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Autore Discussione: Andrea Camilleri. Ingrao, l’Eroe del dubbio  (Letto 2680 volte)
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« inserito:: Marzo 31, 2008, 12:35:48 am »

Ingrao, l’Eroe del dubbio

Andrea Camilleri


Lunedì alle 11, a Palazzo San Macuto, a Roma, lo scrittore siciliano pronuncerà una lectio magistralis nel corso dei festeggiamenti per il novantatreesimo compleanno di Pietro Ingrao, organizzati dal Crs. Ne anticipiamo il testo.

Consentitemi di parlarvi con molta semplicità, a mio e a vostro agio. E parlarvi nemmeno da scrittore, ma da cittadino qualsiasi che però, dal 1942 ad oggi ha seguito, e continua a seguire, le vicende politiche del nostro paese, a lungo militando già fin dall’ottobre del 1943, ma tenete presente che gli Alleati sbarcarono in Sicilia nel luglio di quello stesso anno, nel Pci con alterne vicende.

Dirò subito che ho accettato con slancio l’invito di portare la mia testimonianza per il compleanno di Pietro Ingrao perché, nell’unica volta che l’ho incontrato di persona, in occasione della presentazione a Roma del libro di suo nonno Francesco, fui sommerso da una timidezza improvvisa e tale da non consentirmi d’esprimergli la profondissima stima, la grandissima ammirazione e tutta l’intensità dell’affetto che nutrivo, e nutro, per lui.

Quando Walter Tocci m’invitò, io pensai subito a un titolo che in qualche modo mettesse in relazione Ingrao e l’esercizio del dubbio costruttivo. Poco dopo è andata in libreria la sua conversazione con Claudio Carnieri intitolata appunto La pratica del dubbio. Mi sono sentito confortato nella scelta del mio tema che è appunto la qualità del dubbio ingraiano.

Ingrao, l’ha scritto e detto tante volte, nasce poeta, amante della letteratura del suo tempo e, in seguito, si avvicina al cinema iscrivendosi con l’amico fraterno Gianni Puccini all’appena nato Centro Sperimentale di cinematografia dove, tra parentesi, insegnava anche il russo Pietro Sharov al quale, dagli anni cinquanta e fino alla sua morte, mi legherà una profonda amicizia.

Insomma, pare avviato a una brillante carriera nel cinema quando, del tutto improvvisamente, abbandona il Centro sperimentale.

Che abbia già abbandonato gli studi universitari in giurisprudenza (ma si laureerà qualche anno dopo), intrapresi forse solo per compiacere la famiglia è cosa che può essere capita, ma la rinunzia volontaria allo studio di una materia dalla quale si sentiva così attratto appare assai più sorprendente.

Ingrao ne fornisce una sua spiegazione. Scrive che l’abbandono del Centro Sperimentale fu motivato in sostanza dal contraccolpo provato per l’inizio della guerra di Spagna. Considero questo un punto assolutamente nodale del suo percorso, ma Ingrao mi pare che si limiti sempre a farne breve cenno. Forse per un alto senso di pudore. Perché penso che la guerra di Spagna invece sia stata per lui qualcosa di più di un tragico impatto, sia stato un autentico, squassante cortocircuito. Tutti gli altri suoi compagni e amici, antifascisti come lui, ad esempio, non interruppero certo gli studi o le attività intraprese per il golpe di Franco. Ingrao, sì.

Penso che Ingrao ebbe in quel momento la lucida percezione di quello che in realtà veniva a significare la guerra di Spagna e ne ebbe esistenziale sgomento. Su di lui, sulla sua sensibilità, gravavano già da tempo quelli che Vittorini avrebbe chiamato «i dolori del mondo offeso» e la guerra di Spagna consisteva in un insopportabile aggravio dell’offesa.

Inoltre veniva a costituirsi come un nitido spartiacque tra fascismo e antifascismo, tanto che gli intellettuali di tutto il mondo vennero strattonati dalla Storia e scelsero l’antifascismo, comprendendo che si trattava non di una guerra locale, ma di uno scontro frontale che coinvolgeva il mondo intero. Scriveva Hemingway: «Se vinciamo qui, vinceremo dappertutto». Già, ma se si perdeva? Vide giusto Gustav Regler, quando cominciava a delinearsi la sconfitta: «Ora che una guerra finiva, credetti di sentire passare nel vento l’odore di cadavere delle prossime ecatombi».

Ecco, sono convinto che Ingrao venne allora preso da un dubbio che indirizzò diversamente la sua vita: il dubbio cioè che l’arte da sola e in sé, e in quel momento specifico, fosse assolutamente inadeguata a far barriera contro il fascismo. Io non so se all’epoca le maglie della censura fascista sull’informazione giornalistica avessero permesso, sia pure tra le righe, di lasciar capire quale vasta mobilitazione era in atto e quindi se lui era a conoscenza di quanti artisti e intellettuali fossero andati a combattere in prima linea, col fucile prima ancora che con la penna, da Hemingway a Orwell a Malraux a Saint-Exupéry e a tantissimi altri, certo è che egli in quei mesi, oltre a leggere testi che potessero fornirgli le armi della conoscenza, da Salvemini a Rigola, Trockij, Rosenberg, sente sempre più un’urgenza nuova. Scrive infatti: «Intanto dentro di te si compie una decisione nemmeno dichiarata. Muta il “che fare”: come domanda interna, prima ancora che essa diventi azione esplicita. Cominciò per me un nuovo rapporto con la politica. Mi strappò all’Arcadia».

Quindi dal dubbio nasce un meditato agire.

Personalmente, provo profondo disagio davanti a chi crede d’avere in sé solo certezze assolute. Contraddirsi, a molti, sembra espressione di malferma personalità e invece così non è, è tutto l’opposto. Per inciso, vorrei ricordare che Leonardo Sciascia in un primo momento voleva che sulla sua pietra tombale fosse scritto «Visse e si contraddisse», ma poi anche lui ci ripensò, contraddicendosi. A questo proposito, c’è un pensiero esemplare nel libro II dei Saggi di Montaigne: «Mi sembra che la madre nutrice delle opinioni più false e pubbliche e private sia la troppa certezza, la troppa buona opinione dell’uomo in sé…»

Per quel che mi riguarda, io mi sconfesso continuamente.

Il dubitare di Ingrao è sempre, come dire, la messa in moto di un motore che attivamente elabora il che fare più attinente al fine proposto. In altri termini, non è mai la messa in dubbio del perché, ma del come. Certe altre volte il dubbio è inespresso, soprattutto quando Ingrao avverte una fortissima disparità tra la pochezza dei mezzi a disposizione per affrontare un obiettivo che appare impari. Questo dubbio, per esempio, traspare in tutte le pagine che in Volevo la luna si riferiscono al gruppo dei giovani antifascisti romani, e si condensa in un solo aggettivo più e più volte ripetuto: «gracile». Ma il dubbio sulla gracilità del gruppo non significa mai la possibilità dell’ipotesi dell’abbandono della lotta, significa semmai la lucida presa d’atto di una situazione secondo la quale sviluppare l’agire.

Ma c’è un altro punto nodale nella vita politica di Ingrao che, ai miei occhi, ha la stessa valenza di quello del 1936. È la richiesta da lui fatta, nel 1966, nel corso dell’XI congresso del partito, di libertà del dissenso. Com’è logico supporre, una tale ardita richiesta all’interno di una struttura rigida, gerarchica e centralista non può che essere la disperata, e ormai non più cancellabile somma finale di un innumerevole dubitare accumulato nel corso degli anni. E questa somma finale ha una precisa definizione: dissenso.

Perché questo dissenso? Scrive Ingrao: «In quella mia rivendicazione di libertà del dissenso c’era non solo il drammatico stimolo che era venuto dalla rivelazione dei delitti di Stalin, ma una convinzione più profonda che aveva anche a che fare con una riflessione sull’esistere. Mi muoveva non solo la tutela della libertà di opinione, ma ancor più la convinzione che il soggetto rivoluzionario era un farsi del molteplice: l’incontro fluttuante di una pluralità oppressa che costruiva e verificava nella lotta il suo volto».

«Un farsi del molteplice». È in sostanza anche questa una crisi esistenziale e politica che nasce dalla crisi di una certa concezione ristretta della politica e postula una sua rifondazione nel recupero di quella che Hannah Arendt chiamava la politica perduta.

Ancora nel ‘66, data la posizione che Ingrao occupava nel partito, ci voleva molto coraggio per proclamare pubblicamente la necessità del dubbio, del dissenso. Coraggio politico, certo. Ma a me appare anche e soprattutto un atto di coraggio umano. Perché è notorio che l’uomo comune nutre una forte diffidenza verso chi dubita, non è un caso che sia stata popolarescamente coniata l’espressione «cacadubbi».

Allora, qual è la funzione positiva del dubbio secondo Ingrao? Sentiamo le sue parole. «Mi appassionava la ricerca. E il dubbio mi scuoteva, vorrei dire: mi attraeva. Vedevo in esso una apertura alla complessità della vita. Dubitare mi sembrava l’impulso primo a cercare: aprirsi al “molteplice” del mondo…». E ancora: «Il dubbio per me non significava povertà: anzi apertura di orizzonti, audacia nel cercare. Sì, vivevo il piacere del dubbio. E avvertivo anche una ricchezza per quell’interrogarsi, cercando. Come se il mondo - nella sua problematicità - si dilatasse attorno a me».

Molti di voi ricorderanno l’incipit delle Meditazioni metafisiche di Cartesio. «Già da qualche tempo mi ero accorto che, sin dai miei primi anni, avevo accolto per vere molte opinioni false, e che ciò che avevo poi costruito su principi tanto malfermi, non poteva essere che assai dubbio e incerto». Il punto di partenza dal quale Ingrao muove ha una diversità di non poco peso, vale a dire che le opinioni da lui accolte all’inizio non si erano in seguito rivelate del tutto false e ingannevoli, ma continuavano ad essere sostanzialmente vere.

Il dubbio allora nasceva non dall’opportunità, ma dalla necessità d’accogliere o meno le inevitabili modificazioni che quelle basilari opinioni via via subivano nel convulso procedere della Storia, senza che però ne intaccassero la verità di fondo.

Ho detto convulso ma forse avrei dovuto dire compresso. Non a caso Hobsbawm ha definito il ‘900 «il secolo breve», per la somma di accadimenti politici, scientifici, sociali avvenuti nei suoi cento anni, con una rilevante accelerazione, motus in fine velocior, nel secondo cinquantennio.

Il dubbio quindi come mezzo di conoscenza, cioè un dubbio di marca cartesiana per il quale ogni dubbio doveva risolversi nella scoperta di un nuovo territorio su cui avventurarsi.

E su questi nuovi territori di conoscenza Ingrao si è sempre inoltrato non per il gusto dell’avventura intellettuale in sé, ma quasi per assolvere a un dovere politico e umano. Dovere che non gli ha mai impedito di godere nel contempo del piacere stesso del dubbio e della sua risoluzione. E che non gli ha impedito mai il fare concretamente politica e di assumersi in prima persona l’impegno di responsabilità di partito e istituzionali.

Direttore dell’Unità dal 1947 al 1956; deputato dal 1948 per dieci legislature fino a quando, nel 1992, chiede di non essere rieletto; nella segreteria del partito dal 1956 al 1966; nel 1968 presidente del gruppo parlamentare comunista alla Camera; presidente della Camera dei deputati dal 5 luglio 1976 fino al 1979, quando chiederà al partito di non essere ancora ricandidato e al suo posto subentrerà Nilde Jotti.

Mi sbaglierò, ma io sono convinto che del suo impegno politico egli sia rimasto maggiormente legato al periodo 1944-45, quando, in una grigia Milano con il piede straniero sopra il cuore, lavorava all’edizione clandestina dell’Unità , quando il vivere e l’agire quotidiani erano un azzardo, quando la possibilità dello scacco era dietro ad ogni angolo, quando si era uomini e no.

In quei giorni la lotta era passione, impegno di tutto se stesso, «fatale come una necessità biologica», e chi era uomo, per il solo fatto di esserlo, era anche potenzialmente un eroe.

Non vi sembri una parola eccessiva.

Cercherò di spiegarne il significato e la ragione per cui mi sento di adoperarla attraverso una frase, della quale vogliate perdonare la lunghezza, tratta da L'Eroe e l'uomo, un saggio compreso nel volume intitolato Senso e non senso di Maurice Merleau-Ponty.

Dopo avere lungamente esaminato i protagonisti di Per chi suona la campana di Hemingway, della Condizione umana di Malraux e di Pilota di guerra di Saint-Exupéry, Merleau-Ponty così conclude: «L’eroe dei contemporanei non è scettico, né dilettante né decadente. Senonché, ha l’esperienza del caso, del disordine e del fallimento, del ‘36, della guerra di Spagna, del giugno ‘40. È in un tempo in cui i doveri e i compiti sono oscuri. Prova meglio di quanto non si sia mai fatto la contingenza del futuro e la libertà dell’uomo. Considerando bene le cose, niente è sicuro: né la vittoria, ancora tanto lontana, né gli altri, che hanno spesso tradito. Mai gli uomini hanno verificato meglio che il corso delle cose è sinuoso, che molto è richiesto all’audacia, che sono soli al mondo e soli l’uno di fronte all’altro. Talvolta però, nell’amore, nell’azione, s’accordano fra di loro e le vicende corrispondono alla loro volontà…». L’eroe dei contemporanei non è Lucifero, non è nemmeno Prometeo, ma è l’uomo. L’uomo comune, l’uomo che puoi incontrare all’angolo della strada.

E in questo senso, con il viatico di Merleau-Ponty e totalmente spoglio di ogni esaltazione retorica, mi sento di considerare Ingrao un perfetto eroe dei nostri anni.

Volevo la luna, ha intitolato Ingrao il suo più recente libro autobiografico. E pare d’avvertire, nel titolo, come una certa disillusione per non essere riuscito a ottenerla.

È vero, la luna non è diventata né sua né nostra, se la sono presa gli americani.

Ma Ingrao sulla sua personale luna ci è sbarcato, eccome se ci è sbarcato, non ci ha messo nessuna bandiera, se l’è esplorata tutta e ne ha fornito una meravigliosa, unica e irripetibile relazione di viaggio attraverso la sua stessa vita.




Pubblicato il: 30.03.08
Modificato il: 30.03.08 alle ore 8.42   
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