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Autore Discussione: MATTIA FELTRI.  (Letto 79431 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Marzo 27, 2014, 06:16:25 pm »

Politica
27/02/2014

Umiliati, offesi e folgorati Si rimescolano le anime del Pd
L’avvento di Renzi ha cambiato la geografia all’interno del partito


Mattia Feltri
Roma

Le tempeste che scuotono il Pd sono soprattutto nell’anima, e la suddivisione del partito in correnti ha oggi meno senso di una geografia sentimentale. L’arrivo di Matteo Renzi alla guida di partito e governo ha infatti sovvertito l’ordine e gettato scompiglio nelle truppe; lì dentro, perduti i punti cardinali, hanno cominciato a muoversi lungo le direzioni indicate dal cuore (diciamo così).

Il grande abbraccio dell’altroieri a Montecitorio fra Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta non apparteneva alla grammatica politica, ma era l’abbraccio dei reduci della cruenta battaglia che a fine guerra invocheranno la Convenzione di Ginevra. Sono gli Umiliati, categoria numerosa a cui sono iscritti i grandi capi, da Massimo D’Alema a Rosi Bindi (e forse pure Walter Veltroni). C’è Stefano Fassina, abbattuto con un pronome di tre lettere (chi); alla Camera ha detto di non votare fiducie in bianco, vedrà di volta in volta, come di solito promette l’opposizione sedicente responsabile. Si annota che Letta martedì mattina ha preso un aereo da Londra dove è tornato la sera stessa pur di rimarcare il suo sdegno fra le braccia del vecchio capo. Gli esperti in dinamiche politiche ritengono che gli affettuosi sensi fra Bersani e Letta contengano una minaccia: arriverà Norimberga.

Attigui agli Umiliati ci sono gli Offesi, il cui leader è Pippo Civati, quotidianamente impegnato a ricordare l’antica e poi tradita familiarità con Renzi. «Ciao Matteo», gli ha detto in aula contro ogni etichetta. Aveva il tono malinconico di chi nota che le cose non sono andate come dovevano. Fra gli Offesi ha un ruolo Lapo Pistelli, maestro politico di Matteo di cui divenne il primo rottamato. Renzi lo cita nelle repliche alla Camera e Pistelli regala qualche parola agli intervistatori, un gran sapore di amarezza che cresce alla fine: «Era meglio se non faceva il mio nome, lasciamo perdere...». Umiliati e Offesi hanno un trait d’union, che è Gianni Cuperlo, umiliato alle primarie e offeso subito dopo: «Nella legge elettorale vuoi le preferenze, ma è un tema di cui avrei voluto sentir parlare quando ti sei candidato», gli disse Renzi. Cuperlo si dimise da presidente e da allora pencola fra due emozioni e due posizioni che dispongono di un braccio armato: i Partigiani, e cioè le seconde linee deputate a mantenere il nemico sotto fuoco in attesa della controffensiva (se mai arriverà). Come da tradizione, i Partigiani sono pochini, ma ne arriveranno. Il primo a salire in montagna è stato il bersaniano Alfredo D’Attorre, seguito in questi giorni da Miguel Gotor, Felice Casson, Corradino Mineo e qualche altro. Non si fanno problemi tattici, dicono a Renzi che è una jattura, gli ricordano che la vittoria non è ancora totale.

 
C’è poi una grande area di spiriti combattuti. Lì meditano innanzitutto i Delusi, come il sindaco di Bari, Michele Emiliano, e quello di Salerno, Vincenzo De Luca; erano stati così generosi di elogi (con Renzi arriva la rivoluzione, disse il primo; con Renzi cambia tutto, disse il secondo) da aspettarsi la convocazione al governo. Niente. Si segnala un disperato Emiliano a Un giorno da pecora: «Gli ho mandato molti sms, ma niente». Non distanti dai Delusi, alloggiano i Semplici Conoscenti. È gente che si direbbe in attesa di elementi più solidi su cui fondare i rapporti. C’è Alessandra Moretti, che fu bersaniana, poi quasi renziana, ora boh; c’è Anna Finocchiaro, che diede di miserabile a Renzi e adesso ammette «ci ha spaesati»; c’è Matteo Orfini, fiero nemico dei vecchi tempi («Renzi in campo? È una follia, vada ad Amici») piegato dal pragmatismo: il Pd sta vivendo un passaggio «lacerante ma inevitabile». 

Tutte queste categorie sono però una drammatica minoranza perché ce n’è un’ultima straripante: i Folgorati (che si sommano ai Fedelissimi, di cui qui non ci si occupa). Costoro sono al governo, nel partito, nelle amministrazioni locali, vanno da Dario Franceschini e Deborah Serracchiani, da Federica Mogherini e Nicola Latorre, da Marianna Madia a Laura Puppato. Il loro leader spirituale è il capogruppo al Senato, Luigi Zanda, che al termine di un discorso di Renzi disse: «Mi è piaciuto tutto quello che ha detto, tranne una cosa... Una cosa che mi è piaciuta anche di più...». (La geografia sentimentale del Pd muterà sensibilmente dopo la nomina dei sottosegretari).

Da - http://lastampa.it/2014/02/27/italia/politica/umiliati-offesi-e-folgorati-si-rimescolano-le-anime-del-pd-lkjsB4qafW85b0XaNaS3aN/pagina.html?exp=1
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« Risposta #91 inserito:: Aprile 09, 2014, 06:18:04 pm »

Politica
09/04/2014

“Siamo un partito senza futuro”
Forza Italia tra paura e sconforto
Molti rifiutano di candidarsi alle Europee.
E crescono i sospetti: 10 senatori sarebbero pronti a passare con Ncd

Mattia Feltri
Roma

«Noi vogliamo bene a Berlusconi, ma vogliamo più bene ai suoi voti». L’epitaffio di vent’anni di Forza Italia, se epitaffio servirà, è dunque già scritto a nome del partito intero da un aspirante candidato alle elezioni europee. Aspirazione per la quale rinuncia prudentemente alla paternità della battuta: «Tanto lo sappiamo tutti che è così». Vogliono così bene a Berlusconi, lì dentro, e soprattutto ai suoi voti, che nessuno dice niente se a sei giorni dalla scadenza le candidature non sono ancora stabilite. Forse se ne parla oggi ma tutto potrebbe restare in sospeso finché il tribunale di Milano non avrà deciso se l’ex premier meriti la detenzione domiciliare o l’affidamento in prova, come ha chiesto la procura. Si comincia domani pomeriggio, al palazzo di giustizia di Milano, e magari ci sarà bisogno di qualche giorno. Si aspetterà, come ci hanno detto ieri dalla sede di San Lorenzo in Lucina, «in depressione e prostrazione». E da lì in poi ogni cosa cambierà.

Per esempio: Silvio Berlusconi ha già preparato dei video. Se avrà i servizi sociali, li butterà: gli sarà consentito parlare in tv, rilasciare interviste, prendere parte a comizi. Se avrà la detenzione domiciliare, li diffonderà in una specie di campagna elettorale postuma dagli effetti imprevedibili ma non promettentissimi. La decisione della magistratura avrà poi un peso sulla nuova guerra intestina, coi filo-renziani in minoranza ma di maggior peso politico, e gli antirenziani in maggioranza ma di peso minore. «Fra due giorni scateneremo l’inferno», ha già detto Renato Brunetta, comandante in capo degli oltranzisti. Opposizione furibonda, dunque. E però è anche vero che l’altra sera Gianni Letta - il sire dei trattativisti - ha chiamato Berlusconi sul tardi e lo ha convinto a telefonare a Matteo Renzi con la motivazione che un partito col leader condannato ed escluso dalla partita delle riforme sarebbe un partito da buttare; e poi sai che bello vedere Berlusconi semirecluso che partecipa alla rifondazione dello Stato? Sai che bello mostrare al mondo una simile spettacolare contraddizione? Quando Brunetta ha saputo del contatto fra i due, s’è imbufalito e ha fatto il numero di Silvio. Il quale s’è scusato con una frottola delle sue: ti ho cercato ma non sono riuscito a trovarti. E Brunetta che guardava il cellulare e non c’erano chiamate perse, e sacramentava con Berlusconi come (quasi) solo lui può. «Che errore! Bisogna sempre telefonare a Berlusconi per ultimi», ha detto il capogruppo avvalorando la teoria che l’ultimo che parla con Berlusconi è quello che ha ragione. 

 Ecco, Forza Italia è messa così, e si sa. E uno di quelli incaricati di selezionare le candidature la spiega meglio: «Siamo un partito senza futuro e non abbiamo neanche un gran presente». Cioè, non si riesce a mettere insieme le liste, perché quelli infilati a riempitivo si rifiutano. Una volta uno ci provava, si sa mai. Ma adesso i sondaggi deprimono le più ottimistiche aspettative: se uno si candida e non spende soldi, raccatta quattro voti e fa la figura del fesso; se spende soldi prende voti ma comunque non abbastanza per passare. Difficile trovare disponibilità di suicidio. Quanto ai capilista, ancora ieri Raffaele Fitto diceva che quelli forti «dovrebbero mettersi a disposizione per garantire un minimo di risultato al partito e al leader». Ma qualcuno coltiva il sospetto (forse eccessivo) che ci sia chi intende esibire la forza in vista di una competizione interna e trasformare le Europee in primarie. Probabilmente è l’effetto di un eccesso di avvilimento e paura. Dice un ex ministro: «Siamo con Renzi ma non tanto, siamo di destra ma non tanto, siamo contro l’euro ma non tanto. Abbiamo anche un leader, ma non tanto e non so per quanto». In effetti lo slogan selezionato per le Europee è di una bruttezza competitiva: «Più Italia in Europa, meno Europa in Italia». 

In FI gli spettri sono tali che si vive di sospetto. I parlamentari - consegnati al silenzio sulle vicende giudiziarie sinché non si saranno compiute - additano i più loschi congiurati. La voce diffusa è che, se dovesse precipitare tutto e prevalere il napalm di Brunetta, una decina di senatori sarebbe disposta a passare col Nuovo centrodestra di Angelino Alfano per prolungare la legislatura, visto che alla prossima non li candiderebbe nessuno. Ma non è una voce così: la ripete chiunque. Dopodiché, dice Osvaldo Napoli, «vorrei vedere riforme fatte da un premier che non è stato eletto dal popolo insieme a gruppi di fuoriusciti. E vorrei proprio vedere che farebbe Giorgio Napolitano». Ma in un saliscendi di allucinazione ti fanno notare che da qualche tempo il Mattinale, l’esuberante organo del brunettismo, non ha più gli alfaniani per obiettivo. Qua e là, per le amministrative, si stringono alleanze. Ieri, guarda caso, c’è stato un convegno dal tema «Riflessioni sul centrodestra» con quelli di Ncd (Cicchitto, Quagliariello, Schifani) e col berlusconiano Paolo Romani. Una serie di coincidenze, e di piccoli fatti, che in realtà non avvalora niente. Ma è la ciccia quotidiana che viene offerta con una strizzata d’occhio. Si stabiliscono link estrosi («Letta ha detto a Berlusconi che se non rompe sulle riforme avrà i servizi sociali»). Si intuisce l’untore a ogni spiffero («Marcello Fiori dice che ha dodicimila club. Ma chi ha mai visto l’elenco?»). Nei momenti di vitalità si progettano manifestazioni contro le toghe rosse, e si è presi da fiacchezza al solo pensiero. Si aspetta domani, nella bella speranza che sia un giorno in più.

Da - http://lastampa.it/2014/04/09/italia/politica/siamo-un-partito-senza-futuro-forza-italia-tra-paura-e-sconforto-faAaua107g3iPWGvjPEvoL/pagina.html
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« Risposta #92 inserito:: Maggio 05, 2014, 11:45:08 pm »

Paesi & buoi
03/05/2014

Ribelli
Mattia Feltri

Sono un ribelle, dice
di sé Piero Pelù.
Lo dice contro Matteo Renzi che pure si definisce un ribelle. E si definirono ribelli Bossi, Fini,
persino Pajetta,
e oggi i F.lli d’Italia,
i Cinque stelle, un po’
pure Berlusconi.
Sono ribelli
i cantanti in genere,
i registi, gli scrittori,
i direttori d’orchestra,
i ballerini,
i fumettari, i giornalisti,
i sindacalisti, i deejay,
i conduttori tv, gli agricoltori,
gli animalisti...
Poi restano quattro
o cinque conformisti
che tengono
in pugno il paese.

Da - http://lastampa.it/2014/05/03/cultura/opinioni/paesi-e-buoi/ribelli-zTqS8o9dnSe1W5OcaFfcVI/pagina.html
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« Risposta #93 inserito:: Maggio 15, 2014, 10:44:56 am »

Editoriali
13/05/2014

Le tangenti e la fine dei partiti

Mattia Feltri

«Per carità, quell’espressione non usatela più», dice Rino Formica, vecchio ministro socialista dei governi di Giovanni Spadolini e Giulio Andreotti. L’appello ai giornalisti è, per quanto ci riguarda, ben accolto: l’espressione originaria (Tangentopoli) era vigorosa, quella derivata (Nuova tangentopoli) è ripetitiva e bolsa. 

Soprattutto è pigra e non spiega nulla. Non spiega, per esempio, che oggi non si ruba per il partito e nemmeno al partito, ma dentro al partito si muovono lobby che hanno agganci al di fuori e puntano al rafforzamento di poteri politici individuali. Massimo Fini – scrittore fra più eccentrici, ribellista colto, antimodernista – ne parla così: «Sono lobby legate a gruppi di intermediari privati – conoscenze antiche come Gianstefano Frigerio e Primo Greganti – gente senza ruolo che fa da collegamento con organismi malavitosi, o anche soltanto con imprenditori felloni: personaggi che si fiutano e si garantiscono a vicenda». E’ l’opinione di un altro che ne ha viste parecchie, Emanuele Macaluso, ex comunista e sindacalista della Cgil, oltre che direttore dell’Unità e del Riformista. Il quale ricorda che «la Tangentopoli d’inizio anni Novanta coinvolse i partiti e i massimi dirigenti, Bettino Craxi, Arnaldo Forlani, Giorgio La Malfa, pure Umberto Bossi». L’inchiesta della procura di Milano, dice Macaluso, «accelerò la crisi dei partiti successiva alla fine dell’assetto mondiale prodotto dalla Guerra fredda. Arrivò un sistema nuovo e non riuscimmo ad adeguarci». Si tirò avanti con la ferraglia novecentesca persuasi che restasse a galla. Lì si infilarono i magistrati sorretti dai grandi giornali e sospinti dalla rabbia popolare, all’improvviso desta dopo un lungo sonno sul velluto. 

Parlare di Nuova tangentopoli non ha senso, secondo l’analisi di Formica, anche perché «quando un fenomeno è continuo perde la caratteristica di definizione». Dice che sono solamente cambiati «i soggetti e i fruitori finali». La traduzione di Massimo Fini è la seguente: «Dopo l’euforia degli anni di Mani pulite, le cose sono continuate ma modificandosi: non c’è distacco, è una normale evoluzione della pratica criminale». E Formica ci si riaggancia per proporre un’amata teoria: «La decomposizione del sistema aggrava il fenomeno degenerativo: in un sistema di democrazia organizzata, anche i fenomeni degenerativi come la corruzione rimangono sotto controllo. Per fare un esempio, un conto è se la Chiesa ruba per sfamare i poveri, un conto se lo fa per comprarsi gli attici. Oggi il dato non è tanto il fenomeno degenerativo quanto la decomposizione del sistema».
 
E allora, tornando a Macaluso, la decomposizione del sistema è tale per cui stavolta i partiti non c’entrano, o c’entrano marginalmente, «per il semplice motivo che non esistono più. Il Partito democratico è un agglomerato elettorale, Forza Italia è da sempre un partito azienda con una leadership non contendibile, il Movimento cinque stelle è un partito-blog con regole interne bizzarre, la Lega è un residuato». Si partì venti anni fa dalla crisi dei partiti, si arriva oggi col loro decesso: un’avventura tenuta assieme dalle stecche. E però a questo punto Fini e Formica prendono altre strade. Fini si chiede per quale ragione non ci sia più scandalo, forse per una questione sinergica, e cioè che «la politica corrotta ormai si muove dentro un paese corrotto, dove per rimanere onesti bisogna essere santi». Formica, invece, ricorda che la Prima repubblica implose perché era un sistema senza alternativa (il Pci era escluso dall’esecutivo, il Msi addirittura dal famoso arco costituzionale), «con una legge elettorale che favoriva la disgregazione, con un’economia pubblica che soffocava il mercato, con partiti che comprimevano le realtà, con sindacati che bloccavano le dinamiche sociali. Bene, passati vent’anni, le cose sono migliorate o peggiorate? Venti anni più tardi, dopo che sono stati al governo tutti, dai naziskin ai terroristi rossi e chiunque stesse in mezzo, a che punto siamo?».

Da - http://lastampa.it/2014/05/13/cultura/opinioni/editoriali/le-tangenti-e-la-fine-dei-partiti-Ceo3QndEK17eYz4OuWH5OK/pagina.html
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« Risposta #94 inserito:: Maggio 16, 2014, 06:41:48 pm »

Politica
16/05/2014 - reportage

Tutti a favore dell’arresto
Ma i M5S non rinunciano al teatrale attacco al Pd
La Camera dice sì al carcere per il deputato Genovese
Dibattito annoiato, poi lo scontro su Borsellino scalda il clima
Grillo: appello a polizia, non fate fuggire Genovese
Il «blues politico» di Grillo
Canzone sul palco di Novara

Mattia Feltri
Roma

La procedura, a lungo vibrante come la stesura di un atto notarile, si è conclusa alle 18,12: Francantonio Genovese (Pd) è il secondo deputato nella storia della Repubblica - dopo Alfonso Papa nella scorsa legislatura - a finire in galera preventiva per imputazioni non di sangue, armi o terrorismo. L’uomo si abitua a tutto, figuriamoci i parlamentari: il pomeriggio in cui si decretò la detenzione di Papa fu percorso da una tensione spossante, e svanì in lacrime e silenzi; stavolta si è oscillati fra la sceneggiata e l’iter protocollare. Del resto tutto era chiaro sin dalla mattina, quando Matteo Renzi - lontano molti giorni da quello in cui, parlando del caso di Silvio Scaglia di Fastweb, definì «indegno» l’uso della carcerazione cautelare - aveva chiuso la questione dichiarando che il Pd intendeva votare subito e per l’arresto. Voleva smentire i grillini secondo i quali l’idea renziana era di spostare la decisione a dopo le Europee, per non perdere voti, e si deduce che invece i grillini preferivano prenderla prima, per guadagnarne. Il carattere elettoralistico della contesa, intanto che si doveva stabilire il destino di un uomo, ha preso un rapido e deciso sopravvento, e ha portato il capogruppo del Pd, Roberto Speranza, a proclamare in aula la ferrea deliberazione del suo partito. Genovese ha capito che non c’era più niente da fare ed è tornato a casa, a Messina, per prepararsi ad andare in carcere.

Il dibattito pomeridiano d’aula, fissato alle 16,30, aveva così perso ogni funzione propagandistica e di messa in scena. Né c’era tensione, vista la certezza del risultato. Un disimpegno comprensibile ma a tratti imbarazzante, specie quando si è scoperto che il relatore di minoranza (cioè l’incaricato di difendere Genovese, nella circostanza Antonio Leone di Forza Italia) non era presente e così non ha parlato. Cosa che invece ha fatto il relatore di maggioranza, Franco Vazio del Pd, e intanto che elencava le buone ragioni della procura e i reati contestati al collega (truffa aggravata ai danni della Regione, associazione per delinquere, peculato, riciclaggio...), l’emiciclo non era proprio gremitissimo, soprattutto dalle parti del centrodestra. Quelli presenti maneggiavano l’iPad o leggevano sul computer o chiacchieravano col vicino producendo il brusio annoiato di sottofondo. 

Ci si è un po’ scossi - la sfida sembrava quasi vera - soltanto quando hanno preso la parola i deputati a cinque stelle, i quali si erano allenati per una partita ormai sospesa. La sceneggiatura prevedeva infatti un teatrale attacco al Pd temporeggiatore o addirittura correo. Ed era paradossale la scena dei grillini con l’indice tremante di rabbia e puntato contro il gruppo democratico, sebbene votassero allo stesso modo. Il cittadino Francesco D’Uva ha proposto considerazioni giuridicamente non raffinatissime («le manette ai polsi di Genovese sono niente in confronto alle manette messe per anni ai polsi del popolo siciliano»), eguagliato dal compagno di banco Alessio Villarosa («Ho cercato lavoro fuori dalla Sicilia perché le risorse sono sempre finite nelle mani sbagliate»). Ed è stato il medesimo Villarosa a regalare un po’ di focosa spontaneità a un pomeriggio deprimente, quando ha suggerito di vergognarsi a «voi che alla Camera avete intitolato una biblioteca a Paolo Borsellino». A sinistra è stata tumultuosa rivolta: si è gridato buffone, pagliaccio e bugiardo. Anna Rossomando (Pd) ha scatenato i suoi dicendo che il partito di Pio La Torre non accettava lezioni. Rosi Bindi ha aggiunto che nessuno dovrebbe appropriarsi dei nomi di Falcone e Borsellino, sebbene altri lo abbiano fatto per vent’anni, anche nei partiti in cui ha militato la Bindi. Di colpo si era avverata la profezia pronunciata pochi minuti prima da Maurizio Bianconi (FI): «Chi porta la ghigliottina in piazza troverà sempre uno che è più Robespierre di lui». Peccato non lo ascoltasse nessuno. I più erano impegnati a spedire sms o a giocare a QuizDuello. La Rossomando ha ufficialmente annunciato che il Pd era per la prigione. Era la fine dell’intervento: è scattato un applauso automatico e raggelante. Risultato finale: 371 a 39. Dai banchi del M5S hanno festeggiato incrociando le braccia a mimare gli schiavettoni.

Da - http://lastampa.it/2014/05/16/italia/politica/tutti-a-favore-dellarresto-ma-i-ms-non-rinunciano-al-teatrale-attacco-al-pd-REUoTmFCe3lFCDn7OWaIJM/pagina.html
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« Risposta #95 inserito:: Maggio 28, 2014, 10:32:04 pm »

Elezioni 2014
27/05/2014 - Il grande sconforto
E la pancia M5S sul web attacca “il popolo di pecoroni”
Ma spuntano le critiche: Beppe, ascolta chi non la pensa come te

Mattia Feltri
Roma

La colpa, scrive uno che su twitter si firma Regan McNeil, è degli anziani: «Ricordate che ci accusavano di non avere ideali? Sono gli stessi che ci hanno venduto per 80 euro». La colpa, più in generale, è degli italiani che si «sentono rappresentati da Pinocchio dato che loro stessi sono disonesti», scrive Fortunato Corigliano. E al «78 per cento di loro va bene il sistema del finanziamento pubblico, della corruzione, della disonestà», scrive LatinaGaia. 

È colpa di un «popolo di pecoroni», scrive Desiree Maiorino. È colpa di quelli a cui «proprio la politica non interessa ma sono convinti di dover votare lo stesso», scrive Stefano Ghisalberti. È colpa naturalmente di Matteo Renzi che «ricorda quei bei ragazzi che in giacca-cravatta vanno a truffare le vecchiette», scrive Vale Mameli. Dunque, scrive Raffaele Candela, «vince la mafia». E «vince Licio Gelli», scrive Garibaldi Eroe. Vincono i brogli, come scrive Lea De Luca, ieri idolo del web poiché non le tornavano i conti: «Se l’affluenza è stata sotto al 50% come mai la superiamo? Il Pd 40%, il M5S 21%, Forza Italia 16% poi c’è la Lega Nord poi tutti gli altri...», e la somma va curiosamente oltre la percentuale di affluenza.

Il giorno dopo non è facile. Gli elettori del Movimento non ce la fanno proprio a rimettersi in piedi con un colpo di autoironia, com’è il video di Beppe Grillo. Rimettersi in piedi è dura se si scopre che cambiare l’Italia è impossibile se «non si cambiano gli italiani». Durissima, se ci si aspettano «tagli da 50 miliardi di euro» e quindi «ora sappiamo con chi prendercela». Letteralmente impossibile se ci si figura - come fa Francesco Presti - «i banchieri, gli evasori etc... Possono brindare a champagne e aragoste». La ricerca è lunga e complicata: qui di gente che ipotizza di aver sbagliato qualcosa - i conti, i toni, la strategia - ce n’è poca. 

In fondo «siamo la coscienza morale di questo paese», scrive Federico Fabbricatore. E siamo «5.804.810 patrioti», scrive Giacomo D’Angelo. Dunque si ripartirà perché «abbiamo troppe cose da fare per demoralizzarci. Andiamo in Europa e facciamo quello che abbiamo fatto nel Parlamento italiano», scrive Marco Acquapendente. Leggete quanto poco basti a uno che si firma Pat Garret: «Ero triste e arrabbiato, poi ho letto “Ora Casaleggio è in analisi per capire perché si è messo il cappellino”. Beppe mito». È sufficiente un sorriso e un «sì, #vinciamopoi», e «non ci arrenderemo mai! Ci vediamo alla prossima», scrive Luca Orazi. «È dalle cocenti sconfitte che si impara qualcosa», scrive Sioux. «Prima o poi la vittoria sarà dei cinque stelle, è soltanto questione di tempo», scrive Mirko Andrina. E anche se non si vincesse mai pazienza: «Me ne sbatto di percentuali vittorie e sconfitte, mi sento bene perché il mio voto è andato a persone come me», scrive William Lacalamita. Pare esserci la casistica completa per studiare gli elementi che muovono questo popolo. Persino quando spunta quello critico: «Beppe ti voglio bene però adesso fatti da parte e lascia fare ai ragazzi, il problema sei anche tu», scrive Samuele Quadri.

Fantastico: spuntano le critiche. Ne è pieno il blog di Grillo. «Beppe una critica va fatta al M5S. Occorre scegliere meglio tra i candidati», scrive Marco B. «Una forza politica per me deve essere in grado di cooperare e lavorare anche con chi non ti piace», scrive Dario. «Ecco perché non si deve parlare di successo prima del voto: tenersi bassi, poco baldanzosi e soprattutto con meno promesse di gogna processuale mediatica», scrive Guido Ligazzolo. 

Nel frattempo, grazie comunque: «Grazie Beppe di averci fatto sognare che un cambiamento era possibile, che da un giorno all’altro gli italiani, che pensavo per lo più corrotti e servi, si fossero risvegliati con la voglia di riscattarsi dopo un ventennio di corruzione», scrive Loretta Pasquini. E comunque, tutti sempre con le antenne dritte come Luigi Costanzo: «Attenzione non rispondete al falso sondaggio dopo il post è una truffa mi hanno appena rubato 5€!».

Da - http://lastampa.it/2014/05/27/italia/speciali/elezioni/2014/e-la-pancia-ms-sul-web-attacca-il-popolo-di-pecoroni-nyVZYakKMHWKBe7B9da9DP/pagina.html
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« Risposta #96 inserito:: Maggio 29, 2014, 11:08:39 pm »

Politica

29/05/2014 - La nuova mossa Un po’ a destra e un po’ no
Il Movimento ondeggia in cerca di un’identità nuova
Se ci sarà l’intesa con l’Ukip sarà in chiave anti euro

Mattia Feltri
ROMA

Dopo aver fatto una cosa di destra - discutere un’alleanza con Nigel Farage, leader dell’Ukip, il partito antieuro britannico - pare che Beppe Grillo abbia fatto una cosa di sinistra: in aereo ha bisticciato col leghista Matteo Salvini a proposito di immigrazione e smantellamento della Bossi-Fini. Che poi, guarda il groviglio, proprio sul punto il capo del movimento si era guadagnato accuse di destrite quando si oppose salvinianamente alla cancellazione del reato di immigrazione clandestina, prima di essere anti-salvinianamente smentito dalla rete. Non se ne viene fuori. Tuttavia la notizia del giorno c’è: Grillo ha trovato qualcuno che gli va a genio e a fianco al quale siederebbe senza ribrezzo. È Nigel Farage, appunto, uno che porta il titolo di ultraconservatore perché sta a destra del premier conservatore David Cameron. In Italia magari se ne sa poco, anche dentro al M5S, dove ieri qualcuno ammetteva di dover studiare. Però Farage ha solidi ammiratori proprio fra i cinque stelle, anche perché in un’intervista a David Parenzo disse: «Io non voglio il Regno Unito fuori dall’Europa, voglio l’Unione europea fuori dall’Europa». Praticamente un inno. Tanto che Grillo girò alle truppe dell’Ukip l’elogio sommo: «Sembrano parlamentari del M5S».

 

A parte che l’alleanza non è ancora siglata, fra i parlamentari a cinque stelle c’è pure chi non la vuole, e a prescindere - dal capogruppo Giuseppe Brescia al semidissidente Tommaso Currò - per sospetta fascisteria di Farage. E con sospetto di fascisteria, per la proprietà transitiva, del medesimo Grillo, già sospettato di hitlerismo (oltre che di stalinismo e polpottismo). E però nel frattempo lo stesso Farage non ha nessuna intenzione di fare gruppo con Marine Le Pen, troppo fascista per i suoi gusti, forse anche troppo concorrente, di certo troppo statalista agli occhi di un orgoglioso nazionalista inglese (con papa Francesco non lega a causa delle Falkland...), accusato da tutti di liberismo economico esasperato. Alla fine l’intesa con Grillo ci sarà - se ci sarà - per strategiche ragioni antieuropeiste. Fa niente se qui da noi si individuerà nel patto lo spostamento a destra di Grillo. Succede periodicamente. Nella notte che precedette il deposito dei simboli per le Politiche del 2013, una telecamera beccò Grillo mentre parlava con un ragazzo di Casa Pound, uno imbufalito con le banche, e gli diceva: vieni da noi, sentiamo che idee hai. Fu scandalo. Allo stesso modo, pochi mesi fa, si scoprì un Grillo leghista perché in Veneto aveva arringato la folla col tema delle macroregioni caro a Gianfranco Miglio. Con questo metodo è lecito iscrivere Grillo a ogni categoria politica novecentesca, o d’inizio millennio. Per fare un esempio: venerdì scorso, a San Giovanni, ha parlato di dazi per le arance nordafricane, come nemmeno Giulio Tremonti.

 

Da Bruxelles, fra l’altro, gira voce che Grillo avesse prima tentato un approccio con i Verdi, respinto. «Escludo categoricamente un’alleanza con il movimento», ha detto all’Agi l’eurodeputato dei verdi tedeschi, Jan Philipp Albrecht. C’era persino una logica, visto che meno di una settimana fa è stato sottoscritto un patto fra candidati verdi, a cinque stelle e della lista Tsipras contro gli OGM e per la promozione dell’energia solare. E nelle stesse ore la portavoce dei Verdi italiani, Luana Zanella, esprimeva tutto il suo dolore per le pulsioni canicide di Grillo per Dudù. Ah, che fatica. Fortuna che ci viene in soccorso la brutale sintesi di Massimo Fini: «Il movimento va oltre le categorie di destra e sinistra, peraltro superate da tempo. E quindi è inevitabile che al suo interno contenga di tutto». Pare lo sappia anche Farage.

Da - http://lastampa.it/2014/05/29/italia/politica/un-po-a-destra-e-un-po-no-il-movimento-ondeggia-in-cerca-di-unidentit-nuova-RsvaWFmsHON8zVXq8ee7AL/pagina.html
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« Risposta #97 inserito:: Giugno 04, 2014, 12:27:01 pm »

Politica
03/06/2014 - la storia

Grillo e il partito liquido dove uno vale l’altro
Le mille dichiarazioni contraddittorie dalla tv all’Europa

Mattia Feltri
Roma

Più che uno vale uno, uno vale l’altro. Pare infatti sia ovvio, nella medesima giornata e alla medesima ora, trascurare la parata del 2 giugno e sostenere che un «Paese senza rispetto dei suoi militari è un Paese senza dignità». I militari in questione sono i due marò detenuti in India e senz’altro i parlamentari a cinque stelle non trovano contraddizione fra le cose fatte e le cose dette.

Del resto la campagna elettorale delle Europee è stata condotta sull’accusa di voto di scambio rivolta a Matteo Renzi per gli ottanta euro in busta paga, mentre la promessa di un reddito di cittadinanza «è un’idea seria e concreta», come ha detto Beppe Grillo a Bruno Vespa. Il quale Vespa era stato premiato, dopo sondaggio online promosso proprio da Grillo, col microfono di legno per il «giornalista più fazioso». Così l’uomo indisponibile alla corruzione televisiva, alla fine in tv ci è andato, è andato giustamente dal «più fazioso» e alla fine l’ha elogiato: «Vespa è stato corretto». 

Non ci si fermerebbe mai. Una sentenza chiama sempre una controsentenza e poi una sentenza successiva con immediato ribaltamento. In questi giorni il presidente della commissione di Vigilanza della Rai, il grillino Roberto Fico, esprime perplessità sui 150 milioni di euro chiesti dal governo alla tv pubblica: «Non rappresentano purtroppo una revisione di spesa ma sono la maschera per svendere parte di Raiway, la società che detiene l’infrastruttura pubblica di trasmissione». Alla presidenza della commissione Fico ci era arrivato perché, disse Grillo un anno fa, la Rai offre «propaganda gratis a spese di tutti i contribuenti italiani che hanno ripianato la perdita di 200 milioni di euro del 2012». 

Renzi taglia? Non è così che si taglia. Si propone la cancellazione delle province? Non è così che si cancellano le province. Fine del bicameralismo paritario? Non è così che se ne decreta la fine. A un anno e qualche mese dall’inizio della legislatura, il Movimento non ha trovato un punto di incontro su alcun argomento con alcun partito, a costo di sembrare incoerente e prevenuto. Del resto Grillo non voleva nemmeno incontrare Renzi nei giorni precedenti alla formazione del governo; interpellò la rete che diede indicazione opposta: vai a sentire che ha da dirti. Grillo partì da Sanremo, giunse a Roma dopo sei o sette ore di automobile, si presentò da Renzi e gli disse: con te non ci parlo. Fine. Addio.

 È stata l’ultima volta che abbiamo visto Grillo in streaming. Eccolo, streming: uno dei termini fondamentali del vocabolario grillino. Manderemo tutto in streaming. Trasparenza. La casa di vetro. Già alle prime riunioni dei parlamentari grillini negli hotel romani la diretta streaming funzionava forse che sì forse che no, ma più probabilmente no. Oggi non interessa più a nessuno: Grillo vola a Londra a incontrare l’ultraconservatore Nigel Farage, e non se ne sa niente, impossibile vedere, vietato ascoltare. Si installano le basi di un’alleanza imprevedibile («non ci alleiamo con nessuno, la demolizione è cominciata», diceva Grillo un anno fa e lo ha ripetuto per l’anno successivo) e stordente, visto che l’Ukip ha accenti xenofobi e, per stare su questioni più centrali della politica a cinque stelle, sostiene l’energia nucleare. 

Il Movimento è per le rinnovabili eppure non trova agganci coi Verdi, e sarebbe questione di normale garbuglio italiano: più complicato orientarsi sulle elevate questioni costituzionali, risolte da Grillo con linguaggio classico e sincero: «La Costituzione non è carta da culo». Ha stilato un elenco così di stupratori di legge fondamentale, e però dentro il suo gruppo ha reintrodotto il vincolo di mandato - cioè l’obbligo di votare in conformità col partito - previsto solamente nelle costituzioni del Portogallo, dell’India, del Bangladesh e di Panama. È tutto così rotatorio da essere indiscutibile, si passa dal «siamo andati oltre la sconfitta» del 26 maggio a «la nostra affermazione è stata trasformata in una Caporetto, una Waterloo» di quarantotto ore dopo. No sconfitta no dimissioni. Anche perché, dice Grillo, «dimettermi da che? Non ho cariche». Aveva detto: «Se perdo vado a casa sul serio». È tutto buono. Uno vale l’altro. E poi, al massimo, Grillo scherzava. 

Da - http://lastampa.it/2014/06/03/italia/politica/grillo-e-il-partito-liquido-dove-uno-vale-laltro-WGdqGNcwG8rTahBFGxFMRM/pagina.html
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« Risposta #98 inserito:: Giugno 05, 2014, 07:20:52 pm »

Politica
14/05/2014

Quella sfrontatezza nelle telefonate di una classe dirigente ladra (e fessa)
Le intercettazioni svelano l’imprudenza di politici e imprenditori

Mattia Feltri
ROMA

Nell’anno XXIII dell’era manipulitista - cominciata il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa - i più restano di stucco davanti alla perseveranza nel malaffare di imprenditori e politici. Ma considerando la propensione all’onestà dell’italiano medio, a stupire dovrebbe essere, più del ladrocinio, la disinvoltura, l’imprudenza, la sfrontatezza - per non dire l’asineria - e anche quel po’ di cattivo gusto con cui gli indagati parlavano al telefono. Non vale soltanto per l’Expo, ma anche e soprattutto per Claudio Scajola al quale - dal punto di vista politico - andrebbe contestata l’aggravante di essere stato ministro dell’Interno, ruolo nel quale qualche notizia sull’efficacia delle intercettazioni dovrebbe essergli arrivata. Come uno che è stato al comando del Viminale possa avere certe conversazioni telefoniche con la moglie di un latitante in procinto di andare a Beirut, Libano («Stiamo parlando della capitale?», dice lei. «Certo, certo». «Che inizia con la L». «Bè, il paese...». «No. Che inizia con la B». «Brava».) è un mistero in grado di insidiare quello della casa vista Colosseo. Dalle carte pubblicate è senz’altro più facile cogliere aspetti dell’avventatezza, e forse del delirio d’onnipotenza, che non della colpevolezza di Scajola. Secondo quanto si è scritto ieri, in alcuni scambi di battute al cellulare l’ex ministro si vantava di disporre di un servizio segreto personale con cui raccogliere informazioni su mezzo mondo.

La vanteria è una costante di questi articoli compilati con le intercettazioni. Gianstefano Frigerio, già arrestato ai tempi di Mani pulite, ora protagonista dell’inchiesta sull’Expo, è descritto nelle carte come uno avveduto quando parla al cellulare. E chissà se fosse stato incauto, visto che a un amico confida di un suo amico carabiniere che ogni tanto gli fa le «pulizie», e in un’altra occasione spiega di dover sbrigare «un lavoro di copertura politico-giuridica»: in pratica organizza una cena (poi mai tenuta) fra il senatore Luigi Grillo e un comandante della Guardia di Finanza. Eppure nell’anno XXIII dell’era manipulitista una lezione si presupporrebbe mandata a memoria: non dire niente di ambiguo al telefonino. Macché: sono tutti lì a darsi arie (sia Frigerio che Primo Greganti raccontano di conoscere questo e quello, di aver accesso qui e là) intanto che parlano con aplomb di appalti e mazzette. Forse la medaglia d’oro va al direttore di Expo 2015, Angelo Paris, uno che si direbbe preoccupato di sollecitare l’attenzione anche di un demente quando dice: «Io vi do tutti gli appalti che volete se favorite la mia carriera». Sergio Cattozzo, braccio destro del senatore Luigi Grillo, chiama trafelato (secondo quanto dicono i verbali) perché sta «uscendo una cosa da 67 milioni». Greganti dice di dover scendere a Roma per parlare «con gli amici miei». Un tocco di suspense che si scioglie nella rivelazione: si vedrà con Gianni Pittella (Pd, vicepresidente del Parlamento europeo), ma è una millanteria. Intanto Frigerio ogni tre per due pronuncia la parola Arcore e manda sms a Silvio Berlusconi persuaso che siano irrintracciabili. Dice che si va a pranzo con Silvio Berlusconi e Gianni Letta, e nel frattempo condisce i programmi con antica saggezza: «Bisogna mettere venti stecche in forno per tirarne fuori dieci». Sembrerebbe che ne escano anche meno: il gruppo sollecita i debitori. In fondo «le nostre richieste non sono esose, chiediamo l’1 per cento, gli altri il quattro e il cinque». La vera domanda è: peggio avere una classe dirigente ladra o fessa? È peggio se è l’uno e l’altro.

Da - http://www.lastampa.it/2014/05/14/italia/politica/quella-sfrontatezza-nelle-telefonate-di-una-classe-dirigente-ladra-e-fessa-DlUQ0WeM19eOaBwuOj3yTK/pagina.html
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« Risposta #99 inserito:: Giugno 10, 2014, 11:24:02 am »

Politica
08/06/2014

Le mille e contraddittorie proposte per cancellare la corruzione
Dalla ghigliottina ai nuovi reati passando per la speranza

Mattia Feltri
Roma

Bisogna metterci subito le mani. Bisogna istituire una «commissione di inchiesta regionale», dice il Nuovo centrodestra del Veneto. Bisogna adottare il nostro decalogo, dice l’Associazione nazionale costruttori edili. Bisogna adottare il nostro ottalogo, dicono le sinistre unite di Venezia. «Prima delle responsabilità penali bisogna indagare su quelle politiche», dice il Wwf. E prima ancora «serve chiarezza sull’impatto ambientale», dicono i Verdi.

Più in generale, dice Rosy Bindi, «questa commissione (l’Antimafia, che presiede, ndr) non ha una esplicita competenza sui fenomeni di corruzione politica economica, ma non potremo non approfondire anche questo versante». Tutti all’opera, tutti con le maniche rimboccate: competenti e meno competenti, interessati ed ex disinteressati. La Corte dei conti ha già istituito la sua, di commissione: «Una Commissione di indagine per l’accertamento di tutte le procedure di controllo effettuate negli anni in merito all’opera, la verifica degli atti e delle relative risultanze». 

Beppe Grillo vuole il politometro, sistema di misurazione di guadagni e spese. Riccardo Nencini, del Psi, offre una proposta all’apparenza più dettagliata: «Martedì prossimo presenteremo la prima griglia e i principi per le norme delega per la revisione del codice degli appalti». Può voler dire un sacco di cose, in effetti. E, in effetti, chiunque ha soluzioni di proporre. Non c’è politico, associazione di categoria o istituzione repubblicana sprovvisto della ricetta giusta. Ci sono anche quelli che di ricette ne hanno un paio, persino una in contrasto con l’altra. Per esempio il ministro dell’Ambiente, Gianluca Galletti, un giorno ha detto che «le regole le abbiamo e negli ultimi anni sono state inasprite. Non è una questione di regole, ma di mentalità», forse ispirato da Debora Serracchiani («possiamo fare tutte le regole del mondo, ma la necessità è eliminare i ladri») e dal ministro Giuliano Poletti («la colpa non è delle regole, ma dei ladri»); e all’indomani il medesimo Galletti ha annunciato «un decreto per inasprire le misure contro la corruzione», e addirittura «per introdurre nuovi reati». 

Ecco, la questione centrale è quella delle norme. I legislatori, quantomeno sul piano teorico, sono vulcani in eruzione. Da non trascurare quella del senatore grillino Michele Giarrusso: «Io per i corrotti del Mose, dell’Expo e della Tav vorrei la ghigliottina. Gli taglierei la testa». Interessante anche quella dell’indipendentista veneto Lucio Chiavegato (uno degli arrestati per il trattore-carrarmato): «Gli sequestrerei tutti i beni suoi (parla di Giancarlo Galan, ndr), della sua famiglia, e dei suoi parenti fino al terzo grado». Per tornare a livelli di stravaganza appena più contenuta, Paolo Ferrero di Rifondazione comunista è per fermare il Mose, e poi anche l’Expo e la Tav; Renato Schifani (Ncd) suggerisce una task force composta da uomini della Guardia di finanza che verifichino le fatturazioni; Sergio Boccadutri (Sel) rilancia il «finanziamento pubblico in rapporto al consenso». Federica Mogherini confida «nell’azione della magistratura»; Lorenzo Dellai si rimette direttamente alla «speranza in Matteo (Renzi, ndr), espressa anche da Civiltà Cattolica».

In questo tripudio di trovate sarà difficile raggiungere una sintesi. Da dove partire? Per Laura Puppato, del Pd, «non dai distinguo ma dal mea culpa». Per Pippo Civati dalla «grande conflagrazione degli stoici», e cioè dar fuoco a tutto e tornare a votare. Ah, c’è anche Di Pietro, gli sembra davvero «la fotocopia di Mani pulite» e infatti le regole, dice, o non sono state fatte o «sono state fatte per aiutare i ladri». Di contributi così immediati ce ne sono a decine: c’è da «combattere contro l’idea perversa che lo Stato sia un bottino da spartirsi» (Nicola Zingaretti, governatore del Lazio); c’è da erogare «punizioni molto severe» (Pierluigi Bersani); anzi, più che severe, «esemplari» (Edmondo Cirielli, F.lli d’Italia). Una via aperta da Renzi con l’imputazione per alto tradimento ai corrotti, e appena rivisitata dal vicesegretario dell’Udc, Antonio De Poli, che invoca «tolleranza zero e una terapia d’urto». E qui ci sarebbe da elencare la profusione di spunti, arrivati da destra e sinistra, su come definire concetti elastici come tolleranza zero e terapia d’urto: revisione degli appalti, abolizione delle gare al ribasso, riforma del sistema dei controlli, annullamento delle deroghe, reintroduzione del falso in bilancio. E cioè, come dice Pino Pisicchio (leader del Centro democratico) in un drammatico slancio sinottico, ci occorre «una riforma dello Stato».

Da - http://lastampa.it/2014/06/08/italia/politica/le-mille-e-contraddittorie-proposte-per-cancellare-la-corruzione-oLpKZHNVTaP2UvUeZxxOEL/pagina.html
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« Risposta #100 inserito:: Luglio 18, 2014, 09:02:15 am »

Politica
17/07/2014

“Vietato dissentire”: così i partiti reintroducono il vincolo di mandato
Dal premier a Berlusconi, passando per Grillo: l’articolo 67 viene scavalcato

Mattia Feltri
Roma

Il primo ritocco alla Costituzione - in attesa della riformona in discussione a Palazzo Madama - è stato apportato senza annunci né discussioni e nemmeno voti. È entrato nella prassi politica così, come un improvviso soffio di vento per il quale è volato via l’articolo 67 dalla carta repubblicana, quello secondo cui «ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Traduzione: è libero di decidere come gli pare e non secondo gli ordini del capo. E però le disposizioni sono oggi all’opposto: ai deputati e ai senatori sembra essere stata negata anche soltanto l’ipotesi di avere un’opinione. Il vicesegretario del Partito democratico, Debora Serracchiani, mercoledì a Radio Anch’io, ha detto di non credere «che ci sia una questione di coscienza se si tratta di fare una riforma costituzionale che riguarda il Senato». Dunque i dissidenti non si appellino alla coscienza. È consentito farlo se si discute di matrimoni omosessuali o di fecondazione assistita, non se ci si sta occupando della più rivoluzionaria riforma della Costituzione nella storia della Repubblica. Lì la coscienza è fuori gioco, come la Costituzione. Prevale, secondo la Serracchiani, quello che nei partiti comunisti si chiamava centralismo democratico, ossia la necessità di votare secondo le decisioni della maggioranza, di modo che il dissenso non ostacolasse l’avvicinamento al Mondo Nuovo (Lenin scrisse nel 1906 «libertà di discussione, unità d’azione»). 

«Rimango ancorata all’idea che se si fa parte di un partito si resta ancorati anche alle regole democratiche che prevedono che quando il partito prende una linea, quella linea venga comunque rispettata», dice alla radio la Serracchiani, riconoscendo - nello spazio di un inciso - che esistono comunque delle libertà costituzionali. Matteo Renzi non si è infilato in simili tecnicismi, così contorti da qualche tempo a questa parte. Lui più bruscamente non riconosce dignità di pensiero agli oppositori. Non importa che cosa dicono, importa perché: sono gufi, sono conservatori, sono venali. «A mio giudizio - ha detto al Corriere della Sera - l’obiettivo dei frondisti è affermare l’elezione diretta per poter dire che il Senato deve avere ancora più poteri. Non si rassegnano all’idea della semplificazione e del fatto che non ci sia indennità per i senatori». E l’altra sera, nell’incontro coi parlamentari trasmesso in streaming, ha garantito di essere «pronto a governare il partito anche con chi non la pensa come me. Ma a condizione che sui tempi e sull’urgenza la pensiamo come gli italiani: non c’è un minuto da perdere». Dunque si fa subito: il dibattito no! Proprio come Silvio Berlusconi, che mercoledì, davanti ai parlamentari forzitaliani contrari alle riforme renziane, ha minacciato di dar lavoro ai probiviri, cioè - come è stato scritto su questo giornale - alla Santa Inquisizione dei partiti. 

 In Forza Italia chi dissente è un traditore, da tempo. «Andatevene», ha detto il capo, scorato dalle preoccupazioni processuali e sorpreso da un dissidio così vigoroso. Andatevene da Alfano, ha detto, andatevene insieme con Fitto. E poi ad andarsene (dalla stanza) è stato lui, mentre una decina dei suoi aveva la mano vanamente alzata: non è stato loro consentito di illustrare le ragioni di divergenza. E così, guarda un po’, stavolta ne esce alla grande Beppe Grillo, uno che il vincolo di mandato lo teorizza: chi devia dall’ordine impartito - dalla rete o dal vertice - se ne vada fuori dai piedi. Sostiene la teoria citando Simone Weil, una che peraltro diceva esattamente l’opposto. Stavolta, però, è andato tutto liscio. Nessuna idea dissonante con cui vedersela, nessun dissidente da espellere. Il Movimento cinque stelle ha marciato compatto, con una disciplina degna dei rivoluzionari di Lenin del 1906.

Da - http://lastampa.it/2014/07/17/italia/politica/vietato-dissentire-cos-i-partiti-reintroducono-il-vincolo-di-mandato-cEW7XnJRNMLCBoVExhjzAN/pagina.html
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« Risposta #101 inserito:: Luglio 19, 2014, 06:33:17 pm »

Politica
18/07/2014

Berlusconi, l’assoluzione e il solito derby all’italiana

Mattia Feltri

L’assoluzione di Silvio Berlusconi ha subito acceso il dibattito in Rete, un dibattito prevedibile siccome ripetitivo da un paio di decenni: chi ingiuria l’assolto perché rimane un criminale, chi la magistratura persecutrice (e in mezzo ci sono i giornali colpevoli di tutto). Ma un paese che amasse innanzitutto se stesso dovrebbe essere soddisfatto dell’assoluzione di un imputato, e a maggior ragione di un suo ex presidente del Consiglio, a qualsiasi schieramento appartenga. 

Per l’Italia, e per la sua non eccezionale immagine, è meglio sapere e far sapere di essere stata governata da un uomo che non ha commesso concussione né ha indotto alla prostituzione delle minorenni (soprattutto se quell’uomo è già stato condannato in via definitiva per evasione fiscale). Si tratta di una questione di orgoglio.

Naturalmente ognuno conserverà, ed è giusto che sia così, il giudizio sulla persona e sul leader: bisognerebbe convincersi che la moralità e le capacità di un uomo non coincidono con la sua fedina penale. E invece in queste poche ore si è infiammato il solito derby, utile soltanto a dimostrare che gli italiani – ma succede da secoli – sentono più l’appartenenza a una fazione che a una nazione.

Da - http://www.lastampa.it/2014/07/18/italia/politica/perch-lassoluzione-di-berlusconi-una-buona-notizia-per-il-paese-W2vQVmffDFnLuhGbxYBXlI/pagina.html
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« Risposta #102 inserito:: Luglio 19, 2014, 06:55:39 pm »

Paesi & buoi
19/07/2014
Menti raffinatissime

Mattia Feltri

Le cose non sono mai come sembrano, specie a uno sguardo facilone. Per esempio, menti raffinatissime ci spiegarono che cosa stava dietro al Rubygate e alla successiva condanna: era parte di un diabolico piano per accoppare Berlusconi.

E adesso altre menti raffinatissime ci spiegano che cosa sta dietro l’assoluzione: è parte di un piano diabolico per resuscitare Berlusconi.

Rimane un solo mistero: come possa andare a rotoli un Paese così traboccante di intelligenze.

Da - http://lastampa.it/2014/07/19/cultura/opinioni/paesi-e-buoi/menti-raffinatissime-mkWgo6LODklELzH3K1eDeK/pagina.html
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« Risposta #103 inserito:: Agosto 26, 2014, 06:03:06 pm »

Zanzare killer e vecchi compagni. Da Togliatti, quel che resta del Pci
Al Verano, un manipolo di ex comunisti per i 50 anni della morte del Migliore. Delle nuove generazioni solo il ministro Orlando: “Fu una figura decisiva”

22/08/2014

Mattia Feltri
Roma

Dice Ugo Sposetti (senatore del Pd ed ex tesoriere dei Ds) che il 21 agosto del 1964, quando seppe della morte di Palmiro Togliatti, stava raccogliendo nocciole a Soriano nel Cimino, provincia di Viterbo. «Avevo diciassette anni e lavoravo per pagarmi gli studi». Lo dice al Verano, il cimitero monumentale di Roma, a pochi passi dalla tomba secondaria del Pci. Lì sono sepolti Sibilla Aleramo, la poetessa che fu l’amore di Dino Campana e fu fascista e poi comunista.

E anche Ottavio Pastore, il direttore dell’Unità che nel 1924 sfidò a duello Curzio Malaparte, ma ne uscì ferito e sconfitto perché non sapeva maneggiare la spada, e poi Aldo Lampredi, che partecipò alla fucilazione di Benito Mussolini a Giulino di Mezzegra, e Francesco Misiano, che portò Douglas Fairbanks a Mosca, distribuì la Corazzata Potëmkin in Germania e morì di crepacuore quando Mosca lo accusò di deviazionismo trotzkista. Una specie di tomba di famiglia. Anzi, una tomba di partito, perché nel Pci gli affetti venivano dopo la politica. Questo è giusto un angolino di lettere cadenti dalle lapidi e popolato da zanzare killer. Niente a che vedere col famedio.

Ieri, poco dopo le nove di mattina, una manciata di ex comunisti si è radunata all’ingresso principale del Verano per poi dirigersi in auto al famedio dov’è sepolto Togliatti (il Verano è il più grande cimitero d’Italia, percorso da un sistema viario lungo trentasette chilometri). Volti conosciuti: Sposetti ed Emanuele Macaluso. Dice Macaluso che è qui, e ci viene a ogni anniversario, se appena può, per motivi sentimentali: «Ho lavorato cinque anni con Togliatti, e fu decisivo per la mia crescita politica e culturale». Cinquant’anni fa era nella segreteria politica del Pci ed era in sede, in via delle Botteghe Oscure, quando dall’ambasciata di Russia lo avvertirono che il Migliore era morto a Yalta in conseguenza di un ictus. Il Togliatti che ricorda oggi Macaluso è quello che con la svolta di Salerno - cioè l’ingresso nel governo di Pietro Badoglio con i Partiti di liberazione nazionale - gettò le basi su cui avrebbe poggiato l’Assemblea costituente e cioè la Repubblica italiana. «E’ un padre della nostra democrazia, insieme con Alcide De Gasperi, con Pietro Nenni, con Ugo La Malfa, uomini che ci hanno insegnato come si stabiliscono le regole della convivenza politica. Ma sono tempre che oggi, purtroppo, non ci sono più».

Al famedio saremo in quaranta, forse cinquanta compresi i giornalisti. È arrivato anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Per l’età media dei partecipanti è un ragazzino. Ha 45 anni ma ha fatto in tempo, a venti, a essere eletto in consiglio comunale col Pci a La Spezia. Non è qui per conto del partito, dice. È qui e rappresenta sé stesso per «rendere omaggio a una figura decisiva nell’edificazione della nostra democrazia». Orlando dice che, a prescindere da calcoli ereditari ed elencazioni di pantheon più o meno utili, Togliatti non andrebbe dimenticato. Con tutte le contraddizioni della biografia eccetera. 

Il ministro centra il punto in pieno proprio nei giorni in cui si litiga sull’idea di intitolare ad Alcide De Gasperi la festa dell’Unità. Si ripensa all’agiografia perenne che si fa di Enrico Berlinguer. Si ripensa alle figurine e ai poster incollati sulla carrozzeria del partito a ogni revisione, coi Martin Luther King e i Nelson Mandela, calzanti a ogni coscienza, con i democristiani Aldo Moro e Giorgio La Pira, con l’America superbuona di Bob Kennedy e Barak Obama, e l’ultima volta nell’elenco saltò fuori di tutto, da Gandhi a Federico Fellini, fino a Italo Calvino e persino l’ex nemico pubblico Bettino Craxi. Un bel sintomo di totale confusione identitaria, e dire che il pantheon è qui, in pietra, disegnato all’inizio degli anni Settanta dall’architetto Gualtiero Costa. Come dice lo scrittore Fulvio Abbate, le lapidi che salgono alternativamente danno l’idea di una bocca sdentata. 

La cinquantina scarsa di celebranti rimane qui giusto qualche minuto, in silenzio. Nessun discorso. C’è la figlia adottiva di Togliatti, Marisa Malagoli. C’è Antonio Rubbi, vecchio dirigente della sezione esteri. C’è una delegazione di Fiano Romano guidata da Giuliano Ferilli, il babbo di Sabrina. Ci sono - dicono qua - i compagni di Ravenna, i compagni di Milano. C’è uno dell’Anpi che dice: «Quando dicono che manca Berlinguer rispondo che mi manca il partito». 

Scendiamo di sotto, guidati da una specie di “responsabile morti del Pci” dove ci sono le tombe. Eccolo il pantheon. Altro che idoli quartaginnasiali, Nobel per la Pace e Oscar alla carriera. In pochi metri quadrati ci sono (oltre a Togliatti) Nilde Jotti, Luigi Longo, Pietro Secchia, Giuseppe Di Vittorio, Ruggero Grieco, Mauro Scoccimarro, Mario Alicata, Camilla Ravera, Luciano Lama e tanti ancora. In pochi metri quadrati c’è un bel po’ di storia italiana, e molta storia della sinistra, nel tanto bene e nel tanto male che sono propri del Novecento. È una storia che sono rimasti in pochi a non aver rimosso, e oggi sono qui.

Da - http://lastampa.it/2014/08/22/italia/cronache/zanzare-killer-e-vecchi-compagni-da-togliatti-quel-che-resta-del-pci-laBbfhl3gSjrhG9STrmSiP/pagina.html
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« Risposta #104 inserito:: Settembre 14, 2014, 06:30:04 pm »

L’ultimo smacco per Silvio Berlusconi, ormai non comanda più nemmeno nel suo partito
Forza Italia né di lotta né di governo. E divisa dalle faide
Continua la fronda nel partito contro il leader

14/09/2014

Mattia Feltri
ROMA

Vasca dopo vasca, il mondo non dev’essergli sembrato un labirinto, ma una piscina. Sicché i suoi percorsi, che a noi popolino paiono sclerotici e rapsodici, per lui - per Silvio Berlusconi - sono tracciati liberi e lineari. 

Li affronta come quei nuotatori su con l’età, che trasformano la bracciata in un ceffone per togliersi di torno ostacoli e intrusi. Nuotava, quest’estate ad Arcore, anche se odia l’acqua. Si dice che per ribrezzo non abbia messo piede in mare in vita sua: si è sottoposto alla tortura soltanto per ragioni di linea (la classica dieta ferrea) e in cambio di dosi massicce di cloro. Gli è tornata così l’uveite, l’infiammazione all’occhio per cui in marzo si presentò in Senato con degli occhiali da sole da boss moldavo. Nuotava concentrato sulla sorte maledetta - di condannato in Cassazione e in piscina - e tutto il resto era scocciatura. 

«Non ci risponde più al telefono», è la geremiade collettiva e ormai antica dei forzitaliani. Riceve soltanto i soliti e ogni decisione, compresa quella su Antonio Catricalà alla Corte costituzionale, viene recapitata alla truppa con l’accortezza di un bigliettino lasciato al maggiordomo. È soltanto una questione di stile: lì dentro si è sempre fatto quello che diceva il capo, finché era a piede libero e non ancora così disgustato dalle relazioni di partito, e si prendeva la briga di convocare riunioni di modo da spacciare l’ordine per unanimità. Tempi remoti. 

Quando si trattò di incontrare Matteo Renzi al Nazareno, Berlusconi tenne uno degli ultimi incontri coi parlamentari e comunicò la scelta per poi mollare lì tutti, coi loro dubbi e le loro rimostranze da rimettere in tasca: parlatene fra di voi, se ci tenete. Fu interpretato come un segno di debolezza, e probabilmente lo era. Trattare gli altri da dementi non è un atto di autorevolezza. E poi si sa quali leggi regolano le comunità: quando Berlusconi aveva i denari, i voti, e non era semi-ingabbiato per esiti penali, era più complicato fargli la guerra. Ora gliela si fa e per mille ragioni.

L’uveite stavolta ha costretto l’ex premier a farsi vedere sulle tribune di San Siro con gli occhiali da vista. Anche questo è un allegro mistero che ci insegue da lustri: in passato ci vedeva perfettamente, oppure portava lenti a contatto? 

 
L’ozioso dibattito conta soltanto per chi, anche questo settembre, conta gli anni (78 il giorno 29) e ne trae indicazioni. L’immagine, con Berlusconi al centro, la figlia Barbara a un lato e Adriano Galliani all’altro, è la definitiva istantanea del momento: vecchi amici con cui ha costruito l’impero e giovani leve a cui avrebbe voluto lasciarlo, se non gli si stesse sfarinando fra le dita, come la malinconica campagna acquisti della società rossonera dimostra stagione dopo stagione. 

Una volta dà sponda ai primi, quell’altra la dà ai secondi. Si prenda il caso di Renato Brunetta: ogni tre per due arrivano notizie da Arcore sull’irritazione del boss per la guerriglia mossa dal Mattinale a Matteo Renzi; poi Brunetta viene ricevuto (uno che ancora ce la fa perché, oltre a strepitare in anarchia come gli altri, ci mette un po’ di ciccia) e quando ne esce spiega: «Mi ha dato ragione su tutta la linea». Dunque: Berlusconi ne vede pochi e quei pochi li accontenta tutti, infischiandosene del caos conseguente. E intanto delega a Mariarosaria Rossi il compito di tenere a bada quei gattoni spelacchiati del partito, e lei lo fa con la grazia curvaiola con cui ha liquidato Raffaele Fitto e la sua eterna battaglia per le primarie. Il dibattito politico, con lei, è concentrato sulla questione dei soldi che i parlamentari non versano al partito - altra azienda berlusconiana coi conti non proprio solidissimi - e la faccenda è riassumibile così: la Rossi dice che chi non paga non sarò ricandidato, e chi sa di non essere ricandidato (o rieletto) tanto più non paga. 

Spiega uno col cervello fino che Berlusconi ha oggi l’aria del cane dell’ortolano, che non mangia l’insalata e sta attento che non la mangino gli altri: né di lotta né di governo. Fosse un film, sarebbe perfetta la sequenza di lui che nuota e il rumore è soltanto delle mani che picchiano l’acqua. Insomma, è una cosa che gli fa schifo ma va fatta, e la deve fare lui soltanto, senza rompitasche fra i piedi. La sua vasca è il mondo del renzismo in cui restare a galla. Dare una mano al premier su tutto, farlo durare, collaborare ai suoi successi (sempre se successi saranno) per ottenere il massimo, e cioè la riabilitazione: salutare la politica da vincitore morale di un ventennio che si compie, infine, con la scomparsa degli avversari e l’avvento di un giovanotto non prevenuto e replicante, salutarla da padre costituente e non da frodatore fiscale. Tutti fermi e tutti zitti sinché Strasburgo non si pronuncerà sulla condanna in Cassazione e sull’espulsione dal Senato, attesa ad Arcore con l’ottimismo dei giorni di sole. Ma il problema drammaticamente trascurato è: avere ridotto Forza Italia a quartiere di gang non finirà col fare danni proprio a Berlusconi e a Renzi?

Con tutto il tempo libero che aveva, quest’estate si è anche guardato in dvd i discorsi di Benito Mussolini e Adolf Hitler. Interesse puramente storico, naturalmente. Feticismo culturale. Il Duce e il Fuhrer, due che - convinti o obbligati - non si sono mai arresi, nemmeno all’evidenza. E infatti una vocina amica suggerisce l’interpretazione finale: nell’intervista a Repubblica di un paio di giorni fa, Mariarosaria Rossi non ha rilanciato la candidatura di Marina Berlusconi (che ha i suoi guai coi bilanci della Mondadori), ma di «un Berlusconi». Magari uno ripulito dalla Corte europea, uno che rifà la Costituzione, uno che non si arrende mai, nemmeno all’evidenza.

Da - http://www.lastampa.it/2014/09/14/italia/politica/lultimo-smacco-per-silvio-berlusconi-ormai-non-comanda-pi-nemmeno-nel-suo-partito-pIAfOD8f2dVSfTtBWFA3LM/pagina.html?ult=1
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