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Autore Discussione: MATTIA FELTRI.  (Letto 75105 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Marzo 02, 2011, 06:45:25 pm »

Politica

02/03/2011 - IL CASO

Fare leggi? No, l'onorevole deve cambiare casacca

Nel '01-06 produttività legislativa più che doppia coi Berlusconi 2 e 3

Bassa produttività e assenteismo: così funzionano Camera e Senato.

Berlusconi ha buon gioco nel riproporre il taglio dei parlamentari

MATTIA FELTRI
ROMA

Alla Camera lavorano cinquantasessanta persone», ha detto lunedì Silvio Berlusconi, ripromettendosi per la centesima volta di ridurre drasticamente il numero dei parlamentari. In quel momento, in aula c’erano ventiquattro persone. Diciassette funzionari, il presidente di turno (Rosy Bindi), quattro deputati del Partito democratico (Guido Melis, Nazzareno Oliverio, Alessandro Bratti e Roberto Giachetti), uno del Pdl (Roberto Tortoli), un rappresentante del governo (il senatore e sottosegretario all’Istruzione Guido Viceconte). «Abbiamo presentato questa mozione - stava dicendo Oliverio - per scuotere il governo».

Ma né Viceconte né Tortoli si sono scossi. Si discuteva di «iniziative per la bonifica dei siti contaminati di interesse nazionale» e va ricordato che era lunedì, che tradizionalmente di lunedì i palazzi della politica sono deserti, sebbene non si capisca che cosa abbia di così straordinario il lunedì, per i rappresentanti del popolo, né perché si stabiliscano lavori destinati al dileggio di seicentoventiquattro assenti su seicentotrenta. Quando si stendono articoli come questo, le premesse sono necessarie. Si premette che lunedì alla Camera circolavano altri sette o otto deputati, come per esempio il leghista Raffaele Volpi, della sezione di Capriolo, provincia di Brescia, che proprio ieri ha inviato un messaggio al presidente Gianfranco Fini: «Va a ciapà i ratt».

Si premette che ieri erano molto più numerosi e, a proposito di produttività, che le leggi varate non sono un indice definitivo, che i criteri adottati dall’associazione OpenPolis (tipologia di atto, consenso ricevuto dall’atto, il suo iter, la partecipazione del parlamentare ai lavori) sono stati ieri criticati da Massimo D’Alema («Non riflettono la complessità del lavoro del parlamentare»), giunto seicentoventunesimo su seicentotrenta, ed elogiati lunedì dalle quattro parlamentari del Pd risultate ai primi quattro posti per redditività. In ogni caso, nel corso della XIV legislatura (2001-2006, presidente Berlusconi) sono state approvate 147 leggi di iniziativa parlamentare (una media di due e mezzo al mese); nella legislatura successiva (2006-2008, presidente Romano Prodi) ne sono state approvate 13, cioè circa una legge ogni due mesi; infine, in questa legislatura si è avuta una leggera risalita a 37 leggi, e cioè praticamente una al mese. Se si guarda alle leggi di iniziativa governativa, il calo è ancora più evidente: circa nove leggi al mese nel 2001-2006, poco più di quattro nel 2006-2008, poco meno di cinque nel 2008-2011. Ma, insomma, a parte queste due ultime drammatiche legislature, quella 2001-2006 ha generato 686 leggi, quella precedente (1996-2001, premier Prodi, D’Alema, Amato) ne ha generate 898.

Anche se ha risvolti sclerotici, ce ne si rende conto, il misurare il valore di un Parlamento per la quantità di norme sfornate e quella di un ministro (alla Semplificazione, Roberto Calderoli) per la quantità di norme cancellate. Detto questo, farà un pochino impressione notare che dall’inizio dell’anno sono state approvate tre leggi, tutte e tre uscite dall’esecutivo, e stiamo parlando di un esecutivo che, nella penultima seduta del Consiglio dei ministri, ha visto il suo presidente scocciato coi colleghi, che poco lo aiutano a rimpolpare un ordine del giorno sempre più miserello. Per i feticisti, si tratta di disposizioni sull’etichettatura dei prodotti alimentari, sul ciclo dei rifiuti in Campania, su vari trattati internazionali. Forse sono altre le cifre più adatte a esprimere il senso di quest’ultimo giro di Camere. In 34 mesi, i 945 parlamentari hanno prodotto soltanto 37 leggi ma ben 113 cambi di casacca.

E cioè sono 113 (85 deputati e 28 senatori) i parlamentari che dall’inizio della legislatura hanno cambiato gruppo. Nella legislatura 2001-2006, furono 103 in cinque anni, una media di venti all’anno. Qui la media sale a quasi quaranta all’anno, per un incremento del cento per cento. Ma il numero di 113 è impreciso, perché ci sono parlamentari (per esempio Silvano Moffa, Maria Grazia Siliquini e Catia Polidori) che hanno cominciato la legislatura nel Pdl, l’hanno proseguita tra i finiani di Futuro e Libertà, sono quindi transitati nel Misto per approdare, provvisoriamente, nei gruppi dei Responsabili. Pertanto i cambi di maglia salgono a 134, sempre che nella serata di ieri non ce ne siano stati di ulteriori. Non sarebbe strano, visto che alcuni (come Pasquale Viespoli e altri senatori ex finiani) risultano iscritti a gruppi dai quali hanno già deciso di andarsene.

Uno dei problemi riguarda la composizione delle commissioni: l’addio di Fini e dei suoi alla maggioranza ha causato uno squilibrio per cui in alcune commissioni cruciali il governo è in minoranza. Creare nuovi gruppi (i Responsabili, quello in arrivo di Gianfranco Miccichè...) significa ridiscutere le presidenze e le composizioni per esempio della bicameralina per il Federalismo e della commissione Bilancio della Camera. Sono queste le aritmetiche cui sono destinati gli sforzi dei nostri. E sì che l’attuale legislatura doveva essere quella del riscatto dei parlamentari dalla fama di nullafacenti. Fini aveva ipotizzato un mese composto da tre settimane lavorative complete, comprensive di lunedì e venerdì di sgobboneria matta e disperatissima, e una di libertà perché i parlamentari curassero il collegio, sebbene i collegi, in pratica, non esistano più: per garantirsi un futuro nel palazzo e una serena vecchiaia, deputati e senatori necessitano semmai dell’apprezzamento dei leader, che li rimetteranno in lista e in zone più o meno sicure. Così oggi tutto sembra ridotto a guerra di trincea - e la trincea è il Parlamento - dove gli eletti danno l’impressione di esercitare la libertà di mandato più come una libertà di mercenarismo.

E dove anche l’arbitro sommo è da molti reputato un capitano di ventura. La conseguente desacralizzazione è un passo già compiuto, con Umberto Bossi che infrange le regole marmoree portandosi il figlio Trota al ristorante della Camera - fin qui severamente riservato a parlamentari ed ex - e sfumacchiando un sigaro alla capogruppo, alla faccia delle impotenti proteste di Fini.

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« Risposta #31 inserito:: Marzo 06, 2011, 11:44:44 am »

Politica

06/03/2011 - CRISI POLITICA - LA FINE DELLE IDEOLOGIE

Dispersa e senza leader la diaspora della destra italiana

La Seconda Repubblica l'ha portata al governo ma ha distrutto la sua identità

MATTIA FELTRI
ROMA

D’improvviso, mentre la Seconda Repubblica volge a sera, la destra non c’è più. Se ne raccattano i pezzi, gli storaciani nel loro semi-ghetto, i berlusconiani aggrappati al governo, i finiani vaganti altrove. Ci sono pure gli apolidi, Domenico Fisichella a casa, i Silvano Moffa e i Pasquale Viespoli perduti nei gruppi misti parlamentari. Il fascismo fu archiviato con tutto il Novecento in sbrigativi congressi o addirittura in isolate e apodittiche sentenze ma, quando sarà conclusa la galoppata di Silvio Berlusconi, è la destra che rischia di svaporare senza un lamento.

Perché adesso? Perché nel lampo di pochi anni? «Perché tutto è finito», dice Pietrangelo Buttafuoco, il più affascinante fra gli intellettuali usciti dal Movimento sociale. L’arrivo della stagione del potere, spiega, ha dato l’occasione a ognuno «di farsi i fatti propri». Alessandro Giuli (vicedirettore del Foglio di Giuliano Ferrara e autore del Passo delle oche , bel saggio edito da Einaudi che quattro anni fa analizzava la sterile identità postfascista e i guai che ne sarebbero derivati) condivide e la spiega così: «Il Movimento sociale era programmato per rispettare una leadership carismatica, magari contendibile ma non contestabile. Fosse Romualdi o Almirante non importava, ci si divideva in correnti, ma davanti a un leader indiscusso».

C’era naturalmente l’istinto di sopravvivenza del branco, dice Giuli. C’era l’arco costituzionale, i fascisti erano i topi di fogna, «e magari nelle sezioni ci si prendeva a cazzotti, ma fuori i comunisti ci davano la caccia. Fuori si rimaneva una falange», dice Giuli. Quando non è più una questione di sopravvivenza, quando arrivano Berlusconi e il potere, «il gruppo dimostra di non avere tenuta. Già nella legislatura 2001-2006, Gianni Alemanno coltivava relazioni col mondo cattolico, Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri erano detti berluscones e restavano con Fini per un rapporto personale alla lunga insufficiente», osserva Giuli.

E Buttafuoco rincara: «Una destra al potere la si penserebbe capace di dare una struttura all’establishment, di avere legami stretti con la scuola, con l’università, con la magistratura, con l’esercito. Non è successo niente di tutto ciò. Pure alla Rai, che è l’industria culturale, ci si è limitati a piazzare qualche parente e qualche famiglio». Buttafuoco aggiunge che non è stata formata una leadership, e in effetti le facce sono le stesse da anni. Insomma, è una destra che non resiste a Berlusconi e alla prova del potere. Ma qui Luciano Lanna (firma del Secolo di Flavia Perina e autore del Fascista libertario , un manifesto culturale del neofuturismo appena uscito con Sperling & Kupfer) devia un poco: «Non credo che nella diaspora attuale c’entri la conquista del potere.

Penso si tratti di una scomposizione e ridefinizione post-ideologica. La Prima Repubblica ha tenuto sulla barricata missina persone profondamente diverse fra di loro, e le ha tenute insieme provocando grossi equivoci. C’erano i nostalgici, c’erano i conservatori, ma c’erano quelli come me che di destra non erano, che leggevano Junger e Pavese, che già allora si sentivano più vicini ai radicali, ai socialisti, al giovane Francesco Rutelli che a Storace». La ratifica è di Buttafuoco: «Soltanto per ignoranza ci si stupisce che alcuni fra i finiani dicano cose di sinistra. Ma le dicevano ai tempi dell’Msi... Quello era un partito all’avanguardia, che si permetteva libertà sconosciute ad An o al Pdl e al Fli. Nel Msi c’era dibattito, spazio per tutte le idee, fermento, persino lacerazione. Questo improvviso e recente incendio, questo prevalere delle tensioni culturali, lo trovo molto interessante».

Lo sarà, soprattutto, se contribuirà a un passo ulteriore. Ne dubita Giuli, che considera quelli come Lanna «la cosa più genuina prodotta da Fli». Ma nel loro portentoso ecumenismo culturale, Giuli vede «una danza infinita sopra l’immaginario, da Evola ai Beatles (cita un capitolo del Fascista libertario , ndr)... un clamoroso complesso di inferiorità». Non sarà da lì, dice Giuli, che uscirà una destra nuova. «Il fallimento attuale è figlio della liquidazione del fascismo senza l’elaborazione del lutto, soltanto perché un giorno Pinuccio Tatarella ci disse di levarci i calzoni neri e di indossare la grisaglia. Non si diventa grandi così.

Forse una destra nuova, interessante, sorgerà soltanto al collasso della Repubblica antifascista», è la conseguenza che trae Giuli. E sul punto non è lontano Lanna: «Io non faccio politica dal 1991. Non ho mai votato An ma voterò Fli. E spero che davvero sia arrivato il momento di buttare a mare destra e sinistra. Mi immagino un’alleanza della politica contro l’antipolitica, e soltanto dopo si riuscirà, spero, a cogliere quella fantastica occasione mancata con la Bicamerale del ‘97, quando ex fascisti ed ex comunisti stavano riscrivendo la Costituzione e cambiando la storia».

Un refolo di ottimismo che a Buttafuoco non muove un capello: «Temo che la destra sia legata inevitabilmente a dei blocchi sociali o delle stagioni, e che non sia capace di radicarsi, come dimostra la lunga stagione berlusconiana durante la quale non si è costruito nulla. Osservo. In particolare non mi piace nessuno. Dedico le mie simpatie a Casa Pound, l’unico luogo dove ancora si fronteggia il pregiudizio».

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« Risposta #32 inserito:: Aprile 13, 2011, 11:28:43 am »

Politica

13/04/2011 - PROCESSI BREVE- REPORTAGE

E alla fine l'iPad sconfigge il ripasso della Costituzione

L'ex ministro della Difesa Martino passa il tempo giocando a carte

I deputati del Pd leggono la carta gli altri giocano con la tavoletta

MATTIA FELTRI
ROMA

Il momento di massima tensione è stato raggiunto quando Marco Milanese, deputato del Pdl e braccio destro del ministro Giulio Tremonti, ha preso la rincorsa. Il dibattito languiva nella schermaglia procedurale e nel disperato e scialbo ostruzionismo ai quali era affidato il compito di dare un senso alla giornata. Milanese, concentratissimo, con un abile gesto dell’indice ha mandato il bomber a un impatto straordinario: la palla ha scavalcato la barriera e si è infilata proprio sotto l’incrocio dei pali, col portiere vanamente proteso in tuffo, come diceva ai bei tempi Sandro Ciotti; un’improvvisa vampata dell’aula con urla e battimani ha scosso Milanese, il quale per una frazione di secondo si era forse risvegliato all’Olimpico. E per fortuna che c’era l’iPad, vien da dire. Perché, per esempio, il povero ministro Gianfranco Rotondi è rimasto più impagliato che seduto ai banchi del governo per tutto il santo pomeriggio e non si è azzardato a uscire dall’aula nemmeno per due minuti quando l’iscritto a parlare ne aveva a disposizione cinque: non si sa mai che arrivi il blitz, e la maggioranza va sotto. Le disposizioni sono disposizioni.

E infatti ieri si è svolta la classica sfida fra cyber eserciti perfettamente progettati per la craniata frontale: ogni deputato, di destra e di sinistra, pareva fare e dire in base al software, e fino alla parodistica scena di Tonino Di Pietro che interviene per le dichiarazioni di voto col codice di procedura penale sul banco. Persino allo schema a sorpresa, di quelli lungamente studiati in allenamento, non è riuscito di sparigliare: Roberto Giachetti, segretario d’aula del Pd (su idea di Dario Franceschini) si era impegnato in uno sfiancante su e giù per le scale, a raggiungere i colleghi di partito con foglietti di carta ognuno dei quali conteneva - si sarebbe scoperto poi - un articolo della Costituzione. Il tutto era stato pianificato in una serie di conciliaboli così fitti che parevano preludere strategie all’altezza di Austerlitz. A uno a uno sono intervenuti i democratici, a cominciare dai campioni, Pier Luigi Bersani, lo stesso Franceschini, Massimo D’Alema, Walter Veltroni e così via. Ma la lettura degli articoli aveva suscitato all’inizio gli applausi scontati del centrodestra, poi quelli ironici e infine un rassegnato silenzio.

E meno male, dunque, che c’è l’iPad. Una profusione di tavolette. Specie a destra, non c’è parlamentare che non lo possegga e non lo maneggi. A parte quelli ispirati da Milanese, e afflitti dalla difficoltà di centrare il sette, i più scorrazzavano lungo i video di YouTube e le piccanterie di Dago. Il leghista Giacomo Chiappori si applicava a un solitario di carte. L’ex ministro Antonio Martino a una specie di Tetris. Il pidiellino Giulio Marini era alle prese con un complicatissimo gioco di pallette da tennis, o qualcosa del genere, che tendono a moltiplicarsi fino a invadere lo schermo. La sfortuna di costoro è di alloggiare proprio sotto le tribune dei giornalisti mentre i deputati di sinistra sono sovrastati dalle tribune degli ospiti che ieri sono state occupate anche da una delegazione di diplomatici iraniani, e soprattutto diplomatiche col velo nero, contro i quali si è rivolta, con gesti e urla, l’onorevole Souad Sbai, nata in Marocco e particolarmente sensibile alle questioni femminili nel mondo arabo.

Giusto un diversivo, perché per il resto la litania non si è interrotta neppure in serata, dopo la sospensione per la cena. Lo schema era chiaro. Quelli del Pdl tutti zitti per non perdere tempo (la legge bisogna votarla entro oggi, quando la seduta riprenderà, perché non ci siano ripercussioni penali sul presidente del Consiglio e di carriera sui suoi eletti). Quelli del Pd (terminata la Costituzione) per le medesime ragioni sono intervenuti nel numero massimo possibile, e sostanzialmente per dire vergogna, sfregio, maledizione, poveri magistrati, eccetera. Quelli dell’Italia dei Valori non erano da meno: la loro era una Spoon River dell’Italia contemporanea, un deputato ricordava i morti dell’Aquila, un altro quelli di Viareggio, un terzo quelli della Thyssen, e nella loro opinione rimarranno senza giustizia a causa della prescrizione. Ecco, proprio mentre era il turno del cognato di Di Pietro, Gabriele Cimadoro, le pallette gialle avevano già invaso metà schermo dell’iPad di Giulio Marini, che tuttavia si batteva valorosamente.

Un premio se lo meriterebbe per l’abnegazione proprio Giachetti del Pd. Ha cercato in tutti i modi, scavando nei regolamenti, nella prassi, nella giurisprudenza d’aula un appiglio qualsiasi per guadagnare un giorno o anche soltanto qualche ora. Ha accusato il presidente Gianfranco Fini di essere ingiusto con l’opposizione per risparmiarsi qualcuno degli schiaffi che gli arrivano da destra. Le pallette di un trafelato Marini erano a tre quarti, e a quel punto ci si metteva anche Giuseppe Moles, suo emulo e vicino di banco. E lì è stato evidente l’autogol del ministro Angelino Alfano che ha elencato i tempi delle prescrizioni: si ridurranno di un’inezia, ha detto. Di modo che tutti, a cominciare da Pierferdinando Casini, gli hanno chiesto: «E allora perché lo fate? Perché è utile a uno soltanto!», e cioè al premier, più altre considerazioni che non sappiamo restituirvi perché proprio in quel momento le palle tracimavano, e in un flebile lamento Marini capitolava.

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« Risposta #33 inserito:: Aprile 17, 2011, 05:09:18 pm »

Politica

17/04/2011 - REPORTAGE

E il Capo dà la carica ai mille della Brambilla

"Per continuare a vincere abbiamo bisogno di forze nuove"

MATTIA FELTRI
ROMA

Alla politica del fare pare sempre corrispondere quella del disfare. E così l’inesauribile Michela Vittoria Brambilla, dopo essersi inventata i Circoli e la Tv della Libertà, celebri iniziative mai iniziate, o a quantomeno prematuramente scomparse, si ridona un certo lustro con le associazioni Asdi. Prima di elencare le migliaia di sedi e di servizi della associazioni Asdi, va però spiegato che, come al solito, la scaltra Brambilla ha soprattutto offerto il destro a Silvio Berlusconi per augurare il buon appetito ai gerarchi banchettanti. Da un paio di settimane, infatti, graduati e sottufficiali del Popolo della Libertà si raggruppano e si dividono nei migliori ristoranti della Guida Michelin Roma. E a tavola stringono alleanze, appianano contrasti, smussano divergenze e stabiliscono le quote di spartizione del partito. Quanto Berlusconi apprezzi questo lavorio da notabili, è testimoniato da una frase pronunciata ieri con grazia sopraffina: «Per continuare a vincere, abbiamo bisogno di forze nuove».

A quel punto tutto ciò che sin lì si era presentato nelle sembianze del movimentismo estemporaneo, dell’ennesimo tentativo abborracciato di radicarsi nel mitico territorio, persino nella classica chincaglieria berlusconiana, ha assunto bel altro aspetto.

E allora, ricominciando daccapo, ieri al Palazzo dei congressi dell’Eur il ministro del Turismo ha alzato il sipario sulle Associazioni “Al Servizio Degli Italiani”. Lo scopo delle associazioni è di mettere in piedi una rete di centri nei quali chiunque va per ricevere assistenza fiscale o legale, cercare lavoro, difendersi dalle banche e degli istituti finanziari e così via. «Siamo mille e sessantotto», ha detto la Brambilla intorno alle 16.30 nell’accogliere il premier. Già oggi, connettendosi al sito alserviziodegliitaliani. it, si dovrebbe vedere dove saranno dislocati i mille e sessantotto centri e apprezzare nel dettaglio l’offerta. I mille e oltre titolati erano tutti lì, all’Eur, per la santissima benedizione. E altre centinaia e centinaia sono accorse nella speranza di conquistare il bollino Asdi e l’opportunità di tirare su la saracinesca.

Qualche infidissimo cronista ironizzava su questo mare di aspiranti Scilipoti, e tracciava il profilo antropologico in base alla metratura dei colletti o alla versione rosea o pervinca del principe di Galles. Stando su questo tono, c’erano tutti gli abiti e tutti i monaci, dal bocconiano al capobastone. Ironia, appunto, e anche piuttosto scontata. Agli stand, in realtà, i ragazzi ci davanodentro con le informazioni e le istruzioni, non c’è stata brochure o volantino che non ci sia stato illustrato, sottolineatoe rifilato, ed era naturalmente niente più che un giochino distinguere fra le aspirazioni filantropiche e la scilipotaggine dei convenuti. E l’unico vero incidente è occorso alla delegazione dell’Usae, la non famosissima Unione sindacati autonomi europei, spintasi fino a Roma per apparentarsi alle Asdi e giunta da Reggio Calabria sotto la guida del segretario regionale Francesco Raso solo all’ultimo momento: «Minchia, undici ore di autobus!». Era capitato, ha spiegato Raso, che «il presidente ci aveva garantito che la Salerno-Reggio Calabria era finita... Col piffero...».

Non sarà certo una promessa andata a vuoto a incrinare il rapporto fra i leader e il suo sempre rinnovabile popolo: in platea sembravano tutti accomunati dall’ammirazione incondizionata e dall’entusiasmo incontenibile. Difficile immaginare quanto Berlusconi conti di pescare lì dentro. Più automatico intuire, per tornare al succo, l’apprezzamento del capo per il feudalesimo dei principini. E, come si diceva, non è stato con slancio ma con gelida dolcezza che Berlusconi si è augurato che davanti a lui sedessero i sottoposti del futuro: «Dobbiamo ammettere che in tutti i partiti, anche nel nostro, a un certo punto si cade in una patologia forse inevitabile. Per cui chi è entrato da tanti anni con dedizione e idealità si ritrova poi in una posizione di potere locale o nazionale, e comincia a dare gomitate affinché i concorrenti non gli tolgano il posto...». Spalanchiamo le porte al nuovo, ha concluso intanto che lì sotto, raggiunto lo status di subentranti, tambureggiavano irrefrenabili.

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« Risposta #34 inserito:: Giugno 06, 2011, 12:40:14 pm »

6/6/2011

Il consiglio di guerra dei sopravvissuti

MATTIA FELTRI

Smarrito nel suo labirinto, Silvio Berlusconi sperimenta oggi una nuova possibilità: di essere messo spalle al muro da sottoposti e alleati nel summit di Villa San Martino che sarà animato dai capitani pidiellini (Tremonti e Alfano) e dai vertici leghisti.

Il presidente del Consiglio sentirà come sono salate le condizioni se non è lui a porle. La ridotta nella quale il premier si è asserragliato contro tutto e contro tutti, quasi a cercar la bella morte, non sarà l’ultima trincea di chi per diciassette anni gli ha combattuto al fianco. E quindi, se si deve tenere le armi in pugno, ancora, le si terrà secondo i nostri piani, prendere o lasciare: questo si sentirà dire il Grande Capo.

Quanto vogliamo andare avanti? Per fare che? Per quanto tempo? Con questa maggioranza? Soprattutto - scandalo degli scandali - al prossimo giro, chi sarà il nostro candidato a Palazzo Chigi? C'è poi la questione decisiva della manovra finanziaria, venti miliardi di euro da scucire in due anni, cinque subito, altri quindici nel 2013, e col pareggio di bilancio garantito all'Europa nel 2014. Mica niente. Intanto, diranno i cerberi a Berlusconi, non si pensi di vararla e di votarla alle condizioni di venti responsabili, arrivati in maggioranza con ragioni le cui solidità sono quotidianamente verificabili, fra ricompense pretese e spettacolari andirivieni. L’idea è di mettere in piedi qualcosa di più credibile e strutturale con l’Udc di Casini, che però in cambio non vuole una testolina qualsiasi, ma quella del capo del governo. L’alternativa c’è: elezioni anticipate al 2012.

Il riassuntone del menu di giornata è sufficientemente raggelante. Intanto fa una certa impressione un vertice sul futuro della legislatura e dell’esecutivo riservato in fondo a due leader soltanto, Berlusconi e Umberto Bossi, in confronto alla profusione dei tempi andati: potrebbe essere il sintomo di una coalizione moderna e sintetica, visti i consensi pare più il consiglio di guerra di pochi sopravvissuti. Poi si intravede senza grande sforzo un asse Bossi-Tremonti meno ipotetico del solito; la natura delle richieste sa tanto di linea concordata. Infine lo straordinario inedito di cui si diceva all’inizio: per la prima volta non è Berlusconi a imporre la linea. O meglio: sarà ancora lui a decidere, ma in un caso avrà ancora per un po’ il sostegno di tutta la coalizione, nell’altro sarà dolcemente e progressivamente abbandonato al suo destino. Insomma, un leader in ostaggio.

Davanti a questo quadretto c’è un Berlusconi in drammatica crisi non soltanto di consenso ma di idee. Oramai (incredibile il rimpastino con immissione di nove sottosegretari a dieci giorni dalle Amministrative, cose che neanche il più involuto dei Forlani...) il genio teatrale del premier, quello che ha rivoluzionato la prassi della politica italiana, sembra inaridito e involuto sino a cercare rifugio negli scialbi riti primorepubblicani. E dopo il ceffone del voto, Berlusconi pare aver fallito anche nella sua specialità: il lifting. Tutto si è concluso con la promozione del bravo Alfano, se mai predellini e fuochi d’artificio sarebbero bastati. Fosse un film, mancherebbe soltanto l’ultima scena: sta a Berlusconi, alle carte che ha in mano, al suo senso delle cose e della vita, stabilire il finale.

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« Risposta #35 inserito:: Luglio 16, 2011, 04:56:56 pm »

Politica

16/07/2011 - PERSONAGGIO

I deputati pronti a scaricare Papa ma nessuno conosce le accuse

Il ministro Maroni insieme al capogruppo della Lega Reguzzoni

Alla Camera i leghisti rivelano: «Non possiamo salvare anche questo»

MATTIA FELTRI

Roberto Maroni non aveva niente da dire. Alfonso Papa, il deputato che tutti vogliono in galera, era davanti a lui, in attesa. Silenzio assoluto. Si era spiegato, Alfredo Papa. Aveva speso i minuti concessi dal ministro per riassumere le sue ragioni. Per entrare nel merito. Per introdurre una «battaglia di verità», come l’ha chiamata con voce smaniosa e perduta. Ha allungato una copia delle sua memoria difensiva perché Maroni la leggesse e si facesse un’idea che nulla c’entri coi problemi di consenso della Lega, con la rabbia crudele di un elettorato esausto, con il cinismo gelido di chi esordì in Parlamento sventolando il cappio e oggi vorrebbe mostrare al popolo digrignante che sa sventolarlo ancora. Ma Maroni non aveva niente da dire e niente ha detto, ha ringraziato e fine.

E’ stata una giornata così, quella di Papa. Gironzolava per i corridoi della Camera più curvo del solito, lui che è alto alto, come se il voto della giunta lo avesse ulteriormente piegato, gli avesse stazzonato l’abito, gli avesse allentato la cravatta. Aveva gli occhi un po’ di fuori. Il sorriso smarrito e stampato intanto che Maurizio Paniz, componente pidiellino della giunta per le autorizzazioni a procedere, cercava di rassicurarlo, e intanto che il collega Mario Pepe gli spiegava che in ogni caso non sarebbe decaduto da parlamentare. Bella consolazione. Tutto intorno si notava ben altro volteggio...

Passa un parlamentare dell’Italia dei Valori. Si chiama Ivan Rota, un galantuomo. Gli si illuminano gli occhi. Spiega la diavoleria che si è inventato Federico Palomba, il membro dipietrista della giunta, per incastrare la maggioranza e mettere Papa spalle al muro. «E adesso l’aula...», dice affamato. Ma, onorevole Rota, lei sa quali sono le esigenze cautelari? Cioè, lei sa per quali impellenze Alfonso Papa non deve finire indagato o a processo ma proprio in carcere? «No», dice, «non lo so». Si incupisce appena: «Non sono un giudice e nemmeno un avvocato. E nel partito non mi occupo di queste cose. Sto soltanto riferendo...». E non è che altrove si rintraccino competenze o approfondimenti. Il drappello leghista brilla come al solito per prudenza: la richiesta dell’anonimato è protocollare, il contenuto della dichiarazione ciclostilato: «Se salviamo anche questo, come lo spieghiamo su ai nostri?». Bene. Ecco il colloquio tipo col deputato della Lega (ieri ne abbiamo avuti quattro, non dissimili l’uno dall’altro): onorevole, perché dovete votare sì all’arresto? «Perché non possiamo salvare tutti i maneggioni a causa di un’alleanza». Ma Papa è un maneggione? «Le carte parlano chiaro». Che cosa l’ha colpita in particolare? «I regali alle amanti, le consulenze alla moglie». Ma queste non sono gli addebiti di Marco Milanese? (domanda trabocchetto) «No... Anche di Papa mi sembra... Comunque più o meno... Difficile immaginarlo innocente». Ma qui si tratta di mandarlo in carcere. «Ma se è colpevole...». Se è colpevole lo condanneranno e vedremo a quanto, ma si tratta di andare in carcere adesso. «Noi sono anni che votiamo no e no a ognuna di queste richieste. Nessuno dei nostri deve poter pensare che stiamo al governo per salvare i mafiosi, i ladri, i corrotti... Adesso basta». Avete paura di perdere altri voti? «Altri voti? E quando mai li abbiamo persi?».

Le banche dati forniscono i precedenti: nella storia repubblicana, concessi quattro arrestidi deputati. Francesco Moranino nel 1955 perché, da partigiano, fece fucilare altri cinque partigiani e due delle loro mogli; Sandro Saccucci (del Movimento sociale) nel 1976 per omicidio, cospirazione politica e istigazione all’insurrezione armata; Toni Negri nel 1983 per reati inerenti al terrorismo armato; il missino Massimo Abbatangelo nel 1984 per detenzione di esplosivo. Durante la furia di Tangentopoli furono respinte ventotto richieste di arresto su ventotto. Ma stavolta si fa. Lo ha detto il capogruppo leghista Marco Reguzzoni: «Mercoledì (il giorno 20 in aula, ndr) voteremo sì all’arresto». Lo ha ripetuto poco dopo Umberto Bossi, chiacchierando con Gabriele Cimadoro, dipietrista per tessera e parentela (è il cognato) e successivamente rispondendo alla domanda su quale sarà il destino di Papa: «In galera».

«Io ora non posso dire niente», si scusa Papa. Si limita alle ovvietà. «Sono sereno». «Berlusconi è stato grande, mi è stato vicino sin dall’inizio». «Io credo nelle istituzioni: se mi toccherà la prigione, ci andrò». Degli altri, di chi lo vuole dentro, dei leghisti, dei pidiellini dubbiosi (come Nunzia De Girolamo) non intende parlare. Vota la fiducia e se la batte perdendosi così il premier, acciaccato e furente, che entra in aula e come è accerchiato incomincia l’arringa. Lo si vede da lontano, corrucciato, per niente amichevole, l’indice puntato su questo e su quello: «Dovete dire a tutti i deputati che votare sì all’arresto di Papa o di Milanese costituisce un precedente pericolosissimo, che pagheremo presto e lo pagheremo salato». E’ il solito generoso Berlusconi. Ma anche lui, alla fine, l’ha buttata in politica: salvate Papa, e salvatelo per la ragione di salvare voi stessi. E di salvare me.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/411770/
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« Risposta #36 inserito:: Luglio 28, 2011, 06:04:10 pm »

28/7/2011

Il momento sbagliato di Scozzoli

MATTIA FELTRI

La sindrome di Fabio Scozzoli, già conosciuta come sindrome di Willer Bordon, si manifesta in vari modi ma la costante è di arrivare al momento sbagliato, e puntualissimi, all’appuntamento col destino.
Fabio Scozzoli ieri ha vinto la sua seconda medaglia d’argento ai Mondiali di nuoto in contemporanea con il nuovo l’exploit di Federica. La prima l’aveva vinta lunedì, appena 24 ore dopo il titolo iridato nei 400 della Pellegrini, che però è un fenomeno, e le sue medaglie risplendono d’oro. Ieri non c’era un sito che celebrasse con foto e punti esclamativi i trionfi di Scozzoli: erano tutti presi dalle conquiste infinite della Pellegrini, comprese quelle del cuore, per cui in serata si rilanciavano gossip sull’ultimo filarino.

Fin qui il fuoriclasse era stato Bordon. Politico integerrimo ma non fortunatissimo, Bordon toccò il vertice dimettendosi da coordinatore di Alleanza democratica (partito non indimenticabile messo su con Nando Adornato) un quarto d’ora prima che Achille Occhetto si dimettesse da segretario del Pds. Era il 1993. Non gli bastò. Con gesto plateale e cavalleresco, quindici anni più tardi si dimise dalla politica, dal Senato, insomma dalla casta, e lo fece la mattina in cui fu arrestata la moglie di Clemente Mastella, e il governo Prodi cominciò a cadere.

La storia è naturalmente piena di episodi simili. Il grande Carl Lewis inseguì per tutta la carriera il record del lungo di Bob Beamon, 9 metri e 90 e, dopo averlo mancato di centimetri per anni, realizzò a Tokyo il nove novantuno che tre minuti più tardi Mike Powell spazzò via con un incredibile nove e novantacinque. Il povero Roland Ratzenberger morì all’autodromo di Imola il giorno prima di Ayrton Senna, e così fu espulso anche dal libro della scalogna. Jonathan Franzen lanciò Le Correzioni - il romanzo che intendeva raccontare la psicosi della nuova America - l’11 settembre del 2001, giorno in cui le psicosi cambiarono per davvero. «Forza Italia», il documentario di Roberto Faenza, Antonio Padellaro e Carlo Rossella molto critico con la Dc, uscì in contemporanea col sequestro di Aldo Moro, e non finì meglio. La giovane Jo Moore, portavoce di un ministro inglese, l’11 settembre ebbe la prontezza e il cinismo di consigliare la diffusione di notizie indigeribili e occultate per mesi - aumenti di spesa e di tasse eccetera - intanto che i sudditi erano piuttosto distratti. Si sarebbe presto accorta che col virus di Bordon (e di Scozzoli) è meglio non scherzare.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9030
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« Risposta #37 inserito:: Agosto 04, 2011, 05:35:42 pm »

Politica

04/08/2011 - GOVERNO ALLE CAMERE- LA GIORNATA

In Parlamento noia, battute e l'urlo liberatorio: "Tutti in ferie"

Con i trolley in fuga verso stazione e aeroporto

MATTIA FELTRI
ROMA


L’ utilità della giornata che in apertura e in conclusione il presidente Gianfranco Fini ha definito «straordinaria» con pompa nient’altro che istituzionale - è stata perfettamente colta da Mario Pepe, deputato del Pd iscritto per ultimo a parlare. A quel punto l’aula era spopolata e in disarmo e chi s’attardava aveva l’aria dello scolaro che si incaponisce ancora un po’, per meglio gustare la prossima libertà: da oggi il Parlamento è in ferie. Ebbene, aveva parlato il premier Silvio Berlusconi, aveva messo briscola il segretario del partito Angelino Alfano e aveva replicato il segretario democratico Pierluigi Bersani (non uno dei tre era sfuggito al fiacco torpore di pre-villeggiatura). Poi, una volta passata la palla al capogruppo della Lega, Marco Reguzzoni, la vacanze erano ufficialmente cominciate.

Il popolo del trolley - questo splendido animale da palazzo che sgombra a metà settimana trascinandosi minuscole valigie dimensionate alla durata della trasferta - si era messo in moto. A ogni successivo intervento, c’era una quota di onorevoli richiamata alle dure responsabilità della partenza: eurostar, frecce rosse e voli di linea chiamavano senza requie. E così, per arrivare al punto, al nodo della giornata, al cruciale sbocco, quando è stato il momento di Mario Pepe non era rimasta di sentinella che qualche decina di colleghi, tutti in drappello, tutti disinteressati e così è loro purtroppo sfuggita la sentenza dell’on. Pepe, scolpita nel marmo a caratteri d’oro: «Che Dio ce la mandi buona».

Sono state le ultime e chirurgiche parole echeggiate nell’emiciclo in cui ne erano echeggiate, nel pomeriggio, di molte e di altisonanti e provenienti da autorevolissime bocche. Lo scopo era di illustrare il punto di vista del governo davanti al disastro borsistico e a quello dei titoli di Stato. L’esecutivo, dunque, che intende fare? Il presidente del Consiglio, in una prestazione eccitante come quella di un notaio svizzero, ha detto quello che dice da inizio legislatura, se non da inizio vita: va tutto bene, l’Italia è solida, le pensioni vanno che paiono un espresso, le banche sono fortezze Bastiani, se c’è qualche guaio dipende dal fatto che i mercati non ci capiscono un’acca eccetera.

Ecco. In una quarantina di minuti di discorso, si saranno contati sette o otto applausi, compreso quello finale dal sapore più liberatorio che giubilante. Subito dopo era stato il turno di Angelino Alfano, pressoché all’esordio al posto di Fabrizio Cicchitto. L’intera filosofia politica ed esistenziale di Alfano era riassumibile in una delle frasi d’attacco: «Se si litiga meno, si fa il bene del Paese». Poi, naturalmente, Alfano ha giocato un po’ all’oratore, ma quando Pierluigi Bersani con voce grave ha annunciato che l’intervento di Alfano lo aveva «impaurito», ci si è detti che era la prima volta che Alfano impauriva qualcuno. La ciccia non è facile da tirare fuori. Bersani è stato piuttosto dispersivo: «Presidente... eh... mica siamo qui... eh... a dirci questo e quello... no?... presidente!... eh?... vogliamo prenderci in giro?». Insomma, pretendeva che il premier si dimettesse così come Pierferdinando Casini (il quale coglie oggi un clima non dissimile da quello del 1992), per la trentanovesima volta dall’inizio dell’anno, ha proposto un governo tecnico.

Ecco, se lo scopo della giornata era di ascoltare Berlusconi dire che il vento è in poppa, di ascoltare Bersani dire che serve un passo indietro e di ascoltare Casini dire che la coesione nazionale è l’unica uscita, bene, sarebbe bastato Google. E dunque ci si è accontentati di un Di Pietro in forma smagliante, autore di una superba prova di oratoria casereccia: «Se non fossi in Parlamento direi: caro Silvio! Lei ci è o ci fa? Mi viene da ridere per non piangere. Ma lei è il nuovo Alicio nel paese nelle Meraviglie? Oh! Silvio! Aho!». E ancora: «In Italia c’è una crisi nella crisi che si chiama Berlusconi Silvio, nato a non mi ricordo più dove». Fino all’apprezzata deriva psichedelica: «Berlusconi, lei sta facendo morire di fame milioni di persone». Rideva Tonino, rideva Silvio, ridevano tutti. Perché tanto Dio, a noi, ce la manda sempre buona. Forse.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/414382/
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« Risposta #38 inserito:: Agosto 13, 2011, 11:17:49 am »

Politica

13/08/2011 - LA CRISI

Tasse, il sogno impossibile di Berlusconi

"Le ridurrò da domani": 17 anni di promesse, poi l’aumento

MATTIA FELTRI
ROMA

Una aliquota «Non possiamo realizzare la nostra riforma domattina», disse Berlusconi il 2 marzo del 1994. Era un Berlusconi molto americano, sull’economia lavorava il liberale Antonio Martino e la riforma diceva: flat tax, cioè aliquota unica al 33 per cento. Perché qui «i governi per risanare la finanza pubblica hanno accresciuto le entrare», diceva Berlusconi. E allora rivoluzione! Flat tax e poi detrazioni fiscali in funzione del numero dei familiari, riduzione del numero delle imposte (una ventina in tutto), maggiore flessibilità del sistema, Iva ridotta a due-tre settori, buono-scuola e buonosanità alle famiglie più povere. «Panzane», disse Giulio Tremonti che era in campagna elettorale coi pattisti di Mario Segni. «Miracolismo finanziario», aggiunse. E infatti Forza Italia vinse le elezioni, Tremonti lasciò Segni e passò alle Finanze e Martino se ne andò agli Esteri. E di flat tax non si sentì più parlare.

Due aliquote Di flat tax non si sentì più parlare perché si trovò una soluzione molto migliore dell’aliquota unica: due aliquote. Nel contratto con gli italiani, firmato nello studio di Bruno Vespa, Silvio Berlusconi promise che avrebbe applicato l’aliquota del 23 per cento ai redditi fino a 200 milioni di lire e l’aliquota del 33 per i redditi oltre. Era il 2001. Berlusconi tornò a Palazzo Chigi e, attenzione, la promessa non andava mantenuta entro domattina, ma entro la legislatura. Una promessa sacra: «Se non ci riusciamo è inutile stare qui a dannarci. Se non ci riuscirò non mi ricandido». Lo disse che era già il 2004. La legislatura si sarebbe conclusa nel 2006. «Non riuscirò a ottenere due aliquote», spiegò affranto Berlusconi soltanto cinque mesi più tardi.

Tre aliquote E se non si riescono a fare due aliquote? Se ne fanno tre. «Come sapete, le aliquote fiscali si ridurranno a tre: 23, 33 e 39 oppure 42 per cento, dobbiamo sederci intorno ad un tavolo per decidere», disse un ottimista Silvio Berlusconi nel settembre del 2004.

Tre aliquote e un quarto Ci sono riforme epocali, rivoluzionarie, che non si possono fare entro domattina e così le tre aliquote si complicarono un poco (e siamo giunti al novembre del 2004): «La riforma fiscale ricomprenderà tre aliquote, per quanto riguarda l’Irpef, al 23, 33 e 39 per cento, con una aggiunta di un 4 per cento per i redditi sopra i 100 mila euro come contributo di solidarietà», dettagliò ai giornalisti un orgoglioso Berlusconi. Comunque la riforma è straordinaria, ambiziosa eccetera e non si fa domattina e infatti ci furono ulteriori evoluzioni. Anzi, tuffi nel passato. Una aliquota: raggiungere il traguardo dell’aliquota al 33 per cento è «possibilissimo» (Berlusconi, marzo 2008). Due aliquote, una al 23 e l’altra al 33 per cento: «Sarebbe più razionale» (Berlusconi, gennaio 2010). Tre aliquote: «Ridisegneremo l’impianto delle aliquote, ve ne saranno solo tre rispetto alle attuali cinque, e più basse». (Berlusconi giugno 2011).

Dolci evasioni Una tale feroce guerra al sistema fiscale ha delle giustificazioni etiche. «Se si chiede una pressione del 50 per cento, ognuno si sentirà moralmente autorizzato ad evadere». «E’ una verità insita nel diritto naturale». «Non bisogna chiedere più di un terzo di quanto si guadagna altrimenti è una sopraffazione». «Se lo stato mi chiede il 50 e passa per cento, sento che è una richiesta scorretta».

Se non ora, quando?
Dunque, priorità assoluta sebbene non si pretende che si faccia tutto entro domattina. Su Internet si trovano ancora i titoli dei giornali, titoli storici. Per esempio. La Stampa, 2001: «Tagli alle tasse solo dal 2002». Il Messaggero, 2002: «Berlusconi: meno tasse dal 2003». MilanoFinanza, 2003: «Tasse più leggere nel 2004». La Stampa, 2004: «Berlusconi conferma: meno tasse entro il 2005». Il Giornale, 2005: «Rispetteremo i patti: meno tasse entro il 2006».

Se non questa, quella?
Perché poi un conto è l’Irpef, le aliquote, quest’anno o l’anno prossimo, ma le tasse sono numerose, si interviene su balzelli particolarmente odiosi. Ricordate l’Irap, l’imposta sulle attività produttive? Berlusconi non l’ha mai amata: «E’ una rapina»; «eutanasia fiscale»; «dies irap»; «iniqua, la abrogherò». Tutte queste cose le ha dette dall’opposizione. Al governo rivide leggermente il giudizio: «Anomala»; «esamineremo l’abolizione»; «la ridurremo»; «non eliminare ma modificare». Nel 2006 ritornò all’opposizione: «E’ una rapina»; «odiosa»; «assurda» e così via. Naturalmente l’Irap c’è ancora poiché certe tasse non è facile abolirle così, domattina.

Compendio
Per i più distratti, un breve elenco di altre tasse di cui Berlusconi annunciò l’abolizione e che oggi ci sono ancora: bollo auto, bollo moto, tassa sui rifiuti, canone Rai, tassa di successione, tassa sul caro estinto.

Le mani nelle tasche
Da un certo punto in poi, ma molto presto («è quasi un miracolo non avere aumentato le tasse», dicembre 2001), Berlusconi sperimentò un nuovo tipo di annuncio: il non aumento. «Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani», ripetuto sino a 48 ore fa, è uno slogan del settembre 2002. Non metteremo le mani nelle tasche, niente patrimoniali, niente prelievi aggiuntivi, niente contributi di solidarietà. Adesso però le cose cambiano. E da domattina.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/415613/
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« Risposta #39 inserito:: Agosto 18, 2011, 06:37:07 pm »

Politica

17/08/2011 - LA STORIA

Esercizi di geografia creativa

La manovra ridisegna l’Italia

Cervo, paesino della Liguria al confine tra province di Imperia e Savona: entrambe rischiano la cancellazione, ma rifiutano di associarsi
       
Dalla Provincia delle Alpi Marittime al Molisannio, mille modi per non scomparire

MATTIA FELTRI
ROMA

PRINCIPATI
Non saremo più comune? Bene, saremo principato. Verranno proclamati, se così sarà, il principato di Filettino, il principato di Vallepietra e quello di Collepardo. Non tanto in stile monegasco. Piuttosto di ispirazione seborghina. Esiste, nella provincia di Imperia, il sedicente principato di Seborga, trecento abitanti, che batte e adopera moneta, il luigino, valore sei dollari. Il principato di Seborga elegge un principe (oggi regna Marcello I), emette passaporti, distribuisce patenti e se le pretese indipendentiste passano per stravaganze di attrattiva turistica, quelle di Filettino, Vallepietra e Collepardo hanno qualche ambizione in più. A Filettino (Frosinone) appartiene un importante bacino idrico che rifornisce buona parte della provincia di Roma; il vicesindaco, eletto nella lista «Filettino nel cuore», dice che, una volta proclamato, il principato asseterà la capitale. A Vallepietra (Roma), oltre che un bacino idrico meno consistente ma non marginale, vantano un santuario della Trinità che attira turisti persino dal Giappone; e così Collepardo, nel Frusinate, Jenne, nella valle dell’Aniene, e altri si faranno principato. Con quali mezzi giuridici - se non una vaga autoproclamazione - è ignoto.

COMUNI
Giudicando la via descritta non facilmente praticabile, altri comuni esplorano percorsi alternativi. A Paciano, comune nella provincia di Perugia, mancano dodici abitanti alla salvifica quota di mille e il sindaco pensa di dare la cittadinanza agli extracomunitari formicolanti in zona. Nei giorni scorsi il sindaco di Capraia, isola della provincia di Livorno con 400 abitanti, ha annunciato l’intenzione di rivedere i trattati internazionali e di annettersi alla Corsica, cioè alla Francia, la cui sponda è più vicina di quella italiana. Per blindare il blasone comunale, il sindaco di Altopascio (Lucca) chiede la gestione del meretricio per legalizzarlo, tassarlo e ingrassare le casse municipali. Se ne possono escogitare a dozzine: quelli di Cesi sono tutti contenti per l’abolizione della provincia di Terni; infatti, dicono i membri dell’Associazione Cesi Libera, il regio decreto del 1927 con cui il Duce elevò Terni al rango di capoluogo conteneva l’ampliamento della città con l’accorpamento di alcuni comuni, compreso quello di Cesi, che non se ne riebbe più. Ma oggi vede la luce: se la provincia scompare, Cesi torna all’antico lignaggio.

PROVINCE
Se ne aboliranno dunque ventinove, salvo accoppiamenti. Che però sono complicatissimi per bellicose questioni di vicinato. Per esempio quelli di Savona e quelli di Imperia, che risolverebbero la questione associandosi, si detestano e non ne vogliono sapere. Tantomeno accettano di soggiogarsi a Genova. La soluzione? Violare un paio di Trattati di pace e aggregare la Costa Azzurra (a meno che la Francia non la ceda in cambio di Capraia), oltre al Cuneese, per coniare la Provincia delle Alpi Marittime. La faccenda sta ridisegnando l’intera geografia italiana. La Spezia e Massa-Carrara sognano la provincia Apuania che abbatterà i confini regionali. Benevento e le due province molisane, secondo il sogno di Clemente Mastella, sono pronte al Molisannio. All’idea di fondersi con Vercelli, ai biellesi viene il magone: preferirebbero passare sotto la giurisdizione di Novara; il problema è che Biella e Novara non confinano, e così si è chiesto ai vercellesi la disponibilità a entrare nel sodalizio, ma piuttosto i vercellesi si fanno passare per le armi. La vertenza è aperta. A Rieti si studia un «piano B» illustrato dal coordinatore cittadino del Pd, Annamaria Massimi: «Dal Cicolano alla Sabina cambiano i confini e le tradizioni culturali e questa eterogeneità è da difendere con le unghie e con i denti». A Crotone, illustra con competenza notarile il vicepresidente del Consiglio provinciale, «tutti hanno espresso la necessità di mantenere in essere l’Ente intermedio per una serie di ragioni, dai ritardi infrastrutturali alle emergenze occupazionali». A Caltanissetta propongono verità che dovrebbero scuotere la coscienza del Paese: «Siamo di fronte a un provvedimento che mette a serio rischio la rappresentanza democratica», dice il presidente della provincia.

I PONTI
Qui non c’è soltanto da salvare i comuni e le province, ma anche le loro finanze messe in pericolo dal governo che vuole spostare le feste e abolire gli unici ponti che si fanno oggi in Italia: quelli delle vacanze. Al momento c’è chi si sente toccato nella fede (a Napoli spiegano che San Gennaro è quando il sangue si liquefà, non quando decide Giulio Tremonti), chi nella laicità (il sindaco di Senigallia, provincia di Ancona, spiega che il 25 aprile è data sacra, manovra o non manovra), chi nel quattrino (i consiglieri regionali della Liguria, compresi quelli di centrodestra, e l’assessore al Turismo della provincia di Rimini spiegano che senza ponti e fine settimana lunghi se ne vanno in fumo sacchi di soldini).

FATTO SALVO
Ora, a parte le ampie rivendicazioni territoriali, ce ne sono di interesse prettamente nazionale. Pertanto, «fatti salvi i saldi complessivi», è necessario azzerare i tagli ai comuni, dice Bobo Maroni per il quale, fatti salvi i saldi, è necessario anche azzerare i tagli alla sicurezza. Fatti salvi i saldi, va cancellata la norma sui mini enti, dice il ministro Giancarlo Galan. Fatti salvi i saldi, non ci saranno tagli all’edilizia carceraria, dice Nitto Francesco Palma al quale l’ha detto Silvio Berlusconi («fatti salvi i saldi, accetteremo molte modifiche»). Fatti salvi i saldi, va da sé, è pensabile aumentare gli emolumenti ai parlamentari, come dice il deputato Santo Versace, purché siano i parlamentari a essere tagliati. Fatti salvi i saldi, si stralcino le norme sul lavoro, dice Stefano Fassina, responsabile economico del Pd. Fatti salvi i saldi, si abbandonino i propositi di rinvio del Tfr, dicono tutti i sindacati. Fatti salvi i saldi, si sospenda il superprelievo, dicono Guido Crosetto e gli altri dissidenti del Pdl; la risposta di Berlusconi: fatti salvi i saldi, no.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/415953/
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« Risposta #40 inserito:: Settembre 06, 2011, 03:12:59 pm »

6/9/2011

Lo stato del contante

MATTIA FELTRI

Il saggio Giulio Tremonti qualche tempo fa diceva che se in America circoli con il contante in tasca ti fanno pedinare dall’Fbi.

Lo diceva quando ancora erano ignote le sue bizzarre forme di pagamento dell’affitto: 4 mila euro cash al collaboratore Marco Milanese. Il reggente dell’Economia scrisse ai quotidiani per spiegare come disponesse di tanti liquidi: 2 mila e quattrocento euro di stipendio ministeriale corrisposto alla vecchia maniera, un euro sull’altro, e i restanti mille e seicento che egli si ritrovava qui e là, in tasca e sul comò perché, se abbiamo ben capito, fu titolare di uno studio molto ben avviato. Tremonti, che senz’altro non ha pagato la pigione in nero e senz’altro disporrà delle ricevute, ebbe almeno la prudenza di rispettare le norme antiriciclaggio che - prima della manovra di Ferragosto con cui si è abbassata la soglia ai duemila e cinquecento euro - fissavano a cinquemila il limite oltre il quale è vietato saldare in banconote. Però fece impressione immaginare il ministro dell’Economia mentre le ripone sul tavolo, come i cumènda di una volta, che estraevano dalla tasca dei fogli da diecimila lire delle dimensioni di una federa (occhio però a non scordare un superlativo Tonino Di Pietro che restituì ad Antonio D’Adamo 100 milioni di lire in una scatola di scarpe).

Tutto roba da dilettanti, come sempre succede, se paragonata alle disinvolture contabili di Silvio Berlusconi. «Io non ho liquidi, intanto perché faccio beneficenza e non lo dico», raccontò il premier nella primavera del 2008. A parte che si rimane per ore a riflettere sulla frase «faccio beneficenza e non lo dico», a parte che tutti quelli accolti nelle prossimità di Berlusconi attestano la sua generosità, a parte i denari elargiti alle ragazze delle notti bungabunghesche, a parte i finanziamenti ai Lele Mora, a parte gli incerti confini che separano la regalia dal ricatto (o dal timore di esserne vittima), a parte tutto questo, salta fuori il solito Berlusconi allegramente sprezzante, anzi noncurante di qualsiasi regola, comprese quelle da lui stabilite. I ventimila euro girati in contante e ogni mese dalla segretaria Marinella Brambilla al procacciatore di femmine, Giampi Tarantini, riportano alla memoria quel gran genio di Corrado Guzzanti che, alla vittoria del centrodestra del 2001, la faceva sul divano perché ora nulla era vietato. La soglia per la tracciabilità a cinquemila euro fu giudicata da Berlusconi «condivisibile» (maggio 2010) nonostante ci avesse fatto sopra mezza campagna elettorale, e contro la sinistra, promettendo di innalzarla a 12 mila e cinquecento poiché sennò lo Stato è spione, poliziesco e bolscevico. Lo avrebbe fatto e dovette pentirsene. Per di più all’ultimo giro si è scesi a 2 mila e cinquecento ma, che importa?, quando il presidente del Consiglio si sente in giornata distribuisce, dispensa, omaggia a bigliettoni, e malgrado quanto fissato dalle sue leggi perché lui e l’esecutivo che presiede vivono nell’assurda ambiguità di considerare lo Stato un avversario anche quando lo Stato sono loro, e lo raggirano da furbetti, e fin nelle piccinerie.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9165
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« Risposta #41 inserito:: Settembre 08, 2011, 12:30:28 pm »

Politica

08/09/2011 - IL CASO

Noia nell’aula, gli indignados nelle strade

Il giorno della protesta nelle piazze italiane

Seduta fiacca, fuori scontri con la polizia

MATTIA FELTRI
ROMA

Forse è ingiusto chiedere al Senato, su cui da tempo è stato steso un pietosos plaid, di infiammarsi anche soltanto per obiettivi scenografici.Il contrasto fra l’aria che tira fuori e quella che si respira dentro (dentro questa Alta Camera Iperbarica) è cupo e profondo. Fuori - quando ormai è buio e intanto che dentro i senatori sfilano fiaccamente sotto il banco della presidenza per la fiducia - ci sono i ragazzi inclusi quelli invecchiati dello storico antagonismo che lanciano improperi e mortaretti, e ci sono i cordoni e le camionette della polizia a dare un senso di drammaticità se non altro estetico. Perché fin lì era parso tutto un doposcuola, un pomeriggio lungo il quale strisciare, una tediosa incombenza da assolvere. Se è vero che rischiamo la fine della Grecia, è un rischio in aula inapprezzabile, un’aula veramente delusa nelle aspettative quando il presidente Renato Schifani ha annunciato d’aver respinto le richieste emergenziali dei molti che volevano votare subito, e filarsela senza rispettare l’ordine alfabetico.

Quale fosse il clima è infine stato chiaro, definitivamente, quando dai banchi del Pd, per le dichiarazioni di voto, si è alzato Luigi Zanda, rispettabilissimo cattolico sardo e tuttavia uno con l’aspetto e la parlantina del direttore di un sanatorio per tisici. E poco prima il leader dell’Api, Francesco Rutelli, aveva ripetutamente messo in imbarazzo Schifani, che gli faceva notare di aver di molto sforato i tempi; eppure non s’era arreso, intendeva giungere al finale ad effetto: «Berlusconi non pensi di salvarsi usando la frase dei giudici di Milano: resistere, resistere, resistere». Ma non abbiamo avuto un tuffo al cuore. Piuttosto ci si è stretto e parecchio ascoltando il capogruppo della Lega Nord, Federico Bricolo, nell’imbarazzante tentativo di mischiare lotta e governo. Che poi: quale lotta? E quale governo? Un discorsetto che era una pietosa impiastrata di frasi fatte e decrepite, il Nord che se ne va, l’inno da fischiare, non vogliamo più il centralismo romano, non puliremo mai più Napoli. Si capirà per quale ragione la seduta di ieri è stata giudicata l’evento più noioso del 2011 dopo i notiziari sulla viabilità svizzera. E non ci rompevamo le scatole soltanto noi in tribuna, davanti all’eterno bla bla inascoltato e inascoltabile. Se le rompevano anche loro, i senatori, e lo davano tranquillamente a vedere: arrivati in gran quantità all’ultimo momento, si sono radunati a drappelli per la chiacchiera pre-aperitivo mentre si discuteva del disastro che sapete, e il povero Schifani, al quale è quantomeno rimasto un decoro da diretta televisiva, per due o tre volte ha richiamato la scolaresca con gli argomenti e la presa di un supplente delle medie.

E in una giornata del genere il momento elettrizzante sono stati i tre minuti dell’antiquariato a opera di un straordinario Emilio Colombo. Il senatore a vita ha detto che la manovra è buona anche se è piena di errori, che lui l’avrebbe votata senz’altro in omaggio agli auspici del Presidente della Repubblica, e che però la decisione di porre la fiducia l’aveva obbligato a rivedere le sue posizioni, e che di conseguenza si sarebbe astenuto. Un irresistibile sprazzo di democristianeria reale. Una degna conclusione.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/419182/
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« Risposta #42 inserito:: Settembre 13, 2011, 10:55:04 am »

Politica

12/09/2011 - INTERVISTA

"Silvio vuole la riforma fiscale per lasciare un buon ricordo"

Martino: coordinerò un pool di economisti per aiutarlo

MATTIA FELTRI
ROMA

Professor Antonio Martino, ieri (sabato ndr) si è visto con Silvio Berlusconi. Le ha fatto cambiare idea? Vota la manovra?
«Per la verità abbiamo parlato di tutto fuorché della manovra, che è invotabile. Berlusconi mi conosce da anni, sa che se esprimo un’idea poi non la cambio».

Di che cosa avete parlato?
«Vuole costituire un gruppo di economisti che gli dia suggerimenti in vista delle prossime riforme e mi ha chiesto di farne parte per coordinarlo».

Un gruppo di esperti? Finalmente una buona idea.
«Già. Avevamo aspettato anche troppo. La politica economica la devono fare i governi, mentre da noi ormai la stanno facendo la Banca centrale europea, la Banca d’Italia e il ministero dell’economia. Mi pare che lo si sia capito: mancano pochi mesi alla fine della legislatura, e il premier vuole usarli per promuovere qualche riforma che lo riscatti».

Le famose tre riforme, fiscale, della giustizia e istituzionale?
«Sì e quella fiscale mi pare paradossalmente la più facile. A Berlusconi ho spiegato che nel 2010 l’Ire (ex Irpef), l’Ires (ex Irpeg) e l’Irap hanno fruttato il 14,6 per cento del Pil. Una ridicolaggine. Per assurdo, se mettessimo un’improponibile aliquota unica del 15 per cento incasseremmo di più...».

E’ l’evasione fiscale.
«L’evasione c’è, ma la lotta all’evasione fiscale non si mette in manovra, si persegue per legge. La lotta all’evasione fiscale non è un riforma. Un conto è volerla fare, un conto è riuscirci. Come la contabilizzi? Ma il punto vero sono l’elusione e l’erosione, si deve cominciare da lì, eliminando quegli istituti di comodo che permettono di occultare reddito legalmente».

Le società a cui intestare gli yacht?
«Certo. Ma vi pare normale che uno studio qualsiasi possa mettere fra i beni di rappresentanza un’auto di lusso?».

No, per niente.
«Oggi io appartengo all’uno per cento di italiani catalogabili come ricchi. Eppure vivo a Roma nello stesso appartamento, che era di mia madre, dall’82. Affitto la stessa casa all’Elba dall’85. Ho la stessa macchina dal ‘93. La stessa moglie dal ‘70. Ah, ho un barca scoperta di otto metri, un fuoribordo a cui sono affezionato ma che non definirei uno yacht, è una barca da pesca. Le sembro uno che fa il bagno nello champagne rosé?».

Ma perché prima l’elusione e l’erosione?
«La lotta all’evasione è ovvia, ma qui si tratta di tappare subito i buchi di questo acquedotto pieno di falle, e ci sono gli strumenti legali. Faccio un esempio. Un caro amico che purtroppo non c’è più, il professore di Scienze delle finanze Franco Romani, mi raccontò che lo studio di Giulio Tremonti, nel solo primo anno di attività, fece erodere 600 miliardi di lire di base imponibile. Tutto legale, per carità. Ma basta che non lo sia più».

Dunque lei aiuterà Berlusconi in queste riforme.
«Darò consigli. Tutto lì. Poi vuole fare la riforma della giustizia».

Come no, da diciassette anni...
«Nel 1994 durammo troppo poco, non fu materialmente possibile. Nel 2001-06 si oppose Gianfranco Fini. Stavolta francamente peccato che Angelino Alfano non abbia proceduto».

E la riforma istituzionale?
«Che cosa contenga non lo so. Sicuramente la riduzione dei parlamentari, una rivisitazione della natura stessa del Senato».

Scusi professore, lei ci crede?
«Berlusconi ci tiene, vorrebbe lasciare un buon ricordo di sé ma servirebbe la collaborazione della sinistra».

La sinistra che aiuta Berlusconi a lasciare un buon ricordo di sé?
«Appunto, è un’ipotesi poco plausibile. E oltretutto lo rafforzerebbe moltissimo in vista del 2013».

Comunque non si ricandida.
«Mah, sarà solo lui a decidere, anche se la sensazione è che ne abbia le tasche piene. Ha voglia di lasciare un ricordo migliore perché qui, fra luci e ombre, mi paiono molte di più le ombre. In ogni caso parlare male di Silvio Berlusconi è facile, ma sostituirlo lo è molto meno».

Alfano è l’uomo giusto?
«E’ bravo, ha stoffa, non è carismatico ma ha dalla sua l’età. E’ di formazione giuridica, però se si sceglie qualcuno che ben lo consigli in materia economica...».

Magari il professor Martino?
«Alfano mi parla con quella classica deferenza che i giovani hanno verso i vecchi e la cosa mi fa “incavolare”. Però se mi chiede una mano gliela do volentieri».

Professore, mi sembra molto meglio disposto verso il centrodestra rispetto al solito. «Sì, ho incontrato Berlusconi che era un po’ giù di corda, un po’ acciaccato, e però anche così è uno che fa ripartire la speranza. Questa cosa degli economisti mi ha restituito un po’ di carica».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/419756/
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« Risposta #43 inserito:: Settembre 22, 2011, 04:06:03 pm »

Politica

22/09/2011 - IL CASO MILANESE

In prigione o no? Nei partiti la tattica prevale sulla libertà

Nessun giudizio di merito nelle scelte dei gruppi

MATTIA FELTRI
ROMA

«Lasciateci vedere quali saranno le tattiche migliori», ha detto domenica scorsa un Pierluigi Bersani in forma olimpica. Ecco, non anticipiamo i tempi. Suspense. Luci basse, e come in un lampo sarà il tempo debito: allora gusteremo l’estro procedurale, il colpo di genio con il quale il deputato Marco Milanese sarà assicurato a Poggioreale. «Abbiamo dimostrato che non siamo inesperti in quanto a tattiche parlamentari», ha aggiunto il segretario del Partito democratico e chissà che il gesto del fuoriclasse non sia quello sfociato nella grigia disputa attorno al voto segreto: due mesi fa, quando fu il turno di Alfonso Papa (primo deputato nella storia della Repubblica a finire in carcerazione preventiva per reati non di sangue o di eversione), lo chiese il centrodestra e il centrosinistra si indignò, e stavolta i ruoli si sono perfettamente invertiti.

Si capirà: sono in ballo, qui, i supremi valori della libertà, della dolorosa scelta di privarne qualcuno, senza parlare del senso filosofico della rappresentanza parlamentare. E chissà, forse sono anche queste vette del pensiero a scuotere la Lega, divisa fra un Umberto Bossi improvvisamente spiaggiato sulle rive del garantismo («non mi piace mandare in galera la gente») e un ferrigno Bobo Maroni, che secondo la retroscenistica è invece disposto a mandarcela, forse per marcare la sua crescente leadership, di sicuro per evitare alla Lega di affondare col berlusconismo. E infatti il voto di oggi «ha una grandissima valenza politica», come dice il dipietrista Leoluca Orlando. Che poi questo giro di walzer avvenga sulla pelle di Milanese, è un fatto che non dà i brividi a una politica che ha abbandonato il pudore e il cinismo (faccio cose sconvenienti ma le mimetizzo dento alti discorsi morali) per imboccare la scorciatoia della sfacciataggine.

Bersani un paio di volte all’ora ricorda che l’incarcerazione di Milanese «può accelerare la crisi di governo», e un Walter Veltroni appena più contenuto approva: il voto è «su una persona, ma ha implicazioni politiche». Considerazione dalla quale il povero Milanese potrebbe convincersi che il fumus persecutionis viene più dai colleghi che dalla magistratura. E proprio dai colleghi di partito. La sua sorte infatti non determinerà soltanto il futuro del governo e di Silvio Berlusconi, e magari quello di Giulio Tremonti (di cui è stato il braccio destro, e che adesso è molto sollevato perché la questione Milanese - spiega - non è più tanto un referendum su di lui quanto su Berlusconi: «Si illude chi pensa che far arrestare Milanese voglia dire far dimettere me», ripete il ministro nei corridoi, per sottolineare quale sia la tensione giuridica), non indirizzerà soltanto il destino del Pd e gli equilibri intestini della Lega, ma probabilmente sposterà i confini della geografia interna del Pdl.

Si descrive un Claudio Scajola pronto a mobilitare i tradizionali franchi tiratori per rifilare una scossa al partito; si descrive un Gianni Alemanno, indisturbato dalle condizioni delle città che amministra, pronto a cogliere il risultato offerto dall’aula per decidere se rilanciare e con quale forza la discussione attorno alla leadership del 2013; si descrivono anonimi peones sofferenti nel dilemma: rimanere fedeli ai sacri dogmi del garantismo o all’amicizia del premier? Perché c’è chi «per dare un senso concreto all’amicizia» sta decidendo di condannare Milanese alla prigione. Che ci sia fumus o no. Che ci siano o meno esigenze cautelari. Non importa: «Per il bene di Silvio dovremmo dire sì all’arresto», confidano quelli che si augurano un premier meno arroccato.

Sono questioni delicatissime, non sfugge a nessuno, tantomeno a un politico cresciuto alle raffinatezze forlaniane come Pierferdinando Casini, al quale è stato attribuito il seguente ragionamento: «Primo, bisognerà vedere se c’è il via libera all’arresto. Secondo, bisognerà vedere qual è lo scarto di voti. Se lo scarto è ampio, Berlusconi...». Se invece lo scarto è basso, o addirittura a favore di Milanese, fuori dal Palazzo è pronta la furia del Popolo Viola, sospettabile di tutto, tranne che di aver fatto le ore piccole sulle carte processuali di Milanese.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/421396/
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« Risposta #44 inserito:: Settembre 27, 2011, 10:41:44 am »

Politica

23/09/2011 - POLITICA E INCHIESTE: PERSONAGGIO

Il deputato salvato "Non ho niente da festeggiare"

I colleghi: in aula tremava, mai visto così

Poi pranzo in famiglia e confessione da Vespa

MATTIA FELTRI
ROMA

Al momento del voto a Marco tremava una mano. Non credevo fosse possibile una cosa del genere, non l’avevo mai vista. Fini stava leggendo il risultato, mi sono girato e ho visto quella mano che sbatteva incontrollata. Sembrava avesse il Parkinson. E’ stato impressionante». Giancarlo Mazzuca, deputato del Pdl, racconta il dettaglio con il gusto del giornalista, lui che diresse il Resto del Carlino e Il Giorno. Ed è tutta nei dettagli la cronaca della giornata delirante di Marco Milanese, l’uscita dalla buvette di Montecitorio, per esempio, alle nove di mattina trascorse da poco, tre ore prima che l’aula decidesse il suo destino di galeotto o di uomo libero.

Posa la tazzina di caffè ormai vuota, impegna un passo rapido e indeciso, i pochi colleghi mattinieri lo abbrancano per la pacca beneaugurante e lui non smette di parlare. «E’ esagitato, lo devo calmare», dice Melania Rizzoli, anche lei parlamentare berlusconiana. Ma non c’è verso. Nella frenesia, Milanese accetta di conversare anche con gli odiati giornalisti, «siete da massacratori», dice attribuendo all’interlocutore una colpa collettiva. Attacca con una vibrante arringa, un’autodifesa innescata in automatico, ma il punto preciso del suo terrore sono gli occhi sbarrati, il gesticolare convulso, il respiro affannoso, la tambureggiante filippica: «Sono esausto. Questo sputtanamento quotidiano è esasperante. Se dovrò andar dentro, andrò dentro ma i magistrati sappiano che quello che dovevo dire l’ho detto: non ho un’altra verità. Ed è devastante pensare che oggi il voto avrà implicazioni politiche che con me non hanno nulla a che vedere».

Avrà tutt’altro volto, alle 19, uscendo dagli studi di Porta a Porta, lo sguardo rinascente, persino un sorriso spalancato. Nello studio di Bruno Vespa non ha consumato vendette, nemmeno contro Giulio Tremonti, di cui è stato il classico fedelissimo e da cui è stato abbandonato nel momento più terribile. Ci davamo del lei, dice confermando una distanza anche antropologica che a Tremonti è improvvisamente cara. Era all’estero per questioni di rara importanza, è la giustificazione accolta senza discutere. Mi pagava in contanti, ebbene?, dice in uno slancio ecumenico che comprende tutta la maggioranza, poiché nella versione tardopomeridiana i tentativi di strumentalizzare il voto sono attribuiti al solo centrosinistra. In un governo con Berlusconi, Tremonti e Letta potevo farle io le nomine?, aggiunge in uno slancio di buonsenso.

Ma questa è niente altro che la tattica piccina della preda appena scampata alle zanne. Era ben altro fuscello seduto al suo banco in aula, zitto ad ascoltare i relatori e reggendosi il mento intanto che c’era la fila a incoraggiarlo: Jole Santelli, di nuovo la Rizzoli, Manuela Repetti, il generale Speciale, lui rispondeva grato e terreo o ogni mano tesa. Con l’istinto degli avvoltoi, noi giornalisti ci eravamo disputati i posti migliori, con vista sulla vittima. E lo vedevamo da sopra scuotere giusto il capo quando qualcuno lo dipingeva da criminale incallito. Rinunciava, al contrario del povero Alfonso Papa che aveva tentato la carta del melodramma, a prendere la parola e se ne stava lì sempre più raggomitolato, quasi rimpicciolito e rigido, annichilito negli istanti tremendi della proclamazione del voto, un timidissimo applauso di qualche deputato al buon esito, lui sempre immobile, testa bassa, come a prendere fiato. Trenta secondi, forse un minuto di niente, un grazie sussurrato e poi a telefonare alla compagna, e infine un sibilo ancora: «C’era mia figlia che mi guardava in tv...».

Se l’è svignata dal retro, infine. Nel parcheggio della Camera era circondato dai parenti, «non c’è niente da festeggiare», hanno detto ancora scossi ma già diretti al ristorante, perché certe buone notizie sono portentose sull’appetito. E poi tutto un pomeriggio di buoni propositi, l’idea di andare prestoa trovare Papa - che da Poggioreale gli ha mandato le congratulazioni del caso - e ancora quella di mettere giù, nel giro di pochi giorni, una proposta di legge sulla carcerazione preventiva, magari insieme coi radicali, poiché è difficile negare che questa sciagurata consorteria parlamentare si occupa delle grane soltanto quando investono uno dei loro. E se le dimentica facilmente, in un soffio di vento serale, se la fortuna ha sorriso di nuovo.

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