito che esprimeva il sindaco di Roma, per proteggere quel che resta della dignità del Paese e del Pd, invece di ripararsi dietro a scaltrezze linguistiche senza domani, come si è visto: «Non sappiamo se quello che emerge dipinge dei tangentari all’amatriciana o dei mafiosi, lo dirà la magistratura. Ma noi non lasceremo la capitale in mano ai ladri». Era lo schieramento del plotone d’esecuzione per Marino, che si sarebbe lasciato tirare dentro alla gara della purezza, dichiarandosi di colpo l’ultimo argine alla cupola («la mafia vuole far cadere la mia giunta»); e quella della purezza è sempre un gara che si corre col fiato corto. Dalle altezze sacre dell’Antimafia, Rosy Bindi si buttava nella filosofia del diritto: «L’inchiesta della procura di Roma presenta elementi di novità rilevanti: individua il metodo mafioso per il reato di criminalità organizzata di stampo mafioso che non è la semplice duplicazione dell’organizzazione mafiosa di altri territori». Cioè, non sarà una cosa corleonese, ma sempre mafia è. Matteo Orfini, portato dall’emergenza al commissariamento e alla guida del Pd romano, prometteva la sciabola contro «il sistema di potere» retto «dai mafiosi». Dunque, chi pensa che Roma sia passata ai Cinque stelle per una campagna brutale e dissennata, cui ha preso parte acriticamente buona parte della stampa, sa dove deve bussare.

Perché poi, certo, i grillini ci hanno infilato le mani. Erano i pomeriggi invernali in cui i loro militanti e quelli di Giorgia Meloni e Matteo Salvini andavano sotto il Campidoglio a gridare «fuori la mafia dal Comune». In cui il New York Times scriveva che la dimensione dello scandalo «sbalordisce persino gli italiani», e si noti la delizia di quel «persino». La stampa estera sarebbe arrivata all’apertura del processo con la solida speranza di vedere alla sbarra ceffi in doppiopetto gessato, come tanti Al Capone della Garbatella. Beppe Grillo impostava la campagna elettorale per il nuovo sindaco secondo le sue riflessioni bipartitiche: «Movimento Cinque Stelle o mafia capitale?». Spiegava che «Il Campidoglio va disinfestato, i legami con la mafia recisi». Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista duellavano quanto a soluzioni sovietiche. Il primo: «Cittadini, fateci avere anonimamente, in busta chiusa, tutto quello che sapete sulla mafia nella capitale: noi vi garantiamo riservatezza». Il secondo: «Nel Pd e in Forza Italia ci sono persone per bene. Ci mandino una mail con quello che sanno, gli garantiamo l’anonimato e penseremo noi a ripulire questa Repubblica filomafiosa». Virginia Raggi ancora ieri era in aula ad attendere la sentenza per raccattare il dividendo e, quando l’aggravante mafiosa è volata via col Ponentino, non ha mosso muscolo e dichiarato la vittoria dei cittadini contro il malaffare. Dopo avere condotto un’intera e vittoriosa campagna elettorale sulla reazione popolare alla «mangiatoia della criminalità e di mafia capitale». Dopo avere promesso che la sua sarebbe stata l’amministrazione «che niente ha a che fare con mafia e criminalità». Il sindaco di Roma - insieme con Renzi e tutti gli altri - farebbe buonissima figura a chiedere scusa alla città per il danno d’immagine inferto.

L’indagine della procura di Roma, grazie soprattutto al solito, eterno, sfiancante uso politico delle inchieste, ha prodotto guasti irreparabili: tutti i partiti, la Lega e Fratelli d’Italia compresi, hanno chiesto lo scioglimento del Comune per mafia. Hanno impostato la campagna elettorale per la successione di Marino in nome della lotta alla mafia. Hanno ceduto all’estero l’immagine della loro capitale sequestrata per collusione dalla criminalità organizzata. Nessuno ha avuto l’orgoglio di difendere il decoro del Paese pur di non cedere un metro, e quando si è disposti a tanto, a calunniare il proprio Paese, e a preferire il bene di fazione che il bene di tutti, allora sì che si intravede qualcosa di somigliante al metodo mafioso.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/21/italia/politica/lonore-di-roma-svenduto-dalla-politica-per-un-pugno-di-voti-3zxUEfOzFIbdHFXBqgEOoJ/pagina.html

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« Risposta #119 inserito:: Ottobre 05, 2017, 11:33:44 am »


L’ultima capriola M5S. L’esultanza di Grillo incrina il mito dell’onestà
I vertici cantano vittoria: archiviato il reato più grave. Dopo leadership e streaming, la metamorfosi è compiuta
Il fondatore del M5S ha ceduto la leadership politica a Luigi Di Maio, vincitore delle primarie per il candidato premier M5S

Pubblicato il 29/09/2017 - Ultima modifica il 29/09/2017 alle ore 08:09

Mattia Feltri
Roma

Viene in mente Isaac Asimov, per il quale la disumanità del computer risiede, una volta programmato e messo in funzione, nella sua perfetta onestà. Grazie al cielo Virginia Raggi non è un computer, lo si nota a occhio nudo, nessuno del Movimento lo è, e non per questioni di onesta e disonestà, stabilite ruvidamente codice alla mano. I codici non dicono tutto, neanche quello penale. E comunque Raggi non è nemmeno arrivata a processo, forse non ci arriverà proprio, deciderà un gip, e semmai poi ci saranno tre gradi di giudizio e per un reato, se tale è, di poca rilevanza: falso ideologico. 

La perfetta onestà dei Cinque Stelle si incrina invece nell’esultanza di Beppe Grillo per l’archiviazione del reato più grave, l’abuso d’ufficio, che è più grave soltanto nella realtà on demand del blog, poiché l’abuso d’ufficio prevede pene più basse del falso ideologico. 

La perfetta onestà dei Cinque Stelle si incrina nel tweet del capo, Luigi Di Maio, che annuncia l’archiviazione delle accuse per cui «la stampa ci ha infangato», immemore delle dieci, cento volte che lui e i suoi hanno sventolato in aula di Montecitorio le pagine di giornale con le inchieste sugli altri, addotte alla richiesta di dimissioni. Oltre che immemore, naturalmente, delle accuse che archiviate ancora non sono, come un passacarte di Forza Italia o del Pd. 

 Inconsapevole, soprattutto, di aver raggiunto una certa solidità politica, una solidità antica, quella per cui la consigliera Cristina Grancio è stata sospesa perché contraria all’edificazione dello stadio di Roma. 

Succede a tutti, da millenni: l’azione distrugge l’utopia. Raggi (ed è giusto così) resta al suo posto nonostante una richiesta di rinvio a giudizio, Grancio viene cacciata per dissenso (poi reintegrata il giorno prima del processo per il ricorso), secondo il santissimo metro della politica e non della magistratura, quello usato da Matteo Renzi per salvare Maria Elena Boschi, che era più utile al governo sebbene inguaiata per le banche, e per sommergere Maurizio Lupi, che da inguaiato per le infrastrutture era dannoso al governo. «Se un sindaco ha un avviso di garanzia per abuso d’ufficio deve stare fermo un giro», diceva Di Maio giusto un paio d’anni fa, prima di rendersi conto che un sindaco di media o grande città può uscire indenne da una consiliatura soltanto se gli altri sono distratti, tante e tanto complesse sono le regole cui è chiamato ad attenersi, per non dire delle tentazioni. Non basta proclamare onestà, quasi mai. Ora il problema è che ne va di mezzo la purezza della razza, e non lo si intuisce, o non lo si confessa. Quattro anni fa Beppe Grillo ci irrideva per la nostra incapacità di comprendere l’assenza di un leader, diceva che quando lo chiamavano i giornalisti per parlare col leader del Movimento, lui gli passava il figlio Ciro. Il leader non c’era perché a comandare è la rete dei cittadini attraverso il web, diceva, ed è questa la rivoluzione somma, e inafferrabile per menti polverose come le nostre. Poi adesso hanno eletto un leader, Di Maio appunto, con le primarie on line. Quattro anni fa non c’era il candidato premier (lo era Grillo, ma solo formalmente) perché il premier sarebbe stato l’ologramma della volontà popolare, un portavoce, uno qualsiasi, e adesso hanno eletto un candidato premier, sempre Di Maio, sempre con le primarie online. Ci sono stati direttori, nazionali e locali, ora c’è una gerarchia, un designato alla premiership, un serio abbozzo delle strutture novecentesche e marcescenti che forse marcescenti non sono, ma indispensabili. 

Si procede lungo questo sentiero che collega l’a priori con l’a posteriori, che collega il mondo perfetto progettato attraverso regole ferree e il mondo in cui ci si imbatte, e in cui le regole hanno bisogno di elasticità. Si organizzano le primarie del sindaco di Genova e siccome vince la candidata sgradita la si fa fuori, in onore di quella elasticità lì, necessaria anche ai movimenti più stentorei, in cui si ingoia tutto nella onestissima certezza che i predecessori facevano porcate a fin di male, e ora le si fanno ancora, eccome, ma a fin di bene, come cedimenti inevitabili al raggiungimento del celeste obiettivo, e unica possibile risposta all’accerchiamento dei nemici: eccola la drastica differenza, una pretesa differenza antropologica, stravista, fallimentare, già raccontata su tutti i libri di storia. Una citazione cara a Giulio Tremonti: si fa la figura del selvaggio di Kant che pensa che il sole sia sorto perché lui si è svegliato. 

Ricorderete la breve leggenda dello streaming, l’apertura del palazzo come una scatola di tonno, le pareti di vetro, l’animo incontaminato esibito al popolo negli incontri con Pier Luigi Bersani, Enrico Letta e Matteo Renzi, a cui veniva così impedito ogni losco infingimento, e poi lo streaming è stato rapidamente dimenticato, quella specie di balletto con copione, dunque fintissimo, perché la politica ha bisogno delle sue ore grigie, dei suoi notturni segreti, dei compromessi che sono sempre al ribasso sennò compromessi non sono: si decide dentro le stanze dell’Hotel Forum, Roma, o nella villa di Grillo, Toscana, o alla Casaleggio, Milano, altro che streaming, se Dio vuole. Ricorderete il divieto dogmatico di mettere piede nei paludosi studi televisivi, luoghi di corruzione intellettuale, dove manipolatori di regime avrebbero ridotto il cristallino Cinque Stelle alla condizione fangosa degli altri, e adesso vanno tutti in tv, se possibile senza confronto, a esercitare il lusso del monologo. In fondo ci sarebbe niente da dire se i ragazzi di Beppe si lasciassero attrarre dal dubbio che la rivoluzione dell’onestà è un bel gioco da tavolo, e sta alla vita come il risiko sta alla guerra, ché poi tocca cambiare le regole, tocca ricorrere all’eccezione, una via l’altra, tocca concedere a sé attenuanti o assoluzioni piene negate ai cattivi ma, come si diceva all’inizio, si vede tutto a occhio nudo: il mondo è pieno di persone oneste, diceva uno intelligente e spiritoso, e si riconoscono dal fatto che compiono le cattive azioni con più goffaggine. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/09/29/cultura/opinioni/buongiorno/lultima-capriola-ms-lesultanza-di-grillo-incrina-il-mito-dellonest-pXkuJ3PBrWnBySNHFdWkgL/pagina.html
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