Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #1 inserito:: Aprile 02, 2008, 11:18:53 pm » |
|
CLAMOROSA SENTENZA
Dopo i sequestri della Finanza, il giudice assolve azienda tessile.
I vestiti fabbricati in Tunisia ma con materiale italiano.
E tanto basta.
Il made in Italy, a dispetto delle apparenze e del significato letterale dell'espressione, può essere fatto anche all'estero. Lo ha stabilito il giudice monocratico Antonio Pirato del Tribunale di Livorno, che ha mandato assolto l'imprenditore pratese Renzo Guazzini, 60 anni, titolare del Gruppo Sartoriale e proprietario del marchio Montezemolo, dall'accusa di aver messo in commercio prodotti industriali con segni mendaci. Era una sentenza molto attesa nel distretto tessile di Prato ma un po' in tutta Italia, perché si tratta di un processo pilota, il primo di una lunga serie di procedimenti nati da altrettanti sequestri compiuti dalla Dogana e dalla Finanza nel porto di Livorno, e non solo, subito dopo l'entrata in vigore, nel 2004, di norme a tutela del made in Italy, inserite nella Finanziaria. L'8 maggio del 2004 gli ispettori della Dogana misero le mani su alcuni container provenienti dalla Tunisia e diretti alla sede di Sesto Fiorentino del Gruppo Sartoriale. Si trattava complessivamente di 265 colli, tutti abiti da uomo con marchio Montezemolo. Sulle maniche delle giacche c'erano etichette riportanti la scritta "fabric made in Italy", cioè "tessuto fatto in Italia". Secondo la Dogana e la Finanza si trattava di uno stratagemma per trarre in inganno il consumatore facendogli credere che l'intero abito fosse stato prodotto in Italia. In realtà il modello e il tessuto erano di origine italiana, mentre il confezionamento era stato eseguito in Tunisia. Per questo il sostituto procuratore Roberto Pennisi citò a giudizio Guazzini nel processo che si è concluso appunto lunedì.
Al termine del dibattimento hanno prevalso però le tesi difensive, rappresentate da Costanza Malerba e Federico Febbo. I legali hanno sostenuto in prima battuta che, in assenza di indicazioni certe in materia, è sufficiente che il tessuto e il modello del capo di abbigliamento siano prodotti e pensati in Italia per poter apporre l'etichetta del made in Italy. In seconda istanza, che l'etichetta contestata al Gruppo Sartoriale indicava nient'altro che la verità, e cioè che il tessuto è fatto in Italia e non c'era nessuna volontà di ingannare il consumatore. Il giudice ha assolto Guazzini perché il fatto non sussiste: dalle motivazioni si capirà quale delle due tesi ha accolto.
La materia è ampiamente dibattuta e le incertezze sono legate a un sistema di norme che non è mai stato perfezionato. Perché è vero che la Finanziaria 2004, all'articolo 4, comma 49, stabilisce che costituisce falsa indicazione la stampigliatura "made in Italy" su prodotti e merci non originari dell'Italia, ma è anche vero che la stessa Finanziaria prevedeva un regolamento attuativo, che non è mai stato emanato, e un'autorità garante, che non è mai stata costituita.
D'altronde esiste un Codice doganale comunitario che è chiarissimo sul punto: se il prodotto è realizzato in più di un paese il "made in" deve riferirsi al paese dove è stata fatta la parte sostanziale del prodotto (nel caso dell'abbigliamento, la confezione) ma dicono gli avvocati che per ora le regole doganali valgono solo a livello amministrativo e non anche penale.
Nel caso in questione, la necessità di rivolgersi alla Tunisia viene spiegata da Lorenzo Guazzini, figlio di Renzo, non tanto con questioni di costo della manodopera (che pure avranno un loro peso) quanto con la crescente difficoltà di trovare in Italia figure professionali (ad esempio sarti) in grado di realizzare i capi del marchio Montezemolo. «Tanti giovani preferiscono fare i manager», chiosa Guazzini.
(01 aprile 2008)
da iltirreno.repubblica.it
|