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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 166690 volte)
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« Risposta #300 inserito:: Novembre 04, 2013, 11:58:17 am »

 
    Massimo GIANNINI

Il perimetro di Bankitalia e le vite degli altri

Ripassando le cronache di questi giorni sulla legge di stabilità, e rimettendo in fila i sacrifici iniquamente distribuiti dalla manovra del governo, mi torna in mente una frase di Lord Marsh, ex presidente della British Rail ai tempi che precedettero la “cura” della Lady di Ferro: «Potete ridurre qualsiasi spesa pubblica, fatta eccezione per il servizio statale: quei ragazzi hanno speso centinaia di anni ad apprendere come aver cura di se stessi». Applicata all’Italia di oggi, la battutaccia dell’allora capo delle mitiche Ferrovie britanniche non riguarda affatto i dipendenti del “servizio statale”. Al contrario, loro sono le prime vittime delle Finanziarie di questi ultimi anni, compresa l’ultima che ha di nuovo colpito senza pietà il pubblico impiego. Tra estensione del blocco dei contratti fino al dicembre 2014, taglio del 10% degli straordinari e allungamento fino al 2017 del blocco del turn over, l’obolo ammonta a più di 5 miliardi nel prossimo biennio. Il pubblico impiego, per la quantità delle risorse che drena e la qualità dei servizi che offre, richiede un intervento diverso da quello praticato finora. Servirebbe una ragionata riorganizzazione strutturale, non un’indiscriminata deflazione salariale. Ma così è. Nella stagione del “thatcherismo alla milanese” di scuola berlusconiana, come nell’era delle Larghe Intese di scuola italiana, se sacrifici si devono fare, si fanno. Purché però li facciano tutti. E qui torna d’attualità Lord Marsh. Nella legge di stabilità c’è un beneficio, per una cerchia ristretta di «ragazzi», francamente difficile da comprendere. Cito l’Ansa del 23 ottobre, che riprende un comunicato ufficiale del Tesoro (di cui per inciso è ministro l’ex dg della stessa Banca centrale): «La stretta prevista dalla legge di stabilità per il pubblico impiego non riguarda i dipendenti della Banca d’Italia, perché gli interventi “assumono come riferimento il perimetro delle amministrazioni pubbliche rilevanti ai fini dell’indebitamento da parte della Ue, dal quale la Banca d’Italia è fuori”». Ineccepibile sul piano giuridico. Insopportabile sul piano etico. All’istituzione di Palazzo Koch si deve un rispetto assoluto. È un’eccellenza italiana, forse la più prestigiosa rimasta in un Paese che ha dissipato quasi tutto. Ma quando si costringono tante famiglie a tirare la cinghia, più che al «perimetro delle amministrazioni» bisognerebbe pensare all’equità delle soluzioni. Questa non lo è. Rafforza l’idea che l’Italia sia in mano alle Caste. Alimenta la rabbia di chi si sente ancora una volta costretto a pagare, mentre pochi privilegiati sono esonerati perché hanno imparato assai bene come «aver cura di se stessi». Se sei dentro il «perimetro», ti salvi. Fuori, ci sono solo «le vite degli altri». Un messaggio devastante, in tempi di crisi economica e di antipolitica. m.giannini@repubblica.it

(28 ottobre 2013) © Riproduzione riservata

http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/10/28/news/il_perimetro_di_bankitalia_e_le_vite_degli_altri-69634012/
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« Risposta #301 inserito:: Novembre 13, 2013, 03:47:53 pm »

L'acchiappa fantasmi dei capitali in fuga

Ci risiamo. Ogni volta che sono con l'acqua alla gola, a corto di soldi e di idee, si mettono ad acchiappare i fantasmi. Servono una decina di miliardi, di qui a fine anno, per finanziare tutto quello che è stato promesso nella Legge di Stabilità. Dalla Cassa integrazione alla soppressione della seconda rata dell'Imu. E tutti, tra governo e maggioranza, giocano a chi la spara più grossa. Per un Alfano che sogna la manna fiscale invocando a sproposito il 'contrasto di interessi' all'americana, c'è un Renzi che vede la panacea previdenziale evocando il contributo di solidarietà sulle pensioni. Pannicelli caldi stesi sulle ferite del bilancio pubblico. O prosciutti freschi applicati sugli occhi del contribuente confuso. Con tutta la buona volontà, è difficile raccapezzarsi con un governo che i giorni pari, per bocca del suo ministro dell'Economia, annuncia giustamente un piano antievasione incardinato sui limiti all'uso del contante, e che i giorni dispari, per bocca del suo vicepremier, definisce quel piano sbagliato e irricevibile. Ma tra gli acchiappa-fantasmi brillano soprattutto i cacciatori di capitali in fuga. Un altro mito tricolore, cullato nelle fasi di sconforto collettivo. Dal Tesoro trapela un progetto per il rimpatrio dei fiumi di denaro rimasti oltre frontiera anche dopo l'ultimo scandaloso scudo fiscale della premiata ditta Berlusconi-Tremonti. Si parla di almeno 200 miliardi. Una cifra enorme, concentrata soprattutto in Svizzera (dove si orienta almeno il 60% dei flussi in uscita), e poi Lussemburgo, San Marino, Monaco e in forte ascesa Hong Kong e Singapore. Se si riuscisse a riportarne a casa anche solo un terzo, ci sarebbero risorse per finanziare un taglio vero del cuneo fiscale e contributivo. Ma è realistico inseguire i fantasmi del capitale? Lo sarebbe, in teoria. La fuga di queste enormi quantità di ricchezza misura lo sfacelo etico della nazione e la bancarotta morale della sua 'borghesia'. L'Ocse e la Ue suggeriscono di far rimpatriare i capitali facendo pagare sanzioni che vanno da una forchetta minima del 3-15% a una massima del 6-30% (per i paesi della cosiddetta black list). Ma chi e come potrebbe costringere o convincere i tanti italiani che in questi anni hanno nascosto il denaro all'estero a riportarlo in patria, pagando al Fisco una 'multa' molto più seria dell'obolo che il governo di destra introdusse nel 2009? E poi c'è un altro problema. In Italia, per chi ha patrimoni da investire, non c'è quasi più niente da comprare. La Borsa è quello che è, fiaccata oltre tutto da una Tobin Tax mal congegnata che da marzo ad oggi ha fatto calare gli scambi di un buon 15%. I fondi comuni impiegano solo il 7,8% del proprio portafoglio in azioni italiane, mentre il 22,1% va nel resto d'Europa, il 12,1% in Nord America e l'8,4% in Asia. Una volta rientrati (e opportunamente tassati) i capitali bisognerebbe anche farli restare. Altrimenti, come direbbe Leo Di Caprio ai poveri ghostbusters tricolori, prova a prenderli.
m.giannini@repubblica.it

(04 novembre 2013) © Riproduzione riservata

http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/11/04/news/l_acchiappa_fantasmi_dei_capitali_in_fuga-70181754/
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« Risposta #302 inserito:: Novembre 18, 2013, 10:22:46 pm »

Contatti, bugie e omissioni: tutte le contraddizioni nell'autodifesa di Cancellieri

Il Guardasigilli alla sua terza versione dei fatti.

Con la "lunghissima amicizia" con i Ligresti, il ministro mette le mani avanti su ciò che può ancora venire fuori dall'inchiesta

di MASSIMO GIANNINI
16 novembre 2013


Blindata dal capo dello Stato, rassicurata dal capo del governo, Annamaria Cancellieri nega ancora una volta ogni "addebito" sullo scandalo Ligresti. Da ministro, rifiuta ancora una volta ogni "sospetto" politico sul suo operato. Da cittadino, respinge ogni dubbio etico sulla natura dei rapporti con la famiglia di Paternò. Pensava di aver già chiarito tutto, nelle audizioni rese in Parlamento il 5 novembre. Ma se dieci giorni dopo è costretta a rendere conto di nuovo dei suoi comportamenti di fronte al Paese, vuol dire che non tutto era chiaro, nella vicenda della scarcerazione della figlia di don Salvatore. Non lo era allora, dopo le clamorose rivelazioni sul suo interrogatorio del 22 agosto ai pm di Torino. E non lo è neanche oggi, dopo le lacunose "spiegazioni" fornite, con la sua "lettera aperta", alle ulteriori "bugie" denunciate da Repubblica.

Dopo aver provato a giustificare con i sentimenti "di umana vicinanza" le sue telefonate con Gabriella Fragni, i suoi contatti con Antonino Ligresti e le sue segnalazioni al Dap per sollecitare la traduzione agli arresti domiciliari di Giulia, il Guardasigilli doveva ora chiarire almeno tre "omissioni" (nella migliore delle ipotesi) o "menzogne" (nella peggiore) scoperte da questo giornale nella sua ricostruzione dei fatti. La prima: l'esistenza di una telefonata in più, non riferita ai magistrati, con Antonino Ligresti (quella del 21 agosto, oltre del 17 luglio con la Fragni e a quella del 19 agosto con lo stesso Antonino). La seconda: l'evidenza che la telefonata del 19 non l'aveva "ricevuta" (come aveva dichiarato ai pm), ma l'aveva fatta direttamente lei (come si evince dai tabulati) al cellulare del fratello del finanziere siciliano. La terza: la frequenza delle conversazioni telefoniche (almeno sei tra il 17 luglio e la prima settimana di agosto) tra il marito del ministro, Sebastiano Peluso, e lo zio di Giulia (proprio nella fase cruciale in cui si doveva decidere sulla sua scarcerazione).

Nessuno di questi tre fatti è stato smentito. E nessuno di questi tre fatti, finora, era noto ed era stato raccontato dal ministro alle Camere e alla Procura. Nonostante questo, nella sua "lettera aperta" la Cancellieri giura di non aver detto bugie. "Si sostiene che io abbia omesso di riferire circostanze rilevanti o peggio che abbia mentito al Parlamento il 5 novembre scorso... si sostiene che abbia riferito circostanze non vere al pm che mi ha ascoltato il 22 agosto a seguito dell'intercettazione di una mia conversazione con la compagna di Salvatore Ligresti...". La lettura testuale della missiva del Guardasigilli, incrociata con la testimonianza resa in Procura e la "arringa" pronunciata in Aula, fa emergere ben tre versioni diverse. E non destituisce di fondamento, ma semmai rafforza l'idea che la sua "autodifesa" sia stata in effetti omissiva, se non addirittura mendace.

LA "LUNGHISSIMA AMICIZIA" CON I LIGRESTI
In premessa, il ministro è costretto a ribadire, con molta più forza di quanto non abbia fatto con i magistrati, la sua "lunghissima amicizia con Antonino Ligresti". Lo accenna ai pm il 22 agosto ("conosco Antonino Ligresti da molti anni"). Lo ripete in Parlamento ("Sono stata e sono amica di Antonino Ligresti, conoscenza maturata durante la mia lunga permanenza a Milano, per ragioni del tutto estranee alla mia attività professionale"). Ma è evidentemente questa "lunghissima amicizia" che spinge la Cancellieri a mettere quasi le mani avanti, su ciò che ancora potrà venir fuori dall'inchiesta, quando scrive nella sua lettera che "un rapporto di amicizia è tale perché implica una frequentazione fatta di conversazioni e contatti telefonici". Ed è esattamente questa "lunghissima amicizia" che induce la Cancellieri, nella famosa telefonata con la Fragni del 17 luglio, giorno della retata dei Ligresti) a prodigarsi al di là di ogni ragionevole responsabilità istituzionale.

Quel "non è giusto", ripetuto per ben quattro volte, a proposito delle manette ai polsi di don Salvatore e delle sue due figlie, che non suona "empatico" verso la famiglia, ma critico verso i magistrati. Quel "qualsiasi cosa io possa fare conta su di me...", abbozzato all'inizio e poi riaffermato poco dopo: "proprio qualsiasi cosa adesso serva, non fare complimenti...". Quell'accenno improvvido alla questione del figlio Piergiorgio, assunto in Fonsai e liquidato con 3,6 milioni dopo aver scoperchiato il buco da 1 miliardo che costa la prigione al clan siciliano e dopo aver fatto raffreddare i rapporti tra le due famiglie ("maledetto quel giorno..."). Tutto questo, ancora una volta, fa da sfondo ai "comportamenti" del ministro. E checché ne dica nella sua lettera, continua purtroppo ad appannarne "l'immagine", e a mettere in discussione la sua "integrità morale", il suo "onore" e la sua "fedeltà alle istituzioni".

LA PRIMA TELEFONATA FATTA IL 19 AGOSTO
Ma veniamo ai fatti nuovi, che il ministro fino ad oggi aveva "dimenticato", nascosto o negato. Le telefonate con Antonino Ligresti. Se ne conosceva una sola, quella del 19 agosto. Nel suo intervento in Parlamento, il 5 novembre, il ministro non ne parla affatto. Ne parla invece ai pm, nell'interrogatorio del 22 agosto, in questi termini: "Effettivamente ho ricevuto una telefonata da Antonino Ligresti... che mi ha rappresentato la preoccupazione per lo stato di salute della nipote Giulia Maria la quale... soffre di anoressia e rifiuta il cibo... In relazione a tale argomento ho sensibilizzato i due vice-capi del Dap Francesco Cascini e Luigi Pagano, perché facessero quanto di loro stretta competenza per la tutela della salute dei carcerati".

Repubblica, scorrendo i tabulati telefonici in mano alla Procura, scopre che quella telefonata la Cancellieri non l'ha "ricevuta", ma l'ha fatta dal suo cellulare, il "366...", dalle 13,33 alle 13,39 del 19 agosto. Sei minuti esatti di conversazione. Ora, nella sua lettera aperta, il ministro è costretto ad ammetterlo: "La prima telefonata - scrive - è stata fatta da me". Poi aggiunge: "Ma solo a seguito di diversi tentativi fatti da Antonino Ligresti di raggiungermi al telefono". Una chiosa che vuole somigliare a un'attenuante, ma non lo è affatto. La sostanza è questa: il ministro aveva detto di aver ricevuto una telefonata, ora riconosce di averla fatta. Dunque ha mentito. Perché? Che bisogno c'era di farlo?

LA SECONDA TELEFONATA FATTA IL 21 AGOSTO
Veniamo alla seconda telefonata con il fratello di don Salvatore, ignota all'opinione pubblica e agli eletti della Repubblica finché questo giornale non l'ha svelata, l'altroieri, con l'articolo di Paolo Griseri e Ottavia Giustetti. Di questa non c'è alcuna traccia, né nell'audizione davanti alle Camere, né nell'interrogatorio con le toghe torinesi. Al pm Vittorio Nessi, la Cancellieri racconta una storia diversa: ricordando prima la telefonata del 17 luglio con la Fragni, poi quella del 19 agosto con Antonino, il ministro spiega: "Dopo di allora non l'ho più sentita né ho sentito altri in relazione al caso Ligresti, ad eccezione della telefonata con Antonino di cui ho già riferito" (quella del 19 agosto, che come si è visto parte da lei e non da lui). Poi, nel verbale dello stesso interrogatorio del 22 agosto il Guardasigilli conclude così: "Ieri sera Antonino Ligresti mi ha inviato un sms chiedendomi se avessi novità e gli ho risposto che avevo effettuato le segnalazioni nei termini che ho sopra spiegato, nulla di più".

Una formula ambigua. A senso, si capisce che tra il ministro e il fratello di don Salvatore è avvenuto uno scambio di sms. Ma Repubblica, tabulati telefonici alla mano, scopre che non è così. All'sms di Antonino la Cancellieri risponde con un'altra telefonata, stavolta di sette minuti e ancora una volta partita dal suo cellulare, di cui finora non aveva parlato con nessuno. E anche questo è finalmente costretta ad ammetterlo, nella sua "lettera aperta": "La seconda conversazione - scrive - è in risposta ad un ulteriore contatto proveniente da Ligresti. Di questi due contatti ho riferito puntualmente alla Procura...". Il ministro non parla apertamente di telefonate fatte, ma genericamente di "contatti". Una formula lessicale che serve a dissimulare una verità. Dunque, anche in questo caso il ministro ha mentito. Perché? Che bisogna c'era di farlo?

La Cancellieri ha affidato l'altro ieri al Corriere della Sera le seguenti parole: "Questa conversazione di sette minuti non la ricordavo e non la ricordo, sennò perché avrei dovuto nasconderla?". Al di là della stranezza di non ricordare il 22 agosto una telefonata fatta il 21, è proprio questa la domanda alla quale lei stessa dovrebbe rispondere, e non l'ha ancora fatto.

LE SEI TELEFONATE DEL MARITO
Siamo all'ultimo capitolo oscuro del racconto. Anche questo mai raccontato finora dal Guardasigilli. Anche questo scoperto e denunciato da Repubblica. Le sei telefonate che il marito della Cancellieri, Sebastiano Peluso, si scambia con il fratello di don Salvatore tra il 17 luglio e la prima settimana di agosto. Anche di queste il ministro non fa alcuna menzione, davanti ai pubblici ministeri e ai parlamentari. Ma anche di queste, nella sua "lettera aperta", non può che dare conferma. "Mio marito - scrive - ha avuto contatti telefonici con Antonino Ligresti... è nostro amico, lo ribadisco. È un medico, mi sono rivolta spesso a lui per consigli su problemi di salute miei e dei miei familiari. L'abbiamo fatto anche in quel periodo...". Il ministro ammette, dunque: in questo caso, non ha mentito ma ha omesso. Il movente "clinico" delle telefonate, evidentemente, sposta la vicenda su un terreno non controvertibile perché non provabile allo stato degli atti. Ma a maggior ragione, se quella medica è davvero la spiegazione, perché nasconderla? Di nuovo: che bisogno c'era? Cosa non si può raccontare, di questo legame profondo che unisce queste due famiglie?

"Rifiuto qualunque sospetto", conclude la Cancellieri. E nel rifiuto, si spinge a dire un'involontaria enormità: "Nessuna interferenza vi è stata rispetto alla vicenda processuale dei Ligresti da parte mia". Troppa grazia: ci mancherebbe addirittura che il ministro della Giustizia intervenga "sulla vicenda processuale" del clan di Paternò. In vista del voto sulla mozione di sfiducia, la zona d'ombra non si dirada ma si estende. Più che a Napolitano e a Letta, il destino del Guardasigilli è affidato al Pd.
m.giannini@repubblica.it

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/11/16/news/caso_cancellieri_omissioni_e_bugie-71131039/?ref=HRER1-1
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« Risposta #303 inserito:: Novembre 19, 2013, 05:29:20 pm »

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    La Svizzera ci dà lezioni di …

Nel clima plumbeo che respiriamo in Occidente, i teorici posticci della «decrescita felice» preparano il terreno a un nuovo Medio Evo, dove il denaro torna ad essere lo «sterco del diavolo». Un abbaglio ideologico, contagioso e pericoloso. Ma ben più pericoloso sta ormai diventando il divario tra chi ha poco e chi ha troppo. L’iniquità riduce in carta straccia il contratto sociale, e mina alla radici la tenuta stessa del sistema. Per la prima volta il capitalismo non sembra più l’unico «strumento» conosciuto che consente a un numero sempre maggiore di persone di raggiungere migliori condizioni di vita. Vale nel ciclo di produzione e di distribuzione della ricchezza. Lo dice Luciano Gallino nel suo ultimo libro: nei 15 Paesi Ocse la quota dei salari sul Pil è diminuita di 10 punti percentuali, mentre quella delle rendite e dei profitti è cresciuta di 25 punti. Vale anche nelle aziende. Lo dicono le ultime statistiche: in Italia il divario tra gli stipendi percepiti dai top manager e i salari dei lavoratori dipendenti è pari a 1 su 163. Se un dirigente percepisce un compenso medio pari a 4 milioni 326 mila euro l’anno, un dipendente porta a casa una media di 26 mila euro lordi l’anno. E vale nel privato come nel pubblico. Lo dice l’ultimo rapporto Ocse «Government at a Glance»: in Italia i dirigenti di prima fascia dei sei ministeri più importanti guadagnano in media 650 mila dollari l’anno (contro una media Ocse di 232 mila dollari) , mentre i funzionari si fermano a 69 mila dollari. Queste sono le cifre dell’ingiustizia, che ha ormai trasformato profondamente il concetto e il perimetro della cosiddetta «middle class». Di fronte a tutto questo, domenica prossima, 24 novembre, accadrà in Svizzera un evento per molti versi «rivoluzionario». I cittadini della ricca Confederazione elvetica saranno chiamati a votare un referendum per la modifica della Costituzione secondo il principio «1 a 12». Nessun manager, cioè, potrà avere nella sua azienda una retribuzione mensile superiore a quella che i dipendenti meno pagati della stessa azienda guadagnano in un intero anno. L’esito del voto popolare dovrà comunque essere ratificato da un voto del Parlamento federale. Ma se il referendum passasse sarebbe una svolta epocale. Non solo per la Svizzera, dove il rapporto tra salario minimo dei dipendenti e stipendio massimo dei manager è lievitato da 1 a 6 nel 1984 a 1 a 43 nel 2011, e dove nel 2012 alla Roche l’ad Severin Schwan (con una retribuzione di 15,7 milioni di franchi) ha guadagnato 261 volte lo stipendio del dipendente meno pagato del gruppo. Sarebbe una lezione storica per l’intero pianeta. Soprattutto perché, ad impartircela, non sarebbe la Corea del Nord taglieggiata dai feroci epigoni del socialismo reale, ma la civilissima Svizzera nobilitata dai laboriosi gnomi del capitalismo globale.
m.giannini@repubblica.it

(18 novembre 2013) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/11/18/news/la_svizzera_ci_d_lezioni_di_equit-71267172/
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« Risposta #304 inserito:: Novembre 19, 2013, 05:47:51 pm »

Il diritto di chi vota

di MASSIMO GIANNINI

13 novembre 2013

Non c'è riforma più tradita di quella che riguarda il sistema elettorale. I partiti ne discutono, inutilmente e strumentalmente, ormai da otto anni. Da quando il centrodestra berlusconiano, già allora dilaniato dalle contese ereditarie e dalle confusioni identitarie, impose al Parlamento e al Paese la famosa "legge porcata". Concepita in una baita delle Dolomiti dai sedicenti "saggi" dell'allora Cdl, fin troppo lucidi a dispetto dei tanti bicchierini di grappa bevuti per l'occasione. Il loro unico obiettivo era sabotare la vittoria elettorale dell'Unione di Prodi e, in subordine, espropriare gli elettori del diritto di scegliere i propri eletti. Missione compiuta.

Da allora, un ceto politico sempre più impresentabile ha rinnovato ciclicamente la promessa di correggere quell'"errore", e di farsi perdonare quell'orrore. Oggi dobbiamo prendere atto che questo Parlamento non è in grado, per cinismo e opportunismo, di onorare l'impegno. In Commissione Affari Costituzionali del Senato va in onda l'ennesima, penosa messinscena. Quello che importa è solo il tornaconto dei commedianti, e non l'interesse del pubblico. Ogni gruppo recita a soggetto, anche se di malavoglia, perché il 3 dicembre arriva la temuta sentenza della Consulta.

Il Pd, sostenuto da Sel e Scelta Civica, presenta la sua mozione sul doppio turno di coalizione. Naturalmente non passa. Vota no il Pdl, che ha una vaga preferenza per il proporzionale ma non ha una linea precisa, essendo ormai ridotto a un cumulo di macerie alla vigilia della danza macabra di sabato prossimo intorno al totem del Cavaliere oscuro. Vota no la Lega, che dopo averlo allegramente rottamato, intestandosi il Porcellum per la firma del suo eroico ministro Calderoli, ora ha addirittura la faccia tosta di proporre il ripristino del Mattarellum. Si astiene il Movimento 5 Stelle, che nell'entropia autoreferenziale delle nomenklature agonizzanti sguazza e spera sempre di prosperare.

Questo è lo scenario, mesto e decomposto, che si offre al popolo sovrano. Ogni partito insegue un suo "modello" per blindare, con la meccanica elettorale, i consensi che fatica a mantenere nella rappresentanza sociale. Il Porcellum è il padre di tutti i guai di questi ultimi anni: ha generato degrado istituzionale (come confermano gli scandali che attraversano l'intera Penisola) e disaffezione civile (come dimostrano i successi del primo vero partito italiano, quello degli astensionisti). Dopo aver concepito un "Frankenstein" del genere, non c'è da inventare chissà quale altro mostro. Basta scegliere tra i sistemi che fanno funzionare da quasi un secolo le grandi democrazie europee. Invece no. Gli azzeccagarbugli tricolori le provano tutte, ibridando il "tedesco", il "francese", da ultimo lo "svizzero" e l'"Ispanico".

L'ultimo "esperimento", di cui si sente parlare nei corridoi tra Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama, sarebbe un nuovo pastrocchio che mantiene le liste bloccate (anche se più ristrette e con una rappresentanza di genere vincolata), e introduce per la Camera una soglia del 40% per accedere al premio di maggioranza di 340 seggi. Non l'eutanasia del Porcellum, ma addirittura la sua rinascita. Un Super Porcellum che, nella crisi irreversibile del sistema e nel declino inarrestabile dei grandi partiti di massa, produrrebbe l'unico effetto di non far vincere nessuno. E dunque "costituzionalizzerebbe" di fatto la formula delle Larghe Intese, alla quale un apparato politico destrutturato e tendenzialmente consociativo come il nostro tende ormai quasi per inerzia.

Oltre che l'esproprio definitivo del diritto di scelta dei cittadini, questa sarebbe la morte certa del bipolarismo. Cioè dell'unico "valore" creato, indirettamente e suo malgrado, dal Ventennio berlusconiano. Per questo, a prescindere da ogni valutazione specifica sul modello del "sindaco d'Italia" caro al candidato segretario del Pd, non si può dare torto a Matteo Renzi, che sfida il suo e tutti i partiti a rinunciare ai miserabili interessi di bottega e ai mediocri compromessi al ribasso, e a puntare invece su un accordo di profilo "alto", che garantisca insieme la governabilità e l'alternanza.

Non c'è principio più giusto che questo: chi vota deve sapere, la sera stessa delle elezioni, chi ha vinto e chi governerà il Paese. Deve poter decidere in piena libertà chi può rappresentarlo al meglio sul territorio, e non dentro le stanze chiuse delle segreterie. E deve poter sperare che se il suo schieramento perde le elezioni una volta, può sicuramente vincerle la prossima. Senza bisogno di ricorrere a Grosse Coalizioni tanto forzose quanto improprie, che dovrebbero governare i grandi cambiamenti e invece vivacchiano di piccoli accomodamenti.

Ma questa speranza, ancora una volta, sembra destinata a naufragare. Con buona pace dei cittadini, che dai referendum di Mario Segni nei primi anni Novanta aspettano ancora una legge elettorale chiara e semplice, che consenta loro di scegliere un partito e una coalizione, un candidato premier e un deputato o un senatore da mandare in propria vece alla Camera o al Senato. E con tanti saluti a Giorgio Napolitano, che frusta i partiti dall'inizio del suo mandato al Quirinale, e che al superamento definitivo del Porcellum ha legato la sua stessa disponibilità alla rielezione. Per questo è ora di dire basta. Servono un sussulto di dignità e un'assunzione di responsabilità. Per curare la nostra democrazia ferita.

Il Pd ha di fronte due soluzioni. La prima, minimale, è il ritorno al Mattarellum. C'è il problema giuridico di come assicurare la "riviviscenza" di una legge pre-esistente? Lo si risolva. Nella patria del diritto questo è un ostacolo superabile. La seconda, più ambiziosa, è il rilancio del maggioritario a doppio turno, come avviene in Francia e come lo stesso Pd aveva già deciso nel 2011. C'è il problema tecnico di come introdurlo in un regime che non prevede il semi-presidenzialismo? Lo si affronti. Nella prospettiva di un'Italia "de-berlusconizzata" anche questo non è un tabù inviolabile.

Si tratta di scegliere. E di farlo subito, con convinzione. Senza retropensieri "gran-coalizionisti" o riserve mentali correntizie. Un pregiudiziale "cui prodest" di una riforma elettorale, oggi, è solo l'ultimo sintomo, esiziale, del collasso etico-politico di un'intera classe dirigente, che vuole tenersi la "porcata" di Calderoli perché la considera la sua "polizza vita". Basterebbe riformarla, e un minuto dopo cadrebbero tutti gli alibi per non mandare a casa l'intero Parlamento e non tornare subito alle urne. Anche per questo la riforma va fatta, e subito. L'Italia, che non è la Germania, ha un disperato bisogno di tornare alla "normalità" bipolare. È vero che, in un Paese in crisi economica, non si vive di legge elettorale. Ma è altrettanto vero che, in un Paese in bancarotta morale, di Porcellum si può anche morire.
© Riproduzione riservata 13 novembre 2013

http://www.repubblica.it/politica/2013/11/13/news/il_diritto_di_chi_vota-70866573/
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« Risposta #305 inserito:: Novembre 26, 2013, 06:14:15 pm »

Il Cavaliere dell'Apocalisse

di MASSIMO GIANNINI

26 novembre 2013

Con un cupo anatema da Sacra Scrittura apocrifa, Berlusconi recita l'ultima scena da Cavaliere dell'Apocalisse. Alla vigilia del voto sulla decadenza, non c'è più spazio per l'argomentazione politica, svilita a variante del marketing ed esaurita da vent'anni di "pubblicità ingannevole".

Non c'è più spazio per la dimensione etica, ridotta a inutile orpello per benpensanti da un potere auto-riferito che si pretende al di sopra di tutto. C'è spazio solo per la maledizione biblica, che lo Statista di Arcore scarica preventivamente sui "colleghi senatori" dell'odiata sinistra e dell'esecrata opposizione grillina. Salvatemi, tuona dall'abisso nel quale l'hanno sprofondato i suoi reati e i suoi "peccati", o della vostra colpa "dovrete vergognarvi per sempre di fronte ai vostri figli, ai vostri elettori e a tutti gli italiani".

Con queste parole definitive del suo protagonista indiscusso, si compie dunque l'osmosi finale che era, e voleva essere fin dal '94, il cuore stesso del berlusconismo. Un'odissea personale che deve coincidere con un'epopea nazionale. Il paradigma di una leadership carismatica che deve diventare lo stigma di un intero Paese. Così, seguendo fino in fondo la psicologia disperata e l'egolatria esasperata del Cavaliere, se domani il presidente del Senato Piero Grasso pronuncerà davvero la frase fatidica ("Prego i commessi di accompagnare il senatore Berlusconi fuori dall'aula") non si celebrerà solo la fine di una carriera politica, ma si consumerà "la fine della Storia". Con lui non muore solo il capo-popolo di una destra anomala e anti-europea, a-costituzionale e a-fascista, sconfitto alle ultime elezioni e condannato in via definitiva per una frode fiscale gravissima e tuttora sotto processo per reati altrettanto gravi.

Con lui muore tutto. Il grande "partito dei moderati", mai nato e mai esistito. Il grande sogno della "rivoluzione liberale", mai esplicitato e mai perseguito. La grande conquista del bipolarismo, inoculato nelle vene del Paese non con dosi omeopatiche di cultura dell'alternanza ma con dosi venefiche di furore ideologico verso tutti i nemici. E alla fine la stessa democrazia, "dimezzata" e "calpestata nei suoi principi essenziali", solo perché una Corte lo ha giudicato colpevole e un ramo del Parlamento ratifica e applica quel giudizio, come la legge Severino (a suo tempo votata in massa e in letizia dal Pdl) gli impone di fare.

Non stupisce certo l'affidavit postumo di Dominique Appleby, presentato dal Cavaliere in conferenza stampa come clamorosa "arma fine di mondo" che determinerà la "sicura revisione" del processo sui diritti tv Mediaset, mentre è solo una prevedibile e patetica "patacca" vecchia del 2007, che la Procura ha puntualmente smentito un'ora dopo. Più di tutto, nella lettera ai senatori letta da Berlusconi ai cronisti attoniti colpisce questo: il "politicamente morto" che afferra i vivi, e cerca di trascinarli con sé nel fuoco della Geenna, o quanto meno di marchiarli a sua volta con la damnatio memoriae che loro gli vogliono infliggere, e alla quale lui si vuole ad ogni costo sottrarre.

Questa incapacità di accettare, almeno una volta nella vita, le regole del gioco, le leggi dello Stato, il primato del diritto. Questa irriducibilità a riconoscere il canone occidentale, i principi del costituzionalismo, il bilanciamento dei poteri. Questa idea scellerata che nel Paese sia esistita una "guerra dei vent'anni" (che nessuno ha combattuto contro di lui, ma che lui ha combattuto contro i magistrati) e che questa "guerra" debba ora finire non con l'espiazione della pena da parte del pregiudicato, ma con la punizione inflitta ai giudici che quella pena hanno deciso, usando solo lo strumento del codice penale.

Ed è stupefacente, ma in fondo anche coerente, che ormai a dispetto di tutti i malintesi "moniti alla pacificazione" lanciati da lui medesimo e i cortesi inviti alla moderazione lanciati dal presidente della Repubblica, il Cavaliere dell'Apocalisse torni a evocare i soliti spettri di cui si nutre e ci nutre dal giorno dell'epica discesa in campo. La penosa leggenda del "cittadino esemplare" che si è battuto "per il bene del Paese" e "ha sempre pagato le tasse" (i suoi processi parlano di fondi neri per mille miliardi di vecchie lire e l'ultima condanna di una frode fiscale da 360 milioni di euro). Il "calvario" bugiardo dei "57 processi" (sono stati invece 19).

La tentazione "castale" a invocare il ripristino dell'articolo 68 della Costituzione, cioè quell'immunità parlamentare contro la quale lui stesso si scagliò ai tempi di Tangentopoli (ma che ora gli torna utile per ristabilire "una giusta distanza tra i magistrati e gli eletti del popolo"). L'ossessione psicotica e farneticante della "riforma della giustizia", per impedire che Magistratura democratica raggiunga la sua "missione" (cioè "la via giudiziaria al socialismo contro il capitalismo borghese") e che l'Anm continui a bloccare come sempre tutte le leggi "non gradite" (deve essergliene sfuggita qualcuna, visto che Berlusconi premier è riuscito a imporre alle Camere almeno 10 leggi ad personam in materia di giustizia, dalle rogatorie alla Cirielli, dal Lodo Alfano alla "riforma" Castelli).

Con tutta la buona volontà e la buona fede non c'è proprio più nulla da salvare, in queste ultime "volontà" dettate dal Cavaliere dell'Apocalisse. E non c'è un'eredità politico-culturale da raccogliere, se non quei nient'affatto trascurabili 8 milioni di voti che ancora Berlusconi tiene in tasca. Si tratta solo di capire come e quando proverà a portarli ancora una volta nell'unico "luogo" che lui stesso sa e ama "abitare" con un'efficacia oggettiva, per quanto appannata: le urne. E si tratta solo di capire se Enrico Letta, con la sola stampellina gracile di Alfano, saprà resistere ai prossimi urti che, sul fronte opposto dal quale muove Matteo Renzi, gli arriveranno addosso dal 9 dicembre in poi. La morsa si stringe sulle Intese non più Larghe. E se per Berlusconi vale quello che Flaiano disse di Cardarelli ("è il più grande poeta morente"), per questa Italia impaludata non può e non deve valere quello che ha scritto ieri il Wall Street Journal: "La stabilità del cimitero".
m.giannini@repubblica.it

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/11/26/news/cavaliere_apocalisse-71957514/?ref=HREC1-1
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« Risposta #306 inserito:: Novembre 29, 2013, 07:15:05 pm »

L'Italia, la Ue e l'alibi del semestre bianco

Provate a fare un giro, dall’arbasiniana «casalinga di Voghera» al bonomiano «padroncino del Nord Est». Salite anche più su, lungo i piani dell’ascensore sociale. Arrivate al neo-eletto deputato di Roma, o al giovane analista finanziario di Milano. Provate a chiedere, in perfetto stile «iena» Enrico Lucci, se sanno chi è Dalia Grybauskaite. Non ho dubbi. Guarderanno un punto vuoto nello spazio, in cerca di un’impossibile illuminazione. Ma non la troveranno. Resteranno al buio, saranno costretti alla resa. Dalia è una bella signora di 57 anni, tosta e autorevole, nata a Vilnius il primo marzo 1956, che guida un piccolissimo ma importante Paese della grande Europa: la Lituania. Perché è interessante sapere chi è la signora Dalia? Perché il primo ministro lituano, al momento, è anche il presidente di turno dell’Unione europea. E qui si può rinnovare la sfida: riprovate a chiedere di nuovo, alla casalinga e al padroncino, al parlamentare o al finanziere, se sapevano che la presidenza di turno della Ue, dal primo luglio scorso al prossimo 31 dicembre, tocca alla Lituania. Ancora una volta, temo, vi guarderanno smarriti. La Lituania, nel quadro fatiscente del Vecchio Continente, è un campioncino nazionale. È stato uno dei primi entrati nel tunnel della crisi, con un crollo del Pil del 15% nel 2009, ma anche uno dei primi ad uscirne, tanto che a fine 2013 avrà il tasso di crescita più alto dell’Unione. Dunque, massimo rispetto per la signora Dalia e il suo Paese. Ma della presidenza di turno lituana, a fine dicembre, non resterà pressochè nulla. Come nulla è restato per tutti i Paesi che si sono avvicendati nella guida dei semestri europei. Vale oggi per la Grybauskaite, come valse ieri per Sarkozy. E varrà domani anche per Letta, che pure è un eccellente quadro di governo europeo. L’Italia assumerà la presidenza di turno dal luglio al dicembre 2014, dopo i sei mesi affidati alla Grecia che scattano dal prossimo gennaio. Nel dibattito politico domestico si è ormai affermato un «dogma» indiscutibile: l’Italia potrà tornare al voto solo nel 2015, perché prima «c’è il semestre europeo». Tra le due cose non c’è alcun nesso. Le presidenze di turno sono ormai un passaggio burocratico, del tutto privo di impatto politico. Nei suoi sei mesi di presidenza, com’è già accaduto in passato, l’Italia non cambierà la storia dell’Unione, e nessun Paese dell’Unione gli chiederà di farlo. Dunque, prima o durante il semestre si può serenamente votare, senza che questo faccia crollare l’edificio europeo, già fragile di suo. Certo, la stabilità è sempre preferibile all’ingovernabilità. Purchè non si tramuti in immobilità. Il semestre europeo non è il «semestre bianco». Rappresentarlo così è il Grande Alibi delle Piccole Intese.

m.giannini@repubblica.it

(25 novembre 2013) © Riproduzione riservata
Da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/11/25/news/l_italia_la_ue_e_l_alibi_del_semestre_bianco-71879215/
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« Risposta #307 inserito:: Dicembre 04, 2013, 11:21:55 am »

Il nuovo complotto contro l'Italia

Massimo GIANNINI

Non c’è bisogno di evocare Ian Fleming e la Spectre, centrale del crimine globale smantellata da James Bond nel fantaspionistico «Operazione Tuono». E nemmeno Philip Roth e Charles Lindbergh, burattino nelle mani di Hitler nel fantastorico «Complotto contro l’America». Ma l’attacco a freddo lanciato da Standard & Poor’s contro le Generali non può passare sotto silenzio. Romano Prodi, sempre più lontano dai veleni della politica ma sempre più vicino ai grandi temi dell’economia, me lo dice con indignazione: «Ma possibile che qui nessuno si renda contro della gravità di quello che è successo?». Appunto. È un caso da manuale, che fa il paio con il precedente del gennaio 2012, quando la stessa agenzia declassò a sorpresa l’Italia a BBB+, lo stesso livello del Kazakistan. Ora tocca al più grande gruppo assicurativo tricolore, tra i primi tre d’Europa, che può scivolare a BBB perché ha in pancia un «bolo» considerato indigeribile: 60 miliardi di euro in Bot e Btp. Nell’offensiva di S&P è folle la «destinazione»: Generali fa 1,6 miliardi di utili in 9 mesi, ha il 75% delle attività all’estero, ha già ridotto a 55 miliardi i suoi investimenti in Bot e Btp. Ma è ancora più folle la spiegazione: Generali è in creditwatch negativo perché è troppo esposta in titoli italiani, e l’Italia è a sua volta esposta al rischio default.

Un sillogismo irrealistico: i pur non eccellenti «fondamentali» di bilancio non autorizzano a pensare a un’insolvenza a breve o medio termine. Soprattutto un sillogismo illogico: se davvero saltasse il nostro debito sovrano, il downgrading delle Generali sarebbe l’ultimo dei problemi, visto che (insieme a tutte le aziende italiane), salterebbero l’intero Sistema Paese e l’intera Eurozona. Lo capisce anche un bambino. È impossibile che non lo capiscano i Signori del Rating. Ma allora perché lo fanno? I cattivi pensieri suggeriscono che sia partita, o possa ripartire, un’offensiva contro la moneta unica, che usa l’Italia come anello debole, o agnello sacrificale.

Ha ragione Massimo Mucchetti, che parla di «una manovra gravissima contro la Repubblica». Una manovra che parte, ancora una volta, da una delle «tre sorelle» (oltre a S&P, Moody’s e Fitch) che in un regime di «oligopolio perfetto» tengono da almeno cinque anni in ostaggio i mercati, taglieggiando gli Stati e lucrando un fatturato annuo di 4,5 miliardi. Come ha detto a suo tempo Mario Draghi, delle agenzie di rating si dovrebbe fare a meno. E questo vale ancora di più per campioni come Generali, che non hanno bisogno di «certificati» per collocare sui mercati i propri bond. Ma resta una domanda. Di fronte a questo strisciante «complotto contro l’Italia», perché Letta e Saccomanni non battono un colpo? m.giannini@repubblica.it

(02 dicembre 2013) © Riproduzione riservata
Da - http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2013/12/02/news/il_nuovo_complotto_contro_litalia-72466380/
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« Risposta #308 inserito:: Dicembre 24, 2013, 05:52:18 pm »

Cercando una 500 per le vie di New York

Massimo GANNINI

Purtroppo per l’Italia e per la Fiat, il sogno americano di Sergio Marchionne sta diventando un incubo. L’impasse con Veba non si sblocca. L’acquisto del 41,5% delle azioni Chrysler in mano al fondo di proprietà del sindacato a stelle e strisce Uaw, che consentirebbe al Lingotto di arrivare al 100% della casa di Auburn Hills, è ancora lontano. Lo ostacolano le divergenze sul prezzo della quota (intorno ai 5 miliardi secondo gli americani, non più di 3 secondo le stime dei torinesi) e le differenze sugli andamenti di mercato (eccellente la quota Usa, pessima quella italiana). E così la fusione si allontana, mentre si avvicina la prospettiva che nel frattempo Veba avvii con una Ipo la quotazione di Chrysler a Wall Street. Se questo avvenisse, nei primi mesi del 2014, per Marchionne sarebbero guai. A fine aprile, insieme all’annuncio dei risultati finanziari del primo trimestre, il «ceo» dei due mondi dovrebbe rivedere l’aggiornamento al piano quinquennale. Nel frattempo i nuovi azionisti del colosso di Detroit potrebbero rinunciare in via definitiva alla fusione. Nessuno se lo augura. Ma bisogna pur fare i conti con la realtà. E la realtà dice purtroppo che ormai i rapporti di forza tra Torino e Auburn Hills, com’era prevedibile, si sono totalmente invertiti a vantaggio degli americani. Lo dicono i numeri di bilancio. Lo stallo finanziario e l’andamento del mercato pesano enormemente sulla parte Fiat del gruppo. Nei primi nove mesi del 2013, su un totale di 2,4 miliardi di euro di utile di gestione, la parte non-Chrysler ne ha generati appena 177 milioni. A livello di risultato netto, l’utile totale di 655 milioni si trasforma in un passivo di oltre 700 milioni senza la parte Chrysler. Detta più brutalmente: senza la filiale americana di Detroit, quella europea di Torino non regge la competizione globale. Lo confermano i numeri del mercato. A novembre le vendite di auto e veicoli commerciali di gruppo sono aumentate del 16% a 142.275 unità, il miglior risultato dal 2007. Peccato che questa tendenza positiva riguardi tutti i marchi del gruppo, tranne la Fiat. Il marchio Jeep ha registrato un boom del 30%, il marchio Ram Truck ha ottenuto una crescita del 25%, il marchio Chrysler ha registrato una incremento del 12%. Il marchio Fiat, per contro, ha incassato un meno 15%, precipitando a meno di 3 mila unità. Quello che preoccupa, a dispetto della trionfale propaganda del Lingotto, è la frenata della 500 (meno 41%), non compensata dall’arrivo di quasi un migliaio di nuove 500L. Per quello che vale, riporto un’esperienza molto personale. In cinque giorni di permanenza a New York, purtroppo non ho visto in giro un solo esemplare della mitica «utilitaria» di casa Fiat. Sono io che ho sbagliato occhiali, o è Marchionne che ha sbagliato i calcoli?
m.giannini@repubblica.it

(16 dicembre 2013) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/12/16/news/cercando_una_500_per_le_vie_di_new_york-73722697/
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« Risposta #309 inserito:: Gennaio 18, 2014, 05:24:01 pm »

La versione di Joshua sul finto "mercato"

Massimo GIANNINI

L’anno nuovo, come al solito, comincia com’era finito quello vecchio. Alti lai, stessi guai. Tra spread e Borsa, l’economia di carta va. Tra recessione e credit crunch, anche l’economia reale va. Ma in malora. Nel frattempo, i nodi della politica, dell’economia e della finanza sono sempre lì, irrisolti. Viene in mente la sentenza memorabile di uno dei protagonisti di «Joshua, allora e oggi», l’ultimo capolavoro di Mordecai Richler (geniale e scapigliato “papà” canadese di Barney Panofsky e della sua leggendaria «Versione»): «Ho visto il futuro, e non funziona». **** Nelle segrete di Palazzo Salimbeni si sussurra che Profumo e Viola, convinti dalla moral suasion del Tesoro, avrebbero deciso per adesso di restare al vertice del Montepaschi. Al cda di domani si saprà se è vero. Intanto, la Fondazione ottiene il rinvio dell’aumento di capitale. Un rinvio costoso per la banca, dopo i disastri mussariani da Antonveneta in poi. Ma che importa? Basta non perdere il controllo del caveau, dal quale hanno prelevato tutti. In attesa della nazionalizzazione, Siena si conferma l’ultima casamatta del socialismo municipale. Non ha mai funzionato. **** Nelle segrete di Palazzo Vecchio si racconta che Renzi stia affilando la lama della ghigliottina. Ad aprile scadono i vertici delle ex PpSs. Eni, Enel, Terna, Fintecna, Consap, persino Consob (manca un commissario). Quante e quali teste rotoleranno? Il segretario del Pd dice: non ci interessano le poltrone in quanto tali, valuteremo i manager in base alle necessarie strategie di politica industriale. Nobile proposito. Dicevano così anche ai tempi di Andreotti e Craxi. Non funzionò. **** Nelle segrete di Palazzo Chigi si narra che Letta stia valutando il da farsi sulla rete Telecom. Il rapporto Caio è ormai in arrivo, ed è la fotografia di un discreto disastro. Nel frattempo, l’azienda orbita in un penoso limbo, tra i pasticci di Cesar Alierta in Sudamerica e gli impicci di Marco Patuano a Roma. Cosa resterà della vecchia Telecom, con una rete spacchettata e una Tim Brasil venduta? Non può funzionare. **** Nelle segrete di Palazzo delle Finanze si dice che Cassa Depositi e Prestiti stia stringendo i tempi per cedere il suo 49% di Cdp Reti, la società veicolo che contiene le quote di Snam e presto anche quelle di Terna. Tra i possibili acquirenti ci sarebbe State Grid of China, gigante delle infrastrutture di rete che da solo ha un fatturato pari a più di metà della capitalizzazione dell’intera Borsa italiana. Non è un fondo sovrano, ma una spa operativa. Dunque, presto le nostre reti di gas e di energia ad alta tensione potrebbero finire, sia pure con una ragguardevole quota di minoranza, in mani cinesi. Funzionerà? m.giannini@repubblica.it

(13 gennaio 2014) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2014/01/13/news/la_versione_di_joshua_sul_finto_mercato-75795886/
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« Risposta #310 inserito:: Febbraio 14, 2014, 06:42:46 pm »

Lupi a Wall Street.
Agnelli su Broadway

«Nessuno qui conosce realmente l’andamento della borsa, è tutto fugace, non è reale, polvere di stelle. Noi non creiamo un cazzo, non costruiamo niente...». Lo sospettavamo da sempre, ma sentirlo dire dal lupo di Wall Street Jordan Belfort, nella superba incarnazione cinematografica di Leonardo Di Caprio, fa un certo effetto. Non cercare l’etica negli affari. Quando l’economia tira, è inutile. Quando c’è la crisi, è un lusso. La morale del film, purtroppo incontestabile, è che non c’è nessuna morale. Meno che mai nel turbo-capitalismo di carta di questi anni. Ma al di là degli avidi lupi che gonfiano le bolle, le fanno esplodere e poi si nutrono di quello che resta tra le macerie, l’America è un posto dove molto si distrugge, ma molto si continua a creare. Twitter schianta in borsa perché nell’ultimo trimestre ha aggiunto «solo» altri 9 milioni al suo popolo di utenti (ora a quota 241 milioni) e il suo tasso di crescita è stato «solo» del 3,8% rispetto al 3,4 dei rivali di Facebook (ormai a quota 1,23 miliardi di utenti). L’hi-tech, l’innovazione, la ricerca e lo sviluppo sul Web: il primato Usa, su questa frontiera, resta inattaccabile e lo sarà per i prossimi 25 anni. Qual è invece il nostro «primato»? Eccolo: secondo le stime di S&P Capital IQ, negli ultimi tre anni in Italia sono state concluse 198 fusioni e/o acquisizioni di aziende tricolori da parte di gruppi stranieri per un controvalore di 53,9 miliardi. Abbiamo ceduto su tutto, dall’alimentare di Parmalat all’alta moda di Bulgari. A completare il quadro ci mancavano ancora le ultime due «bandiere bianche», sventolate da altrettanti italiani che di fatto si arrendono alle sirene d’oltrefrontiera. Luca di Montezemolo, grande ambasciatore del made in Italy, cede Poltrona Frau agli americani di Haworth. Sergio Marchionne, manager dei due mondi, trasferisce la sede legale e fiscale della Fiat ad Amsterdam e a Londra. Due vicende diverse, ma in fondo non poi così tanto. Perché tutte e due confermano quello che tutti ormai verifichiamo ogni giorno. Il Paese si impoverisce e si deindustrializza. Eccolo, un altro primato: secondo Prometeia-Intesa Sanpaolo, solo nel 2013 la manifattura italiana ha bruciato 25 miliardi di ricavi. L’establishment si preoccupa, ma non se ne occupa. Letta dovrebbe, ma probabilmente ha altre necessità: per ora si accontenta dell’elemosina da 500 milioni elargita dagli sceicchi del Kuwait. Renzi potrebbe, ma evidentemente ha altre priorità: all’ultima direzione del Pd si è detto «colpito», con due settimane di ritardo, della «mancata discussione» intorno alla scelta di Fiat di trasferire le sedi in Inghilterra e in Olanda. Lupi a Wall Street, come racconta Scorsese. Agnelli su Broadway, come cantavano i Genesis. E intanto l’Italia che fine fa?
m.giannini@repubblica.it

(10 febbraio 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2014/02/10/news/lupi_a_wall_street_agnelli_su_broadway-78168063/
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« Risposta #311 inserito:: Marzo 18, 2014, 12:06:45 pm »

Il cuneo di Renzi e la legge di Murphy

Massimo GIANNINI

La confusione intorno alle 'grandi riforme' del governo Renzi, finora, è stata direttamente proporzionale alle enormi aspettative seminate dal premier lungo il suo cammino. Da due settimane non passa giorno che sul web non riecheggi un cinguettio, twittato preferibilmente all'alba, sulle imminenti 'misure shock' per il rilancio dell'economia. Ma fino ad oggi di scioccante ci sono state soprattutto due cose. La prima è la frustata dalla Ue sui gravi ritardi italiani: a dispetto del mantra 'l'Europa la cambiamo noi' Bruxelles non fa sconti agli ultimi arrivati, e la Merkel non la 'compri' riconoscendone la sapienza calcistica intorno alle rotule di Mario Gomez. La seconda è l'improvvisazione dei ministri, che sparlano a vanvera come le 'comari di Windsor' ai tempi di Formica e Andreatta. Dopodomani a Palazzo Chigi vedrà la luce il pacchetto scaccia-crisi dell'era renziana. Il caos preparatorio è stato notevole. A parte la gaffe iniziale del presidente del Consiglio sulla 'riduzione in doppia cifra', la coalizione ha recitato a soggetto. Il guru economico del Pd, Filippo Taddei, ha annunciato la contestuale riduzione del 10% dell'Irap e di 5,5 miliardi dell'Irpef. Compromesso doroteo: ma se vuoi spartire di nuovo la torta, devi sapere che i benefici saranno ancora una volta risibili. Dividere 10 miliardi per due significa per le imprese un risparmio di 300 euro annui sul costo del lavoro di ciascun neo assunto (ipotizzando un lordo di 30 mila euro), per i lavoratori un risparmio di 50 euro al mese sull'Irpef (ipotizzando un lordo di 25 mila euro). Non certo uno shock. Per questo, l'unico tra i ministri di cui ci si deve fidare, Pier Carlo Padoan, ha detto al Sole 24 Ore che invece bisogna 'concentrare l'intervento in una sola direzione: o tutto sulle imprese, quindi Irap e oneri sociali, o tutto sui lavoratori attraverso l'Irpef'. Parole sagge, dopo le esperienze falsamente 'egualitarie' tentate da Prodi nel 2006 e da Letta nel 2013. Ma solo ventiquattr'ore dopo il Ghino di Tacco Angelino Alfano ha smentito Padoan: 'Serve un'azione duplice, riduzione Irap per le imprese, riduzione Irpef per i lavoratori'. Come uscire dall'entropia? Quanto raccolto a Palazzo Chigi e uscito su Repubblica sabato scorso sembra finalmente fissare un punto fermo: i 10 miliardi andranno tutti a riduzione dell'Irpef. Giusto così. E non perché i supporter della Camusso abbiano più ragione degli ultrà di Squinzi, ma perché una scelta netta è più efficace di una non scelta. Sempre a condizione che, di qui a mercoledì, non spunti qualche altro ministro a rimangiarsi la parola data, e a confermare che anche nel Dolce Stilnovo renziano vale sempre una delle vecchie leggi di Murphy: non affannarti a contraddire i politici, prima o poi lo faranno da soli.
m.giannini@repubblica.it

(10 marzo 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2014/03/10/news/il_cuneo_di_renzi_e_la_legge_di_murphy-80633811/
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« Risposta #312 inserito:: Marzo 19, 2014, 11:56:31 am »

Il Cavaliere è nudo

di MASSIMO GIANNINI
19 marzo 2014
   
Non c'è più tempo per gli alibi e per le provocazioni. Passo dopo passo, il destino del pregiudicato Silvio Berlusconi si compie. Com'è giusto che sia, in un Paese nel quale un Ventennio di leggi ad personam non è riuscito a far saltare i cardini dello Stato di diritto.

Con la sentenza della Cassazione, che conferma l'interdizione dai pubblici uffici per due anni, il Cavaliere diventa a tutti gli effetti incandidabile e ineleggibile. Una decisione scontata e coerente con la condanna definitiva nel processo sui diritti tv Mediaset, che ha sancito al di là di ogni ragionevole dubbio una verità storica e politica: Berlusconi è stato "l'ideatore iniziale" di una gigantesca frode fiscale, e al tempo stesso "l'utilizzatore finale" della provvista in nero che gli è servita negli anni a corrompere magistrati, pubblici funzionari e parlamentari. Di qui, per il capo della destra populista, discende tutto. Ieri la decadenza da senatore, votata da Palazzo Madama il 27 novembre dell'anno scorso. Oggi l'interdizione dai pubblici uffici, ribadita dalla Suprema Corte dopo la decisione dell'Appello. Domani l'affidamento in prova ai servizi sociali, sul quale il Tribunale di sorveglianza si pronuncerà il prossimo 10 aprile.

Passaggi obbligati, per qualunque cittadino sottoposto alla giurisdizione della Repubblica. Passaggi avvelenati, per un leader che si è sempre preteso meno uguale degli altri davanti alla legge, per il solo fatto di aver ricevuto l'unzione sacra del popolo, attraverso il lavacro dell'urna che monda tutti i reati e tutti i peccati. Un leader che ora, ancora una volta proprio in nome di quell'unzione sacra, sperava di potersi ripresentare alle elezioni europee, per riottenere dalla sua gente la verginità etica e la legittimità politica che le maledette "toghe rosse" gli avrebbero tolto.

Ebbene, ora anche questa estrema, disperata e quasi grottesca finzione è finita. Berlusconi non si può candidare. I suoi giornali di famiglia e le sue amazzoni, autonomi o autorizzati che siano, possono azzardare tutti gli strappi possibili, raccogliendo le firme e invocando la grazia. È tutto inutile, oltre che penoso. E se non bastano ancora le inequivocabili pronunce delle giurisdizioni nazionali, valgono quelle altrettanto indiscutibili delle istituzioni sovranazionali. "Le regole in Europa sono molto chiare", ripete Viviane Reding a nome della Commissione europea, con parole che equivalgono a una sentenza più definitiva di quella già emessa un anno fa dai magistrati milanesi.

Nessuno può impedire al Cavaliere di fare propaganda, nei limiti che il Tribunale di sorveglianza gli concederà tra poco più di tre settimane. Nessuno può impedirgli di "fare politica", nei termini restrittivi imposti dall'esecuzione della pena alla quale è sottoposto. Potrà perfino continuare a sbraitare contro i pm e il Csm, Napolitano e la Consulta, a evocare a sproposito la "guerra civile" e a urlare alla luna per il complotto ordito contro di lui dalla Spectre togata, che lo vuole morto da vent'anni. Avrà un'arma in più per la sua campagna elettorale, che lo vede ancora in campo ma non più condottiero, a incarnare assieme a Grillo gli "opposti populismi" di un'Italia che lotta disperatamente per uscire dai fantasmi di una mai nata Seconda Repubblica.

Adesso il Cavaliere è nudo. Di fronte alla realtà e di fronte agli italiani. Di fronte ai suoi innumerevoli fallimenti e alle sue enormi responsabilità. Non ha mai realizzato la "rivoluzione liberale". Non ha mai creato quel "partito moderato di massa" che aveva spacciato. Dopo il voto trionfale del 2008 aveva il Paese in pugno, alle elezioni del 2013 ha perso tutto. Sei milioni e mezzo di azzurri pentiti gli hanno voltato le spalle. Ora può provare a tenere aggrappata alla sua vecchia creatura almeno una parte di quei 7 milioni di elettori che gli sono rimasti, probabilmente lo zoccolo duro forzista che voterebbe qualunque cosa e qualunque lista in cui ci sia una sia pur minima "traccia" del berlusconismo che fu, e che non potrà mai più essere.

Nonostante il suo status di "pregiudicato in attesa di giudizio" (i processi su
 
Ruby e sulla compravendita di senatori sono ancora in corso) si può considerare comunque un "miracolato". Ha ottenuto un posto al tavolo delle riforme, quando era già mestamente incamminato sul viale del tramonto. È stato rivestito di un ruolo di "padre costituente", che non merita e non ha mai fatto nulla per meritare. Si accontenti di questo. È già tantissimo, dopo tutti i disastri che ha combinato.

m. gianninirepubblica. it

© Riproduzione riservata 19 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/19/news/il_cavaliere_nudo-81328135/?ref=HREA-1
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« Risposta #313 inserito:: Marzo 29, 2014, 11:06:49 am »

La dottrina Berlinguer sulle nomine di Stato

"I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni... Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai, alcuni grandi giornali... Tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire...". Alla vigilia della più colossale operazione di azzeramento/rinnovamento della classe dirigente pubblica e para-pubblica degli ultimi vent'anni, queste parole ti fanno riflettere. Non sono di Matteo Renzi, il Grande Rottamatore del nuovo Pd, ma di Enrico Berlinguer, il Grande Timoniere del vecchio Pci. Le pronunciò il 28 luglio 1981, nella storica intervista a Eugenio Scalfari con la quale sbattè in faccia la Questione Morale all'Italia accidiosa che di lì a qualche anno si sarebbe felicemente attovagliata alla mangiatoia del Caf. Walter Veltroni ha il merito di averle ripescate, scuotendo la nostra memoria con il magnifico "Quando c'era Berlinguer". Un film che ti scalda il cuore, ma ti lascia l'amaro in bocca. Certe frasi dell'ultimo comunista italiano sembrano scandite oggi, non trent'anni fa. Entro metà aprile il governo deve presentare le liste per il rinnovo dei consigli di Eni, Enel, Finmeccanica, Terna, Poste e altre controllate dello Stato. In totale, almeno 350 nomine. Una "occupazione" senza precedenti, per usare la formula berlingueriana. Ma con quali criteri il presidente del Consiglio si accinge a decidere il destino dei vecchi e nuovi "boiardi"? Al momento non è chiaro. L'unica cosa relativamente certa è che Renzi, attraverso i suoi sottosegretari, ha fatto trapelare l'intenzione di non rinnovare i manager che hanno già fatto tre mandati. Questo criterio, se fosse vero, taglierebbe automaticamente le teste di Scaroni all'Eni, Conti all'Enel, Cattaneo a Terna e Sarmi alle Poste. Nulla di scandaloso. Un po' di spoil system non guasta, dopo una stagione lottizzatoria che ha visto il dominio assoluto del network Berlusconi-Letta-Bisignani. Tuttavia, se non si vuole solo sostituire una spartizione con un'altra, sarebbe utile fissare alcuni criteri di base, validi per il presente e per il futuro. Come sostiene giustamente Massimo Mucchetti, l'unico che nel Pd sembra avere idee chiare su queste materie, il governo dovrebbe misurare le prestazioni dei capi azienda uscenti in relazione al mandato ricevuto, e stabilire i nuovi mandati ai quali ispirare le nuove liste. Dal ritorno per i soci (dividendi più variazione delle quotazioni del titolo) alla "natura" dell'utile (come risultato della pura gestione industriale o della cessione di partecipazioni). I parametri valutativi possono essere tanti. Andrebbero solo codificati. Per evitare di ritrovarci di nuovo qui, tra altri trent'anni, a rimpiangere ancora la nobile, e purtroppo inservibile "diversità" di Berlinguer.
m.giannini@repubblica.it

(24 marzo 2014) © Riproduzione riservata

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« Risposta #314 inserito:: Aprile 07, 2014, 05:24:39 pm »

Scusate avete visto l'evasione fiscale?

Massimo GIANNINI

C'era una volta l'evasione fiscale. Uno scandalo da 200 miliardi l'anno, tra imposte dirette e imposte indirette. Un buco del 30% di imponibile Iva, sottratto ogni anno all'Amministrazione finanziaria. L'evasione schiacciava l'economia del Paese e il bilancio dello Stato, rendendo sempre più difficile il contenimento della pressione tributaria. Oltraggiava la giustizia redistributiva e l'etica pubblica, costringendo i soliti noti a pagare troppe tasse perché i soliti ignoti non ne pagavano affatto. Alterava la concorrenza e il libero mercato, obbligando gli imprenditori onesti a competere ad armi impari con quelli disonesti. I rissosi governi di Prodi la perseguivano ferocemente, gli spassosi governi di Berlusconi la incoraggiavano allegramente. Nessuno riusciva a sconfiggerla. Ma insomma: se ne discuteva, se ne parlava. Oggi di evasione fiscale non si parla più. Nel nuovo "esprit florentin" che si respira in Italia la parola sembra uscita dai vocabolari. Non ne parla il premier Renzi, non ne parla il ministro dell'Economia Padoan. L'unico che continua ad abbaiare alla luna è il povero Attilio Befera, reduce da tre anni di "gogna" per le troppe vessazioni che Equitalia ha praticato sui contribuenti. Il direttore generale delle Entrate, nell'indifferenza dei più, ci informa che il "Tax Gap" italiano, cioè la differenza tra il gettito potenziale e quello effettivo di Irpef, addizionali, Ires, Iva e Irap, continua a superare i 90 miliardi. Se si aggiunge l'evasione dei contributi e delle tasse locali, ecco che si torna alla cifra-monstre di 200 miliardi, più volte riportata anche dalla Banca d'Italia. Anche se non se ne parla più, l'evasione non solo c'è ancora, ma continua a crescere. I segnali che arrivano dalla Guardia di Finanza sul territorio, e che vanno oltre le statistiche ufficiali del Comando Generale, segnalano una ripresa della piccola e grande "infedeltà fiscale". Ma la cosa non interessa a nessuno. Il governo tace. Il Parlamento fa di peggio. Il Senato (anche qui, nel silenzio generale) ha appena dato via libera al decreto legge sul rientro dei capitali dalla Svizzera e sulla cosiddetta "voluntary disclosure". Dopo aver almeno escluso l'idea di limitarsi a introdurre una modesta tassa forfettaria sul "nero" che rientra, l'aula di Palazzo Madama ha comunque modificato il testo originario, dimezzando le imposte dovute sui capitali rimpatriati e depenalizzando anche i reati di frode "con altri artifici", oltre alla omessa o infedele dichiarazione. Complimenti ai senatori, che in casi del genere verrebbe voglia di rottamare davvero senza rimpianti. L'evasione aumenta, e invece di alzare la guardia la si abbassa ancora una volta, premiando i ladri e disarmando le guardie. Davvero un bel segnale, mentre impazza la nuova "questione morale". Avanti così, e ci toccherà rimpiangere gli scudi fiscali di Tremonti. m.giannini@repubblica.it

(07 aprile 2014) © Riproduzione riservata

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