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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 166808 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Gennaio 28, 2008, 11:37:44 am »

POLITICA

IL PERSONAGGIO

Walter e la strategia della speranza

di MASSIMO GIANNINI


Un destino rinchiuso in due giorni. Di qui a mercoledì prossimo si decide la crisi di governo, si consuma la fine del centrosinistra, si compie il futuro del Partito democratico. Walter Veltroni lo sa bene. E per questo è determinato a combattere a viso aperto la sua battaglia.

"Nelle prossime quarantotto ore si gioca tutto. Noi insisteremo per un governo tecnico-istituzionale che, in otto mesi o al massimo un anno, porti a termine le riforme necessarie a modernizzare il sistema, dalla legge elettorale ai regolamenti parlamentari. Questo chiederemo al presidente Napolitano. Con sincera speranza, ma senza troppe illusioni. Dobbiamo essere pronti ad affrontare anche lo scenario alternativo: le elezioni anticipate che, a giudicare dalla chiamata alle armi del centrodestra, sembrano più vicine".

Il leader del Pd è appena rientrato da Firenze, dove ha lanciato l'ultimo appello al "senso di responsabilità nazionale di tutte le foze politiche", per riscrivere insieme le regole del gioco, "nell'interesse del Paese". Un appello che sembra destinato a cadere nel vuoto, visto l'abisso aperto da Berlusconi che rievoca ancora una volta la magica Piazza, rilanciando l'ultimatum fatale: "O elezioni subito, o milioni di persone si riverserannio a Roma".

Veltroni naturalmente non condivide, ovviamente non apprezza. E in vista della salita al Colle, prevista per domani, non vuole ancora arrendersi del tutto alla deriva berlusconiana. Spera ancora che Napolitano riesca a convincere Marini ad accettare un incarico esplorativo. E spera ancora che il presidente della Camera riesca a sua volta a convincere il Cavaliere, in nome "dell'emergenza nazionale", a sostenere un "governo di scopo" che riscriva la legge elettorale e i regolamenti parlamentari, e poi porti il Paese alle urne.
Il sindaco parte da una convinzione: "Io non credo affatto che gli italiani siano entusiasti di tornare a votare adesso, in una situazione socio-economica così incerta, e con una paralisi politico-istituzionale così evidente. Ma soprattutto sono sicuro che gli italiani non vogliono ritrovarsi al governo del Paese, di qui a pochi mesi, un'altra coalizione di diciotto partiti, che può solo litigare senza decidere niente. Perché parliamoci chiaro, se si tornasse a votare subito, e se il centrodestra vincesse, Berlusconi si troverebbe prima o poi nelle stesse condizioni in cui si è trovato Prodi. E questo è esattamente quello che i cittadini temono di più". Ecco perché, anche se ormai appare un'impresa disperata, il Pd deve battersi comunque per sostenere un eventuale incarico a Marini.

Ma Veltroni è un idealista pragmatico, e non vive nel mondo dei sogni. Se l'ipotesi principale resta quella del governo tecnico - istituzionale, lui sa bene che il Partito democratico deve essere pronto a gestire anche l'ipotesi subordinata, quella del voto anticipato. Non può non tener conto che questo è l'ordine categorico, impartito dal quartiere generale del Cavaliere e ormai condiviso dall'intero stato maggiore della rinata Casa delle Libertà. Compreso Casini, che non può più permettersi il lusso di votare insieme al centrosinistra un ipotetico "governo per le riforme". Il sindaco di Roma prende atto: "Berlusconi gioca a confondere le acque, e un minuto dice una cosa, due ore dopo dice l'esatto contrario. Ma è evidente che ormai il centrodestra punta tutte le sue carte sulle elezioni ad aprile...". E questa evidenza rende molto più stretti i margini di manovra del presidente della Repubblica.

Per questo Veltroni deve prepararsi a raccogliere la sfida del voto anticipato. E se è vero, come dice l'unto del Signore, che "siamo già in campagna elettorale", allora il leader del Pd non si tira indietro: campagna elettorale sia. "A Berlusconi dobbiamo far pagare tutti i prezzi politici possibili. Prima decreta la morte della Casa delle Libertà, si inventa un sedicente Partito del Popolo, annuncia che andrà al voto da solo, definisce "ectoplasmi" gli ex alleati di An e Udc. Poi, di punto in bianco, rifonda l'antica alleanza, riaccoglie nella casa del padre tutti i reprobi, uccide il vitello grasso per Mastella, e forse persino per Dini". "E lo stesso prezzo politico - aggiunge il sindaco - dobbiamo farlo pagare anche a Fini. "Prima rompe con il padre-padrone di Forza Italia, dichiara finito il centrodestra, firma il referendum elettorale per correggere la "porcata" di Calderoli. Poi, di punto in bianco, restituisce con tutti gli onori la corona al sovrano di Palazzo Grazioli, torna sotto il tetto della Cdl, e soprattutto grida elezioni anticipate, "anche con questa legge elettorale". Tutti questi voltafaccia, giocati sulla pelle del Paese, "noi dobbiamo farglieli pagare: stanno rimettendo in piedi un caravanserraglio che finirà per andare da Tilgher a Mastella, e voglio vedere come faranno a reggere".

In compenso, Veltroni sa perfettamente quello che deve fare il suo partito: "Lo confermo, il Pd va da solo". Va da solo alla Camera, e al massimo può puntare a qualche desistenza al Senato. Ma il dado della "vocazione maggioritaria" è ormai tratto, e indietro non si torna. "Su questo punto - osserva il leader - io vado fino in fondo. E' un'idea che avevo in testa fin dall'inizio, e ora siamo tutti d'accordo. Anche le prime reazioni di Prodi, dopo la caduta al Senato, sono assolutamente positive. Il partito è compatto, non c'è nessuna resa dei conti da fare, nessuna vendetta politica da consumare. C'è solo da andare avanti sulla strada che abbiamo intrapreso, che è l'unica che può cambiare il Paese, ed è l'unica che la gente apprezza davvero". Questa è l'altra convinzione del sindaco. La svolta maggioritaria del Pd è servita a far capire agli italiani che il rinnovamento è possibile. Che è finita davvero l'era del bipolarismo coatto e delle Armate Brancaleone messe insieme per vincere il giorno delle elezioni ma non per governare l'intera legislatura.

"A Firenze, di fronte a Joschka Fischer e a Ségolène Royal, ho rilanciato la necessità di un ambientalismo del fare e non del vietare: è venuto giù il teatro. La gente ha capito il nostro messaggio, e reagisce bene al fatto che recuperiamo la nostra identità culturale e la nostra libertà programmatica". Convinto di questo consenso sociale, e della sua capacità personale di incarnare una leadership moderna, aperta e non ideologica, Veltroni pensa di poter battere il Cavaliere, anche se si andasse a votare subito.

E' il primo a credere che esista un "veltronismo", che è valore politico e colore mediatico, capace di allargare il perimetro storico del vecchio Ulivo e di intercettare fasce di elettorato, in campo neutro e in campo avverso. Può darsi che abbia ragione.

Può darsi che si sbagli. Ma la prova del budino, per il Pd, è l'unica possibile. "Del resto - ripete lui stesso - che alternativa abbiamo? Ci rimettiamo a fare l'alleanza con i comunisti e tutti gli altri cespugli? Avete visto che venerdì hanno già annunciato il no alle missioni militari? E avete visto che oggi Diliberto torna alla carica con la falce e martello?". No, basta con questi compromessi forzati che non portano da nessuna parte. Basta con un altro caravanserraglio, da opporre a quello berlusconiano. Basta con quello che Giulio Tremonti chiama il centrosinistra "salsiccia", tipo mutui subprime americani dove dentro trovi di tutto.

C'è davvero "un'occasione storica per realizzare qualcosa di nuovo", e il leader non vuole lasciarsela sfuggire. Ai democratici non resta quindi che la "traversata nel deserto". Che può portare al governo, se quella di Veltroni non si rivelasse una pia illusione ma una scommessa vincente. Oppure può portare all'opposizione, il luogo dove "siamo allenati a stare da una vita", per usare la metafora dolceamara di D'Alema. Come il vecchio Pci si ritirò nell'orgogliosa "ridotta della diversità", così oggi il nuovo Pd si rinchiude nella fiduciosa trincea dell'autosufficienza. In tutti e due i casi, e per ragioni uguali e contrarie, una mossa ad alto rischio. Una scelta che ti può condannare a una lunga solitudine. Ma se davvero il centrosinistra è perduto, bisogna almeno salvare il Partito democratico.

(28 gennaio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Febbraio 08, 2008, 11:14:03 pm »

POLITICA IL COMMENTO

Un terremoto nella politica

di MASSIMO GIANNINI


Financial Times: l'Inferno di Dante è la metafora migliore della politica italiana. Wall Street Journal: in Italia il caos è la normalità politica. I giudizi caustici e sarcastici della grande stampa internazionale, formulati in questi giorni sulla solita crisi di governo dei soliti spaghetti-boys, meritano una postilla critica.

Se di caos si tratta, non è certo "caos calmo". Stavolta si può parlare di "caos creativo". La campagna elettorale appena cominciata si apre con un autentico, e speriamo palingenetico terremoto. L'epicentro del sisma è il Partito democratico. La decisione di Veltroni di presentarsi da solo al voto del 13 aprile, ieri confermata all'unanimità dall'intero vertice del Pd, si è rivelata un formidabile moltiplicatore di semplificazione e di innovazione dell'intero sistema politico. A sinistra, il consolidamento della "vocazione maggioritaria" ha prodotto, con geometria quasi gramsciana, un immediato sovvertimento dei rapporti di forza. Non è più l'avanguardia riformista a dover subire gli impedimenti tattici e i condizionamenti programmatici della retroguardia radicale o della vecchia guardia centrista, come è successo in questi tormentatissimi due anni di governo Prodi. Stavolta è Rifondazione a dover inseguire ipotesi di accordo "tecnico" al Senato, e sono il Pdci e i Verdi a dover accelerare sulla Cosa Rossa per non sparire dal panorama della rappresentanza nazionale. Stavolta, mentre Mastella e Dini trasmigrano allegramente sull'altra sponda senza lasciare il briciolo di un rimpianto, sono Di Pietro e Boselli a dover immaginare punti di convergenza sulla piattaforma dei "democrats". È un cambio di fase straordinario. Appariva impensabile fino a poche settimane fa. E invece ora esiste, nella realizzazioni pratiche del "nuovo" centrosinistra e non solo nelle proiezioni oniriche di qualche suo leader.

Ma la svolta autonomista del Pd non ha terremotato solo la sinistra. Da ieri, il sisma attraversa con la stessa intensità anche l'altra metà campo del centrodestra. Anche qui si verifica un'inversione di ruoli mai vista prima. Stavolta è Berlusconi che deve inseguire, e non più tirare la volata. La discussione su una possibile lista unitaria dei tre partiti maggiori della ex Cdl, Forza Italia, An e Udc, federati con la Lega, apre anche a destra scenari inediti e promettenti. Costringe il Cavaliere a tornare a far politica, e a riprendere in mano, con una variante più realistica, la marinettiana "rivoluzione del predellino" che aveva inventato due mesi fa a Piazza San Babila. Stavolta, chiedendo ai suoi alleati ritrovati di fare oggi quello che Ds e Margherita avevano fatto oltre due anni fa. Non si tratta ancora di fondare un partito unico, ma di avviare intanto un processo di convergenza, che semplifica il quadro elettorale e avvicina le forze moderate più affini sul piano culturale.

Non sappiamo ancora se il tentativo berlusconiano sarà coronato dal successo: come dimostrano i tumultuosi quindici anni della sua biografia politica e personale, l'uomo cambia idea quasi ogni giorno, e Casini si conferma un figliol prodigo straordinariamente generoso, ma anche particolarmente geloso del suo "marchio". Allo stesso modo, non sappiamo affatto se il tentativo veltroniano sarà coronato dal successo: i sondaggi premiano il cammino "solitario" avviato dal Pd, ma la distanza da colmare è ancora molta, e soprattutto si fa fatica a credere che il nuovo partito, non coalizzato a sinistra, possa raggiungere la maggioranza dei consensi contro un'alleanza di destra comunque coalizzata.

Ma intanto una cosa è sicura. Grazie alla scelta quasi temeraria di Veltroni, alle elezioni del 13 aprile gli italiani potrebbero trovare nell'urna una scheda che offre da una parte un unico partito riformista che si candida a governare da solo, dall'altra una lista unica moderata che riunisce tre simboli diversi. È un grande passo avanti. Una prima risposta, autoprodotta dal sistema politico, contro i suoi stessi vizi consolidati in questi decenni: la frammentazione partitocratica, la partenogenesi delle nomenklature, la conflittualità permanente tra le coalizioni, la ricerca di visibilità dei singoli.

Il processo è solo agli inizi. Ma al di là dei sondaggi, quello che sta accadendo è già sufficiente a considerare una felice intuizione il progetto del Partito democratico. È già sufficiente a giudicare lungimirante la strategia di chi lo ha lanciato più di tre anni fa, cioè Prodi e D'Alema, e di chi lo ha realizzato oggi, cioè Veltroni. Il verdetto elettorale sarà quello che sarà. Ma una nuova storia è già cominciata. "Si può fare": e stavolta non è solo vuota retorica.

(8 febbraio 2008)

DA repubblica,it
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« Risposta #17 inserito:: Marzo 13, 2008, 09:59:02 am »

ECONOMIA IL COMMENTO

Il falò delle vanità

di MASSIMO GIANNINI


La relazione unificata del Tesoro rotola come un macigno sulla campagna elettorale. Di fronte alle previsioni sull'andamento dell'economia nei prossimi anni, le generose promesse programmatiche di Berlusconi e Veltroni sono buone giusto per un romanzo di Tom Wolfe: il falò delle vanità. Purtroppo ci aspettano tempi durissimi. Persino più duri di quelli che avevamo immaginato. L'ultimo documento economico redatto dal governo Prodi prende atto di quello che in troppi, soprattutto nel ceto politico, non hanno voluto vedere.

Non basta dire che l'Italia crescerà meno del previsto. Un aumento del Pil che scende dall'1,5 allo 0,6 per cento è molto più di una flessione, e poco meno di una recessione. Un dato che non registra solo il peggioramento del ciclo, ormai già in atto da qualche mese nella percezione e nelle tasche dei cittadini. Si riflette negativamente anche su tutte le voci del bilancio pubblico come di quello familiare.

Visto che decresce il denominatore (cioè il Pil) sono destinati a risalire automaticamente i numeratori (cioè il deficit e il debito pubblico). Questo vuol dire che non ci saranno risorse per finanziare lo sviluppo. Con un Paese che viaggia a crescita zero, è persino ridicolo continuare a litigare su un "tesoretto" dal quale attingere per sostenere i salari e i redditi medio-bassi.

Come si temeva quel "tesoretto", se mai è esistito, è destinato a svanire in fretta. E ha fatto bene Padoa-Schioppa a non considerarlo, nella sua Relazione unificata, per non alimentare, insieme a vecchie polemiche, anche nuove illusioni. Per le élite politiche è davvero il momento dell'assunzione di responsabilità: chiunque vinca le elezioni, non ha di fronte a sé l'avvincente cavalcata nelle verdi vallate che sognava il mai troppo compianto Beniamino Andreatta, ma una lunga traversata nel deserto della quasi stagflazione che ci regalerà il non rimpianto George Bush.

Tanta parte di queste difficoltà nasce dai costi di una crisi che nasce in America, e che l'America scarica sul resto del mondo. L'Europa ne soffre. L'Italia, in ragione dei suoi ritardi strutturali sulla finanza pubblica, sulla competitività delle imprese e sulla produttività del lavoro, ne paga conseguenze anche più pesanti. Di tutto questo bisognerebbe parlare, in questa campagna elettorale che era partita bene ma che sta lentamente e pericolosamente scivolando verso i soliti cliché: ideologismi contrapposti, attacchi personali e vaghezze progettuali. Invece di rinfacciarsi il passato e il presente di Prodi, Berlusconi e Veltroni ripartano da quel tanto di buono che il suo governo ci lascia in eredità: un risanamento ben avviato. E cerchino di costruire su questo, ciascuno nel proprio ruolo, un progetto per il Paese. Almeno sul bilancio dello Stato, il premier uscente può dire "missione compiuta". Per i suoi successori, al contrario, la missione è ancora tutta da inventare.

(12 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #18 inserito:: Aprile 29, 2008, 05:39:11 pm »

POLITICA IL COMMENTO

Due padri per una sconfitta

di MASSIMO GIANNINI

 
Lo tsunami del 13 aprile sommerge la Capitale. Com'era prevedibile, l'onda lunga della destra italiana travolge anche l'ultima, flebile "resistenza" romana. La vittoria a Sondrio o a Vicenza è un pannicello caldo, che non lenisce ma semmai acuisce la ferita profonda patita dal centrosinistra, prima a livello nazionale e poi, dopo i ballottaggi, a livello locale. Con la trionfale marcia su Roma di Alemanno la sconfitta del Pd diventa disfatta. Una disfatta che non è orfana, ma stavolta ha almeno due padri.

C'è un padre, sul piano della proiezione politica romana. Si chiama Francesco Rutelli. Nonostante l'ottimo passato da sindaco negli ormai lontanissimi anni '90, stavolta Rutelli è stato un handicap, non una risorsa. Non è un giudizio politico, ma numerico. Il candidato alla provincia del Pd Zingaretti, nelle stesse circoscrizioni in cui si votava anche per le comunali, ha ottenuto 731 mila voti contro i 676 mila ottenuti da Rutelli. Vuol dire che quasi 60 mila elettori di centrosinistra, con un ragionato ancorché masochistico calcolo politico, hanno votato "secondo natura" alla provincia, mentre hanno fatto il contrario per il Campidoglio.

Piuttosto che votare l'ex vicepremier del governo Prodi, hanno annullato o lasciato bianca la scheda. In molti casi hanno addirittura votato Alemanno. Dunque, a far montare la "marea nera" della Capitale che ha portato alla vittoria il candidato sindaco del Pdl ha contribuito un'evidente "pregiudiziale Rutelli" a sinistra. Soprattutto nelle aree più radicali. Che magari non ne hanno mai apprezzato "l'equivicinanza" tra le disposizioni della Curia vaticana e le posizioni della cultura laica. E che forse, punendo Rutelli, hanno deciso di dare una lezione al Pd, colpevole di aver "cannibalizzato" la sinistra nel voto nazionale di due settimane fa. Con una campagna elettorale imperniata su un principio giusto (l'autosufficienza dei riformisti) ma declinato nel modo sbagliato (il principale "nemico" è la sinistra). Così Veltroni, salvo che negli ultimissimi giorni, ha finito per perdere di vista il vero avversario, cioè Berlusconi. Adottando nei confronti del Cavaliere una forma di parossistica "pubblicità involontaria", con la trovata non proprio geniale del "principale esponente dello schieramento a noi avverso", ripetuta ossessivamente, fino all'assurdo, e così trasformata in un boomerang .

Di questa disfatta, quindi, c'è un padre anche sul piano della dimensione politica nazionale. Quel padre si chiama Walter Veltroni. Il leader del Pd ha scontato un deficit oggettivo: nella partita sulla sicurezza, determinante nel giudizio degli elettori in tutta Italia e nelle singole città, ha dovuto inseguire il Pdl. E da sempre, in quello che Barbara Spinelli sulla Stampa definisce il "populismo penale", la destra eccelle storicamente sulla sinistra. Semplicemente perché, nella percezione dei cittadini impauriti (giusta o sbagliata che sia) "does it better": può farlo meglio. Ma il leader del Pd ha pagato anche un errore soggettivo: non ha capito che la sfida su Roma avrebbe richiesto un altro "metodo di selezione", più consono all'idea del Partito democratico costruito "dal basso", che gli elettori avevano iniziato a conoscere e ad apprezzare con le primarie.

La candidatura di Rutelli, al contrario, è il frutto dell'ennesima alchimia di laboratorio (o di loft). Una collocazione di "prestigioso ripiego", per un dirigente che è già stato sindaco due volte, che ha corso e perso un'elezione politica nel 2001, che è stato vicepremier nel 2006 e che ora, nel nuovo organigramma del Pd sconfitto il 13 aprile, rischiava di ritrovarsi senza un "posto di lavoro". L'opinione pubblica, di sinistra ma anche di centro e di destra, ne ha tratto la sgradevolissima impressione di una nomenklatura che usa le istituzioni come "sliding doors". Porte girevoli, dalle quali si entra e si esce secondo opportunità pratica personale, e non secondo utilità politica generale.

Ora, sul terreno di questa incipiente Terza Repubblica, per il centrodestra si aprono le verdi vallate del governo nazionale e locale, da Milano a Roma, con la fine di quello che Ilvo Diamanti definisce il "bipolarismo metropolitano". Per il centrosinistra, al contrario, non restano che macerie. Risultati alla mano, è difficile contestare l'irridente sberleffo di uno striscione della destra che, in serata, inneggiava a "Veltroni santo subito", lungo la scalinata del Campidoglio: "Con le primarie ha fatto cadere il governo Prodi. Con le politiche ha cacciato i comunisti dal Parlamento. Candidando Rutelli ha perso Roma".

L'analisi è rozza, ma ha un suo fondamento. Ora il Pd corre un rischio mortale. All'indomani della disfatta, un regolamento di conti al vertice sarà inevitabile. Ma a un anno dalle elezioni europee, nelle quali si voterà con il proporzionale, un possibile ritorno al passato (cioè alla vecchia e agonizzante divisione Ds-Margherita) sarebbe imperdonabile.

(28 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #19 inserito:: Maggio 01, 2008, 09:49:35 pm »

POLITICA L'ANALISI

L'ultimo passo della nuova destra

di MASSIMO GIANNINI


UN EX MISSINO eletto e acclamato dall'"aula sorda e grigia" è la fine e l'inizio della nostra "rivoluzione conservatrice".
Con Fini alla presidenza della Camera si chiude il ciclo della costituzionalizzazione reale della vecchia destra italiana, e si apre quello della trasformazione finale della nuova destra berlusconiana.

Il "traghettamento" di An oltre l'abisso del neofascismo di matrice evoliana o almirantiana, benché troppo veloce e tutto sommato neanche troppo doloroso, è infine compiuto e legittimato da un riconoscimento istituzionale. L'uscita dal ghetto (o dalle "fogne", come i missini di allora definivano la loro "alterità", subita ma insieme anche voluta) è definitiva e irreversibile. La pretesa "sfida culturale" del post-fascismo, cioè di quello che nell'89 Piero Ignazi chiamava "il polo escluso", è sostanzialmente vinta, benché non sia costata la giusta ma immensa fatica che è stata invece sistematicamente richiesta al post-comunismo. Di più: ora si riformula quasi come sottintesa "egemonia politica".

Il discorso di Fini a Montecitorio riflette questo passaggio che a suo modo, e senza enfasi, si può effettivamente definire storico. Il leader di An ha fatto di tutto per anestetizzarlo, adottando un profilo di assoluta pragmaticità e rifiutando ogni possibile solennità. Per lui il conto col passato si è chiuso con il lavacro di Fiuggi, nel gennaio del '95. Non ci sono altri peccati da confessare, né altre colpe da espiare. Per lui, a dispetto delle poche croci celtiche appese al collo dei suoi luogotenenti e dei molti saluti a braccio teso del suo "popolo" al Campidoglio, lo "sdoganamento" è avvenuto allora. E da allora lui e i suoi elettori hanno smesso di essere "figli di un dio minore", per diventare quello che sono oggi, per riconoscimento congiunto degli elettori e degli eletti: classe dirigente. C'è del vero in questa rappresentazione, anche se naturalmente la realtà è un po' più complessa. Ma tant'è.

Il passo cruciale che, nelle parole di Fini, testimonia la metamorfosi dalla "destra di lotta" alla "destra di governo" sta ovviamente nel riconoscimento del 25 aprile e del primo maggio come date fondanti della nostra vicenda repubblicana. La Festa della Libertà e la Festa del Lavoro. Due ricorrenze con le quali "si onorano valori condivisi", e sotto le quali si possono seppellire per sempre "le ideologie del '900". Da vecchio presidente di An Fini potrà anche qui rivendicare la piena continuità con le "Tesi politiche" di An del '94, che sotto il titolo "Sciogliere tutti i fasci" (e sia pure attraverso una troppo comoda "liquidazione" contestuale dei valori del fascismo e dell'antifascismo) riconoscevano l'antifascismo come "momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato".

Ma da nuovo presidente della Camera Fini ha fatto uno sforzo ulteriore di ridefinizione identitaria, che non era scontato e va salutato positivamente. Anche se si è ben guardato dal pronunciare le due parole-chiave, Fascismo e Resistenza, senza le quali il 25 aprile è declinato come semplice "Festa di Libertà", senza dire da che né spiegare grazie a chi. Ma in una stagione in cui purtroppo l'antifascismo non porta più voti, come ha inequivocabilmente dimostrato il verdetto delle urne, conviene accontentarsi del buono che passa il Parlamento. In questa chiave gli interventi di Fini ieri, quello di Schifani il giorno prima e lo stesso messaggio di Berlusconi lanciato proprio il 25 aprile segnano un promettente cambiamento di fase, che spiazza e scavalca (una volta tanto al centro) gli editorialisti troppo sprezzanti dei giornali "cognati" e i revisionisti troppo zelanti della ridotta forzista.

Fini, responsabilmente, auspica una "legislatura costituente". L'impianto del suo ragionamento sorregge l'auspicio. Ma il responso del 13 aprile, per la sua indiscutibile nettezza, lo profila in modo assai diverso da come qualcuno, prima del voto e sull'ipotesi di un pareggio, aveva immaginato. Niente larghe intese, niente commistioni di ruoli, niente zone grigie.

C'era chi aveva profetizzato che l'uomo di Arcore avrebbe lasciato a Letta Palazzo Chigi, avrebbe concesso una Camera all'opposizione, avrebbe inventato una nuova Bicamerale o una Commissione Attali. Niente di tutto questo. Il Cavaliere è il dominus, unico e incontrastato sulla scena: ha stravinto le elezioni, si prende tutto e assegna le parti in commedia. E l'apertura al dialogo con il centrosinistra sconfitto non è il cedimento a una logica di pari dignità, ma il proponimento dell'esercizio di una piena sovranità. Tanto è vero che il coinvolgimento del Pd veltroniano (unico interlocutore prima e dopo le elezioni) avviene "a chiamata" e secondo convenienza. Sulla generica necessità di "fare le riforme", o sulla specifica esigenza di riscrivere i regolamenti parlamentari o magari alcune parti della Carta del '48.

La legge elettorale (un'unanime "porcata" solo fino a pochi mesi fa) è già uscita dall'agenda perché questa riforma "l'hanno fatta gli italiani con il loro voto". Di nuovo: c'è del vero in questa rappresentazione, anche se naturalmente la realtà è un po' più complessa. Ma tant'è.

La nuova legislatura, costituente o meno che sia, nasce in effetti all'insegna di uno spirito collaborativo. Andrà dimostrato con i fatti, ma a giudicare dai segnali incrociati che arrivano dai neo-eletti presidenti delle due Camere c'è comunque un bel salto di qualità rispetto al minaccioso "non faremo prigionieri" e a tutti gli altri anatemi guerreschi dei due cicli precedenti, 1994 e 2001. Anche perché, per tornare alla "lunga marcia" che ha portato il delfino di Almirante dai Campi Hobbit a Montesarchio nel '77 fino al soglio della terza carica dello Stato nel 2008, questa apertura di gioco democratico avviene finalmente nel solco della Costituzione.


Anche il tributo che Fini ha reso a Giorgio Napolitano non era preventivamente scontato né banalmente rituale. È il segno che si riconoscono le prerogative del presidente della Repubblica, si apprezza il suo ruolo di garante super partes, si riconosce la sua funzione insostituibile nel bilanciamento dei poteri. La compiuta parlamentarizzazione della destra può coincidere con la condivisa costituzionalizzazione delle riforme. È una buona notizia per la Repubblica italiana.

Com'è una buona notizia, al netto della sterile apologetica patriottarda del Ventennio e della nevrile retorica nazionalista dell'ex Msi, il tributo che Fini ha reso al Tricolore. Nello strano impasto culturale che cementa la nuova destra berlusconiana, l'unità e l'identità della nazione che il leader di An adotta come vessillo diventa allo stesso tempo un presidio istituzionale dentro il governo e un paletto politico dentro la maggioranza. Se si pensa che Umberto Bossi solo due giorni fa ricordava che i fucili della Padania sono sempre caldi, e solo due anni fa invitava a usare la bandiera italiana come carta igienica, si può almeno formulare una speranza: da ieri, forse, abbiamo fatto un altro passo avanti sulla strada della normalizzazione politica. Ora è davvero Terza Repubblica. Difficilmente potrà essere peggiore della Seconda.


(1 maggio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #20 inserito:: Maggio 14, 2008, 06:37:15 pm »

POLITICA IL COMMENTO

Il Cavaliere ecomunenico

di MASSIMO GIANNINI


L'Unto del Signore che invoca in Parlamento "l'aiuto di dio" è la rappresentazione plastica della quarta reincarnazione del leader. È un vezzo culturale da antico presidenzialismo americano, ma è anche il sigillo politico del nuovo "ecumenismo berlusconiano".

Dopo quindici anni di avventura politica vissuta pericolosamente, il Cavaliere che chiede alla Camera la fiducia al suo nuovo governo usa un linguaggio da papa laico, e lancia un messaggio da pontefice repubblicano. Questo giornale non ha mai risparmiato critiche a Silvio Berlusconi, e a tutto quello che di negativo ha rappresentato e di anomalo continua a rappresentare nell'eterna transizione italiana, cominciata e mai finita dopo il terremoto di Tangentopoli.

E continuerà a non risparmiargliele, ora che si accinge a governare per la terza volta il Paese con una maggioranza solida e un esecutivo compatto, che non gli consentono più alibi di sorta. Ma in tutta onestà, nel discorso pronunciato ieri dal premier si farebbe qualche fatica a trovare una nota dissonante nei toni, o un aspetto discordante nei contenuti. Naturalmente ci sarebbe molto da obiettare, sulle questioni di merito che il Cavaliere ha eluso o affrontato in modo poco chiaro o troppo sommario.

Ma specularmente c'è qualcosa da dire, sulle questioni di metodo che invece ha indicato con un'attitudine al confronto (e non più allo scontro) e una disponibilità all'accordo (e non più al conflitto) per lui del tutto ignote.

Dal "tempo nuovo della Repubblica", che deve investire tutte le sue energie sulla crescita, all'"aria nuova" di dialogo politico-istituzionale, da "respirare a pieni polmoni" per arrivare alle riforme condivise necessarie a modernizzare il Paese. Dal superamento delle differenze ideologiche e persino "antropologiche" tra i poli al riconoscimento della funzione politica dell'opposizione e persino del ruolo strutturale suo governo-ombra. Berlusconi inaugura la legislatura con un'apertura di gioco che, se il paragone non suonasse troppo azzardato e per certi versi blasfemo, avrebbe un respiro quasi moroteo.

In quel "nessuno deve sentirsi escluso", e in quella continua chiamata al centrosinistra ad assumersi insieme "le comuni responsabilità", si coglie un'intenzione positiva che va raccolta e gli va rilanciata come sfida per il futuro: se questo è davvero il nuovo spirito bipartisan che anima il presidente del Consiglio, e se questo è davvero lo zeitgeist repubblicano che deve aleggiare sulla legislatura, serviranno molti fatti concreti e non più solo alcune enunciazioni di principio.

Ma intanto, con questo suo discorso quasi "epifanico", il Cavaliere sembra voler dismettere le pessime abitudini di questi anni. L'usufrutto personale dell'istituzione e l'utilizzo congiunturale della Costituzione. Il populismo mediatico al posto del riformismo politico. L'uso plebiscitario del Parlamento e l'abuso proprietario sulla televisione. Tutto questo, a prendere per buone le sue parole, sembra appartenere al passato.

Per la prima volta, dopo una campagna elettorale che erroneamente avevamo giudicato "sotto tono" mentre evidentemente era già l'espressione di un "altro tono", la corsa a Palazzo Chigi non era più l'assalto al Palazzo d'Inverno. E per la prima volta, dopo le rovinose e rissose esperienze del 1994 e del 2001, la guida del governo non è più vissuta come "presa del potere". Non sembra esserci più un "nemico alle porte": un "comunista" da liquidare, una "toga rossa" da cacciare o un sindacalista da combattere.

Con questo "nuovo Berlusconi", sempre che nei prossimi giorni e nei prossimi mesi la realtà non smentisca l'apparenza, la "rivoluzione" sembra farsi istituzione.

Semmai viene da chiedersi dov'era nascosto, in tutti questi anni, il responsabile "uomo di Stato" che abbiamo visto ieri a Montecitorio. Dov'era riposto, mentre si trasfigurava nell'esasperato tribuno che nel 2006 gridava "i magistrati sono un cancro da estirpare", o nel capo-popolo che solo sei mesi fa a piazza San Babila arringava le masse dal predellino di una Mercedes. Certo, si potrebbe rispondere che il "nuovo Berlusconi", dopo il trionfo del 13 aprile, è davvero "stanco di guerra" semplicemente perché ha risolto tutti i problemi che lo convinsero a scendere in campo: ha ormai praticamente definito i suoi guai giudiziari, ed ha anche felicemente risolto i problemi finanziari della sua azienda.

Ma questa, ancorché parzialmente vera, sarebbe comunque una lettura riduttiva del berlusconismo, sia pure declinato nella concezione leaderistica che ha impresso alla nostra democrazia. Resta il fatto che ha plasmato una destra corporata e radicata nel territorio, e ha dimostrato una sintonia profonda e costante con il Paese. Resta il fatto che oggi questa sua "vocazione istituzionale", sorprendente perché sconosciuta, lo proietta quasi naturalmente verso il Quirinale. E questa proiezione spiega forse più di ogni altra cosa le ragioni della sua "offerta" di collaborazione e di condivisione al Pd di Veltroni.

E qui, per il centrosinistra, c'è insieme un'opportunità e un pericolo. L'opportunità è quella di rientrare e di partecipare alla dialettica democratica, dopo una sconfitta elettorale cocente, senza rinchiudersi nella torre d'avorio del riformismo elitario o, peggio ancora, nella pregiudiziale dell'illuminismo minoritario. Il rischio è quello di appiattirsi, per banale debolezza o per becero calcolo, fino a snaturarsi e a far scomparire del tutto l'idea stessa di opposizione, parlamentare e sociale.

Servirà un doppio registro: confronto se possibile, scontro se necessario. Due soli esempi. Il primo, sulle riforme istituzionali: è giusto cercare un'intesa sulla nuova legge elettorale, ma è doveroso combattere un federalismo fiscale che disarticola definitivamente l'unità nazionale e crea una cesura irreparabile tra regioni ricche e regioni povere. Il secondo, sulle leggi ordinarie: non si può votare no a una detassazione degli straordinari e a una cancellazione dell'Ici (solo per una questione di bandiera identitaria o di filibustering parlamentare) se queste misure erano anche nel programma del Pd, ma non si può accettare un pacchetto-sicurezza purchessia (solo per far finta di sedare le ansie legittime dell'opinione pubblica) se scardina i principi giuridici del diritto interno e internazionale.

Oggi più che mai, come spiegava proprio Aldo Moro alla Dc dei primi anni Sessanta, "non bisogna aver paura di avere coraggio". Per il Pd è una buona lezione, nell'era del neo-moroteismo berlusconiano.



(14 maggio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #21 inserito:: Giugno 28, 2008, 05:39:52 pm »

POLITICA IL COMMENTO

Il crepuscolo del diritto

di MASSIMO GIANNINI


ESISTE una vera e propria vocazione del nostro tempo a vivere senza il diritto. Salvatore Satta, uno dei più grandi giuristi del Novecento italiano, lo scriveva nel novembre del '54, in un ciclo di discorsi poi confluiti nel saggio filosofico "Il mistero del processo". Viene da chiedersi cosa scriverebbe oggi di fronte al Lodo Alfano, col quale Silvio Berlusconi, da quell'insondabile "ossessione processuale" che lo insegue ormai da quindici anni, si sta per sottrarre per sempre.

L'approvazione in Consiglio dei ministri del disegno di legge che sospende i processi a beneficio delle quattro alte cariche dello Stato, per l'ennesima volta, marchia questa legislatura con il fuoco della personalizzazione della norma giuridica e della privatizzazione della cosa pubblica. Poteva essere una legislatura costituente, diventa una legislatura destabilizzante. Qui non c'entrano toghe rosse e pm mozza-orecchi, congiure giacobine e rivoluzioni giustizialiste. È l'improvvisa, convulsa manomissione delle regole messa in atto dal Cavaliere nel giro di due settimane, che dovrebbe far gridare allo scandalo chi ha ancora a cuore la qualità della democrazia, la difesa dei valori repubblicani, la tutela dei principi liberali.

Prima l'emendamento sulla sospensione dei processi, infilato surrettiziamente in un decreto legge in materia di sicurezza. Uno schiaffo multiplo: alle competenze del Capo dello Stato, alle esigenze dei cittadini. Ora il Lodo Alfano. Non è una "legge vergogna" in sé. Ma lo diventa per la genesi delle ragioni con le quali è stata congegnata, e per l'eterogenesi dei fini con la quale è stata approvata. È nata per evitare al presidente del Consiglio di sottoporsi alle ultime tre udienze, e poi alla sentenza, nel processo sul caso Mills, che lo vede imputato per corruzione in tatti giudiziari. È stata spacciata come una norma di "civiltà giuridica", uguale a quella che esiste in altri Paesi europei.

Il merito di questi provvedimenti è discutibile. Il Lodo Alfano è così ambiguo che, al comma 6, non chiarisce in modo netto se l'immunità assicurata al Berlusconi presidente del Consiglio possa "traslare", in corso di legislatura, anche all'ipotesi in cui lui stesso diventi nel frattempo presidente della Repubblica. Ma è soprattutto il metodo che è inaccettabile. Queste non sono misure di economia processuale o di garanzia costituzionale, che il governo in carica approva per venire incontro ai bisogni della collettività. Sono puri e semplici "salvacondotti" individuali, che un premier inquisito introduce a forza nell'ordinamento, per risolvere qui ed ora i suoi problemi.

Nell'irresponsabile corto-circuito tra i poteri dello Stato, con l'esecutivo che usa il legislativo per domare il giudiziario, l'intero corso della vicenda pubblica assume una piega radicalmente diversa. Questo chiama in causa tutti gli attori della scena istituzionale, politica e sociale. Non si tratta di urlare forte ma invano al "fascismo", o di rifugiarsi nel rito rassicurante ma sterile del "girotondismo". Ognuno è chiamato ad esercitare fino in fondo il proprio compito, con realismo e senso di responsabilità. Ma anche con il rispetto doveroso del proprio ruolo, e con la forza necessaria delle proprie convinzioni, maggioritarie o minoritarie che siano.

Nelle istituzioni, il presidente della Repubblica e la Consulta sapranno usare tutta la saggezza, ma anche tutta la fermezza che serve a fronteggiare questi tentativi di ripiegare la vita nazionale su una biografia personale. La Costituzione gli attribuisce quanto basta, per non affidare la tenuta delle regole democratiche solo ai "messaggi in bottiglia" della moral suasion. Nella politica, l'opposizione ha il dovere di battersi fin dai prossimi giorni, in Parlamento, con parole nette e con proposte chiare. Senza improvvisare Aventini inutili o promettere "autunni caldi" improbabili. E soprattutto senza farsi paralizzare, attonita e inconcludente, di fronte al "totem" del dialogo, che ormai rischia di diventare una forma impropria di "ideologia della legislatura".

Il dialogo può essere un utile metodo di governo. Ma ha senso se precipita su un merito, su un oggetto concreto, di volta in volta sviscerato, riveduto, condiviso. Se Berlusconi continua a bastonare il Pd a colpi di Lodo Alfano, ed è lui stesso a dire "con loro non dialogo più perché rappresentano un'opposizione giustizialista", non ha molto senso che Veltroni continui a ribattere che a questo punto "il dialogo è compromesso". Il dialogo su cosa? Il dialogo con chi? Sulla giustizia, se le basi sono queste, molto più semplicemente il dialogo non c'è e non ci può essere. C'è lo scontro aperto, nelle sedi in cui questo è previsto, cioè le aule di Camera e Senato. Se poi tra un mese si avvia un confronto sul federalismo, o si apre un tavolo sulla legge elettorale, allora si valuta il da farsi. Ma intanto questo è lo stato dell'arte.

Quello che stupisce, e che a tratti inquieta, è che dopo la "rivoluzione light" del 13 aprile, e di fronte al vento del mutato Zeitgeist che gonfia le vele del Cavaliere, ci siano tanti, troppi benpensanti disposti a rinunciare alla difesa delle proprie idee. Per il puro e semplice timore di sentirsi fuori dal senso comune prevalente, esclusi dalla nuova "egemonia culturale" dominante. Il fatto oggettivo che "tanto ha già vinto tre volte le elezioni e può rivincerle anche la quarta", non è una ragione valida per turarsi il naso e dire sì al salvacondotto al Cavaliere. Per accodarsi e subire passivamente la lezione quasi eversiva di Giuliano Ferrara, che sul Foglio titola "nessuno lo può giudicare" e attacca "il corteo vociante dei giustizialisti", che avranno pure dalla loro "i commi e i codicilli", ma "hanno perso l'autorità civile per giudicare in nome del popolo italiano chi da quel popolo è stato eletto democraticamente".
L'alba nascente di questo "nuovo potere", autoritario e avvolgente, populista e popolare, non può coincidere con il lento crepuscolo del diritto. Piaccia o no ai sovrani di turno, una democrazia vive anche di quei commi e di quei codicilli.

(28 giugno 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #22 inserito:: Giugno 29, 2008, 11:56:38 am »

POLITICA

Intervista al segretario del Pd Walter Veltroni. "L'Italia sull'orlo del baratro ma ancora una volta chi lo governa si occupa dei suoi problemi personali"
 
"Paese al collasso, dialogo finito" Berlusconi? "Pensa solo a sè"

E nel Pd stop alla costruzione di steccati. "Votati dal 34% perchè andati soli"

di MASSIMO GIANNINI

 

ROMA - "L'Italia vive la crisi più drammatica dal dopoguerra in poi. Berlusconi prende in giro i cittadini, e si occupa solo dei suoi affari personali. Ora basta, il dialogo è finito". Walter Veltroni va all'attacco. Se mai è esistito, il "Caw" è archeologia repubblicana. Tra maggioranza e opposizione è guerra aperta. Il leader del Pd denuncia la "crisi devastante in cui versa il Paese", e punta il dito contro il Cavaliere.

Onorevole Veltroni, da cosa nasce questo suo allarme?
"La crisi ha origini antiche. Ma oggi quello che sconcerta è il capovolgimento delle priorità. L'Italia vive la condizione più drammatica dal dopoguerra. Siamo in piena stagnazione. I consumi crollano: quelli finali sono a -2,3%, a -4% nel Mezzogiorno. Per la prima volta siamo passati dal 6,4 al 7,1% nel tasso di disoccupazione. La produttività è -0,2%, il Pil ristagna al +0,1%. Il Paese è fermo".

Ma è fermo da anni.
"Sì, ma ora si sommano due circostanze. La prima è la sconcertante manovra del governo. Ora che sale la nebbia degli spot, finalmente viene fuori la realtà. C'è una prima novità, devastante: le tasse aumentano, dello 0,2% nel 2010. E nonostante la promessa elettorale sul calo della pressione fiscale sotto il 40% del Pil, nel 2013 arriverà al 42,9%. Poi c'è la seconda notizia, non meno clamorosa: l'esito della famosa Robin Hood Tax. Dei 5 miliardi presi sa quanto va alla famosa carta per i poveri? 290 milioni di euro quest'anno, 17 l'anno prossimo e 17 l'anno successivo. Briciole. Nel frattempo, aumentano di circa 300 euro le spese nelle famiglie: 180 euro per benzina gas e luce, 100 euro per i generi alimentari. Poi c'è una terza notizia: si riduce la spesa per gli investimenti, 10 miliardi in meno da qui al 2011. Vogliono dare le armi ai vigili urbani, vogliono mettere i vigilantes, ma intanto riducono le spese per gli straordinari delle forze di sicurezza: 800 milioni in meno per la polizia, 800 milioni in meno per i carabinieri, e tagliano 150 mila persone nella scuola. Ecco l'Italia vera: sull'orlo del precipizio".

Segretario, non la vede un po' troppo nera?
"Niente affatto. Questa è la fotografia del Paese, attraversato da impoverimento, insicurezza e paura. E la nostra destra che fa? Chiede le impronte dei bambini rom, una cosa che solo a sentirla fa venire i brividi. Vara una manovra che truffa i cittadini. Inventa il reato di immigrazione clandestina, che il premier definisce impraticabile dopo aver firmato il ddl che lo contiene. Inventa la bufala dei mutui, che costa 13 mila euro in più a famiglia. Mette in scena la farsa dei rifiuti, con Bossi e Calderoli che chiedono alle Regioni di prendere i rifiuti. Perché non l'hanno chiesto prima? Anche i rifiuti sono diventati merce elettorale? E infine rilancia le leggi ad personam. Questo, alla fine, genera un'inquietante caduta dello spirito pubblico. Nel momento più drammatico della storia italiana, di cosa stiamo parlando dall'inizio della legislatura? Del decreto per Rete4, della norma sposta-processi, del Lodo Schifani. Lo trovo intollerabile".

Sul Lodo Schifani o Alfano qual è la valutazione del Pd?
"Non do valutazioni finché c'è di mezzo quell'emendamento al decreto sulla sicurezza. Se non si stralcia la norma blocca-processi, non discutiamo del resto. Dopodiché, sul Lodo io chiedo: è la priorità di un'Italia che non sa come arrivare alla fine del mese? E poi aggiungo: c'è bisogno di disciplinare questo tema adesso, in modo così scandalosamente segnato dalla preoccupazione contingente di una delle 4 cariche istituzionali, che vuole una norma per sé e non una norma per la democrazia? E quale principio stabiliamo: un'alta carica dello Stato, che poi magari diventa un'altra alta carica dello Stato, può compiere qualsiasi tipo di reato senza essere perseguibile per un tempo illimitato? No, a tutto questo io dico no. Se c'è un'esigenza di garanzia generale, allora studiamo pure una norma. Ma intanto come disegno di legge costituzionale, e poi la facciamo scattare dalla prossima legislatura. Così si fa, nelle democrazie europee".

Quindi su questo in Parlamento sarà battaglia?
"Sarà battaglia su questo, ma sarà battaglia su tutto. Noi vogliamo combattere per ristabilire una gerarchia delle priorità. Qui di urgente non ci sono i decreti salva-processi del premier, ma i disagi di milioni di italiani. Per questo voglio la grande manifestazione d'autunno".

Di Pietro, dal quale siete sempre più divisi, obietta: se c'è davvero l'emergenza democratica, è ridicolo aspettare l'autunno.
"Ho parlato dell'autunno perché su alcune questioni sociali, che Di Pietro non sa neanche dove stiano di casa, sarà quello il momento più critico. Detto questo non mi spaventa avere idee diverse su come fare opposizione. Io non vivo col problema che c'è uno che urla più di me, perché sono un riformista e so che per un riformista c'è sempre uno che urla più di te. Ma so anche che quelle urla poi si perdono nell'aria. E so che quelli che alla fine cambiano davvero le cose sono i riformisti. Vivere con la paura del nemico a sinistra è qualcosa di cui ci dobbiamo liberare per sempre".

Ma di fronte a Berlusconi che continua a bastonarvi ha senso continuare a restare appesi al "dialogo", come fosse la nuova ideologia della legislatura?
"Lei ha ragione. Il dialogo ha senso solo se dà risultati concreti. Secondo un sondaggio Ipsos, il 71% degli italiani è favorevole al dialogo tra maggioranza e opposizione, purché risolva i problemi. È questo, oggi, che è venuto meno. Berlusconi, alla Camera il primo giorno, ha parlato di un clima nuovo nei rapporti tra maggioranza e opposizione. Io prudentemente risposi "vedremo se alle parole corrisponderanno i fatti". Oggi rivendico la giustezza di quella scelta: pensi che regalo sarebbe stato per Berlusconi, se di fronte alle sue aperture l'opposizione avesse detto: no, io con te non ci parlo perché sei Berlusconi. Sarebbe stato il suo alibi perfetto. Invece noi abbiamo detto: se c'è la disponibilità a fare riforme istituzionali nell'interesse del paese noi siamo pronti. Nessuno può dire che noi abbiamo avuto un atteggiamento pregiudiziale. Ma proprio per questo oggi possiamo avere la libertà totale di dare i giudizi più severi sull'operato del premier".

Ma in queste condizioni ha ancora senso, il dialogo?
"No. In queste condizioni il dialogo è finito. È finito perché loro non sono in grado di votare un presidente della commissione di vigilanza se non facendo trattative che noi non facciamo. È finito perché loro sanno procedere solo per strappi, come hanno fatto sulla giustizia. È finito perché Berlusconi è tornato ad essere ciò che è...".

Il Caimano?
"Non ho mai dato giudizi personali e continuo a non darli. Mi limito a osservare che il modo in cui Berlusconi ha condotto la campagna elettorale, e poi le cose che ha detto in Parlamento, e poi quelle che sta facendo ora, sono una somma di doppiezze, indistinguibili e inconciliabili. E sono una somma zero per il Paese".

Lei boccia legittimamente il governo, ma parla come se nel Pd fossero tutte rose e fiori. In realtà, dalla sconfitta del 13 aprile, non le pare che siate usciti confusi, sfibrati, divisi?
"Ho già detto che la sconfitta c'è stata, ed è stata dura. Ma oggi, a chi accusa dall'interno il gruppo dirigente, rispondo citando Roberto D'Alimonte sul "Sole 24 Ore". Il risultato delle elezioni non poteva essere un punto d'arrivo, ma solo un punto di partenza. Come tale, è stato tutto sommato un buon risultato, ottenuto in condizioni difficili, su cui si può costruire con pazienza, intelligenza e umiltà. Invece quello che appare oggi è un partito ripiegato su se stesso. Eppure, rispetto alle elezioni che avevamo vinto per modo di dire nel 2006, al Senato noi siamo cresciuti del 6%, alla Camera del 2%. Abbiamo il 34% dei voti, cioè siamo agli stessi livelli del Labour in Inghilterra, dell'Spd in Germania, dei socialdemocratici in Svezia".

Verissimo. Ma il Pd resta minoranza nel Paese. E ora oscilla paurosamente sulle alleanze.
"Sa perché abbiamo preso quel 34%? Perché siamo andati liberi, ed è una scelta di cui mi piace assumermi fino in fondo la responsabilità. L'Unione era un'esperienza finita, forse già prima del voto del 2006. Oggi c'è qualcuno che ha nostalgia con quelle riunioni di maggioranza con tredici partiti? Se c'è lo dica, si faccia avanti".

C'è chi le obietta: andare da soli non vuol dire coltivare il mito dell'autosufficienza.
"Questo è un vizio da vecchia politica politicante: attribuire agli altri una posizione che non hanno, per poi poter polemizzare. Io non sono contro le alleanze a priori, ma ho sempre detto, e lo ripeto oggi, che l'alleanza si fa sui programmi, sulle scelte concrete. Quindi, dalla sinistra radicale a Casini, va bene tutto quello che è convergenza di programma. Ma ferma restando l'idea di fondo: mai più l'unione, che è la principale contraddizione rispetto all'Ulivo. Mai più partiti di lotta e di governo. Quella roba il Paese non la sopporta più".

Sia sincero. Non coglie segnali di malessere dentro il Pd? Ci sarà un motivo se "Europa" definisce l'ultima assemblea costituente "un funerale di prima classe"?
"Un segnale di malessere è il fatto che la nostra gente non è contenta di vedere che nel Pd si vanno costruendo recinti e steccati che non dovrebbero esistere. Abbiamo convocato per la terza volta in sei mesi un congresso, perché quando un'assemblea costituente riunisce 2800 persone è come fosse un congresso. Ditemi: quale partito italiano o europeo ha una vita democratica di questa dimensione? E perché la stessa critica non viene fatta ad An, o a Forza Italia? Non si dovevano sciogliere nel Popolo della libertà? La nostra forza, la forza del Pd, sta nell'essere capaci di riconoscere un pluralismo interno di idee, non di strutture. Un pluralismo di contributi intellettuali e di valori, non di casematte organizzate".

La dica pure, la parola maledetta: correnti. Le Fondazioni non sono correnti? La dalemiana Red non è una corrente?
"Non lo so, non me ne occupo. Io non faccio correnti, perché la mia unica "corrente" è il popolo del Pd, sono quei 3 milioni e mezzo di cittadini che hanno votato alle primarie".

E di Parisi che la invita a dimettersi cosa mi dice?
"Ho stima intellettuale per Parisi. Ma provo nei suoi confronti una delusione umana. Mi sarebbe molto piaciuto che estraesse il suo dardo fiammeggiante nel momento in cui Prodi dopo la vittoria del 2006 fu assediato dai partiti, che lo costrinsero a fare un governo di cento persone. Allora mi sarebbe piaciuto che Arturo si alzasse in piedi e dicesse "se è così io non ci sto". Ma non l'ha detto".

Nel Pd c'è chi dice: se vanno male le europee del 2009 Veltroni è finito. E c'è persino chi pensa che lei potrebbe crollare prima. Cosa risponde?
"Rispondo che fa sempre più rumore un albero che cade, piuttosto che la foresta che cresce. Io mi occupo di far crescere la foresta. Gli altri, se vogliono, si occupino di logorare me e il Pd in previsione delle europee. Io farò il contrario. Lavorerò per preparare, fin dal prossimo autunno, l'alternativa forte e credibile a un governo che sta portando l'Italia al collasso. La luna di miele tra Berlusconi e il Paese sta finendo. Tocca a noi proporre alla gente un'altra idea dell'Italia".

(29 giugno 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Luglio 15, 2008, 05:23:24 pm »

POLITICA

IL COMMENTO

La fine del dialoghismo

di MASSIMO GIANNINI

 

CHE SIANO l'espressione post-moderna delle vecchie "correnti" di partito, o la rappresentazione pre-politica delle nuove "casematte" del potere, dobbiamo essere grati alle Fondazioni del centrosinistra. Il convegno di ieri è servito a dimostrare due cose. La prima: il dialogo è morto. La seconda: il Pd non si sente molto bene.

1) La morte del dialogo l'ha annunciata pubblicamente Fabrizio Cicchitto, plenipotenziario di Berlusconi: sul sistema elettorale alla tedesca non c'è alcun margine di manovra. Al partito del premier quel modello non interessa affatto. È inutile affannarsi sui manuali di diritto costituzionale comparato: ancorché non del tutto inviso alla Lega, un ritorno al proporzionale è inviso al Pdl. Dunque, qui ed ora non è proprio nel novero delle cose possibili. Così a Veltroni non è rimasto altro da fare, se non decretare ufficialmente l'avvenuto decesso del famoso e fumoso dialogo tra centrodestra e centrosinistra. È una cattiva notizia per il Paese, perché quella che era stata annunciata come una possibile legislatura costituente per i due poli si sta rivelando un'avventura destabilizzante per le istituzioni.

Ma almeno si fa piazza pulita, una volta per tutte, di un colossale equivoco, che rischiava di trasformare l'iniziale "luna di miele" del Cavaliere con un bel pezzo d'Italia e con una bella fetta di Parlamento in una "luna di melassa" in cui si mescolavano i ruoli, si confondevano gli obiettivi, si snaturavano i valori. Il dialogo era diventato un mantra indiscutibile. Un totem intoccabile. Una variabile indipendente: dai soggetti e dai luoghi, dalle forme e soprattutto dai contenuti. Insomma: generato direttamente dal combinato disposto del bipolarismo conflittuale della passata stagione politica e dal conformismo post-ideologico di quella appena avviata, il dialogo era ormai assurto a nuova "ideologia della legislatura": il "dialoghismo". Un valore in sé, retorico e artificioso, che produceva e si riproduceva in una bolla di consenso vacuo e privo di ricadute pratiche. Come nella rivoluzione, anche per il trionfo del dialogo è essenziale che il dialogo non abbia mai successo.
Ma il dialogo, in realtà, è solo un possibile metodo di governo, funzionale alla soluzione dei problemi di interesse generale. Richiede una disciplina comune, una legittimazione reciproca, una responsabilità speculare. Se si decide di adottarlo, il metodo si pratica, sempre e in modo sistematico, quando in ballo ci sono le regole del gioco democratico da riscrivere insieme. Purtroppo non è questa la "declinazione" che ne hanno dato il presidente del Consiglio e la sua coalizione. Lo hanno usato, alternativamente, ora come strumento di difesa di se stessi, ora come arma di offesa contro l'opposizione. Lo hanno attivato, strumentalmente, come formula "a chiamata", come il job on call della legge Biagi. Sulla giustizia, sulla norma blocca-processi, sul lodo Alfano, prima o poi sul Csm, Berlusconi non vuole e non chiede alcun contributo al centrosinistra. Procede imperterrito, a colpi di mano e a botte di fiducia. La stessa cosa fa sul decreto-sicurezza o sulle impronte per i bimbi rom. Sulla legge elettorale, sui regolamenti parlamentari, sul federalismo, prima o poi sul presidenzialismo, semina invece il suo cammino di ipotetici appelli alla condivisione e di apparenti richieste di collaborazione.

L'opposizione gli va dietro. E puntualmente scopre che il "sentiero" del dialogo indicato dal Cavaliere è in realtà disseminato solo di trappole. Cicchitto uccide in culla il modello tedesco sulla riforma elettorale. Maroni annuncia che il Pdl farà da solo sulla riforma federale.
A questo punto, il centrosinistra non può non prenderne atto, e imboccare finalmente una strada diversa. Che non è quella della "subcultura" grillista-dipietrista di Piazza Navona. Ma non è neanche quella che vuole il principale partito d'opposizione davvero svilito, a tratti, al ruolo di "corpo diplomatico". Incosciente della sua identità, e quindi sempre troppo timido sulle risposte da dare alla destra. Inconsapevole della sua funzione, e dunque sempre troppo disponibile alla "chiamata" di comodo del Cavaliere. Ora almeno questo gioco, ambiguo e improduttivo, finisce. Si dialoga se c'è un "oggetto". In caso contrario si tace. O ci si scontra, com'è normale e fisiologico in ogni democrazia.

2) La malattia del Pd è stata certificata, ancora una volta, dalle visioni politiche radicalmente opposte e apparentemente inconciliabili di Veltroni e D'Alema. La diversa proposta sul modello elettorale, che il primo vuole tuttora ancorato all'esempio maggioritario, e che il secondo vede sempre legato all'esperienza proporzionale, nasconde una diversa lettura del destino del Partito democratico. Veltroni resta fedele all'ideale di un bipartitismo imperfetto, nel quale il sistema francese esalta la vocazione maggioritaria del Pd, lo consolida nella sua autosufficienza riformista, e lo salva per sempre dall'abbraccio mortale con la sinistra massimalista. D'Alema resta affezionato all'idea che questo bipolarismo non funzioni, e vede nell'introduzione del sistema tedesco il possibile passepartout per riaprire al Pd la porta delle alleanze, ricucendo i vecchi rapporti con le sinistre antagoniste (da Bertinotti ai Verdi) e soprattutto saldando un nuovo asse con il centro cattolico (da Casini a Pezzotta).

Ma anche sul tema dei rapporti con il centrodestra la dissonanza è sconcertante. Prima delle elezioni Veltroni sedeva al tavolo con Berlusconi, e D'Alema dietro le quinte inorridiva di fronte ai primi vagiti di un improbabile "Veltrusconi". Oggi i ruoli si sono invertiti. D'Alema cerca di non rompere l'esile filo del confronto con la maggioranza (anche a costo di farsi dare dell'inciucista e di non criminalizzare a priori l'ipotesi di una "grande coalizione") mentre è Veltroni a dire no grazie, con questo premier non si può. E intorno ai duellanti, si agitano le mine vaganti. Da Francesco Rutelli, che continua a schiumare rabbia per la sconfitta di Roma, ad Arturo Parisi, che continua a sparare comunque sul quartier generale.

Non è un bello spettacolo, quello che si recita tra le macerie del loft. Quello che è peggio, è che la battaglia tra i leader si combatte o sul terreno spurio delle fondazioni culturali, o nel chiuso dei corridoi e dei caminetti. Se l'irriducibilità delle posizioni non è ricomponibile, allora sarebbe quasi più opportuna la resa dei conti, alla luce del sole di un vero congresso. Ad ogni modo, qualunque cosa è meglio di questo lento logoramento. Questo Berlusconi autoproclamato sovrano, sempre più minaccioso e rutilante, meriterebbe una risposta unitaria. Questo centrodestra di cortigiani silenziosi e obbedienti, sempre più piegati al "centralismo carismatico" dominate, richiederebbe un'alternativa seria. Su internet circola uno slogan: "Errore di sistema, riavvia il Pd". Forse è proprio quello che serve.

(15 luglio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #24 inserito:: Luglio 25, 2008, 11:19:47 pm »

ECONOMIA IL COMMENTO

Rischio-Italia sui mercati

DI MASSIMO GIANNINI



I CITTADINI tedeschi sono preoccupati.

L'indice Ifo sulla fiducia delle imprese è crollato ai livelli più bassi dall'11 settembre, e la cancelliera Angela Merkel li ha informati che la Germania non riuscirà ad evitare la "tempesta perfetta" che sta sconvolgendo l'economia finanziaria, e che nel 2009 produrrà i suoi effetti negativi sull'economia reale: la crescita di quest'anno non raggiungerà l'obiettivo del 2,2%.

Cosa dovrebbero dire i cittadini italiani, che di fronte al "disaster capitalism" celebrato da Naomi Klein si ritrovano con un indice Isae sulla fiducia delle imprese già ai livelli peggiori dal 2001 e con un Prodotto lordo a crescita zero? La manovra approvata dalla Camera non può confortarli. Dispone la "quantità" del risanamento, ma non propone la "qualità" dello sviluppo.

C'è un "caso Europa", che ormai non si può più sottovalutare. Lehman Brothers parla per la prima volta di rischio-recessione nell'Eurozona. Ma da qualche settimana sui mercati c'è anche un "caso Italia", che ormai non si può più nascondere.

Il Bollettino economico della Banca d'Italia aveva registrato, tra l'inizio di aprile e i primi giorni di luglio, una riduzione del premio di rischio sui titoli italiani. Il differenziale di rendimento tra le obbligazioni emesse da società non finanziarie con elevato merito di credito e i titoli di Stato era sceso di 0,3 punti percentuali, un calo addirittura maggiore di quello registrato dagli emittenti di altri Peasi europei. Ma nelle ultime due settimane lo spread tra i nostri Bpt decennali e i Bund tedeschi ha ripreso impercettibilmente ma inesorabilmente a crescere, tra i 50 e i 60 punti base.

In un mercato già di per sé volatile, gli operatori internazionali non si fidano di un Paese che non sembra in grado di risolvere i suoi problemi, endemici e sistemici, già ricordati da Mario Draghi nella sua audizione in Parlamento il 2 luglio scorso: indebitamento strutturale in aumento (più 0,6% al netto delle una tantum), spesa corrente in tensione (per la prima volta oltre il 40% del Pil), produttività in caduta libera (nel privato e soprattutto nel pubblico impiego), costo del lavoro per unità di prodotto in ascesa costante (più 4,5% tra inizio 2007 e primo trimestre 2008).

Ma c'è un altro termometro, che riflette con inquietudine crescente il grafico della "febbre italiana" di queste settimane. È il prezzo dei "Credit default swap", cioè le polizze di assicurazione sottoscritte dagli investitori che vogliono ricoprirsi dai rischi di insolvenza sui titoli obbligazionari emessi da un Paese.

Nel mese di luglio, sui mercati, il costo dei "Cds" nell'Eurozona è schizzato alle stelle per tutti i bond messi in circolazione dagli Stati con i tassi di crescita più bassi, le finanze pubbliche più critiche e i sistemi bancari più esposti. Dal 5 giugno scorso, giorno dell'allarme inflazione lanciato dal presidente della Banca centrale europea Trichet, assicurare un pacchetto di titoli di debito italiani del valore di 10 milioni di euro costa 15 mila euro in più.

Peggio dell'Italia, tra i 15 di Eurolandia, va solo la Grecia, con un "rincaro" di 16 mila euro, mentre vanno un po' meglio il Portogallo (più 14 mila euro), la Spagna (più 13 mila euro) e l'Irlanda (più 10 mila euro). A reggere l'urto restano solo la Germania (con un aumento di mille euro) e in parte la Francia (più 3 mila euro).

Cosa significa tutto questo? Il nostro Paese, suo malgrado, è tornato ad essere un sorvegliato speciale in Europa. È l'anello debole di una catena che non si può più spezzare (è irrealistica l'ipotesi che l'Italia esca dal sistema monetario europeo) ma che ci può soffocare (ogni aumento dei tassi di interesse deciso dalla banca centrale aumenta il costo già esponenziale del nostro debito pubblico).

L'euro ci ha salvato, come ripete Lorenzo Bini Smaghi: "Se non fossimo nella moneta unica - secondo il membro italiano del board della Bce - oggi ci ritroveremmo nel baratro in cui cademmo nel 1992". Ma l'ombrello dell'euro non può bastare. Per questo la manovra economica triennale che da oggi passa all'esame del Senato è palesemente deficitaria, come denunciato dal governatore di Via Nazionale. Nel primo anno ruota tutta intorno agli aumenti delle entrate, e nei due anni successivi si affida a un piano di riduzione delle spese quasi interamente affidato al conto capitale (cioè agli investimenti), agli enti locali (che saranno costretti a ridurre il perimetro del Welfare) e ai ministeri (che di perdere il "portafoglio" non ne vogliono sapere).

La nave europea non va. E noi siamo, ancora una volta, la zavorra. Lo dice oggi il Fondo monetario, che ha appena rivisto il suo outlook. Lo dirà il 7 agosto la stessa Bce, nell'ultimo consiglio prima delle vacanze. L'"allerta" sull'Italia e sull'impennata dei premi sui suoi "Credit default swap" non è un complotto delle tecnocrazie senza popolo. È nei fatti: lo ha lanciato il Financial Times tre giorni fa. Il "warning" della bibbia del capitalismo finanziario internazionale è caduto nell'indifferenza generale.

Si capisce che nel governo nessuno raccolga questi segnali. Berlusconi considera la magistratura "un cancro da estirpare", e ovviamente è troppo preso dalla sua rituale "caccia alle toghe". Tremonti giudica la speculazione "una peste del XXI secolo", e naturalmente è troppo impegnato nella sua virtuale "caccia agli untori". Ma i mercati globali sanno valutare i pericoli. Le istituzioni finanziarie sanno giudicare le politiche. Sarà banale, ma mai come stavolta si può dire che chi semina vento raccoglierà tempesta.

(25 luglio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #25 inserito:: Luglio 27, 2008, 03:43:45 pm »

POLITICA

IL CASO

L'ultimo insulto a Napolitano


di MASSIMO GIANNINI


Un destino ineluttabile accomuna i presidenti della Repubblica che hanno avuto la ventura di condividere la difficile "coabitazione" istituzionale con un premier come Berlusconi. Per un pezzo d'Italia che considera il Cavaliere un «golpista», e non un presidente del Consiglio scelto democraticamente dai cittadini attraverso il sacro rito repubblicano delle libere elezioni, gli inquilini del Quirinale non fanno mai abbastanza per combattere o abbattere il Tiranno. È toccato a Carlo Azeglio Ciampi, che nonostante abbia bocciato e rinviato alle Camere le due leggi più politicamente «sensibili» della seconda legislatura dell'uomo di Arcore (la riforma delle tv e la riforma dell'ordinamento giudiziario) ha subìto più di un assedio dagli estremisti del girotondismo e patito più di un'accusa dai professionisti dell'antiberlusconismo. Oggi tocca a Giorgio Napolitano, che nonostante l'impeccabile gestione dei passaggi più delicati dell'innaturale metamorfosi del bipolarismo italiano (la crisi del governo Prodi, il fallimento delle riforma elettorale e l'avvento del terzo governo Berlusconi) subisce i soliti strattoni da un'opposizione di palazzo che non si rassegna alla sconfitta e pretende il sovvertimento dei principi della sovranità parlamentare. E patisce le offese da un'opposizione di piazza che non conosce le regole ed esige la battaglia tra le istituzioni al di fuori dei paletti dell'architettura costituzionale.

L'offensiva è partita con il «vaffa-day» grillista dell'8 luglio, che ha preso a pretesto (giusto) le leggi-canaglia del premier per sviluppare una forsennata (e insensata) batteria di «fuoco amico»: contro il Pd, contro Veltroni, e soprattutto contro il Quirinale. Poi è toccato a Di Pietro, che ha cavalcato Piazza Navona con una disinvoltura a dir poco irresponsabile, all'insegna del nuovo motto consolatorio e pre-rivoluzionario: «Il regime non passerà!». Poi è stata la volta dell'Unità, che sia pure con tutto il garbo possibile ha spiegato comunque al capo dello Stato che promulgare la legge sulle immunità delle quattro alte cariche dello Stato è come apporre la firma su quello che Guido Carli, in altri tempi, avrebbe chiamato un «atto sedizioso». Infine, in un crescendo di qualunquismo e di pressappochismo, è Beppe Grillo a tornare sul «luogo del delitto». E stavolta non con la critica politica, ma con l'insulto personale.

«Napolitano è in salute?», si chiede il nuovo Torquemada della mediocrazia italiana sul suo blog. Si fa la domanda, e si dà la risposta. «La salute può essere l'unica giustificazione del suo comportamento. Vorrei essere rassicurato se è in grado di esercitare ancora il suo incarico e per quanto tempo. Se possibile disporre della sua cartella sanitaria...». Sono parole che si commentano da sole. E non meriterebbero neanche una replica. Dopo la manifestazione dell´8 luglio avevamo parlato di "subcultura", suscitando su Internet la reazione sdegnata dei grillisti. Di fronte alla nuova invettiva del Grande Imbonitore, non sapremmo trovare una definizione migliore. Ma una replica s'impone, perché queste parole riflettono una malattia diffusa, che è nata in una certa destra ma ormai sembrano attecchita anche in una certa sinistra: l'uso congiunturale della Costituzione e l'abuso conflittuale delle istituzioni. Nel caso di specie (il lodo Alfano) Napolitano ha fatto il suo dovere. Ha firmato una legge varata dal Parlamento. Poteva respingerla, se vi fossero emerse antinomie palesi e profili di manifesta incostituzionalità (combinato disposto degli articoli 74 e 87 della Carta fondamentale). Ma nella legge sull'immunità queste «falle» pregiudiziali non compaiono. Il governo ha persino recepito alcuni rilievi con i quali la Corte costituzionale aveva decretato nel gennaio 2004 l'illegittimità dell'analogo Lodo Schifani.

Vogliamo rassicurare Grillo e i grillisti: il presidente della Repubblica non solo è in ottima salute sul piano fisico e mentale, ma è anche in perfetta forma sul piano politico e istituzionale. I militanti del «vaffa» dovrebbero sapere che Napolitano non è Sarkozy o Bush e che il nostro capo dello Stato non può prevaricare le Camere, senza trasformare la repubblica parlamentare in regime presidenziale. E dovrebbero sapere che il sindacato definitivo sulla costituzionalità delle leggi non spetta al Quirinale, ma compete invece alla Consulta. Non capire tutto questo, e continuare a sparare a casaccio sul Quartier Generale, per certa sinistra barricadera è un errore uguale e contrario a quello che sta compiendo la destra egemone. È un altro modo per snaturare la dialettica democratica, e per alterare il fisiologico bilanciamento dei poteri.

La critica al Colle non configura di per sé un reato di «lesa maestà». Ma andrebbe per lo meno ben motivata, e ben argomentata. A chi giova, invece, l'ingiuria gratuita? A chi conviene trascinare anche Napolitano dentro la palude indistinta del senso comune dominante, dove tutto è sempre e solo «casta», dove si annacquano i distinguo e si accorciano le distanze, dove tutti sono uguali e ugualmente meritevoli di sberleffo satirico, di disprezzo pubblico, di condanna morale? La vera, subdola insidia del berlusconismo, l'ossimoro della «rivoluzione istituzionale» che incarna, la deriva di «autoritarismo plebiscitario» che rappresenta, meritano risposte diverse, più forti e più alte. E regalare Napolitano al solo Popolo delle Libertà, invece che lasciarlo a rappresentare tutto il popolo italiano, non è solo un clamoroso svarione tattico, ma è anche e soprattutto un rovinoso errore politico.

(26 luglio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #26 inserito:: Settembre 06, 2008, 09:06:08 am »

POLITICA

Un paio di domande al ministro Tremonti

di MASSIMO GIANNINI
 

 
Zygmunt Bauman, nel suo magnifico saggio sulla "Solitudine del cittadino globale", sostiene che nelle società moderne, con il passaggio del controllo sui fattori economici dalle istituzioni rappresentative di governo al libero gioco delle forze di mercato, i ministri dell'economia sono ormai sempre più simili a "cimeli". Icone simboliche di un "centralismo statuale" che non esiste più.

La riflessione torna utile per ragionare su quanto sta accadendo in Italia, a proposito del federalismo fiscale.

Dal giugno scorso il ministro dell'Economia Giulio Tremonti l'ha presentato giustamente come la "madre di tutte le riforme". Una progetto "ad alta intensità politica", sul quale misurare la capacità congiunta di maggioranza e opposizione a trovare larghe intese al servizio del bene collettivo, non dell'interesse particolare.

Ora il nuovo testo della legge delega sul federalismo fiscale ha visto finalmente la luce. Come ha scritto ieri su questo giornale Massimo Riva, si qualifica soprattutto per una clamorosa sorpresa.

Riconosce l'autonomia impositiva ai comuni, attraverso la "razionalizzazione dell'imposizione immobiliare, compresa quella sui trasferimenti della proprietà e di altri diritti reali". Fuori dal burocratese: reintroduce l'Ici, l'imposta comunale sugli immobili che il governo di centrodestra aveva cancellato per tutti i contribuenti con la prima casa, onorando una promessa elettorale di Berlusconi. Nessuno scandalo. E accaduto l'inevitabile.

Il federalismo fiscale si riprende con una mano quello che il governo centrale aveva tolto con l'altra. E la spiegazione è semplice, e una volta tanto davvero bipartisan. I sindaci del Pdl e del Pd si sono ritrovati sulla stessa linea. L'imposizione sugli immobili rappresenta storicamente la prima fonte di incasso per gli enti locali: 42,8 miliardi di euro, di cui solo l'Ici rappresenta il 26% in termini di gettito. Se gli togli quella fonte di entrata, i comuni muoiono. Era chiaro a tutti, fin dall'inizio. Ma il Cavaliere ha voluto onorare comunque il suo patto con gli italiani, stabilendo che il primo atto del suo governo fosse proprio la soppressione definitiva dell'Ici. Ora ha capito che quella promessa, politicamente spendibile, è tecnicamente inesigibile.

E così, con il pretesto della riforma federale, risarcisce i comuni ma tradisce i contribuenti. L'errore non è tanto nella retromarcia di oggi, ma nella fuga in avanti di ieri. Ma qui veniamo al ruolo e alla responsabilità del ministro dell'Economia. Lui è il vero "dominus" di questa partita, perché politicamente ha avuto il merito di lanciare il federalismo come laboratorio di sintesi tra centrodestra e centrosinistra, e perché contabilmente ha ora il compito di indicare le cifre di gettito da devolvere agli enti locali e quelle da indirizzare allo Stato centrale.

Di fronte all'inganno della nuova Ici, e all'impianto fiscalmente instabile e costituzionalmente discutibile del federalismo, vorremmo rivolgere almeno un paio di rispettose domande a Giulio Tremonti, che su questo come su altri temi spinosi (vedi Alitalia) tace ormai da troppi giorni.

Prima domanda. Il federalismo fiscale è un obiettivo sul quale convergono tutte le forze presenti in Parlamento, ma ora stanno venendo al pettine i nodi veri del progetto: i fondi perequativi per le aree più svantaggiate, e soprattutto i costi dell'operazione. Avevamo capito che una delle colonne portanti del nuovo disegno federale sarebbe stata la clausola di salvaguardia sull'invarianza degli oneri a carico dello Stato, e soprattutto sull'invarianza della pressione fiscale a carico dei cittadini.

Ebbene, signor ministro: come si concilia questo obiettivo con la reintroduzione surrettizia dell'Ici, e di altre forme di tassazione sulle proprietà immobiliari? Perché anche sul federalismo dobbiamo scoprire a posteriori il trucco che c'è ma non si vede, con le tasse che aumenteranno invece che diminuire, come è già accaduto con la presentazione del Documento di programmazione Economica di luglio?

Seconda domanda. In campagna elettorale il leader del Popolo delle libertà aveva fatto anche altre suggestive promesse, fiscali e para-fiscali. Una di queste era la soppressione delle province. Eravamo in pieno rigurgito populista contro le "caste": quale impegno più sensato, se non quello di eliminare un ente locale che nella migliore delle ipotesi duplica funzioni già assorbite da comuni e regioni, e nella peggiore brucia risorse per tenere in piedi piccole consorterie di sottogoverno?

Un'altra promessa era la soppressione del bollo auto. Eravamo in pieno raid petrolifero, con il prezzo della benzina in corsa prolungata: quale impegno più giusto, se non quello di eliminare un iniquo e odioso balzello, su uno dei beni "più amati dagli italiani"? Ebbene, signor ministro: come mai nel testo del federalismo fiscale si parla, proprio in favore delle province, di "razionalizzazione dell'imposizione fiscale relativa agli auotoveicoli e alle accise sulla benzina e il petrolio"?

Che vuol dire, in italiano? Forse significa che invece di eliminare le province e cancellare il bollo auto (come promesso prima del 13 aprile) il governo compie il capolavoro di salvare capra e cavoli, attribuendo alle prime il gettito del secondo? E se è così, come dobbiamo giudicare questo paradossale artificio, se non l'ennesimo inganno ai danni degli elettori?
Non sappiamo se Tremonti ci risponderà. Ma poiché sappiamo che non è e non si sente affatto un "cimelio", secondo la felice definizione di Bauman, confidiamo che qualche spiegazione, prima o poi, possa e debba darla agli italiani.


(6 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Settembre 11, 2008, 07:23:03 pm »

Riporto da " la Repubblica "


L'ultimo valore
di MASSIMO GIANNINI


Se occorreva una lettura alta e forte del "sommario di decomposizione" politica, civile e culturale che l'Italia sta vivendo in questo tempo di egemonia della "nuova destra", quella di Giorgio Napolitano non poteva essere più vera, anche se più amara. In quale altro Paese d'Europa un Capo dello Stato è costretto ad ammettere che non tutti gli italiani "si identificano nella Costituzione repubblicana"? Forse solo nei Balcani.

C'è un pezzo di destra berlusconiana, priva di retaggi ideali e di ancoraggi politici con la grande tradizione liberal-conservatrice dell'Occidente, che concepisce la politica come epifania personale, e non come servizio reso al Paese nel rispetto dei suoi valori fondativi. C'è un pezzo di destra post-fascista, non rassegnata a spegnere la fiamma dentro il mare indistinto del popolarismo europeo, che rifiuta una memoria condivisa della storia perché coltiva un'altra idea della democrazia. C'è un pezzo di destra leghista, non rassegnata a declinare la devolution come federalismo solidale, che rifiuta il primato della Repubblica perché insegue la primazia della Padania.

Per questa Italia la prima parte della Costituzione è quasi un "relitto". Con quel suo carico di diritti pre-moderni (l'uguaglianza, l'equità, la solidarietà, il lavoro...) che imbrigliano l'economia e imbrogliano i cittadini. "Costituzione sovietica": non la definisce così il Cavaliere? La seconda parte è quasi un "delitto". Con quel suo apparato di bilanciamenti istituzionali (il ruolo del Parlamento, le prerogative del Capo dello Stato, l'autonomia della magistratura) che minano il potere politico e minacciano il potere esecutivo. Non è per questo che, sempre per il Cavaliere, si rende necessario il presidenzialismo e si deve "riformare" il Csm? È grave questo uso spregiativo della Costituzione. Ma ancora più grave è che, secondo il falso spirito "modernizzatore" dominante, si vuol far passare per arcaico (e dunque politicamente irrilevante) anche chi la Costituzione la invoca e la difende. Per questo dobbiamo essere grati, una volta di più, a Giorgio Napolitano.

(11 settembre 2008) "
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« Risposta #28 inserito:: Settembre 18, 2008, 03:54:52 pm »

ECONOMIA   

Il racconto di un trader: ormai il sistema è al collasso

"Sta accadendo qualcosa di inimmaginabile, mai visto prima"

"Serve una terapia d'urto o le Borse rischiano la chiusura"

di MASSIMO GIANNINI


 
"FORSE non avete capito cosa sta succedendo. Qui il problema non è Wall Street che perde il 4%. Qui siamo a un passo dal collasso totale dei mercati, dalla crisi del sistema finanziario globale".

Il noto trader milanese consulta le carte, snocciola le cifre, riordina i fatti, e in cima alla giornata più drammatica e indecifrabile di questo Settembre Nero dei mercati avanza l'ipotesi più funesta: "Non si può escludere nulla. Nemmeno che da un momento all'altro si decida la chiusura delle principali Borse mondiali...".

Benvenuti nel Nuovo ?29. Evocata, temuta, ma in fondo mai presa sul serio, la "crisi di sistema" del capitalismo finanziario globale si materializza nelle parole dell'operatore che la sta vivendo in presa diretta, minuto per minuto. È anonimo, e non può essere diversamente, perché quello che dice è talmente preoccupante da non poter essere "firmato" da chi, ogni giorno, compra e vende titoli per milioni di euro. "In questo momento - spiega - ogni parola può creare altro panico, ed è meglio evitare...".

Ma se quello che racconta è vero - e a giudicare dall'andamento degli scambi sui mercati e dalle mosse delle autorità politiche e monetarie non possiamo dubitarne - il panico è già abbondantemente giustificato. "Sta accadendo qualcosa di inedito, che non abbiamo mai visto prima. Dall'America si sta diffondendo una crisi di fiducia senza precedenti, tra banche e banche e tra banche e clienti. Una crisi che colpisce in prima battuta quelle che un tempo avremmo chiamato le "Big Five", cioè le grandi "investment banks" : Bear Stearns, Lehman Brothers, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Goldman Sachs. Le prime due ce le siamo già giocate, la terza prova a salvarla Bank of America, ma ora il punto è che stanno finendo nel mirino anche le altre due".

Non a caso, i titoli Morgan e Goldman, a New York, sono letteralmente crollati, lasciando sul campo oltre il 40% del proprio valore. "Ma quello è solo il sintomo, la febbre - spiega l'operatore - perché la malattia è molto più grave. E la malattia è questa: dopo il crac della Lehman gli investitori istituzionali, e soprattutto gli hedge funds, stanno chiudendo le proprie posizioni presso le grandi banche d'investimento americane, perché non si fidano più della loro solvibilità. Questo sa cosa significa? Significa il collasso dei mercati azionari e obbligazionari mondiali, il "meltdown" totale di tutti gli scambi finanziari del pianeta".

Non è un'esagerazione. È la pura realtà, che deriva da un dato di fatto che ci porta a riflettere sulle distorsioni del modello capitalistico "drogato" da Greenspan e cavalcato da Bush: "Queste grandi "investment banks" muovono ogni giorno trilioni di miliardi di dollari. Hanno in custodia, in regime di sostanziale monopolio, la quasi totalità dei titoli posseduti dagli investitori istituzionali e dagli hedge funds di tutto il mondo.

Ora, se questi ultimi cominciano a ritirarli, perché temono il default delle stesse banche d'affari, non si rischia solo qualche altro "fallimento eccellente", ma si blocca tutto il meccanismo che regge i mercati finanziari. Glielo spiego con un esempio: le banche d'affari sono il "motore" del sistema finanziario globale. I loro clienti, investitori istituzionali ed hedge funds, sono l'olio che fa girare quel motore. Nel momento in cui l'olio viene a mancare, perché i clienti smettono di versarlo, il motore fonde, e la macchina è da buttare".

Questa è la posta in gioco. "Con un'aggravante. Investitori ed hedge funds chiudono le loro posizioni, e per esempio sulla piazza di Londra stanno cercando di dirottare i propri investimenti sulle grandi banche "retail", che al momento sembrano più sicure: Deutsche Bank, Santander, Bnp. Ma ormai non funziona più neanche questo, perché i mercati, terrorizzati dal fantasma del crac globale, sono totalmente illiquidi. Non si riesce né a comprare né a vendere, perché mancano le controparti.

Per questo la crisi è di sistema, e rischia di travolgere tutto. Non c'è più fiducia. Le mosse di Paulson non convincono nessuno, la gente non crede al salvataggio di Aig, che infatti continua a perdere a rotta di collo, e i "Treasury bond" americani hanno raggiunto un rendimento dello 0,23%, una cosa che non si vedeva da mezzo secolo. Le stesse banche centrali, la Fed e la Bce, non sanno che pesci prendere, perché hanno capito che questo non è un "trend" classico dei cicli borsistici: rialzi e crolli non sono mai stati un problema, figuriamoci, ci siamo abituati, fanno parte del gioco. Il guaio, stavolta, è che è proprio il gioco in sé che si sta rompendo".

Il trader italiano, di stanza a Piazza Affari, vive ai margini del ciclone finanziario americano. Ma cita altri due indizi, che danno la misura del livello di allarme scattato anche nelle "province" dell'impero del capitale globale: "Primo: stamattina la Banca d'Italia ci ha chiesto di fornirgli entro mezz'ora, e dico entro mezz'ora, le posizioni aperte con Lehman da tutti noi operatori nazionali: una roba mai successa. Secondo: nel pomeriggio abbiamo vissuto momenti di forte tensione, perché neanche la Cassa di compensazione aveva più liquidità sufficiente. Cioè: la Cassa non paga, noi non paghiamo, e così tutto l'ingranaggio va in tilt da un momento all'altro". Il tema vero è: ci si può ancora salvare da questo Nuovo '29 che incombe?

L'operatore spera, ma non si avventura: "Parliamoci chiaro: qui, se siamo ancora in tempo, ci sono solo due possibilità per non far fondere tutta la macchina. La prima possibilità è che almeno un paio di grandissime banche commerciali di dimensione mondiale, che so, Hsbc tanto per fare un nome, si comprino le banche d'affari americane a un passo dal tracollo: operazione possibile, anche se molto complicata, che richiederebbe comunque una fortissima "moral suasion" da parte del potere politico. La seconda possibilità è che invece sia proprio la politica americana a fare il passo più estremo, nazionalizzando Morgan e Goldman prima che sia troppo tardi. Operazione complicata e forse impossibile, se non al prezzo di addossare ai contribuenti i costi enormi del doppio salvataggio e snaturare per sempre il modello liberale del capitalismo Usa".

Altre soluzioni, per il trader milanese, non ne esistono. E oltre tutto bisogna fare presto, perché la velocità con cui questa crisi si sta avvitando su se stessa è impressionante. Per questo, in attesa che qualcuno decida qualcosa, l'operatore ipotizza addirittura il ricorso all'arma fine di mondo: "Se questo è il clima, ci può stare anche che le autorità decidano, da un giorno all'altro di chiudere le Borse. È un'ipotesi estrema, è chiaro, che in Italia è successa solo nel luglio '81 dopo lo scandalo P2, e in America dopo l'attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre. Ma ora come ora non mi sento di escludere niente. Qualcosa bisogna pur fare. Bisogna prendere il toro per le corna. Anzi, stavolta bisogna prendere l'orso per la coda, visto che sul mercato, di tori, non ce ne sono più".

(18 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #29 inserito:: Settembre 19, 2008, 10:37:16 am »

ECONOMIA   

Tre giorni fa l'ultimo contatto tra fonti della cancelleria e Gianni Letta

Il piano "A" ipotizzava l'alleanza con la Cai. Il piano "B" prevede il passaggio del controllo

Lufthansa era vicina all'accordo ma resta in pista anche dopo il crac


di MASSIMO GIANNINI

 
"NOI SIAMO pronti, dipende solo dal governo". Per un'Alitalia che non vola più, c'è una Lufthansa che "rulla" i motori. La compagnia tedesca è in pista. E anche se il Piano Fenice sembra ormai carta straccia, può ancora diventare il "cavaliere bianco" che salva la compagnia italiana dal fallimento economico, e il Cavaliere di Arcore dal disastro politico.

A dispetto dell'apparente vantaggio di Air France, in questi ultimi giorni i contatti tra Roma, Amburgo e Colonia, head quarters della compagnia tedesca, si sono fatti sempre più fitti. I colloqui tra Palazzo Chigi e la Cancelleria di Angela Merkel erano già stati avviati da un paio di settimane. L'ultima conversazione tra Gianni Letta e l'ambasciatore Michael Steiner risale a tre giorni fa. Il senso delle comunicazioni arrivate dalla Germania è univoco: "A Lufthansa interessa moltissimo Alitalia".

Oggi la compagnia tedesca, con 92 mila dipendenti e una flotta di 343 aerei di cui 87 a lungo e 164 a medio raggio, è il terzo vettore europeo dopo Air France-Klm e British Airways-Iberia. Mettendo le ali sul mercato italiano, farebbe un salto in alto, completando la sua strategia di vettore "multi-hub" e "multi-brand".

Inserendo gli aeroporti di Malpensa e Fiumicino nel grande network che orbita intorno a Francoforte, e che con Milano si arricchirebbe del traffico business del Sud-Europa, e con Roma si avvarrebbe di un ponte per il traffico con l'Africa, il Medio e l'Estremo Oriente. Tutte le mosse fatta da Lufthansa sullo scacchiere europeo - da quella iniziale su Swiss Air a quelle più recenti sulla scandinava Sas e su Austrian Airlines - sono ispirate alla stessa filosofia, che con Alitalia raggiungerebbe il coronamento finale.

I progetti predisposti da Lufthansa sono due e prevedono due scenari differenti. Entrambi sono già stati sottoposti dal chairman Wolfgang Mayrhuber al board e al direttore generale, Peter Hartman. Il piano A è quello che ruota intorno all'operazione Cai.

Se ieri la trattativa con i sindacati si fosse chiusa positivamente, e la cordata Cai fosse decollata regolarmente, con ogni probabilità Roberto Colaninno, di qui a una settimana, avrebbe potuto dare il grande annuncio ufficiale: il partner internazionale scelto da Alitalia è Lufthansa.

I tedeschi, secondo questo primo progetto, sarebbero stati anche disposti ad entrare subito con una quota di minoranza, per rispettare almeno in una prima fase il caveat posto dal premier sull'italianità della compagnia di bandiera. Ma a regime, cioè alla scadenza del lock up che avrebbe vincolato i soci italiani di Cai a non vendere le rispettive quote prima di cinque anni, verosimilmente Lufthansa avrebbe rilevato la maggioranza, e preso in mano la cloche della "Nuova Alitalia".

Il piano B è invece quello più "radicale", e ricalca le orme di quello che i vertici della compagnia tedesca misero a punto nell'inverno dello scorso anno, quando il governo Prodi aveva annunciato la privatizzazione dell'Alitalia e indetto la relativa gara pubblica, aperta anche ai vettori stranieri.

È un piano che prevede l'acquisizione immediata di Alitalia, e che trasferisce subito la proprietà da Roma a Colonia, salvando ovviamente il "marchio", la divisa e tutto quello che in questi decenni ha rappresentato la storia della nostra compagnia di bandiera. Esattamente come è accaduto nel caso Swiss Air. Oltre a Milano, verrebbero potenziati gli scali del Nord, Torino, Venezia e Bologna, messi in raccordo con Francoforte, Monaco e Zurigo. La flotta sarebbe ridotta di una cinquantina di aerei, ma Alitalia beneficerebbe dell'integrazione nella rete Star Alliance, la più estesa del pianeta, che comprende quindici compagnie tra cui United, All Nippon, Thai e Singapore Airlines, e nella quale c'è anche Air One.

La via maestra che il governo e la cordata italiana stavano seguendo era ovviamente la prima, che almeno allo start up avrebbe salvato la "bandiera" dell'Alitalia e, quindi, la faccia di Berlusconi. I tedeschi erano disposti ad accettare il compromesso. Ma hanno posto una sola condizione, semplice e chiarissima: "Qualunque nostro coinvolgimento presuppone una discontinuità tra la vecchia e la nuova Alitalia".

In altre parole, a questo punto Lufthansa scende in campo solo se prima si passa attraverso una procedura concorsuale, e si divide il destino della compagnia cattiva (gli esuberi, i debiti e le attività improduttive) da quella buona (gli aerei, le rotte e gli slot). "Solo così - hanno spiegato i tedeschi - è possibile rinegoziare su basi nuove anche i rapporti con i sindacati, e soprattutto con i piloti, riallineando i contratti di lavoro alla produttività media dei vettori europei".

Proprio l'impossibilità di procedere a questa "cesura" normativa e contrattuale tra un prima e un dopo, del resto, fu la ragione che spinse i tedeschi a ritirarsi dalla gara dell'anno scorso, lasciando libera la pista alla sola Air France. E proprio questo spiega sia il perché, da Amburgo e da Colonia, ieri si guardava con attenzione all'esito della trattativa, sia il perché tre giorni fa il portavoce del colosso tedesco Thomas Jachnow aveva frenato le fughe in avanti del Cavaliere dicendo "Alitalia ci interessa, ma non ora viste le sue pessime condizioni finanziarie".

Adesso che l'improbabile italian job è saltato in aria, per l'irresponsabilità politica di Berlusconi e la responsabilità sindacale della Cgil, non c'è più molto da fare. O si decreta il fallimento di tutta la compagnia, o si conserva l'impianto attuale, con la bad company da liquidare progressivamente e la best company da cedere immediatamente. Magari attraverso una procedura competitiva trasparente, che recuperi almeno un barlume di concorrenza ed eviti la mannaia della Commissione Ue.

In tutto questo, che fine farà il progetto Lufthansa? Da quanto riferiscono fonti vicine alla Cancelleria, non è una domanda da rivolgere alla Germania. Semmai va girata al governo italiano. Adesso che in nome dell'italianità avete tradito il mercato e ucciso l'Alitalia, siete disposti a rinunciare all'assillo della bandiera e al vessillo dell'ideologia, vendendola ai tedeschi che sono pronti a comprarla?


(19 settembre 2008)

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