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Autore Discussione: Candido Cannavò.  (Letto 3440 volte)
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« inserito:: Marzo 31, 2008, 12:45:18 am »

Un gol a San Vittore: in uscita un libro sorprendente


Candido Cannavò, ex direttore della Gazzetta dello Sport, ha trascorso otto mesi con i detenuti del carcere milanese.

A febbraio le loro storie saranno in libreria
 

Vita, 30 gennaio 2004
 

Il drappo rosa legato al bracciolo destro della poltrona del suo studio nel cuore di Milano testimonia che il cordone ombelicale con la Gazzetta dello Sport non è stato ancora tagliato. Ma Candido Cannavò dal marzo del 2002, quando dopo 21 anni abbandonò la direzione della Rosea, è un "uomo di 73 anni in cerca di senso", come lui stesso si definisce. Una missione che negli ultimi otto mesi ha avuto come palcoscenico il carcere di San Vittore.

Dal chiuso di quelle mura Cannavò ha tirato fuori un libro: "Libertà dietro le sbarre - Cronache da un carcere. La vita, la pena, la speranza" (ed. Rizzoli, 15 euro). Il giornalista presenterà al pubblico la sua seconda fatica letteraria all’inizio di febbraio. Lo affiancheranno Ferruccio de Bortoli, autore della prefazione, e l’arcivescovo Dionigi Tettamanzi, che ha voluto impreziosire il libro con una sua testimonianza.
 

Vita: Cosa ci fa un giornalista Sportivo a San Vittore?

Candido Cannavò: È la stessa domanda che mi ha fatto Calisto Tanzi. Lui era lì per il crack Parmalat, io per assistere all’inaugurazione di una sala di registrazione televisiva. Un altro dei successi del direttore Pagano. In ogni modo, sono almeno 15 anni che frequento San Vittore. Vi portavo i campioni sportivi a parlare coi detenuti.

Vita: Questa volta però lo sport non c’entra.

Cannavò: All’inizio della mia carriera, quando ero alla Sicilia, ho condotto diverse inchieste sui manicomi e ho firmato un libro bianco sugli ospedali siciliani. Si intitolava: "I lazzaretti di Sicilia", la prima inchiesta sulla malasanità della mia regione. Non c’è quindi da stupirsi se uno che ha questa attitudine sia entrato in carcere.

Vita: Per scoprire che cosa?

Cannavò: Per un brivido.

Vita: Un brivido?

Cannavò: Vedere un bambino di appena 7 giorni in carcere ti fa un’impressione estrema. Poi però ti rendi conto che lì ha la sua mamma, le colleghe di cella sono affettuose, le agenti penitenziarie si preoccupano per lui. E poi c’è la sala giochi con l’altalena e un’assistenza sanitaria di tutto rispetto. Certo il suo panorama restano le sbarre, un mondo che non esiste. Ma il dramma vero arriva dopo.

Vita: Quando?

Cannavò: Dopo i tre anni il bambino non può stare dentro. Il suo approdo naturale sono i parenti, quando ci sono, o gli istituti. Per le madri sono autentiche tragedie. Per il bambino, uno smarrimento totale.

Vita: In questi casi, però, la legge Finocchiaro prevede misure alternative al carcere…

Cannavò: Sulla carta. In realtà sono norme inapplicabili. Di queste questioni non si occupa nessuno.

Vita: L’indultino?

Cannavò: Una presa per il culo. Che cosa vuole che gliene importi ai politici dei problemi del carcere! Non rendono. Lì non si raccolgono voti.

Vita: Il ministro Castelli?

Cannavò: Non mi pare che ne sappia granché di queste cose.

Vita: Lei ha intervistato detenuti uomini e donne. Che differenze ci sono nel modo di affrontare la reclusione?

Cannavò: Le donne si organizzano meglio. Si costruiscono il loro guscio, hanno innato il senso di fare comunità. Gli uomini sono imbranati.

Vita: Di che cosa parlano i detenuti? Provano risentimento nei confronti della società?

Cannavò: Si discute un po’ di tutto, dal loro passato al calcio. Quanto al risentimento non si può generalizzare. C’è chi dice di esser nato criminale, chi invece assicura che "dopo 25 anni non sono più la stessa persona" e implora: "dovete credermi!", fino al povero extracomunitario pescato in una retata che giura di essere innocente.

Vita: Che sentimenti le hanno suscitato queste storie?

Cannavò: Nella mia vita ho avuto esperienze diverse: a Catania ho fondato un gruppo di donatori del sangue per bimbi talassemici e un club per disabili. Ma considero il carcere come una delle esperienze umanamente più straordinarie. In certi minuti ho provato una sorta di sinistra ammirazione per certe intelligenze che sopravvivono lì dentro. A San Vittore c’è un ragazzo che si sta laureando in Scienze politiche con la media del 28,5. E ancora: un vero genio dei computer che dirige il call center. Deve scontare due ergastoli. Non uscirà mai.

Vita: Come si vive il trascorrere del tempo?

Cannavò: È impressionante. Parlano del 2020 come fosse domani. Il grande privilegio è il lavoro. La povertà invece è una cosa straziante: c’è chi non ha i soldi nemmeno per un francobollo.

Vita: In questo senso giocano un ruolo decisivo i volontari.

Cannavò: Il carcere è importante anche per loro. Ho incontrato avvocati, professori, medici che lì dentro hanno risolto i problemi della loro vita. Il rischio è di innamorarsi del carcere.

Vita: Addirittura?

Cannavò: Lì capisci quanto è stupido il mondo fuori.

Vita: Tanto stupido che nello sport sembra non ci siano limiti all’uso del doping farmacologico e amministrativo.

Cannavò: Sono dieci anni che parlo di economia da manicomio. Altro che business del calcio, questo è un business del cazzo. Come altro definire un mercato dove tutti sono indebitati fino al collo? Quanto ai medicinali, mi dicono che in America hanno invitato il farmaco per il doping sportivo. Un miscuglio di nandrolone, testosterone ed epo impossibile da rintracciare.

Vita: Siamo alla vigilia della presentazione del libro. La sua frequentazione di San Vittore continuerà o siamo al capolinea?

Cannavò: Il mio rapporto col carcere è irreversibile. Sono un condannato.


da www.ristretti.it
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 31, 2008, 12:46:26 am »

Candido Cannavò, lo sport in persona

intervista di Antonella Lombardi


Candido Cannavò è nato a Catania nel 1930. Inizia a lavorare come giornalista per il quotidiano La Sicilia, poi come inviato speciale per lo sport per la Rai, e dal 1983 al 2002 è direttore della Gazzetta dello Sport.
Dopo averci raccontato diversi Mondiali, Olimpiadi e altri eventi sportivi, ha scritto anche dei libri: Una vita in rosa, Libertà dietro le sbarre, E li chiamano disabili.

Nel 1996, durante i Giochi di Atlanta, il Cio gli ha conferito l’ordine olimpico. Nel 1998 ha ricevuto il Premio Ischia per il giornalismo. E' con questa prestigiosa intervista che inauguriamo la nostra nuova rubrica di sport, Olimpia.

A nome di tutta la redazione di Telegiornaliste vorrei farle innanzitutto i complimenti per la sensibilità che ha dimostrato nel suo libro, davvero molto interessante. E li chiamano disabili trasmette al lettore la vitalità e la freschezza di sedici protagonisti di storie di successo, che sfidano i limiti della propria natura come farebbe un vero atleta. Si visitano le professioni più varie alla scoperta di chi, con esiti sorprendenti, fa lo scienziato, lo scultore, il musicista, eccetera.

Il tema centrale del suo libro pone l’accento sul rapporto con l’altro da sé, partendo dal deficit più grande: quello delle barriere mentali di chi non vede storie di talento come queste. Non a caso lei riporta la frase di Simona Atzori, ballerina, pittrice, nata senza braccia: «Penso talvolta che i veri limiti esistono in chi ci guarda».
Con la stessa grazia e lucidità, lei si era già occupato, nel suo precedente lavoro, Libertà dietro le sbarre, di un’altra umanità invisibile ai più, quella dei detenuti.

C’è un episodio che più di altri l’ha spinta a scrivere E li chiamano disabili?
«No, una ragione precisa non c'è. E' qualcosa, è una cultura che avevo dentro. Poi ci sono stati alcuni incontri, quello sì. Uno è stato, per esempio, nell'estate, non l'ultima, quella prima, a Jesolo sulla foce del Sile, dove ho scoperto la barca di Andrea Stella; questa barca per i disabili che ora è diventata un simbolo di come si dovrebbero realizzare tutte le cose della città, tutti gli impianti. Lì ho conosciuto questo ragazzo e tutta questa comitiva fantastica intorno a lui. Questo ha contribuito, sicuramente. Poi, molto importante è stato l'incontro con Simona, la ragazza della copertina. Così è venuta l'idea di scrivere di queste cose. Ancora non potevano avere la dimensione di un libro. Poi via, via, sai, da una cosa ne nasce un'altra».

Come è avvenuto l’incontro con la ballerina Simona Atzori, ritratta in copertina?
«E' stata una casualità. Una domenica mattina, guardando la tv, mi imbatto in un “festival delle abilità differenti” che viene fatto a Carpi, ogni anno. E vedo un mio collega che conosco, Riccardo Bonacina, direttore di Vita, un settimanale no-profit. E allora, vedendo questo programma, scopro questa ragazza. Mi sono interessato, ho contattato per telefono Simona e sono andato a trovarla a casa sua».

Prima di accingersi a scriver,e o durante la stesura, ha avuto qualche momento di esitazione per il timore di non riuscire a confrontarsi adeguatamente con questo argomento?
«No, paura di confrontarmi, no. Per queste cose ho molta curiosità e, direi, molta sensibilità di entrare in empatia con le persone. E poi, sai, l'esperienza del carcere è stata ancora più dura, per certi versi, però, anche più edificante. Qui invece è stato tutto dolce, tutto abbastanza facile, ho trovato... come se ci fosse anche in loro il desiderio di mostrarsi, di dire qualcosa senza pudore, quasi con orgoglio, si è capovolto un po' il senso dell'operazione: non ero io che andavo a “stanare” loro, ma erano loro che mi venivano incontro con tanto desiderio di dire quello che stavano facendo, di mostrare il loro status, tutto l'opposto di quello che si può pensare, cioè, che la gente si nasconda o che venga nascosta dai genitori, come in qualche caso, avveniva prima o avviene tuttora.
Si sono capovolte molte cose. Quello che tu pensi che è sofferenza in loro è diventato invece un fatto di orgoglio, di forza, per dire Guardate cosa abbiamo fatto, guardate cosa possiamo fare. Noi non siamo delle persone da compatire. Quindi per certi versi è venuta fuori una lezione anche per molte persone sane che leggono il libro e ne ricavano quasi una frustata, e dicono ma come faccio a lamentarmi io, per una piccola cosa, in mezzo a questa gente che, invece, ha superato questi ostacoli».

Nel libro tutte le storie riescono, nella loro varietà, ad affascinare il lettore, facendogli scoprire un’umanità ricchissima e sommersa. C’è una storia che l’ha colpita particolarmente?
«Ma, sai, è difficile fare classifiche. Certo, ce ne sono alcune piccole ma dolcissime, per esempio quella del regista Mirko Locatelli, oppure quella dello scultore Felice Tagliaferri, che è quasi allegra; oppure quella della notte da cieco con la scrittrice Maria Aiello. Poi ci sono le storie forti. Le più forti sono quella di Claudio Imprudente, questo gravissimo disabile che scrive libri, fa conferenze senza poter parlare comunicando attraverso una lavagnetta di plexiglas, con gli occhi. E la stessa storia di Simona. Poi c'è quella dello scienziato siciliano Claudio Frisone, dove, veramente, c'è un personaggio da tragedia greca, un'eroina omerica che è Lucia, sua madre, che è veramente un grandissimo personaggio, una donna di tutti i combattimenti».

Secondo lei perché, sui giornali e nelle televisioni, viene dedicato ancora così poco spazio ai disabili o se ne parla spesso in maniera monocorde, usando termini pietistici?
«Perché c'è una cultura che ancora non ha fatto molto. Io penso che le nostra apparizioni in tv siano servite. Abbiamo avuto molta attenzione da parte della televisione su questo libro. Siamo stati trentacinque minuti a Unomattina, venti a Domenica In, e poi il Tg1, il Tg2, Sky, tutti ci hanno dato molto spazio. E anche i giornali. Sono piccoli passi che però possono fare crescere questa cultura. Ed è una cosa continua, perché adesso, per esempio, avrò fatto già trenta conferenze da quando è uscito questo libro, ma arriverò a cento, centocinquanta, ho prenotazioni fino a giugno...Adesso, a gennaio, capisci?».

Alla presentazione del suo libro, a Roma, c’era una grande folla.
«Ma hai visto cosa si è creato a Roma? Te lo saresti mai immaginato? Quando ho scritto questo libro c'erano dei colleghi che mi dicevano Ma di cosa ti interessi? Di un libro sui disabili?. Invece questo sta diventando il libro di mio maggior successo, anche se “successo” non è una parola che mi piace tanto. Ma è un libro che ha già fatto cinque ristampe! Certo, non sono i numeri delle barzellette di Totti, però se un libro sui disabili vende 30.000 - 40.000 copie è già una cosa grande, un successo enorme».

Ma soprattutto, la vera novità credo fosse l'atmosfera festante e partecipata che c'era in Campidoglio.
«Sì, ma è stato sempre così. Se tu vedessi quello che è successo a Rieti, dove c'è quel personaggio, il chirurgo, no? (Paolo Anibaldi, ndr). Lui è di Rieti. Ecco, mi hanno detto che in una sala da quattrocento posti c'erano cinquecento persone, quindi cento persone erano in piedi, in un clima mai visto. Non è mai successo che la sala fosse così piena neanche quando è venuto Pavarotti, o un altro artista o grandi personaggi. Quindi c'è un sintomo, un interesse. E adesso, figurati, se ti faccio vedere il mio carnet, io non so se ce la farò, perché ci sono anche le Olimpiadi, le Paralimpiadi; nel periodo delle Paralimpiadi ho fatto conferenze da quelle parti; poi vado in Sicilia a fine marzo, dove però sono già stato; ho fatto sei presentazioni già in Sicilia, e appena sono arrivato per un appuntamento a Catania ne son spuntati altri quattro, a Paternò, Piazza Armerina, Siracusa ed Enna. Ad Enna addirittura mi stanno contendendo in due, una cosa assurda! Veramente incredibile per certi versi».

A proposito di Paralimpiadi, in un momento in cui i valori dello sport sono sempre più trascurati e le Olimpiadi stesse sono, nel bene o nel male, organizzate da multinazionali, cosa, secondo lei, salva ancora lo spirito dei Giochi Paralimpici?

«Il momento della verità, che è quello della competizione. Quando tu sei in pista, stai affrontando una cosa, o quando c'è chi sale sugli anelli o c'è una gara, in quel momento lo sport conserva tutti i suoi valori; poi possiamo immaginare di essere nel 1920 o nel 2020, ma quello è un momento di verità, il resto è contorno, professionismo, la popolarità porta denaro e il denaro, poi, porta a forme di professionismo. Io non temo il professionismo, perché c'è un professionismo buono, onesto che non è il diavolo. E' la mistificazione, il doping, sono queste le cose da combattere».

Conosce già gli atleti che parteciperanno alle Paralimpiadi? C’è qualcuno o qualche disciplina in particolare per cui farebbe il tifo?
«Sai, queste invernali sono più limitate, mentre per le Olimpiadi estive faccio sempre il tifo per l'atletica perché è lo sport di base e anche le Paralimpiadi trovano esempi bellissimi, abbiamo dei begli atleti».

Il suo libro sembra aver dato uno scossone al modo di trattare l’argomento disabili. Come se avesse rotto gli argini di una mentalità consolidata che vorrebbe dividere “noi”, presunti abili, da “loro”. Per noi spettatori che eravamo lì alla sua presentazione è stato davvero emozionante. Come giudica questa grande partecipazione nei confronti del libro e dei dibattiti che ne sono scaturiti?
«La mia gioia è questa. Se tu vedessi i messaggi che mi arrivano, da parte della gente che ha letto il libro, sono pazzeschi. Simona Atzori, ad esempio, dice delle frasi che sono scolpite: Io ho organizzato la mia vita con due arti in meno. E allora? Che c'è di strano? Non mi manca nulla. Se pensi anche a gente come Zanardi, senza gambe, e ti chiedi: Cosa manca a questo ragazzo che le gambe le aveva ma che ha reagito così, dopo l'incidente? Niente! Gioca, agisce, corre, viaggia, s'incazza, si diverte, fa tutto. D'accordo, c'è la tecnologia che lo ha aiutato molto, ma lo spirito è grande, grande, grande.
Adesso, non estremizziamo, facendo diventare un paradiso quello che evidentemente resta, per certi versi, un dramma, però che si possano ritrovare i valori della vita anche in uno stato di disagio, questo è consacrato, secondo me. Non so se tu a Roma hai visto la Argentin (l' assessore Ileana Argentin, consigliere delegato del Sindaco per le politiche dell'handicap del Comune di Roma, ndr) tu sentila parlare... ma come può gestire 3.500 disabili dell'area di Roma, come fa? E invece poi scopri di essere davanti a un boss!».

Il dato che emerge con insistenza dalle sue pagine mette in discussione la definizione stessa di handicap o di disabile, propendendo piuttosto per “diversamente abili”. E’ un universo di cui spesso si parla in termini di negazione, basti pensare a locuzioni come “non vedenti”, “non udenti” ecc.
«Rispetto questo tentativo di rendere meno, come dire, rude, il modo di rapportarsi al problema, però non ne farei la cosa principale, io non riesco, in un discorso spontaneo, a dire Sei diversamente abile, mi pare artificioso, non impianterò mai una polemica su questa cosa».

Secondo lei, il percorso intrapreso per affermare i diritti dei disabili nella società italiana e nello sport è adeguato o vorrebbe che si intervenisse anche in altri ambiti? E in che senso?
«Lo sport è una punta avanzata, per la verità si è andati molto avanti, le Olimpiadi sono state un bel cuneo in questo, invece nel resto della società... beh, piano piano bisognerà entrare in una dimensione diversa e non dare per scontato che un paraplegico può fare solo il fattorino davanti una porta o un cieco può fare solo il centralinista in una banca o al Comune. Bisogna fare in modo di vedere i valori che sono dentro questa realtà. La realtà che io mostro nel libro dimostra proprio questo. Questa è la cultura che cresce, non è facile nel nostro mondo, dove tutto è complicato e il lavoro è un mito anche per chi ha due gambe».

Infine vorrei chiederle: come vede oggi la posizione delle donne nelle varie discipline sportive? In tal senso, vorrei proporle una domanda da parte dell nostro direttore editoriale: parafrasando le parole della canzone di John Lennon, Woman is the nigger of the world, lei trova che la donna sia il negro dello sport?
«No, assolutamente, no, per carità. La donna è la regina ormai dello sport. A parte che nel nostro Paese, in fatto di qualità ha superato l'uomo. Abbiamo avuto un periodo, una congiuntura femminile per cui abbiamo fatto prime pagine della mia Gazzetta con scritto: “W le donne”, con storie fantastiche di campionesse, come qualità - intendo tecniche - le donne per certi versi hanno superato anche l'uomo, non dico per appurare se è più veloce dell'uomo o meno o cose del genere, queste cose non vanno inseguite, sono mostruosità, però ormai il fascino dei personaggi femminili è un dato... Avete visto Sara Simeoni, Debora Compagnoni, Manuela Di Centa, le ragazze della pallavolo e della pallanuoto, Valentina Vezzali? Sono addirittura le cime dello sport. Questo concetto è capovolto.
Anche le donne hanno una certa tendenza a sentire di dover dimostrare di più, ma vedi adesso questa pattinatrice che è venuta fuori, Caroline Kostner che porterà la bandiera alle Olimpiadi e che, secondo me, non ne aveva il diritto perché è una ragazzina che è ancora alla sua prima olimpiade, mentre c'è gente che ne ha fatto quattro. E' stata valorizzata tanto; voglio dire, incidono anche fattori per le donne che, in certi casi, magari ingiustamente, sfruttano il fascino femminile per creare magari qualcosa di più suggestivo. Nel caso della Kostner, si sfrutta il fatto che è una ragazza sicuramente bravissima, ma non ancora campionessa assoluta perché non è all'altezza delle grandi, però fisicamente affascinante, con queste gambe così lunghe e l'armonia che c'è nella sua danza; io l'ho vista danzare. Questo è un elemento che ha portato a una scelta di grande prestigio. Non c'è quindi discriminazione per le donne».

Meno male... almeno lì!
«Per carità, io sono un difensore delle donne e mi auguro un mondo gestito da donne, dato che gli uomini hanno fatto già abbastanza guai!».

Come sognava, tra l'altro, Fellini con La città delle donne... La nostra intervista si conclude qui, grazie infinite, è stato gentilissimo!

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