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Autore Discussione: MATTIA FELTRI.  (Letto 74662 volte)
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« inserito:: Aprile 03, 2008, 05:39:10 pm »

3/4/2008
 
Il paese dei diritti incrociati

 
MATTIA FELTRI

 
Nel paese del diritto, quale diritto prevale? Il diritto individuale del signor Giuseppe Pizza di presentare le sue liste e il suo simbolo, lo Scudocrociato, oppure quello collettivo di avere elezioni e governo nuovi entro settanta giorni dallo scioglimento delle Camere? Il paese del diritto si tiene la testa fra le mani e si spreme il cervello. I giuristi d’accademia e quelli di tribunale, quelli di partito e quelli delle istituzioni, tutti sui codici a controllare con la lente d’ingrandimento i commi e i controcommi, uno sovrapposto all’altro da anni e decenni e secoli di affinamento dell’arte del dirimere.

L’incolto cronista si è perso nei labirinti storici e non sa più a chi appartenga il nome della Democrazia cristiana, a chi lo stemma e a chi la sede di Piazza del Gesù, scala A oppure scala B. Il caparbio Pizza ha compiuto il percorso sghimbescio delle competenze; escluso dalla contesa elettorale dal giudizio politico del ministero dell’Interno, e perché il simbolo era troppo simile a quello dell’Udc di Pierferdinando Casini, ha domandato conforto al sommo giudizio della Corte di Cassazione. La Corte non glielo ha concesso e Pizza ha dunque invocato il giudizio amministrativo del Tar del Lazio, ma con il medesimo risultato. Nuovo tentativo, questa volta al Consiglio di Stato, che altro non sarebbe se non l’appello del Tar, e il Consiglio ha riammesso alla competizione Pizza, Dc e Scudocrociato, seppure soltanto in via cautelativa. E cioè: intanto se la giochino; se avevano ragione, qualcun altro lo deciderà. Chi? Il Tar del Lazio.

In queste strepitose sinuosità legali, non sapendo più che pesci pigliare (rispettare la Costituzione oppure la sentenza), il Viminale di Giuliano Amato ha incaricato l’Avvocatura dello Stato di sollecitare l’intervento della Corte di Cassazione. La quale Corte aveva già espresso il suo orientamento; ma stavolta dovrà deliberare su chi sia titolare della competenza: se il giudice amministrativo o quello ordinario. Il lettore con un cerchio alla testa si rassicuri: sono le diavolerie della culla del diritto.

Sul groviglio di norme ballano gli uomini, e soprattutto Pizza, sessantenne di Sant’Eufemia d’Aspromonte il cui tracciato politico è altrettanto lineare. Democristiano con Amintore Fanfani e Arnaldo Forlani, al crollo del ’93 seguì la dottrina della rinascita di Flaminio Piccoli e rifondò la Dc insieme con il friulano Angelo Sandri. Si presentarono alle Europee del 2004 sotto il nome di Paese Nuovo, poiché il percorso giudiziario non aveva ancora attribuito l’eredità contesa della Dc. Presero lo 0,2 per cento, litigarono e si scissero, ognuno per la propria strada col suo zerovirgolauno. Oggi tutto quel bendiddìo è spartito secondo delibere e sentenze fra Casini, la Dc di Pizza, la Dc di Sandri e la Dc di Sergio Rotondi e un’altra mezza dozzina di Dc, e ogni volta viene obliterata dalle elezioni una Dc o quell’altra perché il nome è identico e il simbolo uguale. E il penalizzato di turno aizza il giudice del caso a rifare giustizia. E così mentre Pizza pretende il rinvio delle politiche per disporre dei trenta giorni stabiliti per legge lungo i quali fare campagna elettorale, Sandri pretende una riconvocazione d’urgenza del Consiglio di Stato perché la decisione è stata presa senza consultarlo, lui che carte alla mano ha più titolarità di altri sul nome e sullo Scudo. E intanto Casini le dichiara tutte baggianate, e Rotondi trasecola, con tutti i democristiani che si appresta a portare lui in Parlamento.

Che fare? Secondo Amato, appresa la disposizione della Cassazione, dovranno occuparsene governo e Quirinale. Secondo il Quirinale, prima il governo. Secondo il sodale di Pizza, Paolo Del Mese, basterebbe un decreto legge. Tutti i leader implorano Pizza di mettersi una mano sul cuore, e recedere dall’insano proposito. Qualcuno dice che è soltanto questione di prezzo: «E Pizza costa poco, lo dice la parola stessa». Pizza si inalbera: «Questa pizza è senza prezzo». Poi fa sapere che se il Capo dello Stato lo chiama e lo implora, magari ci ripensa. Alleanza nazionale, per risarcire l’amico della par condicio perduta, propone di indire un «Pizza day». Da sempre il paese del diritto trova la conciliazione con le gambe sotto il tavolo.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Ottobre 15, 2016, 07:34:46 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 21, 2008, 09:17:32 pm »

21/7/2008
 
Ah, la cattedra
 
 
  
 
 
MATTIA FELTRI
 
Cuore di babbo sa tutto: se il suo ragazzo crolla, la colpa è della storia. Non tanto della materia - magari anche - ma specialmente della povera storia nostra, dell’Unità d’Italia imposta e vessatrice. La Padania versa uova d’oro a Roma ladrona, e ne riceve insegnanti meridionali.

Insegnanti che tutto conoscono di Luigi Pirandello e nulla di Carlo Cattaneo; chi si ribella, muore. I nostri giovani, per esempio, dice Umberto Bossi. Uno osò, giustappunto, presentare all’esame di maturità una tesina sul gran federalista, e ne guadagnò una bocciatura. Quell’uno è Renzo, figlio di Bossi, al secondo fallimento consecutivo. Per quest’anno ha redatto uno studio titolato su «La valorizzazione romantica dell’appartenenza e delle identità». Non era un somaro, sostiene Bossi, ma una vittima del centralismo.

Renzo non si affligga. Ha un ottimo avvocato, e non sempre la scuola sa misurare la gente d’ingegno. L’esempio più illustre, il giovanotto l’ha in casa. La carriera da studente del padre è qualcosa di spettacolare. Frequentò le medie e si iscrisse allo “Stanislao Cannizzaro” di Rho, istituto tecnico per periti chimici. Sono gli anni in cui - come scrisse Gianantonio Stella in «Tribù» - Bossi si allontanò dall’etica severa dei genitori e dalla weltanschauung del mondo agricolo. Anni da scapestrato e donnaiolo. Tanto è vero che non si diplomò. Ma siccome i ciuchi finiscono in catene, Bossi non abbandonò l’idea di scalare le vette del sapere: «La prima tappa della mia marcia d’avvicinamento alla cultura fu la scuola Radio Elettra di Torino».

La tappa determinante fu la successiva: venticinquenne, si iscrisse a una scuola privata, e quasi trentenne intascò il diploma scientifico. Non soddisfatto, Bossi provò a diventar dottore, e si cimentò nei corsi di Medicina. Nell’aprile del 1975, l’attempato studente potè infine calzare l’alloro: «Decidemmo di sposarci in agosto. In aprile Umberto diede a tutti la grande notizia: mi sono laureato, presto avrò un impiego come medico. Non facemmo nessuna festa, ma corsi a comprargli un regalo, la classica valigetta in pelle marrone», ricordò intervistata da «Oggi» la prima moglie, Gigliola Guidali. La qual Gigliola, tempo dopo, fiutò la balla. E Umberto, che tutte le mattine usciva di casa destinato allo stetoscopio, confessò: «E’ vero, ma è questione di sei mesi. Poi sarò dottore».

I mesi diventarono anni, e sette per la precisione. Trascorsi i quali, perduta la moglie causa divorzio, Bossi condusse la madre a Pavia per la trionfale discussione della tesi; la genitrice, però, attese in auto e le parve sufficiente. Insomma, il babbo di Renzo fece prima a guadagnarsi il titolo di senatore, nel 1987, quando risultava ancora iscritto all’Università. Ma siccome non sono i pezzi di carta a fare la caratura, non è in ragione della tormentata avventura scolastica se a Bossi capita di sostenere, per esempio, che Giulio Cesare fu il primo padano. Le responsabilità risiedono nello slancio politico del gran capo nordista, che qualche volta evolve in orgasmo oratorio. Gli capitò, infatti, di addebitare a Giuseppe Garibaldi la tragica annessione del Lombardo-veneto al Regno d’Italia. Ernesto Galli della Loggia (ma sarebbe bastato un maestrino qualsiasi, e di qualsiasi provenienza) gli fece notare che la faccenda era dipesa dalla Prussia, alleata dei Savoia e vincitrice sull’Austria.

Fa niente. Un inciampo capita a chiunque. Il punto è che la famiglia Bossi certe questioni le ha nel sangue. E infatti la seconda sposa di Umberto, la calabrese Manuele Marrone, ha fondato a Calcinate del Pesce, in provincia di Varese, la scuola lombarda «Bosina», che significa «varesina». E’ una elementare e media con tutti i crismi, e i programmi seguiti sono quelli ministeriali. Ma con un deciso scrupolo nell’insegnamento del dialetto e delle tradizioni locali. La matematica si chiama etnomatematica, e la pedagogia si chiama etnopedagogia. Gli scolari vanno nei boschi a conoscere le specie di alberi del varesotto. E quando sono sui banchi, studiano la Seconda guerra d’indipendenza, la Prussia e Garibaldi.

 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Aprile 30, 2010, 11:03:21 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 16, 2009, 03:40:53 pm »

16/9/2009

Lo show senza concorrenza
   
MATTIA FELTRI


Il farfallone amoroso gode del suo giorno dell’orgoglio e si riabilita - sempre che ne avesse bisogno - vestendosi e rivestendosi come Leopoldo Fregoli. Occhi lucidi e respiro lungo: tutti felici.

La concorrenza, si sa, non c’è: motivi tecnici. Ballarò spostato a domani, Matrix alla prossima settimana, sono questioni di palinsesto e, dicono da Mediaset, di diffocoltà organizzative; la Champions, dove Pippo Inzaghi collabora alla restituzione della grandeur, è confinata in pay e tutto il mondo televisivo - disinteressato agli ultimi giorni di Adolf Hitler su RaiTre - può assistere al trionfo del presidente del fare.

Fregoli, dicevamo: il presidente giardiniere illustra le qualità terapeutiche del fieno steso sul manto erboso; il presidente ingegnere dettaglia sulle costruzioni antisismiche, le doppie piastre, gli «assorbitori di potenza»; puntando gli indici, il presidente architetto deraglia nella plastificazione poiché il quartiere Bazzano, ricostruito a cinque chilometri dall’Aquila, è stato edificato di modo che le case sembrino di epoche diverse, e non «artefatte», e di conseguenza artefatte sono; il presidente designer guida la visita dentro alle case di legno che saranno consegnate con gli armadi - «anche con gli attacca-abiti» - e apre i frigoriferi delucidando sui requisti dell’ultimo modello; il presidente anglofono dice: «People first»; il presidente pater familias ha una pacca per tutti. E mille e mille presidenti, il presidente anticomunista, il presidente imprenditore che nega le correzioni delle sue reti per favorire gli ascolti del gran ritorno di Porta a Porta, il presidente San Sebastiano traffito dai dardi della tv pubblica. E infine (per modo di dire) il presidente Tafazzi che non guarda più la tele. Ma in fondo è la serata squillante del governo del fare - non della ciàcola, non della lascivia - in un’elencazione di record che avrebbe mandato in tilt anche un Rino Tommasi, e il terrore sale quando il premier sfodera l’elenco delle opere compiute. Record, record e record: due mesi per l’asilo Giulia Carnevali (dal nome della giovane progettista morta nel terremoto, e il padre in studio, dignitosissimo, invita a guardare avanti), record; quattro mesi per le casette, record; entro settembre tutti fuori dalle tende, record; i giapponesi, gli americani e gli australiani ci invidiano le tecniche e i tempi, record; Nancy Pelosi che dice a Berlusconi: «Un’impresa del genere per noi negli Stati Uniti sarebbe stata impossibile», record; ho governato più di Alcide De Gasperi, record; ho governato meglio di De Gasperi, record. E poi la gente, il people, e gli operai, i man at work, che dalla cima delle gru chiamano il presidente a braccia levate: «Silvio! Silvio!». L’uomo vecchio e stanco e barbuto che entra nella casa appena ricevuta e non resiste a un singulto di commozione. La donna col bimbo in braccio che sull’uscio dell’asilo sente la vita che ricomincia. I terremotati in piazza che si guardano attorno e dicono: è un miracolo, un miracolo. Faremo di più, faremo meglio, dice Berlusconi: abbiamo un know how che riproporremo per costruire le carceri, le centodieci città dove le giovani coppie troveranno l’abitazione che non trovano oggi, basta infilare tre turni di otto ore al giorno per ridurre i tempi di due terzi.

Sull’altra parte della barricata resta un povero Stefano Pedica, coordinatore laziale dell’Idv di Antonio Di Pietro, che fa picchetto all’ingresso della sede Rai di via Teulada, ma tanto Berlusconi entra lo stesso. E dentro il sindaco dell’Aquila, Stefano Cialente, cerca soltanto di attutire lo scoppio dei mortaretti. Qualche giornalista propone dei distinguo travolti dall’energica e fluviale parlantina del presidente del Consiglio. Piero Sansonetti si prende la briga di dirne due o tre. Bruno Vespa abbozza un paio di bisticci rapidamente sedati. E’ l’occasione buona per regolare i conti, da presidente pompiere, e per il resto rimangono negli occhi le casette di legno che casette non sono, dice Berlusconi, semmai ville dove a tutti noi piacerebbe abitare. Anche a lui, sembra, al farfallone amoroso che si autodichiara dittatore, scherzando, il narcisetto, ora che non più andrà notte e giorno d’intorno girando delle belle turbando il riposo.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Marzo 17, 2010, 10:21:14 am da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 11, 2009, 10:13:22 am »

11/10/2009 (7:41)  - LA STORIA

Marina e le figlie che si fanno scudo per i padri

Solo le donne sanno consolare i genitori


MATTIA FELTRI
ROMA

Tutti gli uomini che saranno perduti, e ai quali resterà soltanto la speranza dell’onore, si augurino di avere una figlia. Non un figlio, neutro, indifferentemente un lui o una lei. Sperino sia femmina, e cioè una delle tantissime moderne Antigone, uniche depositarie dell’onoratezza della famiglia. Come Marina, come Stefania. Donne alla guerra, armate di un amore furente e cieco, purissimo, indisposto ai compromessi nemmeno lessicali. Marina Berlusconi, che non concedeva interviste e le si poteva puntare la pistola alla tempia, nel giro d’un mese ne rilascia due al Corriere della Sera, e nel momento in cui la famiglia si disfa. Si schiera non con il padre, ma come scudo davanti a lui: «Ogni volta che lo chiamo per consolarlo, alla fine è lui che consola me. Come sanno fare solo i grandi uomini».

E’ una caccia all’uomo, dice Marina, e viene in mente Stefania Craxi, unico fondatore e presidente della Fondazione Bettino Craxi. Ecco, Antigone, che sfidò la morte pur di concedere i riti funebri al fratello, e disse a Creonte: «I tuoi bandi io non credei che tanta forza avessero da far sí che le leggi dei Celesti, non scritte, ed incrollabili, potesse soverchiare un mortal: ché non adesso furon sancite, o ieri: eterne vivono». Stefania scrisse un libro (Nella buona e nella cattiva sorte, edizioni Koiné) e lo introdusse con un brano della Storia della colonna infame: «... que’ magistrati... complici o ministri d’una moltitudine che accecata... violava con quelle grida i precetti più positivi della legge divina». «Io sono ancora innamorata», ha detto Stefania in un’intervista otto anni dopo la morte del padre.

Innamorata, eternamente e divinamente, oltre ogni legge umana alla quale spesso i maschi si inchinano timidi, per essere degni del consorzio civile e sfiorando il tradimento di sé. E invece Chiara Moroni, figlia di Sergio, morto suicida negli anni folli di Tangentopoli, si alzò alla Camera e disse: «Io so benissimo perché sto in questo Parlamento: per ricordare ogni giorno il gesto di mio padre, che ha ritenuto di dover difendere la sua innocenza suicidandosi. Io sono orgogliosa e fiera di stare qui perché sono la figlia di Sergio Moroni, di stare qui per tenere in vita la sua memoria e il significato politico del suo messaggio... E io oggi qui continuo a rappresentarle, orgogliosamente, dopo aver fatto doverosamente i conti con gli errori. Lo considero un tributo alla memoria di mio padre».

A ogni padre dovrebbe toccare una figlia simile a Marina, la quale sta mettendo sottosopra la sede di via Sicilia a Roma della Mondadori: si ritaglierà un quartierino per stare più vicino al genitore. O una figlia simile a Silvia Tortora, che dedicò la sua vita di ragazza al padre martoriato. O simile a Chiara Gamberale, che diciassettenne scrisse Una vita sottile, romanzo impetuoso e delicato partorito mentre il padre Vito era in galera innocente. E sono tante, c’è Antonia De Mita, una sentinella dell’integrità paterna, perché «è solo amore viscerale». E nulla c’entra con l’onore, ma con la memoria sì, tutto questo mondo di ragazze, Giovanna Mezzogiorno che fa il film su Vittorio, Maria Fida Moro che organizza convegni su Aldo, Sabina Rossa e il libro su Guido e mille altre ancora. E c’è il resto, c’è Silvia Tortora che rivendica i meriti di «un giornalista che ha creato le cose più straordinarie della storia della televisione pubblica italiana»;

Marina strasicura che Silvio «entrerà nei libri come il leader più longevo e amato nella storia della Repubblica»; Stefania fiera nella certezza che Bettino fosse venti anni avanti a chiunque e specialmente al Pci: «Non c’è un tema che calca l’attualità politica che lui non avesse anticipato». Ma prima di tutto c’è «l’amore viscerale».
«Nel rapporto con mio padre, lo sorte non mi è stata amica: il periodo in cui gli sono stata più vicino è stato quello dell’esilio ad Hammamet», scrisse Stefania Craxi.
Nel rigoroso ordine, «amore, dolore e rabbia erano il condimento della vita di ogni giorno». Stefania vide morire il padre: lo chiama «il giorno orrendo».
«Fu allora che decisi di dedicarmi anima e corpo all’opera di restituire onore e meriti a mio padre».

E come diceva un saggio, «quando avrai sete tuo figlio non ci sarà, tua figlia ti porgerà il bicchiere alle labbra».

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 23, 2009, 09:48:55 am »

23/10/2009

Il santo protettore
   
Clemente, la spintarella che si fa sistema

MATTIA FELTRI

A Ceppaloni, quando c’è da festeggiare una ricorrenza, tutto il paese scende in piazza in un tripudio di regimental.

Equando va male la indossano cugini di secondo grado. Elencano l’albero genealogico con geometrica precisione e salta sempre fuori che zia de mammà era cognata de zia de Mastella. Il legame di sangue è soltanto un cappottino su un bel vestito: Clemente, l’ex sindaco, l’ex ministro, è comunque il figlio del popolo, quello che ce l’ha fatta. Lo precede, in questi bagordi a cielo aperto, di frittelle e panini alla salsiccia, la moglie Sandra che arriva raggiante e saluta tutti, e chiama tutti per nome, e tutti bacia di qui e di là, non le sfugge una guancia, e nell’estasi le capita di baciare persino i cronisti.

Poi sbarca lui, Mastella, e i popolani, i giovani e i vecchi, si mettono in fila per la stretta di mano e la breve illustrazione del bisognuccio; Mastella ascolta - ascolta per davvero - e garantisce l’intercessione, e quando s’è fatto troppo tardi promette audizione su in villa, la famosa villa della piscina, che prendessero appuntamento. La chiamano politica feudale. Potrebbe avere mille nomi ma, come i nobili di altri tempi, il succo è che Mastella si circonda di questuanti, gli arrivano al cancello, li riceve, distribuisce le prebende. «Ho segnalato povera gente che era in difficoltà. Quando sarò in tribunale le porterò con me e farò vedere se sono ricche o povere le persone che ho segnalato», ha detto ieri in conferenza stampa.

La raccomandazione elevata a sistema, ma non è questo un Mastella che casca dal pero. La raccomandazione è sistema, dicono le carte della procura e l’esperienza. Raccomandano quelli del Pd, quelli dell’Italia dei Valori, raccomanda il figlio di Di Pietro, raccomandano i Verdi. Raccomandano lì e raccomandano in tutto il Sud e raccomandano anche al Nord, se soltanto ci si dà un’occhiata o si fa esercizio di memoria: per esempio, qualcuno ricorda i criteri con cui, a Milano, la Cariplo distribuiva gli appartamenti a equo canone? E’ che Mastella non se ne dispiace, e si dispiace semmai «per altra povera gente con le stesse difficoltà » per la quale non ha potuto nulla.

La raccomandazione - la “segnalazione”, come dice lui - è il gesto munifico del signorotto, «se uno viene direttamente da te, hai il dovere di farlo, di farlo in coscienza». Lo dice nelle interviste, lo dice nei comizi: lui negli anni Settanta entrò in Rai per la raccomandazione di Ciriaco De Mita, e alla redazione scandalizzata obiettava: «Fatemi capire, chi di voi è entrato per concorso?».

E in questi tempi di preteso calvinismo, predicato e non praticato, in altre famiglie si sarebbe evitato di acquistare (o di ricevere in omaggio) una Porsche Cayenne, come è capitato al figlio Pellegrino, ma questa è la famiglia che per il matrimonio dello stesso Pellegrino organizzò un party da Sunset Boulevard, con le piramidi di pesche, il carrello delle granite, Katia Ricciarelli che canta dal vivo, i sacerdoti del centrosinistra incravattati per benino. E’ Mastella con la sua mastellitudine, una sfacciataggine gioiosa, perché Silvio Berlusconi si porta il mondo al mare, Mastella si porta il salotto in paese, patrocina la sagra del fusillo al pecorino, patrocina la Porziuncola, fiera di sbandieratori, e patrocina anche Ceppaloni-Jazz, e ci porta pure Roberto Benigni e Claudio Baglioni, ed è sempre lui l’eroe: il paese ha il santo protettore.

Sarà forse soltanto un piccolo disgustoso mondo antico, dove raccomandare è un imperativo categorico e dove il raccomandato bacia le mani, ma è un piccolo mondo non confinabile nel beneventano, ci si fa raccomandare per il posto di lavoro senza limiti di latitudine, si fanno raccomandare i grandi professionisti per il posto in Parlamento e si fanno raccomandare i galeotti per cambiare carcere e stare più vicino alla famiglia, e chiunque sarà grato, e a buon rendere. E’ clientelismo? E’ corruzione? E’ voto di scambio? Qui il lavoro dei magistrati si fa particolarmente difficile, forse senza sbocco, sebbene il codice penale abbia ora un reato in più: la mastellazione aggravata.

da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Febbraio 11, 2010, 10:33:30 am »

11/2/2010

L'uomo con il mito del fare
   
MATTIA FELTRI

Guido Bertolaso, medico, sessant’anni a marzo, sposato, due figlie (Olivia e Chiara), nato a Roma da un vicentino generale di Squadra aerea, direttore del dipartimento della Protezione civile.

Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Emergenza rifiuti in Campania, commissario straordinario per il terremoto dell’Aquila, per i vulcani nelle Eolie, per le aree marittime di Lampedusa, per la bonifica del relitto Haven, per il rischio bionucleare, per i mondiali di ciclismo, per la presidenza del G8 edizione 2009, per le aree archeologiche, cavaliere di Gran Croce e Grande Ufficiale Ordine al merito della Repubblica italiana, medaglia d’oro Ordine al merito della sanità pubblica, medaglia d’argento di pubblica benemerenza della Protezione civile, cittadino onorario di Ostuni, laureato honoris causa in Ingegneria gestionale (Roma Tor Vergata), in Giurisprudenza (St. John’s University) e in Sostenibilità ambientale (Università politecnica delle Marche), quando proprio non ha niente da fare, va a giocare a golf all’Olgiata.

Visti gli incarichi e il curriculum (ripreso per intero da Wikipedia), di tempo libero ce n’è poco. La battuta di Fiorello, stracitata, secondo cui esistono oggi almeno centosei controfigure di Bertolaso, spiega l’opinione che gli italiani hanno del sottosegretario, dal momento che nell’ultimo decennio lo hanno visto saltare su e giù, dal Nord al Sud, dai monti ai mari, e qui dovrebbe cominciare un altro estenuante elenco che comincia con Bertolaso fra i terremotati dell’Aquila e si conclude con Bertolaso alla spericolata guida della Papamobile per condurre Giovanni Paolo II attraverso la folla dei papa-boys sul pratone del sacro incontro di Tor Vergata; in mezzo Bertolaso controlla il livello dei fiumi, il funzionamento delle discariche, la tenuta dei trampolini al Foro italico e le insidie delle fioriere a Pratica di Mare, e insomma tutto ma proprio tutto, come sempre è stato scritto: i vertici internazionali, le competizioni sportive, le calamità naturali, le raccolte dei fondi, e ultimamente perfino gli appalti, super-rapidi e super-efficienti.

Per capire perché Bertolaso è diventato Bertolaso, bisogna passare da tre immagini e da un personaggio. Prima immagine. Bertolaso studia a Liverpool, è la fine degli Anni Settanta. Si è laureato in medicina alla Sapienza e sta frequentando un master sulla cura delle malattie tropicali. Per strada i ragazzi giocano a calcio fra liquami e spazzatura e lui li fotografa per illustrare la tesi sulle correlazioni fra patologie e condizioni igieniche. Seconda immagine. Bertolaso è un bambino. Il padre, che ha combattuto come aviatore nella Seconda guerra mondiale, gli racconta dei mille viaggi e dei mille posti visti dal cielo. Il padre di Bertolaso è stato comandante della 91ª Squadriglia, quella di Francesco Baracca, la squadriglia degli assi. Terza immagine. Nell’ufficio di Bertolaso alla Protezione civile sono appese le fotografie di Ernesto Che Guevara, di Ernest Hemingway (di cui ha letto tutto), di Martin Luther King, di Albert Einstein, «sono quelli che ammiro», dice, e la foto di Albert Schweitzer (quasi bertolasianamente medico, teologo, musicista e missionario tedesco) la tiene direttamente nel portafoglio, ma è la bandiera tricolore che si porta appresso da trent’anni, dai tempi della Cambogia, sempre quella, sempre con lui (in Cambogia andò nel 1980 per costruire un ospedale dopo i disastri di Pol Pot, e reduce da un’esperienza africana - fra il Senegal e la Somalia - in guerra contro il colera).

Ecco, le tre immagini spiegano Bertolaso medico e manager, rivoluzionario e cattolico, missionario ed eroe, specialista e poliedrico. Manca il personaggio, e Bertolaso è uno che si è fatto benvolere da Giulio Andreotti, Francesco Rutelli, Romano Prodi. Ma chi ha fatto di lui un frenetico e inarrestabile sottopancia di Palazzo Chigi, titolare di un potere unico (e tanto potere porta tanti nemici), quello per esempio di affidare lavori senza passare, causa emergenza, dalle sfiancanti pappardelle delle gare d’appalto, è stato Silvio Berlusconi. L’antipatia schietta che il premier ha per i riti defatiganti della democrazia ha trovato una traduzione pratica in Bertolaso. Tutto a lui, tutto presto, tutto bene. È il conflitto fra i codici e il buonsenso che la politica non dirime.

da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Febbraio 16, 2010, 10:43:27 am »

16/2/2010

Il dilemma tra velocità e regole
   
MATTIA FELTRI

Qualche mese fa, in un pomeriggio di sole, Silvio Berlusconi era a Coppito, alla periferia dell’Aquila, per consegnare alle famiglie rimaste senza casa le belle palazzine nuove con le facciate di legno colorato.

Il presidente del Consiglio era così fiero del risultato che annunciò l’intenzione di estendere la dottrina-Bertolaso ad altre emergenze, e fece l’esempio di quella carceraria. Durante l’ultimo governo Prodi, poiché le prigioni traboccavano, il Parlamento aveva votato un indulto ma il provvedimento di clemenza non venne accoppiato a uno strutturale (non si costruirono nuovi penitenziari né si studiarono pene alternative alla detenzione), così oggi le prigioni traboccano di nuovo e sono amministrate nell’incivile convivenza.

Se il governo varasse un piano di edilizia carceraria con i sistemi e i vincoli classici, gli servirebbe almeno un lustro per concluderlo. Ma, fra le case di Coppito, il premier immaginò le galere venire su a velocità sconosciute alla democrazia e applicate soltanto alle ruspe mussoliniane (e per l’Aquila). Non soltanto perché Guido Bertolaso è bravo e concreto, ma soprattutto perché gode di strumenti unici: gli è permesso di affidare i lavori con trattativa privata, senza logorarsi nelle procedure solite della gara pubblica (bando di concorso, pubblicazione su Gazzetta ufficiale, presentazione dei progetti...). Sono poteri eccezionali, quasi incontrollabili, proprio perché, nell’emergenza, l’immediatezza del risultato è fondamentale.

Da quasi un decennio, si sa, Bertolaso non viene applicato soltanto ai soccorsi in caso di terremoto, alluvione o disastro ferroviario, ma all’organizzazione dei grandi eventi, come per esempio i Mondiali di nuoto o i viaggi papali. All’Aquila, però, Berlusconi si figurò un passo in più: chiamare emergenza l’ordinario (in Italia tutto l’ordinario è emergenziale e ogni emergenza è ordinaria) e affrontarlo con i sistemi spicci ed efficaci di un dopo-sisma. Per queste ragioni oggi si dibatte con tanta foga delle ulteriori prerogative che si intendevano affidare alla Protezione civile, e che lo scandalo giudiziario bloccherà o ridimensionerà. Ecco, al di là dei risvolti penali, il succo politico della vicenda è tutto qui.

È stato detto che i risultati più squillanti di quasi due anni di governo Berlusconi sono la ripulitura di Napoli dalla spazzatura e la gestione del disastro abruzzese. Sono due successi di Bertolaso e del suo metodo. Altri provvedimenti graditi dalla maggioranza degli italiani sono passati dai decreti, e cioè da leggi dell’esecutivo che entrano immediatamente in vigore, prima di passare dalle camere. Il grande tema di questa legislatura si conferma la velocità di esecuzione. Veramente è un tema antico: dalla crisi della Repubblica di Weimar al decisionismo craxiano, se ne parla da decenni. Ma oggi c’è anche un sistema dell’informazione tambureggiante: le tv, i giornali, i siti internet sollevano problemi in continuazione, e per reggere alla sfida del consenso i politici sono costretti a risposte fulminee.

I sacri (e sacrosanti) riti della democrazia sono sempre più inadeguati. Berlusconi lo ha capito e ha anche capito che, paradossalmente, rendere rapida la democrazia richiede un lentissimo lavoro di riforma che lui non può permettersi. Vuole che il suo governo passi alla storia per le cose fatte, non per una correttezza formale che ha sempre considerato da farisei, o per un riformismo a beneficio dei successori. E così usa i decreti e diffonde il metodo Bertolaso, e dentro la sua maggioranza ci sono opposizioni di scontenti, uomini per ruolo o vocazione fedeli alla liturgia, ministri che si vedono sottratte competenze e controlli, legalisti che vorrebbero un solido rispetto delle regole. La vicenda di Bertolaso ha rinvigorito i perplessi e adesso sarà interessante vedere se e quali altri poteri andranno alla Protezione civile, se invece verranno ridimensionati (molto probabile), e soprattutto se sarà ancora Bertolaso a esercitarli. Anche da questa partita dipende il futuro di Berlusconi: senza le splendide scorciatoie alla Bertolaso gli verrà difficile ripetere certe imprese e conservare l’ammirazione denunciata dai sondaggi. O trova una soluzione, o per i restanti tre anni della legislatura gli toccherà di vivacchiare fra carte bollate.

Insomma, il dilemma non è nuovo: a quanta libertà (a quanta prassi) la democrazia è disposta a rinunciare per essere più competitiva? E a quanta competitività è disposta a rinunciare per essere più libera? Anche se l’inchiesta fosse tutta una bufala, e Bertolaso e i suoi fossero immacolati, saremmo pronti, domani, a girare il loro imparagonabile potere in altre mani? È una domanda importante, perché non riguarda soltanto la politica. Il gip di Firenze, nel firmare l’ordinanza che ha stabilito arresti e avvisi di garanzia, ha ammesso di non averne la competenza. È competente Roma. Ma per evitare che le ruberie proseguissero, scrive, per bloccare quella cricca che ne stava combinando delle altre, è stato necessario uno strappo alla regola. Il risultato serviva, e serviva subito. Chissà se Bertolaso si è reso conto che tutto quello che gli sta capitando dipende dal metodo Bertolaso applicato alla magistratura.

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« Risposta #7 inserito:: Febbraio 22, 2010, 09:42:12 am »

22/2/2010 - SANREMO

Emanuele perfetto arcitaliano
   
MATTIA FELTRI


Quelli convinti che l’Italia fosse dei sei e mezzo, dei bravini ma non bravissimi, devono cambiare idea, visti i successi di Emanuele Umberto Reza Ciro René Maria Filiberto di Savoia: l’Italia è dei sei meno meno. Secondo a Sanremo dopo essere stato il primo dei non eletti alle elezioni Politiche, e dopo essere passato per la vittoria danzante a «Ballando con le stelle», il principe si dimostra un incapace a tutto, e per di più poliedrico.

Non è vero: si è troppo cattivi. Non è un incapace a tutto. E’ un garbato mestierante. Ha una voce impreparata al karaoke ma, come è stato detto, stona meno di molti professionisti. Balla come lo zio Gino con la zia Gina.

Ma tira fuori il passo del blasone, alla Vittorio Gassman con la servetta veneta.

E se si candida al Parlamento, vabbè, insomma, come si dice: sarà un nano, ma qui di giganti non se ne vedono.

Se si tratta di tv – o se si trattasse della Camera dei Deputati – è in fondo comprensibile il credito di cui gode questo erede a un trono che non c’è. E infatti non stupisce tanto il secondo posto del principe al Festival della canzone italiana, quanto invece stupisce il vorrei ma non posso degli orchestrali di Sanremo (di Sanremo, non della Berliner), che gettano sul palco gli spartiti appallottolati in protesta per l’eliminazione dei loro beniamini, e mettendola incredibilmente sul piano della qualità. A Sanremo.

Ecco, qui siamo davanti agli orchestrali che vorrebbero un’etica sanremese (togliamo ex post le vittorie a Toto Cutugno?), oppure siamo davanti alle trasmissioni resistenziali, dove il moralista dice cretino all’immoralista, e l’immoralista dice deficiente al moralista, e siamo in un (appassionante) pianeta, e non è soltanto della televisione, dove quell’altro è sempre un mascalzone prezzolato, se va bene. E allora spunta questo ex ragazzo quasi quarantenne, col suo faccino inoffensivo, che si intasca tutti i fischi del mondo, e fischi preventivi, mica da giudizio analitico a posteriori, e non perde mai le coordinate della buona creanza. Ringrazia i contestatori quanto i sostenitori, e sarà pure affettato, ma quanto sollievo dà un po’ di educazione, anche fosse messa su con le impalcature, vista la bolgia livorosa cui siamo ridotti.

Forse è che la tv è deficiente, ma i telespettatori lo sono fino a un certo punto: se la tv è deficiente, non facciamo tutti i fenomeni. Si reagisce al linciaggio. Si premia la filastrocca paracula perché in fondo lo è senza infingimenti, e quella di Simone Cristicchi, per esempio, che cosa era? Che cosa era la dedica a Marco Travaglio? Che cosa era l’opposizione a questo sistema che non va, e da cui Cristicchi (a che titolo?) si tira fuori?

Meglio, mille volte meglio Emanuele Filiberto, che non insegna a nessuno a stare al mondo, torna qui dopo un incomprensibile esilio, va alle elezioni, balla sotto le stelle, canta dall’Ariston, è più italiano di me e di te, poiché niente è peggio di un italiano che si sente migliore degli italiani. Persino a Sanremo.

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« Risposta #8 inserito:: Marzo 05, 2010, 10:27:30 pm »

5/3/2010 (7:9)  - REPORTAGE

"Flop" del raduno Pdl

E la Polverini restò sola

La candidata: come può uno scoglio arginare il mare?

MATTIA FELTRI
ROMA

Che non avrà un capitolo nella storia delle agitazioni di piazza, lo si era capito dall’aria che tirava. Non tanto lì, dove comunque pioveva parecchio e c’era vento.

Ma in tutta la città, sin dalla mattina, con i graduati del Popolo delle libertà convocati in vertici telefonici e incontri multilaterali per trovare la soluzione. Quando il pleonastico sit-in stava per cominciare, i pezzi grossi erano tutti a Palazzo Grazioli, a casa di Silvio Berlusconi, per comunicargli l’esito del lavorio: «Pensaci tu!». E là, in piazza Farnese, dove gli attivisti e i simpatizzanti di Renata Polverini erano stati convocati alla manifestazione contro l’esclusione dalla gara delle liste del Pdl, non restava che scambiarsi istruzioni: «Aho, ma contro chi stamo a manifesta’?». Contro i radicali? Contro i giudici? Contro Napolitano? «Contro tutti quelli che nun ce fanno vota’».

Insomma, chiariti gli intenti programmatici si poteva cominciare, anche se stare sotto al palco e sotto al diluvio è sempre un grande impiccio, e perlomeno gli ombrelli aperti aiutavano il colpo d’occhio. Già piazza Farnese è una piazzucola, quanto a dimensioni, e si è contato che ci fossero dalle mille alle duemila persone, il solito ottimista ne denunciava cinquemila, ed era comunque un capolavoro di sobrietà in tempi in cui mobilitazione non è se non si millanta il milione. E però, certo, era un’adunata messa in piedi in un paio di giorni, non c’era da aspettarsi chissà che, i militanti bravini si erano presentati con almeno due ore d’anticipo, e quando gli oratori hanno tentato di dare fuoco agli animi, gli animi erano già zuppi.

Poi, certo, la militanza è la militanza, ci si scuoteva, lo sventolio delle bandiere (berlusconiane, polveriniane, romane e romaniste del Popolo di Roma) era ininterrotto. Si intonava qualche coro («non mollare mai», «democrazia / democrazia»). Si battevano le mani e i piedi nonostante i furori sembrassero sopiti da superiori ragioni meteorologiche. Un anonimo dirigente locale, con un bel vocione adeguatissimo, si è messo a baritonare: «Ladri... di speranza. Ladri... di futuro. Ladri... di democrazia». Ma il grosso si era distratto, faceva capannelli, si attendeva che perlomeno arrivasse qualche big. «Grazie di sopportarci!», gridava Barbara Saltamartini dal palco, bravissima a correggere al volo l’imbarazzante refuso: «Volevo dire, grazie di supportarci». E’ una giornata così, nata storta. La stessa Saltamartini, parlamentare eroica nella missione di tenere su gli astanti, aveva un crollo psicologico e finiva, elencando i relatori, col presentare se stessa: «Interverrà Barbara Saltamartini... Ehm, scusate, la Saltamartini sono io. Volevo dire Beatrice Lorenzin...».

Alla fine, però, i capoccioni sono arrivati e hanno parlato tutti, a cominciare da Fabrizio Cicchitto e per proseguire con Maurizio Gasparri, a dare un senso a questo strano pomeriggio. Il capogruppo del Pdl alla Camera a dire che lo Stato di diritto sarà ripristinato, il capogruppo del Pdl al Senato a dire che i cavilli non fanno democrazia. Interventi brevi, però, che c’era poco da dire, e semmai c’era da aspettare sera, l’incontro al Quirinale, la convocazione eccezionale del Consiglio dei ministri. E così sembra che nella noia siano girati un paio di saluti romani - e qualcuno ne trarrà motivo di scandaletto - e se infine tutto sembrava perduto ci ha pensato la Polverini a regalare un brivido. Aveva detto il necessario: ci batteremo di qui e di là, i diritti sacrosanti, la libertà e la democrazia eccetera. E continuava, fra uno slogan e l’altro, a ritirare fuori un bel paragone col mare - «voi non siete una piazza, siete il mare!», «voi non siete un popolo, siete il mare!» - e non si comprendeva dove volesse andare a sbattere finché, all’ultima metafora, si è svelata: «Voi siete il mare e dunque... Tutti insieme... Forza... Come può uno scoglio / arginare il mare / anche se non voglio / torno già a volare». E tutti a fare oh-oh, sulle note di Battisti e da sottofondo a una Polverini in versione Filiberta. Alla fine lei li ha congedati, che poverelli non si schiodavano: «Andate a fare campagna elettorale che dobbiamo vincere». Hanno lasciato la piazza, verso calze asciutte.

da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 17, 2010, 10:21:46 am »

17/3/2010 (7:12)  - REPORTAGE

Il superspot non seduce Trani

La cattedrale di Trani

Le bellezze della città da giorni in tv: «Ma non abbiamo bisogno di farci pubblicità»

MATTIA FELTRI
INVIATO A TRANI

Ma insomma, Trani è una città moderna. Ieri mattina i furgoni con le parabole e poi i fotografi e naturalmente i cronisti, quelli col microfono e quelli col taccuino, avevano occupato i metri quadrati più belli della Puglia, quelli che stanno fra il tribunale e il castello svevo e la cattedrale di San Nicola Pellegrino.

Tutti lì ad aspettare Michele Santoro che pare ne avesse da dire, agli inquirenti.

E la colleganza impettita, sull’attenti davanti al dovere, e intanto quelli di Trani sbarcavano il pesce. E’ andata così: si sbirciava con consapevolezza. Perché Trani è una città moderna e ha un orgoglio antico. Non è mica questo mezzo vippume d’inizio primavera a scuotere una città di cinquantamila abitanti e secoli di gloria. Ti dicono: vedì lì, da quel molo? Ecco, da lì partivano le crociate. E in fondo non è neppure questo a conservare il senso delle proporzioni, qui, dove in una qualsiasi serata fra maggio e ottobre arrivano da Bari, da Andria, da Foggia, arrivano i villeggianti a migliaia a fare su e giù lungo il porto, fra i bar e i ristoranti, e il lastrico millenario, a furia di suole, è lucido di cera. E arriva Riccardo Scamarcio – e qui un giorno sì e un giorno no, dicono esagerando - e si porta pure la guagliona, la Valeria Golino. E poi Renzo Arbore, eccetera eccetera che ci riempi l’album delle figurine. Occhio a offendere: non sarà una mattinata al tg a dare pelle d’oca.

La chiamano la perla della Puglia, tanto è bella. La cattedrale, la sinagoga, il castello, la fortezza, tutti addosso al porto, bianchi di pietra vecchia come il mondo. Il castello lo fece costruire Federico II, stupor mundi, e ci abitò il figlio prediletto, Manfredi. Qui ci si ferma fuori dalla libreria Maria del Porto, che è tenuta da Rosanna Gaeta, una di sinistra tosta. La conoscono tutti. Ora è all’estero, ma la libreria va avanti da sé. Ieri sera, nella stanzetta in fondo, proiettavano «L’abbuffata», il film di Mimmo Calopresti. Dicono: si fermi fino a venerdì che arriva Maurizio Scaparro a presentare il suo nuovo lavoro, «L’Ultimo Pulcinella». Si sfogliano i libri e si chiacchiera, con meridionale sospensione. Gli frega niente della procura. Potessero, butterebbero a mare Berlusconi, ma «Maria del Porto» è la calamita di professori in carica e in pensione, mezzi scrittori, professionisti, e naturalmente giuristi, si fa letteralmente accademia.

Poi, se proprio vai a insistere, è facile vedere l’orgoglio spuntare fra le parole. Vendono il pesce, al crepuscolo, proprio davanti al tribunale, e sfidano l’ospite: ma lo sai che noi qui eravamo sede di corte d’appello? E per tutta la Regione Puglia. Fu così dall’Unità (1861) all’alba del fascismo, quando i fasci baresi, colti e ammanicati, si presero anche la corte d’appello. Ancora si parla dei rinomati giuristi di Trani. Quelli che sapevano spaccare il capello in quattro e dai tempi di Federico II, e li chiamavano da tutta la regione, e ben prima di Garibaldi, ben prima dell’umiliazione inflitta da Gioacchino Murat, che inginocchiò la città, le tolse l’amata corte d’appello, sterminò i borbonici che si erano dati convegno qua, e non per farne una ridotta, forse solo un concilio. Ecco, al massimo c’è la soddisfazione di essere ancora l’ombelico del mondo, in fatto di codici e di fumisterie, oggi siamo alle competenze territoriali, ma il bello è che per qualche giorno le sorti si decidono a Trani, o perlomeno che l’impressione sia questa.

Ma, si diceva all’inizio, Trani è una città moderna, fra una pietra e l’altra. Qui il vero guaio non è quello combinato dal procuratore Carlo Maria Capristo e dai suoi sostituti, ma semmai è da vedere in viale Russia, ogni sera, sul cavalcavia che chiamano ponte dell’amore. Anche di questo si ama parlare col forestiero. Vai lì quando s’è fatto tardi e in mezzo ai palazzoni e alle bozze di discariche vedi le auto con gli amanti, quelli ortodossi e il resto del mondo, scambisti gay eccetera. E qui siamo moderni, però, eh. L’assessore della giunta comunale di centrodestra, Pina Chiarello, ha aperto un gruppo su Facebook dove gli abitanti di Trani suggeriscono la soluzione giusta, poiché quelle di forza tentate dai vigili scatenano ogni volta un pandemonio di proteste. E poi sarebbe facile dire che la procura dovrebbe occuparsi di ponte dell’amore, e infatti nessuno lo sostiene, ma i fatti di viale Russia non sono meno cicciosi di quelli di Corrado Calabrò.

Alla lunga, col freddo, sono rimasti in strada i soliti struscianti e soprattutto i ragazzi che ieri sera hanno occupato a lungo in piazza Quercia, davanti al camper della Giovane Italia, il movimento giovanile del Pdl. Sul camper c’era la scritta: «Cuori ardenti di sogni, speranze, futuro. Dipende da te». I giovani oratori ci hanno pure scherzato sopra, sulla loro procura, «ma oggi vogliamo parlare del mito». Il mito tolkeniano, mica Santoro.

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« Risposta #10 inserito:: Marzo 23, 2010, 09:08:36 am »

23/3/2010 (7:24)  - IL CASO

Fi e An, un anno insieme storia di un amore mai nato

Dietro ai coordinatori, un esercito di correnti e potentati locali

MATTIA FELTRI
ROMA

Il prossimo fine settimana, mentre si eleggeranno i governatori, il Popolo della libertà compirà un anno. Il congresso fondativo si tenne fra il 27 e il 29 marzo 2009 e, se le elezioni verranno trasformate non soltanto in un referendum sul premier ma anche in un referendum sul nuovo partito, il risultato rischia d’essere tristarello. Perché ci si deve immaginare un partito nel quale i cofondatori, Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, litigano alla frequenza e all’intensità che tutti sanno. Un partito nel quale - secondo l’ultimo consuntivo proposto dal Giornale - le correnti sono quattordici e non si calcolava l’ultima arrivata. Un partito nel quale la corrente ultima arrivata - Generazione Italia, voluta dal presidente della Camera e dai suoi appuntati - una settimana fa ha ricordato che in dodici mesi «non si sono mai riuniti il Consiglio di presidenza e la Direzione nazionale, se non per motivi statutari».

Il riassunto potrebbe occupare spazi infiniti: ci sono tre coordinatori che vanno d’amore e d’accordo, ma attorno a loro volano affamati gli avvoltoi; ci sono i Promotori di Michela Vittoria Brambilla e i club di Mario Valducci, che già si sfidano per chi alla resa dei conti rappresenterà il nuovo. Quello che conta sono gli effetti, e si sono visti in ogni regione col problema d’individuare il candidato buono, ma anche dove non hanno di queste urgenze. E infatti l’ultimo spettacolo è siciliano, dove l’eterna promessa Gianfranco Micciché rilancia il Partito del sud. Furono il presidente del Senato, Renato Schifani, e il Guardasigilli, Angelino Alfano, a brigare perché la Sicilia finisse nelle mani di Raffaele Lombardo anziché in quelle di Micciché. Poi il tempo è bizzarro, più che galantuomo, e oggi Micciché e Lombardo fanno a bacetti per questioni di orgoglio nazional-siciliano, mandando ai nervi i romani, nonostante il Partito del sud di Micciché nasca, e ti pareva, negli interessi del premier. Siccome la cosa sa di scissione, la scorsa settimana c’è stato un vertice Schifani-Alfano-Micciché che si è concluso così: «infruttoso» secondo il coordinatore regionale schifanian-alfaniano Giuseppe Castiglione, «fruttuoso» secondo il parlamentare miccicheiano Pippo Fallica.

Già la Sicilia potrebbe essere il caso di scuola per spiegare come vanno le cose nel Pdl. Potrebbe esserlo pure la Lombardia, dove si finisce spesso alle mani, spessissimo agli insulti, talvolta in galera. Quando l’assessore regionale ex An, Gianni Stornaiuolo, e l’assessore regionale ex FI, Doriano Riparbelli, si sono presi a ceffoni, Riparbelli è filato ad Arcore per esporre la sua versione dei fatti, e il povero Berlusconi, per fare estrema sintesi, disse: fra tangenti e liste respinte qui siamo già una mezza barzelletta; non montiamo anche questa storia che diventiamo un cinema. E infatti (mentre Formigoni aspetta lunedì per regolare i famosi conti con i dilettanti che fecero il casino delle liste, e qui il leghista Matteo Salvini aveva già individuato il colpevole: «Riparbelli!») è tutto clamorosamente bipartisan: Gianni Prosperini, ex An, che in carcere confessa le tangenti e Mirko Pennisi, ex FI, che viene registrato dalle talecamere mentre intasca la mazzetta. Il caso di scuola, a maggior ragione, vien fuori in Campania: sul tafferuglio napoletano questo giornale ha scritto a ripetizione, e forse basta dire che il ras finiano Italo Bocchino è contro il coordinatore regionale Nicola Cosentino che è contro il candidato Stefano Caldoro e in mezzo, ad alimentare la zuffa, ci sono Mara Carfagna e Alessandra Mussolini, anche loro in cerca di un posto al sole del golfo.

Poi è chiaro che per il Pdl il grosso della partita si gioca nel Lazio. Soprattutto gli ex An, che già hanno il sindaco, vorrebbero il governatore per creare un bel centro di potere. E siccome si considera Renata Polverini in quota a Fini, lo spettacolare risultato è un altro tutti contro tutti. Con quelli di An che dicono: «In Forza Italia danno spesso l’idea di remare contro». E quelli di Forza Italia che ribattono: «L’impressione è di avere portato una bella donna all’opera, ma la bella donna non è mai andata oltre Jovanotti». E quelli di An e quelli di Forza Italia che in coro dicono: «I finiani? E chi li ha visti? Qui l’unico che si batte è Berlusconi». E però, in Puglia, ci si sono messi Raffaele Fitto e tutto il partito a convincere il premier che Rocco Palese è l’ideale, e lui che voleva Adriana Poli Bortone per fare l’intesa che l’Udc dovette prima cercare un nome che mettesse tutti d’accordo (Francesco Divella, Stefano Dambruoso) e infine cedere alle lagne dei suoi. Ma se lunedì dovesse vincere Nichi Vendola ci sarà da ridere.

E comunque non è che tutto si risolva nel derby ForzaItalia-An. Si sa, la fusione è funzionata senz’altro nel rimescolare carte e uomini, con ex missini ora superberlusconiani ed ex liberali ora devoti a Fini. La nascita del Pdl, per esempio, non ha cambiato di una virgola la millenaria sfida ligure fra Claudio Scajola e Sandro Biasotti, che però non sono fessi, e ora si fanno vedere assieme in biciclettata. Non per niente Scajola viene dalla Dc, il partito maestro nella faida continua, tranne che in campagna elettorale. Ma insomma, lo show è planetario: in Piemonte il Pdl è nervoso per l’imposizione romana di un leghista, per non parlare della depressione di Giancarlo Galan in Veneto; in Toscana, si è arrivati alla candidatura di Monica Faenzi passando da plateali dimissioni dei coordinatori locali. E così via, sino all’ombelico del mondo. Non è ancora successo niente: il bello comincia lunedì sera.

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« Risposta #11 inserito:: Aprile 23, 2010, 11:53:43 am »

23/4/2010 (7:10)  - REPORTAGE

L'addio al partito dell'amore

La direzione del Pdl riunita ascolta il discorso di Fini

La direzione vista dalla platea: le sbuffate di Fini, l'insofferenza del premier, la bolgia in sala

MATTIA FELTRI
ROMA

Ci è mancato soltanto che l’uno rimproverasse all’altro di lasciare in giro i calzini. Ma a Silvio Berlusconi e a Gianfranco Fini - in rigoroso ordine alfabetico - era clamorosamente mancata l’ironia per onorare il paragone speso dopo il tafferuglio: come casa Vianello.

E per questo l’interpretazione melodrammatica del muso a muso fra masculi non fu malriuscita. Anzi. E l’immagine gravida di futuro che Gianfranco Fini aveva offerto di sé, nei mesi e nei giorni scorsi, s’era slavata in un gran masticare di chewing-gum; un ruminare, come si diceva alle elementari, che incontrava una sola attenuante: il presidente della Camera ha smesso di fumare.
Per modo di dire, poi, perché Fini fischiava dal naso e dalle orecchie di prima mattina e - mentre Berlusconi cercava di accreditarsi come intima opposizione (faremo le riforme condivise, faremo i congressi) - era più sbuffante di un vulcano islandese. Ma ancora non si era sospettato che approdasse alla demolizione dell’eterno programma scenografico berlusconiano: lo one-man-show. Certo, il controcanto e il ditino alzato, ma che tutto finisse lì. Invece ogni dettaglio ha complottato contro il partito dell’amore. Intanto la tecnica cubana secondo la quale Fini avrebbe parlato con duemila cofondatori e dopo Berlusconi, dopo i coordinatori, dopo i ministri, e cioè all’ora della pappa. Fini ha fatto cenno di scocciatura, ha mandato ambasciatori, e infine Berlusconi è cascato dal pero: «Se vuoi parlare...».

A quel punto è cominciato qualcosa di sconosciuto alla memorialistica politica. Fini si è eretto a ripetere le cose dette e ridette, in privato e in pubblico, e persino con un tono quasi conciliante, una profusione di premesse sull’eccellenza del governo e di chi lo guida, e di postille su quello che tuttavia non gli garba. Non era bendisposto, Berlusconi. Se ne stava a braccia conserte e col broncio mentre Fini lamentava la puerilità di questo e la polvere sotto il tappeto di quest’altro; era il solito premier che adora le regole per quanto è bello infrangerle: dava sulla voce al comiziante dispiaciuto che lo si chiamasse traditore: «Io non l’ho mai detto!». Era tutto così. Fini parlava dei 150 anni dell’Unità d’Italia e dell’assenza di idee di partito? «Ma dai, Ci lavoriamo tutti i giorni!». «Non voglio polemizzare...». «Ah no?». E non è che Fini aiutasse: la mano in tasca, quel tono da Clint Eastwood felsineo, il modo di rivolgersi: «Berlusconi, te lo dico in faccia...». Non Silvio o presidente. Berlusconi, come al servizio militare. E raccontava che cosa si erano detti in privato, quella volta e quell’altra. E lui, Berlusconi, ascoltava e alzava le mani, sfregando i pollici sugli indici e i medi, in un gesto secondo cui la sostanza era pochina.

Fin lì si era soltanto nella categoria dell’imbarazzante. Ma quando Fini ha parlato di «impunità», s’è capito che finiva a schifio. Berlusconi ha di nuovo ribaltato il programma: ha stretto la mano a Fini e si è impossessato del palco per rispondere a braccio, cioè a ceffoni. Mi è sembrato di sognare, ha esordito. Tutte le cose dette da Fini le scopro oggi. E comunque mi sembrano sciocchezze di fronte alle moltissime cose che vanno bene. E poi - ha proseguito - già che tu racconti dei nostri incontri, l’altro giorno, davanti a Letta, hai spiegato che eri pentito di aver fondato il Pdl e volevi farti i gruppi tuoi. Si era ormai alla rivendicazione da ballatoio. Berlusconi aveva alzato la voce. Fini aveva alzato tutto se stesso, sotto il palco a protestare col dito teso. La platea una bolgia. Non si sono fermati più. Fini si è riseduto ma stavolta era lui a dare sulla voce del premier, non si capiva che cosa dicesse, ma si sentivano le risposte di Berlusconi, nel nulla: «Sììì, proprio tuuuu!». Il privilegio massimo era un’inquadratura per leggere il labiale di Fini in ironico battimani: «Bravo! Bravo!». Uno spettacolo inimmaginabile, rovinato dalla prudenza degli organizzatori che avevano esiliato i cronisti nella sala stampa davanti agli schermi.

E così, quando Berlusconi ha invitato Fini a far politica non dalle istituzioni, e cioè a dimettersi, lì si è intuita una vocazione classica di Fini alla bella morte, che retoricamente chiedeva furioso e terreo «Sennò mi cacci?», prima da seduto, poi all’impiedi, all’inseguimento del premier, con le scorte che intervenivano a far da cordone, e il regista pietoso e maledetto a togliere i primi piani, e forse Berlusconi che risponde: «Ci sto pensando...». E’ finita così, con le telecamere dietro a un mare di schiene alzate, lontane voci concitate, la guerra consumata, quindi tutti fuori, sulla strada a cercare di capire che succederà adesso, e quelle due matte di Alessandra Mussolini e Daniela Santanchè che escono a braccetto, ridendo in coppia come le ginnasiali che vanno al bagno, loro due, che si erano date a vicenda della patata transgenica: «Quando i maschi litigano, le donne fanno pace». E pregustano teste rotolanti.

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« Risposta #12 inserito:: Aprile 30, 2010, 11:03:50 pm »

30/4/2010 (7:17)  - LA STORIA

Quando il peso politico si misura in metri quadri

L’amore della Casta per il catasto: dagli attici della Prima Repubblica ad Affittopoli

MATTIA FELTRI
ROMA

Attico e superattico, luminosissimo e terrazzatissimo, zona Fontana di Trevi, equo canone, ma almeno Ciriaco De Mita teorizzava il diritto al privilegio per le classi dirigenti. Era l’88 e le cronache si adeguavano: un po’ divertite e appena appena scandalizzate. Il capo democristiano si era preso quattrocento metri (più cinquecento di terrazza) e si giocava a indovinare la data dell’inaugurazione, e che cosa avrebbe indossato la figlia Antonia, tutto lì. Saltò fuori che la casta aveva lottizzato il patrimonio immobiliare: ai comunisti i palazzi Inps, ai democristiani i palazzi Inpdai, e il trilocale all’amante e il bilocale al figliolo. Siccome forse il potere logora, ma il podere no, non c’era capocorrente che fosse stato privato della vantaggiosa locazione in centro storico: Nilde Jotti, Giuliano Amato, Giorgio La Malfa, il giovane Rutelli eccetera eccetera. Paolo Cirino Pomicino, in anni di Prima Repubblica, accolse i fotografi a casa, sempre attico e superattico, sempre luminosissimo e terrazzatissimo, kitch e sbalorditivo, stavolta affacciato su Posillipo e di proprietà, per offrire alla vista degli elettori un commensurabile esempio delle sue vette di gloria.

Dunque, siccome il peso di un uomo si calcola in metri quadrati e accatastamento, e da prima della domus aurea, l’immediata preoccupazione del leader è procurarsi un domicilio all’altezza, in ogni modo: in ossequio alle regole o con la truffa. Sulle modalità d’acquisto del ministro Claudio Scajola - appartamento con vista sul Colosseo - si stabilirà. Ma come dimenticare che il medesimo Scajola, nel 2007, in denuncia dei redditi aveva elencato undici immobili di proprietà? Il rischio, poi, è di essere impiccati alla medesima causa per cui si era ammirati: la reggia. Trasecolava, Claudio Martelli, quando da un giorno con l’altro la villa sull’Appia antica era diventata da simbolo di grandeur a simbolo di taccheggio. Era il terribile 1993, ma le cose non sembrano cambiare.

Gira e rigira salta fuori uno scandalo, e gira e rigira si va a parare sul domicilio. Affittopoli, anno 1996, fu la madre di tutte le spiate. Ci rimediarono la figuraccia soprattutto i giovanotti emergenti della sinistra post Mani pulite, Massimo D’Alema e Walter Veltroni, il primo alloggiato a Trastevere, il secondo a piazza Fiume, e anche lì, come nel caso De Mita, a equo canone da enti pubblici. Ma, appunto, mentre De Mita credeva nella rettitudine della franchigia, gli statisti della moralizzazione non potevano permettersi una macchia così disonorevole: D’Alema traslocò, Veltroni chiese un adeguamento della pigione. I giornali si esercitavano su un nuovo tema: Affittopoli è di destra o di sinistra? La contabilità diceva che quelli di sinistra presi col quartierino semiregalato erano quindici contro nove di destra. E quelli di destra non battevano ciglio: «Il nostro elettorato capisce», disse Clemente Mastella a sua giustificazione. E insomma, quelli di sinistra erano di più ma quelli di destra erano senza vergogna, e ognuno ne trasse considerazioni filosofiche: quanto era attuale la lezione di Norberto Bobbio sul (tradito) egualitarismo di sinistra e il (praticato) inegualitarismo di destra?

Poi sono trascorsi gli anni e Affittopoli trasfigurò in Svendopoli: le medesima residenze, occupate ad affitti di favore, a prezzi di favore erano state vendute. E agli stessi illustri inquilini. Di nuovo si rosicò a vedere sui giornali - nel frattempo approdati a una minuziosa stampa a colori - le foto degli attici e superattici, luminosissimi e terrazzatissimi, dei vari Franco Marini e Pierferdinando Casini, in una mutualità della protervia che intanto aveva abbattuto i muri dell’arco costituzionale: ebbe un tetto anche Gianni Alemanno. Tanto per intenderci sull’investimento: Nicola Mancino aveva acquistato al prezzo di un miliardo e 550 milioni di lire (circa 800 mila euro) dieci vani più soffitta autonoma in Corso Rinascimento, la via del Senato. Mastella, col solito spirito pragmatico, rastrellò sei appartamenti destinati a figli, sedi di partito e redazioni di giornale.

C’è niente da fare: se si infilano le mani nei traffici immobiliari, non se ne esce più: dall’abuso edilizio di Vincenzo Visco a Pantelleria, alle immaginifiche e lucrose trattative di Silvio Berlusconi per ognuna delle sue sparse ville, alle mirabolanti avventure di Antonio Di Pietro fra masserie e garconniere (a adesso, se non s’è perso il conto, siamo a un totale di nove possedimenti, come Fausto Bertinotti), le questioni di dimora pareggiano belli e brutti, buoni e cattivi. E sarebbe forse giusto, in periodo di riabilitazioni, applicarsi al caso del socialista Gianni De Michelis il quale, negli swinging Ottanta, abitava in una stanza dell’Hotel Plaza, in via del Corso, a sei milioni di lire al mese. Visto oggi, un atto di sobrietà.

da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Maggio 03, 2010, 08:59:00 am »

3/5/2010

Il senso del ministro per gli affari
   
MATTIA FELTRI


Claudio Scajola acquistò casa con vista sul Colosseo nel 2004. Secondo l’accusa, la casa costò 1 milione e mezzo, e 900 mila euro furono pagati dal costruttore Diego Anemone. Scajola nega: «Ho pagato la somma pattuita pari a 610 mila euro». In una delle tante interviste lette sui quotidiani di sabato, il giornalista chiede: «610 mila euro per 180 metri quadrati, non le sembra poco?». Scajola risponde: «Mi sono documentato in questi giorni. Basta fare una rapidissima indagine sui prezzi degli immobili a Roma in quel periodo e si vedrà come il prezzo da me pagato sia in linea con quello di mercato per un immobile di quel tipo in quella zona».

In effetti basta fare una rapidissima indagine e si scopre (Censis 2005) che nel 2004 Roma era la città più cara d’Italia: il prezzo medio al metro quadrato era di 3 mila e 900 euro. Prezzo medio, e cioè facendo sintesi fra una casa di borgata e una, diciamo, vista Colosseo. Ma Scajola (che colpo!) la pagò 3 mila e 300 euro al metro. Sotto la media: magia. Il quartierino in questione sorge a Colle Oppio (cento metri dal Colosseo, proprio sulla Domus Aurea di Nerone): se uno fa un giretto in Google, e controlla i prezzi del 2004 a Colle Oppio, vedrà che il ristrutturato non era mai sotto i 10 mila euro al metro e poteva arrivare a 14-15 mila. Il non ristrutturato, se andava bene, ma proprio bene, si attestava sui 7 mila e 500 euro.

Ecco, basta fare una rapidissima indagine e si scopre che Scajola è quantomeno un uomo molto fortunato. Ma se sopravvive il sospetto che Scajola acquisti appartamenti alla metà della metà perché è un uomo abile, beh, uno così bisognerebbe farlo Presidente dei Mutuatari, o forse ministro della Casa (con vista), oppure direttamente Santo.

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« Risposta #14 inserito:: Luglio 26, 2010, 11:09:21 pm »

26/7/2010 (7:13)  - LA STORIA, GUAI AI DISSIDENTI

L'epurazione, vizietto bipartisan

Granata espulso sarebbe solo l’ultimo caso di una serie infinita, a destra come a sinistra

MATTIA FELTRI
ROMA

C’è epuratore ed epuratore. C’è il serial killer, come Umberto Bossi, e il virtuoso del coltello, come Walter Veltroni: la cacciata di Riccardo Villari dal Partito democratico, alla fine del 2008, è un gioiello di spietatezza. La Stampa ricordò le mani di Karl Radek, la scoperta di Franco Fortini in un saggio del 1965 (Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie); Fortini analizzava un filmato di Lenin alla Terza internazionale, dietro Lenin c’era anche Nicola Bombacci che sarebbe poi diventato fascista di Salò e c’era Radek con gli occhialini e la barbetta e rideva, e alla fine gettava le braccia in avanti. Fortini visionò due copie diverse del medesimo filmato e nella seconda, passata per le mani di forbice di Stalin, la faccia di Radek era stata cancellata, poiché era caduto in disgrazia, ma le mani no, ed erano rimaste a gesticolare galleggianti nei fotogrammi.

Villari - qualcuno ricorderà - era stato eletto alla presidenza della Vigilanza Rai senza i voti dei compagni e, siccome non si schiodava, venne estromesso prima dal gruppo poi dal partito e, su demoniaca pretesa di Veltroni, cancellato dall’elenco dei fondatori del Pd. Villari non venne purgato, venne obliterato, eliminato dalla storia, sparso il sale sulla sua ombra. Mai esistito.

Bossi non si occupa di queste crudeltà d’archivista. Lui rade al suolo. Con l’elenco dei pogrom leghisti si potrebbe scrivere un breve manuale del genocidio politico: dalla sorella di Umberto, Angela, col marito Pierangelo Brivio, poi passati ai movimenti dell’irrilevanza, e fino a Maurizio Grassano, subentrato in Parlamento a Roberto Cota e poi defenestrato perché inquisito, si percorre un camposanto. Per intenderci: nel 1999 Domenico Comino venne messo alla porta perché osava intrattenere rapporti con il mafioso di Arcore e due anni più tardi toccò a Francesco Tabladini perché al contrario osava contestare il rinato accordo coi berlusconiani, che però mafiosi non erano più. E ci sono le vicende di Franco Rocchetta, Gianfranco Miglio, Giancarlo Pagliarini, delle decine di veneti allergici al «neocentralismo lombardo» e lì il confine fra l’abbandono e la deportazione è labile. E’ che Bossi è un diserbante. Nel 1990 ammise di aver falciato uno perché «culattone»: «Un ragazzo per bene ma era omosessuale. Quanti partiti democratici hanno omosessuali dichiarati, cioè donnicciole, nei loro posti chiave? Un omosessuale è persona di tolleranza fragile, instabile».

Così, dopo un po’, la pretesa di far fuori Fabio Granata non sembra nemmeno tanto campata in aria, soprattutto perché non è che Alleanza nazionale fosse una congregazione così ecumenica. Spettacolare è la vicenda della Caffettiera ai cui tavolini - luglio 2005 - sono seduti Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa e Altero Matteoli. Siamo a Roma, piazza di Pietra. Li ascolta un giovane stagista del Tempo, Nicola Imberti. I tre parlano di Gianfranco Fini: «E’ malato, non vedete come è dimagrito, gli tremano le mani. Non possiamo farlo trattare con Berlusconi sul partito unico. Non è capace!». E ancora: «La vera questione è capire chi è Fini oggi. Dobbiamo andare da lui e dirgli: svegliati! Se serve prendiamolo a schiaffi, ma scuotiamolo». I giornali spettegolano su recenti delusioni d’amore di Fini, già separato da Daniela Di Sotto e non ancora congiunto a Elisabetta Tulliani. In un libro uscito da pochi mesi (La conversione di Fini, Vallecchi editore), Salvatore Merlo sostiene che Fini disse ai pochi rimasti al suo fianco: «Per coerenza dovrebbero dimettersi». Poi, ma questa è cronaca, sottrasse al trio le cariche nel partito e azzerò tutte le correnti, in quanto correnti distruttive, mentre la sua attuale è costruttiva.

I partiti, si sa, hanno stagioni dolorose, e vale anche per An. Nel 2003 Fini volle e ottenne la testa di Antonio Serena colpevole di aver consegnato a ogni parlamentare una videocassetta dal titolo Guai ai vinti nella quale si sosteneva che Erich Priebke, appena condannato per l’eccidio delle Ardeatine, avesse sparato in ubbidienza ai superiori. Una tesi piuttosto cara alla gerarchia di destra, fino a pochi anni prima. Nel 1998 era stato il turno di Romano Misserville, responsabile di aver fondato il movimento Destra di popolo, forse qualcosa più di una corrente.

E insomma, non c’è fazione senza il suo cadaverino. Il Pdci di Oliviero Diliberto ha espulso un anno fa Marco Rizzo con l’accusa di aver fatto campagna elettorale in favore di Gianni Vattimo; l’indimenticabile Franco Turigliatto fu accompagnato all’uscio di Rifondazione comunista perché nel 2007 non diede il voto alla politica estera del ministro Massimo D’Alema, e il gesto provocò qualche traballio al governo di Romano Prodi; lo stesso governo che Nuccio Cusumano - inizio 2008 - cercò di salvare nonostante l’Udeur di Clemente Mastella, a cui era iscritto, avesse negato la fiducia al premier: il gesto di fedeltà al gabinetto e di infedeltà al leader determinò l’espulsione, cui cercò di porre rimedio il Pd. Cusumano fu candidato ma non eletto alle successive Politiche. E siccome il centralismo democratico non piace a nessuno, eccetto che ai capi, una bella medaglia alla memoria del Novecento spetterebbe anche ad Antonio Di Pietro che, a giugno, ha messo al bando dall’Italia dei valori Nicola D’Ascanio, presidente della Provincia di Campobasso, poiché aveva deliberato di nominare tre assessori graditi a lui ma sgraditi alla segreteria, che ne aveva vanamente indicati altri tre.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/57038girata.asp
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