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Autore Discussione: Luigi Bonanate - Il marchio della paura  (Letto 2832 volte)
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« inserito:: Luglio 03, 2007, 10:07:10 pm »

Il marchio della paura

Luigi Bonanate


Se vogliamo davvero sconfiggere il terrorismo non dovremo forse un giorno ammettere che non abbiamo ancora neppure capito che cosa sia e come agisca? L’episodio di ieri, che ha causato la morte di un gruppo di ignari e sereni turisti spagnoli, affascinati dalla visita a luoghi fantastici, riapre nella nostra sensibilità la ferita dell’11 settembre come un qualche cosa di inestirpabile. Ci risiamo: qualsiasi cosa succeda, se è in Libano si tratta di hezbollah; se è in Iraq sono i sunniti, se è in Afghanistan sono i talebani; per tutto il resto, c’è al Qaeda, questa idra della mille teste che, da piccolo ancorché efficientissimo gruppo sei anni fa, sembra sia diventato ora una specie di multinazionale governata da un amministratore delegato capace di far intervenire i suoi commando dovunque e facendosi beffe di ogni prevenzione o difesa.

Così finisce che vediamo i terroristi dovunque, anche quando non ci sono, e dove ci sono forse invece non ce ne accorgiamo.

Sia ben chiaro: questo è esattamente l’obiettivo della logica terroristica. Essa deve terrorizzare, più che colpire, e se a Londra ci si consola pensando di aver sventato un attentato (ma come si fa a essere sicuri che sarebbe successa una cosa che non è successa?), subito scopriamo che la jeep in fiamme all’aeroporto di Glasgow era certamente opera di al Qaeda. Leggiamo che ormai non ci sono più soltanto persone sospette, perché lo sono anche i pacchi. A Londra si è aperta la caccia all’autobomba, come se fosse un rettile fuggito dallo zoo. E, si è concluso, non si tratta altro che del modo di al Qaeda di valutare il cambio della guardia governativo a Downing Street. E ora, infine, l’attentato a Marib nello Yemen, dove forse in gioco è una questione di politica interna più che di conquista del potere mondiale.

Non dobbiamo commettere l’errore di fare diventare i terroristi (che pur ci sono, sia ben chiaro) dei soggetti politici di importanza primaria, al di là addirittura di quanto essi stessi non saprebbero immaginarsi. Quale grandioso risultato un gruppo terroristico potrebbe aspettarsi da un attentato compiuto in una parte del mondo che la stragrande maggioranza di noi non sa neppure collocare sulla carta geografica? Chi ricorda ancora la distinzione tra Yemen del Nord e del Sud, e chi è al corrente sulle ragioni dei moltissimi episodi analoghi nel recente passato yemenita? Che poi, qualsiasi episodio di violenza collettiva, di matrice più o meno chiaramente politica, sia attribuito immediatamente ad al Qaeda è veramente fare il gioco del nemico, perché ne esaltiamo le capacità e l’abilità ad intervenire addirittura al di là di ogni razionalità strategica. Se al Qaeda fosse tanto radicata e tanto capillarmente diffusa per il mondo, come sarebbe possibile che i servizi investigativi, le polizie segrete e quant’altri non riescano mai a pizzicare nessuno? Ci troviamo a leggere sui giornali che questo o quel personaggio è stato fermato, che si pensa sia il capo di una o di un’altra cellula, e poi regolarmente sparisce dalle cronache (anche giudiziarie) perché le prove si sono dissolte.

Il punto è di portata più ampia e tocca la nostra capacità di combattere il terrorismo: ma se non ne comprendiamo la logica, non ne sapremo contrastare l‘apparente successo. Anzi, con queste spettacolarizzazioni non facciamo che accrescerlo. Il primo punto da mettere in chiaro riguarda la soggettività delle azioni terroristiche: a partire dall’11 settembre, qualsiasi evento violento in giro per il mondo viene affibbiato ad al Qaeda che, al limite, può starsene tranquillo ad aspettare i dividendi di azioni compiute da chi sa chi altri. Si è giunti al punto di ipotizzare che i gruppi di al Qaeda siano tra loro tutti indipendenti e scollegati, come una catena di negozi in franchising. L’effetto-annuncio ci colpisce e spaventa; l’eventuale successiva smentita passa inosservata. La maggior parte delle notizie che diamo e leggiamo circolano doverosamente al condizionale e tra mille cautele, ma quando si dice che un certo attentato «potrebbe» essere stato fatto da al Qaeda è come se al Qaeda lo «avesse fatto» davvero.

In questo modo il terrorismo ha raggiunto il suo scopo, che è quello di confonderci le idee, di apparire più potente, abile e ricco di adepti di quanto non sia in realtà, di poter colpire chiunque e dovunque. E più di tutto: di non poter essere contrastato e sconfitto. E questo è ciò che rischiamo ci succeda se continuiamo a non capire la natura del nostro avversario. Non è che l’investigazione, la repressione e le condanne non servano, ma non è questa la via lungo la quale il fascino perverso del terrorismo si potrà inaridire: come spiegheremo a qualche decina di giovani invasati che i loro sogni non sono altro che il frutto di frustrazioni insensate instillate nella loro testa da qualche «cattivo maestro» che solo nel caos e nel disordine può sopravvivere senza essere smascherato? Se dunque, da una parte, dobbiamo continuare la lotta poliziesca, senza abbassare la guardia, dall’altra non dobbiamo farci prendere la mano dall’ingenua idea che la repressione sia l’unica forma di lotta vincente.

Diciamolo così: la repressione serve contro chi già ha agito; la politica deve servire invece per sradicare la matrice esistenziale del terrorismo. I possibili futuri terroristi devono avere da noi non soltanto il messaggio che prima o poi li fermeremo, ma piuttosto che per loro non c’è spazio nei nostri sistemi politici, che le nostre istituzioni democratiche non vacilleranno mai sotto i loro colpi, che non reagiremo sparando all’impazzata, ma discuteremo sempre attentamente, serenamente e inflessibilmente le loro intenzioni e i loro programmi di lotta.

La prospettiva del terrorismo è quella di una logica simbolica fatta di messaggi in codice veicolati dall’estrema facilità con cui nel mondo attuale qualsiasi notizia circola inarrestabile prima ancora che l’abbiamo potuta verificare. Per fermarlo abbiamo una soluzione semplicissima: parlare di politica, rivendicare la forza della democrazia. Si spaventerebbe e come un fantasma si dileguerebbe.

Pubblicato il: 03.07.07
Modificato il: 03.07.07 alle ore 9.04   
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« Ultima modifica: Novembre 30, 2007, 12:09:15 am da Admin » Registrato
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