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Mani cinesi cuciono abiti di Prada
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Discussione: Mani cinesi cuciono abiti di Prada (Letto 3507 volte)
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Mani cinesi cuciono abiti di Prada
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Aprile 02, 2008, 11:17:24 pm »
Mani cinesi cuciono abiti di Prada
Le grandi firme etichettano made in Italy e si servono a Chinatown
di Ilenia Reali
PRATO. I nuovi ricchi dei mercati asiatici quando scelgono Prada, Armani o Dolce e Gabbana guardano l'etichetta. Pagano ma vogliono il made in Italy. Ed è per questo che molte maison dell'alta moda dopo la delocalizzazione delle produzioni degli anni scorsi hanno deciso di tornare, almeno per una parte, in Italia. Ed ecco che è scattata anche per i guru dell'alta moda la corsa al risparmio. Corsa che ha portato a Prato dove hanno cominciato a lavorare direttamente con le confezioni cinesi. A raccontare l'inversione di tendenza è stata alcune settimane fa la rivista statunitense Newsweek.
Prato, del resto, è una vecchia conoscenza per le grandi case di moda. Italiane ma anche francesi. E' qui che molti si riforniscono per le stoffe più pregiate. Il passo non poteva che essere breve. Già da tempo - del resto - le maison, utilizzando aziende di intermediazione italiane, facevano cucire i loro abiti alle confezioni cinesi. Quelle più abili e più brave ad aver carpito, negli anni, i trucchi del mestiere e i segreti del lavoro artigianale italiano non sono state a guardare. Se il ritorno in Italia delle aziende di moda è stato ampiamente descritto da una ricerca della docente dell'università di Pavia Michela Pellicelli, le conferme sul fatto che la Chinatown pratese sia pronta ad aprire i propri magazzini agli stilisti arrivano sia dai commercialisti locali sia dall'assessore alla città multietnica Andrea Frattani. Negli studi dei commercialisti ci sono fatture indirizzate, ad esempio, a Prada. «Le aziende che hanno rapporti con le grandi case di moda - spiega - non sono quelle più strutturate. Anzi. Sono piccole confezioni con 7-8 dipendenti di recente costituzione. I prezzi pagati a queste aziende non sono stellari e anzi, sono esattamente uguali a quelli che vengono pagati dai committenti italiani.
Pochi spiccioli a fronte di un elevatissimo controllo qualitativo». Il percorso per instaurare rapporti diretti non è stato complicato. Da una parte si sono eliminati gli intermediari italiani che garantivano alla casa di moda l'assenza di documenti che dimostrassero che i loro capi erano cuciti da mani straniere e dall'altra si sono creati nuovi contatti grazie all'intermediazione di colleghi che lavoravano già con gli stilisti ma realizzando accessori, borse e scarpe per lo più. Da San Donnino e dall'Empolese quindi il passaggio di contatti è avvenuto in un batter d'occhio. Ed è stato un passaparola. Ora produrrebbero a Prato, Armani, Prada ma anche Cavalli e alcune maison francesi.
«Tutto è cominciato con la presenza di intermediari - conferma l'assessore Frattani - mentre poi si è passati a un rapporto diretto anche se ad oggi i casi di questo tipo sono limitati». Trovare i nomi delle aziende dagli occhi a mandorla con licenze di grandi big della moda è però praticamente impossibile. Le aziende cinesi si guardano bene da confermarlo e se anche tra gli operatori della Chinatown la notizia si è sparsa nomi non ne vengono fuori. «Il timore - spiegano i loro commercialisti - è quello che venga ritirata la licenza».
Anche perché è meglio tacere. Come sottolinea Frattani, «è tutto regolare ma dal punto di vista etico...».
(05 settembre 2007)
da tirreno.repubblica.it
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"made in Italy" = I vestiti fabbricati in Tunisia ma con materiale italiano.
«
Risposta #1 inserito::
Aprile 02, 2008, 11:18:53 pm »
CLAMOROSA SENTENZA
Dopo i sequestri della Finanza, il giudice assolve azienda tessile.
I vestiti fabbricati in Tunisia ma con materiale italiano.
E tanto basta.
Il made in Italy, a dispetto delle apparenze e del significato letterale dell'espressione, può essere fatto anche all'estero. Lo ha stabilito il giudice monocratico Antonio Pirato del Tribunale di Livorno, che ha mandato assolto l'imprenditore pratese Renzo Guazzini, 60 anni, titolare del Gruppo Sartoriale e proprietario del marchio Montezemolo, dall'accusa di aver messo in commercio prodotti industriali con segni mendaci. Era una sentenza molto attesa nel distretto tessile di Prato ma un po' in tutta Italia, perché si tratta di un processo pilota, il primo di una lunga serie di procedimenti nati da altrettanti sequestri compiuti dalla Dogana e dalla Finanza nel porto di Livorno, e non solo, subito dopo l'entrata in vigore, nel 2004, di norme a tutela del made in Italy, inserite nella Finanziaria.
L'8 maggio del 2004 gli ispettori della Dogana misero le mani su alcuni container provenienti dalla Tunisia e diretti alla sede di Sesto Fiorentino del Gruppo Sartoriale. Si trattava complessivamente di 265 colli, tutti abiti da uomo con marchio Montezemolo. Sulle maniche delle giacche c'erano etichette riportanti la scritta "fabric made in Italy", cioè "tessuto fatto in Italia". Secondo la Dogana e la Finanza si trattava di uno stratagemma per trarre in inganno il consumatore facendogli credere che l'intero abito fosse stato prodotto in Italia. In realtà il modello e il tessuto erano di origine italiana, mentre il confezionamento era stato eseguito in Tunisia. Per questo il sostituto procuratore Roberto Pennisi citò a giudizio Guazzini nel processo che si è concluso appunto lunedì.
Al termine del dibattimento hanno prevalso però le tesi difensive, rappresentate da Costanza Malerba e Federico Febbo. I legali hanno sostenuto in prima battuta che, in assenza di indicazioni certe in materia, è sufficiente che il tessuto e il modello del capo di abbigliamento siano prodotti e pensati in Italia per poter apporre l'etichetta del made in Italy. In seconda istanza, che l'etichetta contestata al Gruppo Sartoriale indicava nient'altro che la verità, e cioè che il tessuto è fatto in Italia e non c'era nessuna volontà di ingannare il consumatore. Il giudice ha assolto Guazzini perché il fatto non sussiste: dalle motivazioni si capirà quale delle due tesi ha accolto.
La materia è ampiamente dibattuta e le incertezze sono legate a un sistema di norme che non è mai stato perfezionato. Perché è vero che la Finanziaria 2004, all'articolo 4, comma 49, stabilisce che costituisce falsa indicazione la stampigliatura "made in Italy" su prodotti e merci non originari dell'Italia, ma è anche vero che la stessa Finanziaria prevedeva un regolamento attuativo, che non è mai stato emanato, e un'autorità garante, che non è mai stata costituita.
D'altronde esiste un Codice doganale comunitario che è chiarissimo sul punto: se il prodotto è realizzato in più di un paese il "made in" deve riferirsi al paese dove è stata fatta la parte sostanziale del prodotto (nel caso dell'abbigliamento, la confezione) ma dicono gli avvocati che per ora le regole doganali valgono solo a livello amministrativo e non anche penale.
Nel caso in questione, la necessità di rivolgersi alla Tunisia viene spiegata da Lorenzo Guazzini, figlio di Renzo, non tanto con questioni di costo della manodopera (che pure avranno un loro peso) quanto con la crescente difficoltà di trovare in Italia figure professionali (ad esempio sarti) in grado di realizzare i capi del marchio Montezemolo. «Tanti giovani preferiscono fare i manager», chiosa Guazzini.
(01 aprile 2008)
da iltirreno.repubblica.it
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