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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 167023 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Giugno 14, 2011, 06:20:14 pm »

Un plebiscito contro

Un plebiscito contro Silvio Berlusconi

Massimo GIANNINI


Un vero plebiscito. Ma al contrario. Abituato a declinare ogni appuntamento elettorale come un'autocelebrazione personale e un continuo rinnovamento acritico ed epifanico del suo consenso, Silvio Berlusconi incassa un gigantesco plebiscito "contro", e non a favore della sua persona. Ventisette milioni di italiani sono andati alle urne per testimoniare la loro voglia di riprendersi la politica che per troppi anni avevano delegato al Cavaliere. In due settimane di mobilitazione pubblica la volontà del popolo sovrano ha fatto giustizia di tre anni di mistificazione. Dopo la disfatta devastante delle amministrative, la sconfitta pesante del referendum conferma che il presidente del Consiglio non è più in grado di leggere gli umori degli italiani e di reggere gli onori del governo. L'esito quantitativo della nuova consultazione (il quorum) e il suo risultato qualitativo (il responso sui quattro quesiti) riflettono il cambiamento profondo della geografia e della geometria politica della nazione. Nel Palazzo c'è una maggioranza numerica che sopravvive a se stessa e resiste alla sua stessa agonia. Nel Paese c'è un'opinione pubblica che gli ha voltato le spalle, nelle scelte di merito e di metodo, perché stanca di una "narrazione" posticcia e artefatta che non ha più alcun collegamento con la realtà e con i problemi della vita quotidiana di milioni e milioni di persone "normali".

La sanzione più nitida e clamorosa di questa rottura tra gli interessi privati del premier e l'interesse collettivo degli italiani sta nel responso a valanga nel quesito sul legittimo impedimento. Dopo tre anni di menzogne propagandistiche sulla "riforma della giustizia" (interpretata solo nella chiave della soluzione dei problemi giudiziari dell'uomo di Arcore) i cittadini hanno capito e hanno votato di conseguenza. Dicendo un no forte alla stagione delle leggi ad personam e un sì chiaro al principio costituzionale che esige tutti i cittadini uguali davanti alla legge. E' un esito non scontato, e forse il più sorprendente di questo appuntamento elettorale. Segna davvero la fine di un ciclo storico, che dura ormai da diciassette anni, e che ha visto il Cavaliere protagonista di un assedio violento alla magistratura, con l'unico obiettivo di difendersi dai suoi processi attraverso l'estinzione dei reati o la cancellazione delle pene per via legislativa. Il risultato referendario, anche sotto questo profilo, è una bella vittoria della democrazia, in tutti i suoi sensi e in tutte le sue forme.

Ma insieme a questa politica dell'aggressione, dall'accoppiata amministrative-referendum esce a pezzi anche quell'ideologia post-politica (secondo la felice definizione di Geminello Preterossi) sulla quale si è retta la destra italiana di questi anni. Progressiva demolizione di tutto ciò che è pubblico, sdoganamento del qualunquismo più becero, inaridimento delle radici della vita democratica, abdicazione delle istituzioni alla legge del più forte, criminalizzazione sistematica del dissenso. L'onda referendaria spazza via in un colpo solo questo armamentario culturale populista sul quale è stato costruito il patto Berlusconi-Bossi. Dietro la scena di cartapesta del Popolo della Libertà e della Padania liberata, dietro la demagogia degli spiriti animali del capitalismo e dei riti pagani nelle valli alpine e prealpine, dietro l'idea "rivoluzionaria" del cambiamento federalista e anti-statalista, l'asse Pdl-Lega non ha costruito niente. Niente miracoli, solo miraggi. Niente crescita, solo declino. Adesso è tardi, per qualunque contromossa e per qualunque recupero. Il Carroccio ha pagato fino in fondo il tributo alla lealtà personale del Senatur nei confronti del Cavaliere. Per le camicie verdi si tratta di riprendere il largo, di tornare in mare aperto e alla strategia delle mani libere. E' solo questione di tempo e di modo. Ma il destino della coalizione è segnato, chiuso com'è dal vincolo esterno dell'Europa sui conti pubblici e dal vincolo interno ormai rappresentato dalla crisi della leadership berlusconiana.
 
Il premier ha perso prima il referendum virtuale, con le amministrative che lui stesso aveva trasformato in una drammatica e ultimativa ordalia su se medesimo. Ora ha perso anche il referendum reale, con una scelta astensionista disperata e insensata che ha sancito l'irrimediabile scollamento tra lui e la sua gente. Cos'altro deve accadere, perché Berlusconi tragga le conseguenze di questo fallimento? L'Italia non merita di pagare altri danni, alla volontà di sopravvivenza di un governo che non esiste più e che si tiene ormai solo sulla stampella instabile e impresentabile dei "Responsabili" di Romano e Scilipoti. Fa fede l'immagine di Calderoli, che come sempre parla il linguaggio ruvido del disincanto. Due "sberle" non fanno un ko. Ma sicuramente lo preparano. Prima avverrà, e meglio sarà per tutti.
 
(13 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #196 inserito:: Giugno 18, 2011, 11:00:34 pm »

IL COMMENTO

Sotto il vulcano

di MASSIMO GIANNINI

NON c'è bisogno di aspettare Pontida per capire che il destino di Berlusconi è segnato. Lo dice l'economia, prima ancora che la politica.
Lo segnalano gli analisti finanziari, prima ancora che i leghisti padani. Moody's che minaccia di rivedere al ribasso il rating dell'Italia fa giustizia di giorni e giorni di chiacchiere irresponsabili e di richieste inesigibili.

Altro che grande riforma fiscale, altro che scossa all'economia, altro che allargamento dei cordoni della borsa per rimediare alla doppia sberla delle amministrative e del referendum. La verifica reale non la faranno la prossima settimana gli "improponibili" o i "responsabili" di questa maggioranza in disarmo: hanno già cominciato a farla quei ragazzi "terribili" che ogni giorno, da dietro un computer, decidono le sorti dei Paesi e dei mercati. L'allegra brigata berlusconiana, cieca e sorda di fronte alla realtà, danza sotto il vulcano. L'Italia non può permettersi il lusso di ridurre le tasse o di aumentare la spesa. Il nostro bilancio pubblico non offre margini. Il nostro debito non diminuisce. La nostra crescita é pressoché inesistente. In queste condizioni, qualunque passo falso sarebbe fatale, ed esporrebbe il Paese al pericolo di un downgrading, e quindi di una deriva greca. Aumento immediato degli spread dei nostri titoli e del premio di rischio richiesto dai mercati per sottoscriverli, impennata del costo del debito, necessità di aumentare ancora di più le tasse per finanziare l'aumento dei tassi. È la spirale temuta da settimane da Giulio Tremonti, che il presidente del consiglio non ha voluto vedere né capire, illuso com'è di poter riconquistare gli italiani con l'ennesimo gioco di prestigio, e di poter "fregare" l'Europa con l'ennesima truffa contabile.

Ora il premier è servito. Il siluro armato da Moody's è un argomento decisivo, nelle mani del ministro dell'Economia. Conferma che la sua non è un'impuntatura tardiva o autolesionistica, ma una necessità oggettiva a difesa dell'interesse nazionale. Non possiamo tradire il patto di stabilità, non possiamo sciogliere il vincolo esterno che ci lega all'Europa. Non possiamo rinunciare all'impegno del pareggio di bilancio. Al contrario: se vogliamo evitare la bancarotta, dobbiamo accelerare sul sentiero del risanamento e del rigore finanziario, anticipando a prima dell'estate la manovra da 40 miliardi che ci chiede la Ue e che si aspettano i mercati. Non c'è altra via.
È finito il tempo delle televendite propagandistiche e delle scorciatoie demagogiche. Prima ancora dei druidi padani e del sacro rito pagano di Pontida, la fine della ricreazione la suona la campana di Moody's. È una novità devastante per il Cavaliere. Ma è anche una pessima notizia per l'Italia. Dopo tre anni di lassismo berlusconiano e di cadornismo tremontiano, ci ritroviamo ancora una volta nel girone infernale del Club Med di Eurolandia. Tornare alla crescita, ha invocato Mario Draghi il 31 maggio, nelle sue ultime considerazioni finali da governatore della Banca d'Italia. È già tanto se non ci cacceranno dall'euro, grazie a questo governo di nani e ballerine, di faccendieri e di apprendisti stregoni.

m.giannini@repubblica.it

(18 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #197 inserito:: Giugno 27, 2011, 05:35:59 pm »

IL RETROSCENA

La linea del Piave di Tremonti "Subito la manovra da 40 miliardi"

La mossa  del ministro dell'Economia dopo l'annuncio di Moody's.

Fiducia nell'asse con Bossi: "Vedrete, verrà rinsaldato".

Stasera vertice delicatissimo

di MASSIMO GIANNINI


"Anticipare la manovra". Se mai ci fosse stato ancora un dubbio, sospeso tra i pronunciamenti demagogici del Grande Imbonitore di Arcore e i riposizionamenti strategici del Gran Cerimoniere di Pontida, la sortita di Moody's l'ha spazzato via in un colpo. Giulio Tremonti, adesso, si sente più forte. E ha un'arma in più per difendersi dall'accerchiamento di Berlusconi e Bossi: rilanciare sulla linea del rigore.
E varare subito, prima dell'estate, la maxi-manovra da 40 miliardi, che dovrà portare l'Italia al pareggio di bilancio entro il 2014.
È l'unica risposta possibile, da offrire all'Europa e ai mercati, per tenere il Paese al riparo dalla "sindrome greca".

Chiuso in casa a Pavia, il ministro del Tesoro si prepara a una domenica di passione. Questa mattina, sul pratone di Pontida, c'è il raduno della Lega, che dovrà decidere le sorti del governo. Maroni e Calderoli alzano i toni, e coprono le pretese di Cisl e Uil, palesemente velleitarie perché colpevolmente tardive. Dopo aver ingoiato senza fiatare ogni tipo di rospo, in tre anni in cui i salari reali del privato sono crollati e gli stipendi del pubblico impiego sono stati congelati, Bonanni e Angeletti si ricordano che famiglie e lavoratori, precari e disoccupati, meritano adesso una "ricompensa" fiscale. Minacciano addirittura uno sciopero, dopo aver boicottato ogni genere di protesta organizzata dalla Cgil. I due ministri leghisti si accodano. Bossi tace. Parlerà solo lui, oggi, al popolo padano. E tutti aspettano di
capire se romperà con Berlusconi (evitando di seguirlo nella deriva sfascista) o se romperà con Tremonti (smettendo di seguirlo sulla linea rigorista). Il ministro è tranquillo: il suo "asse" con il Senatur oggi "verrà anzi rinsaldato". Perché un conto è dire "serve la riforma fiscale subito" (come gridano Maroni e Calderoli), un altro conto è dire "serve una riforma fiscale, ma non ci sono i soldi per farla" (come dirà Bossi).

Questa sera, in Lussemburgo, c'è poi il vertice europeo che dovrà decidere le sorti di Atene. Nuovi aiuti, ristrutturazione del debito, né gli uni né l'altra. Tremonti non fa previsioni: "Tutto è possibile, nulla è scontato". La preoccupazione è altissima. L'effetto domino è dietro l'angolo. Per questo la riunione di stasera è fondamentale, in vista della riapertura dei mercati di domani, e più ancora del Consiglio Europeo di giovedì prossimo, quando la questione greca sarà all'ordine del giorno del vertice dei capi di Stato e di governo, e si tratterà di stringere ancora di più i cordoni della borsa, con buona pace del Cavaliere che si era illuso di convincere Sarkozy a chiedere un allentamento dei vincoli delle leggi di stabilità dei paesi membri nei prossimi due anni. Scorciatoie che solo la disperazione irresponsabile di Berlusconi può considerare ancora possibili, in un'Eurozona tormentata dal dissesto dei debiti sovrani e perciò tornata al centro degli attacchi della speculazione internazionale.

Come uscire da questa congiuntura, che somma in un'algebra impossibile l'urgenza di un forte stimolo interno con la cogenza di un fortissimo vincolo esterno? Tremonti non ha dubbi. E tanto a Pontida, quanto a Lussemburgo, offre la stessa risposta, che rimanda alla Legge di Stabilità e al Piano Nazionale di Riforma: "La politica di rigore fiscale non è un'opzione, non è temporanea, non è conseguenza imposta da una congiuntura economica negativa, ma è invece "la" politica necessaria e senza alternative per gli anni a venire". La linea del governo non può cambiare: non c'è spazio per una riforma fiscale generale, né tanto meno per un calo immediato delle aliquote Irpef. L'Italia deve garantire in tutti i modi "il rispetto dei vincoli sull'indebitamento netto e sul rapporto debito/Pil". Dunque, ancora una volta, Tremonti non si sposta dalla sua linea del Piave: né manovre in deficit, né misure che ci allontanano dal pareggio di bilancio.

L'altolà di Moody's aiuta la resistenza del ministro dell'Economia. Tremonti si aspettava una mossa del genere. La considera "un riflesso generalizzato della crisi greca, più che una critica specifica alla tenuta dei conti italiani". E dunque "investe allo stesso modo tutti i paesi dell'Eurozona", sia pure con un'intensità diversa. "E' una fase critica e delicatissima per tutti". Ma non c'è dubbio che per Paesi come la Spagna e l'Italia (dopo la diffusione della crisi tra Irlanda, Grecia e Portogallo) lo sia ancora di più. L'avvertimento dell'agenzia di rating, secondo la lettura che se ne da a Via XX Settembre, nasce da qui. "La tensione sugli spread di questi giorni riguarda tutta la struttura dei titoli di Eurolandia, non certo solo quelli italiani".

L'Italia, da questo momento, torna ad essere un sorvegliato speciale. Ed è per questo che Tremonti, adesso, è più che mai irremovibile sulla disciplina di bilancio. E punta a lanciare un segnale ancora più netto di rigore. Il segnale è appunto "l'anticipo della manovra da 40 miliardi". Un altro schiaffo alla strategia berlusconiana, che voleva una "scossa" espansiva subito, fatta di sgravi fiscali massicci, e la "stangata" rinviata (semmai) all'autunno. Il ministro inverte l'ordine: prima dell'estate "l'impianto dell'intera manovra che dovrà portarci al pareggio di bilancio nel 2014 dovrà avere una struttura di legge". Dunque entro luglio conosceremo i contenuti della legge delega sulla riforma fiscale e i sacrifici necessari qui ed ora, e poi nell'arco dei prossimi due anni. Questione di giorni. Passata la verifica (sempre ammesso che passi) dalla settimana prossima Tremonti conta di portare i primi provvedimenti in Consiglio dei ministri, per arrivare alla discussione e al via libera del Parlamento prima della pausa di agosto.

Il solco è già tracciato, secondo il ministro dell'Economia. "E' il Piano Nazionale per la Riforma. Quello è il nostro "palinsesto".
Nelle prime cinque pagine c'è scritto cosa dobbiamo fare per arrivare al pareggio di bilancio. E a pagina 6 c'è scritto cosa dobbiamo fare per portare a regime una seria riforma fiscale e assistenziale, basata sulla progressività, sulla solidarietà, sulla semplicità. Tarata sulla riduzione del numero sterminato di regimi fiscali di favore, almeno 400, e sul modello tedesco, che non è quello dello Stato costruttivista, che predetermina a tavolino le detrazioni e le deduzioni. Questo è il documento che abbiamo firmato in Europa. Questo è il patto che dobbiamo onorare. Non ci sono alternative". Il messaggio al Cavaliere, ancora una volta, è più chiaro che mai. Resta un'ultima questione, che tuttavia è cruciale sul piano del giudizio politico. Se adesso anche l'Italia rischia la tragedia greca, come dimostra l'allarme di Moody's, allora è un'intera politica economica che in questi tre anni è clamorosamente fallita. E di questo tutti, nello sgangherato "dream team" berlusconiano, portano allo stesso modo la loro quota di responsabilità. Questo governo ha tamponato il deficit, ma ha fatto riesplodere il debito, e ha dilapidato il tesoretto dell'avanzo primario. Il Paese non ha conosciuto vero né rigore contabile, né meno che mai vera crescita economica. Accorgersene, oggi, è una colpa etica imperdonabile. E rimediare, ormai, è una scommessa politica non più credibile.

m.giannini@repubblica.it
 

(19 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #198 inserito:: Luglio 07, 2011, 09:42:59 am »

L'OPINIONE

La sinistra senza coraggio

L'astensione del Pd alla Camera sulla soppressione delle province è stato un errore imperdonabile, che significa voltare le spalle al "movimento invisibile" che ha votato alle amministrative e ai referendum

di MASSIMO GIANNINI


IMMERSA nella nube di "cupio dissolvi" che troppo spesso la acceca, la sinistra ha perso una formidabile occasione. Astenersi alla Camera, nel dibattito sul disegno di legge costituzionale per la soppressione delle province, è stato un errore imperdonabile. È come se l'opposizione, dopo aver trovato un prorompente e promettente varco politico dentro la società italiana che ha votato alle amministrative e ai referendum, gli avesse improvvisamente e inopinatamente voltato le spalle.

Dilettantismo? Opportunismo? Masochismo? Forse tutte e tre le cose. Sta di fatto che la politica, come la vita, è attraversata da fasi. L'esito della doppia tornata elettorale di maggio e di giugno imponeva una scelta inequivoca, che rendesse manifesta la capacità della sinistra di saper "leggere" la fase, e di saperla cogliere con tempestività e mettere a frutto con intelligenza.

La fase suggerisce l'esistenza di un'opinione pubblica sempre più stanca delle menzogne di un governo mediocre e inaffidabile, e sempre più stufa delle inadempienze di una "Casta" ricca e irresponsabile. Il ddl sull'abolizione delle province era la prima opportunità utile, offerta soprattutto al Partito democratico, per dimostrare di saper stare "dentro la fase".

C'era in ballo una ragione tattica, innanzi tutto. Tra molti mal di
pancia, l'altroieri il Pdl e la Lega hanno votato contro il testo proposto dall'Idv, rinnegando l'ennesima promessa tradita della campagna elettorale del 2008. La soppressione delle province era nel programma di governo del centrodestra, che ora se la rimangia allegramente, non solo rinunciando a cancellare le province esistenti, ma creandone di nuove. Sbarrargli la strada con un voto compatto di tutte le opposizioni avrebbe significato una quasi certa vittoria parlamentare, una clamorosa sconfitta della resistibile armata forzaleghista e un palese disvelamento delle sue contraddizioni interne.

Ma c'era in ballo soprattutto una ragione strategica. Il "movimento invisibile" che attraversa il Paese (secondo la felice metafora di Ilvo Diamanti) invoca da tempo un sussulto di dignità dall'establishment. Un taglio credibile ai costi della politica (tanto più di fronte all'ennesima burla prevista sul tema dalla manovra anti-deficit da 40 miliardi) resta uno dei temi più sensibili per una quota crescente di opinione pubblica, che subisce con disagio una condizione sociale sempre più dura e insicura e reagisce con indignazione di fronte ai privilegi sempre più intollerabili delle classi dirigenti. Auto blu, aerei blu, stipendi blu, pensioni blu. Tutto è blu, nel meraviglioso mondo del Palazzo.

Gli italiani chiedono alla politica efficienza, produttività, equità. Le misure appena varate dal ministro del Tesoro non gli offrono nulla di tutto questo. L'abolizione delle province era invece il primo test, sia pure collocato su un piano parzialmente diverso, per dare una risposta a questa domanda degli italiani. Il Pd quella risposta gliel'ha negata. E non ha capito che cogliere un "attimo" come questo è il modo migliore per evitare che monti ancora l'onda dell'antipolitica. È il metodo più efficace per contenerla, senza lasciarsi travolgere e poi essere costretti a subirla e a inseguirla. Com'è successo tante volte alla sinistra, dai girotondi di Nanni Moretti ai raduni di Beppe Grillo.

Ai riformisti non si richiede l'agio di lasciarsi "etero-dirigere" dalle masse, rifiutando la fatica necessaria di provare invece a guidarle. Il voto favorevole alla soppressione delle province poteva essere motivato senza cedimenti al populismo e al qualunquismo, perché la buona politica non deve mai ridursi a un'alzata di mano o alla x su una scheda. Il Pd aveva strumenti per inquadrare quel voto in uno schema di riordino complessivo dell'architettura istituzionale, dove non si punta a picconare a casaccio un sistema di autonomie locali codificato dalla Costituzione. Quello che non doveva fare è trincerarsi dietro la difesa di questo sistema, per giustificare la sua codina astensione. Ed è invece esattamente quello che ha fatto. Legittimando così i peggiori sospetti di chi vede in questa mossa malsana l'intenzione malcelata e maldestra di salvare le solite guarentigie e le solite poltrone.

Le province italiane sono 110. Costano al contribuente circa 17 miliardi di euro, cioè quasi la metà dell'importo della stangata a orologeria di Tremonti. Le presidenze di provincia occupate dal Pd sono 40, contro le 36 del Pdl, le 13 della Lega, le 5 dell'Udc. Tutti tengono famiglia. Ma se la sinistra non ha la forza e il coraggio di dimostrare agli italiani che non tutti sono uguali, la partita dell'alternativa non comincia nemmeno. Siamo fermi a Nenni: le piazze si riempiono, ma le urne si risvuotano.

(07 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/07/07/news/la_sinistra_senza_coraggio-18777976/?ref=HREA-1
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« Risposta #199 inserito:: Luglio 13, 2011, 08:27:23 am »

IL RETROSCENA

Tremonti: "Ai mercati segnale forte ok alla manovra in una settimana"

Il ministro scosso dalle inchieste: misure blindate non possiamo ammazzare il Paese.

In campo anche Bankitalia: sì al piano triennale ma deve essere rafforzato

di MASSIMO GIANNINI


ILLUDIAMOCI pure. Sforziamoci di credere che il vertice straordinario di questa mattina a Bruxelles tra le più alte cariche di Eurolandia (Von Rompuy, Barroso, Trichet e Juncker) non sia stato convocato per discutere del "caso Italia". Ma da venerdì sappiamo che l'allarme tricolore, in Europa, è ormai suonato. Sul piano internazionale, si tratta di capire se e come sarà possibile disinnescarlo. Sul piano nazionale, si tratta di evitare che il fallimento politico di un governo ormai impresentabile si trasformi nella bancarotta di un intero Paese. Non siamo alla soglia di un altro 1992, quando un'Italia schiantata dal peso del suo debito pubblico fu distrutta dalla speculazione.

Allora la lira uscì dallo Sme e fu pesantemente svalutata, e il governo Amato impose alla nazione una cura da quasi 100 mila miliardi di allora, con tanto di "scippo" notturno sui depositi bancari. Ma da allora ad oggi la differenza più rilevante riguarda solo l'esistenza dell'euro, che finora ci ha salvato da un collasso sistemico. Per il resto, il debito ha ricominciato a salire, Berlusconi è il premier più screditato dell'Unione e nella sentenza d'appello sul Lodo Mondadori, la Corte lo ha giudicato ufficialmente colpevole (ancorché prescritto) di aver costruito il suo impero televisivo-informativo comprando una sentenza attraverso una tangente di 400 milioni di lire pagata ad un giudice. E la sua maggioranza è un esercito in disfacimento, mascariato da un manipolo di ministri litigiosi e parlamentari
inquisiti. L'economia affonda: crescita zero, occupazione zero, competitività zero.

In questo quadro sconfortante, l'unica speranza di evitare il disastro, già dalla riapertura dei mercati di questa mattina, è affidata a una manovra da 40 miliardi che dovrebbe portarci al pareggio di bilancio entro il 2014. E' una manovra piena di buchi neri, affidata per buona parte a una legge delega sul fisco di cui non si conoscono i tempi e non si capiscono i contenuti. Ma sul piatto non c'è nient'altro. E allora tanto vale ingoiare questa minestra riscaldata e un po' rancida. Nella speranza che basti a placare la fame degli speculatori globali.

Chi ha davvero a cuore i destini del Paese è ben consapevole della drammaticità del momento. E si sta muovendo, per mettere in sicurezza l'impegno, sottoscritto con la Ue, di raggiungere il pareggio di bilancio nel prossimo triennio. Il "triangolo istituzionale" che opera, in momenti come questo, conta su due lati solidi. Il primo è il Quirinale. In queste ore il presidente Napolitano sta rafforzando la sua moral suasion, già avviata nei giorni scorsi, per richiamare tutti "al senso di responsabilità". Già venerdì scorso, nelle stesse ore in cui partiva sui mercati l'attacco ai titoli italiani, a Loveno di Menaggio sul Lago di Como, Napolitano aveva compreso i rischi che il Paese stava correndo dalle parole sussurrategli dal "collega" Christian Wulff, presidente della Repubblica federale tedesca: "Non dovete desistere dal rigore; quando ero presidente della Bassa Sassonia ho tartassato i miei elettori, che volevano inseguirmi con il forcone. Ma alla fine mi hanno ringraziato...".

All'Italia è richiesto lo stesso sacrificio. Per questo il presidente della Repubblica ha avviato un giro di consultazioni a tutto campo. "Maggioranza e opposizione devono concordare sulla necessità di conseguire l'obiettivo del pareggio di bilancio. Voglio che questo obiettivo non sia messo in discussione da nessuna parte politica...". Le risposte, per ora, sono confortanti. Bersani e Casini, con il "patto di Bologna", sono pronti a fare la loro parte. Di Pietro rafforza il suo nuovo profilo "moderato", dichiarandosi disponibile a collaborare.

Il secondo lato solido del triangolo è la Banca d'Italia. Chi parla in queste ore con gli uomini di Via Nazionale ne trae indicazioni preziose. Mario Draghi e il direttorio partono dalla premessa che quanto sta accadendo sui mercati ha un'origine nelle incertezze dei leader europei di fronte alla crisi della Grecia. Troppe esitazioni sulla gestione degli aiuti, troppe indecisioni sul coinvolgimento o meno dei privati intorno al "bailout" per Atene. Ma il governatore e la sua squadra non si nascondono che il problema specifico dell'Italia esiste eccome. La rissosità e l'instabilità della maggioranza sono un richiamo forte per la speculazione. In più, cominciano a venire al pettine i nodi della manovra. Il pareggio di bilancio è un "imperativo categorico", ed averlo riconfermato ha un significato forte. Ma ora, si dice a Palazzo Koch, la manovra andrà rivista e rimpolpata al più presto, e con misure credibili, che diano garanzie sulla reale consistenza degli interventi di risanamento. In caso contrario, sarà difficile resistere all'assalto delle "locuste". Venerdì scorso siamo andati a un passo dal baratro, e Via Nazionale ha dovuto muoversi per evitarlo. Ma che succederà nei prossimi giorni? Domani ci sarà un'asta dei Bot annuali da 6,7 miliardi. Giovedì sarà un test più importante, con un collocamento di Btp decennali e quinquennali. L'agenda del debito pubblico è impegnativa, e culminerà a settembre con tre aste di titoli a medio lungo termine, per importi superiori ai 20 miliardi. L'auspicio di Via Nazionale è che ci si arrivi con la manovra pluriennale approvata, e, se possibile, rinforzata dal punto di vista qualitativo.

Quello che rende improbabile la speranza, tuttavia, è la debolezza assoluta del terzo lato del triangolo: il governo. Il presidente del Consiglio, dopo il comunicato di venerdì scorso successivo al pranzo con il ministro del Tesoro, è di nuovo scomparso dalla scena. Ha evitato di intervenire telefonicamente ad una delle solite iniziative domenicali della sua maggioranza. E per certi versi è stato un bene: invece di rassicurare il Paese, avrebbe dato fuoco alle polveri, attaccando a testa bassa i giudici per la sentenza esemplare che lo certifica "corruttore" e lo obbliga a pagare 560 milioni alla Cir. Il suo non è dunque un gesto di responsabilità, ma solo il segno di una disperazione dalla quale non sa come uscire. Resta Giulio Tremonti, allora, a difendere la "sua" manovra. Assediato sulla stangata a orologeria, accusato di aver tenuto al suo fianco come collaboratore quel Marco Milanese di cui ogni giorno si scoprono nuovi malaffari, sospettato di aver abitato nella casa di quest'ultimo, con un affitto pagato non si sa a che titolo, Tremonti è amareggiato. Molto più di quanto non dicano le sue esternazioni pubbliche. "Non ho nulla da temere. Non sono mai stato sfiorato da uno schizzo di fango...". E anche sulla manovra da 40 miliardi si mostra fiducioso: "Chi ci chiede di fare di più, o di anticipare ad oggi le misure previste per il prossimo triennio, non ha capito nulla. Se lo facciamo ci suicidiamo: ammazziamo il Paese. La verità è un'altra. Ai mercati daremo un segnale forte. E sa qual è? Il fatto che la manovra è blindata, e sarà approvata dal Parlamento in una settimana. Una cosa che nella storia d'Italia non è mai accaduta...".

Anche Tremonti confida insomma nel "senso di responsabilità" al quale fa appello Napolitano. Ma resta un'incognita, gigantesca. Al di là del cordone sanitario imbastito intorno al Paese dai suoi due più autorevoli organi di garanzia, questo governo non è credibile. Non lo è mai stato. Ma oggi è ancora peggio. Anche il ministro che ha tentato in modo colpevolmente tardivo di incarnare la virtù del rigore, con l'inchiesta di Napoli appare umanamente provato e politicamente indebolito. Lui continua a resistere, forte dell'unica sponda alla quale si può appoggiare, cioè quegli stessi mercati che da "filosofo" ha sempre esecrato: "Venerdì, con l'attacco all'Italia, si è toccato con mano qual è il "costo politico" di Giulio Tremonti: dimissionatemi pure, e vedrete cosa succede ai titoli di Stato...". Probabilmente ha ragione lui. Ed è per questo che Napolitano e Draghi esigono che questa manovra, pur con tutti i suoi difetti, arrivi al traguardo senza troppi danni. Ma una politica non si può reggere sui ricatti. E c'è anche chi obietta che la manovra, con la sua irrinunciabilità e la sua intangibilità, sia un'arma spuntata. Vista la dinamica del venerdì nero, lo sostiene più di un operatore di Borsa: "Ma quale manovra da salvare! Se Berlusconi saltasse domattina, sui mercati sarebbe una festa, e lo spread crollerebbe al minimo storico ...". È sicuramente un paradosso. Ma rende bene l'idea di quale sia la credibilità di questo governo presso la business community.

(11 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #200 inserito:: Luglio 21, 2011, 05:49:07 pm »

IL COMMENTO

Lo strappo finale

di MASSIMO GIANNINI


CHIUSO nella trincea di Palazzo Grazioli, ormai trasformata in Palazzo d'Inverno, il premier incassa la sconfitta più amara. In tre anni di sfascismo politico e processuale, la Lega non lo aveva mai lasciato solo sul fronte della giustizia. Aveva coperto ogni sua legge-vergogna, ogni sua intemperanza verbale e costituzionale. Ma con il voto su Papa, il Carroccio consuma lo strappo finale. Il Cavaliere rimane davvero solo. Il moribondo governo Berlusconi-Bossi non esiste più. Resiste solo l'inverecondo sub-governo Berlusconi-Scilipoti.

Il primo dato politico forte, che emerge dal doppio voto segreto dei due rami del Parlamento, è esattamente questo. Il Cavaliere esce a pezzi dall'ordalia di Montecitorio, dove le camicie verdi del Senatur, dopo un penoso tira e molla durato una settimana, sparano "fuoco amico" contro l'avvocato pidiellino sotto accusa nell'inchiesta sulla P4.

Sono voti pesantissimi. Contraddicono clamorosamente gli appelli lanciati a più riprese dal premier e dalla sua claque. Svelano palesemente l'ormai insostenibile cortocircuito nel quale si avvita la strategia della Lega. La fedeltà personale di Bossi nei confronti di Berlusconi non può più coesistere con l'irriducibilità politica di una base che invoca ad alta voce mani libere. Al Grande Capo della tribù padana, stanco e debilitato, non basta più il carisma sacrale e autocratico per spiegare le ragioni di un'alleanza asimmetrica, dalla quale il Carroccio incassa ormai molti più perdite che profitti.

Esiste un "fattore monetine". La Lega, e l'intera opposizione, ha fiutato il clima che si respira nel Paese, attraversato da una vena antipolitica che (come avvenne ai tempi di Craxi davanti al Raphael) non avrebbe perdonato alla "Casta" l'ennesima guarentigia. In un'Italia bastonata dalla manovra di Tremonti e indignata per i privilegi della nomenklatura che quella stessa manovra ha risparmiato, il no all'arresto di Papa sarebbe stato intollerabile. O per lo meno lo sarebbe stato per i leghisti, che ai tempi di Tangentopoli, fomentati dagli elettori secessionisti delle valli alpine, agitavano i cappi nell'aula di Montecitorio.

La Lega è dunque tornata alle origini. Ma la frattura con il Pdl su Papa è in realtà solo un'altra tappa, in un'escalation di autonomizzazione che ormai abbraccia l'intero spettro dell'azione di governo: dai rifiuti di Napoli alle missioni all'estero.

L'unico a non aver compreso la fase, e a ostinarsi a riscrivere la storia a suo abuso e consumo, è il presidente del Consiglio. Urla alla luna, gridando il suo sdegno contro il giacobinismo delle toghe e contro "l'inaccettabile deriva delle manette" dalle quali la politica si deve difendere.

La sua ossessione lo tormenta. Lo costringe alle solite nefandezze, come il rilancio dell'inaccettabile legge-bavaglio sulle intercettazioni. Lo induce alle solite menzogne. In un Paese squassato dagli scandali (che vanno dalla Struttura delta alla P4, dalla collusione con la mafia alla corruzione della Guardia di Finanza) il problema non è l'azione penale della magistratura, ma il malaffare della politica. Stigmatizzare la prima, senza vedere il secondo, è un'operazione di pura disonestà intellettuale.

Esiste una "questione morale". La si può chiamare anche in un altro modo, per non scomodare una "formula" impegnativa come quella che coniò a suo tempo Enrico Berlinguer. Ma non la si può nascondere. Lacera il centrodestra, e investe anche il centrosinistra, come dimostrano le inchieste su Pronzato, su Morichini, ora anche su Penati.

Per questo ciò che è accaduto al Senato, con il voto segreto parallelo sulla richiesta d'arresto di Alberto Tedesco, deve far riflettere. Se è vero che a votare no, nel segreto dello scranno, è stata anche una parte dei senatori del Pd (in dissenso con la linea del partito concordata sia a Palazzo Madama sia a Montecitorio) allora c'è davvero poco da esultare. Il Partito democratico deve far chiarezza al suo interno. In tutti i sensi. La trasparenza dei comportamenti, sia in Parlamento che fuori, è materia non negoziabile. E comunque non trattabile con le furbizie o le geometrie variabili tra un ramo e l'altro delle due Camere.

In una prospettiva post-berlusconiana, proprio il tema delle geometrie variabili fa emergere il secondo dato politico forte, dello show-down di ieri a Montecitorio. I voti delle opposizioni, sommati a quelli in libera uscita della Lega, hanno prodotto un risultato numerico significativo: 319. Più o meno la stessa "quota" con la quale il Cavaliere governa dal 14 dicembre dell'anno scorso, cioè da quando Fini ruppe il patto e Futuro e Libertà cambiò schieramento.

È nata un'altra maggioranza? Siamo ai primi vagiti di quell'"alleanza costituzionale" che, mettendo insieme Pd, Terzo Polo e Lega, potrebbe sostenere un governo di emergenza nazionale? È difficile capire se, oltre all'ipotesi aritmetica appena dimostrata, possa reggere alla prova anche l'ipotesi politica. Ed è altrettanto difficile capire oggi quale scenario sia migliore per il prossimo autunno, tra un governo di salute pubblica e le elezioni anticipate. L'unica cosa che non può reggere, con assoluta certezza, è il governo Berlusconi-Scilipoti. L'Italia, nel mirino della speculazione internazionale, non se lo può più permettere.

(21 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #201 inserito:: Luglio 28, 2011, 11:54:59 am »


IL COMMENTO

Lo spirito del '92 che serve al Paese

di MASSIMO GIANNINI

COM'E' già successo nell'Italia del '92, in uno dei tornanti finali della Prima Repubblica, di fronte al collasso del sistema politico tocca alle parti sociali propiziare la "svolta". Oggi la storia si ripete. Di fronte alla crisi irreversibile del berlusconismo, che precipita il Paese nella palude, capitale e lavoro si uniscono e invocano "discontinuità".

Nonostante in Borsa e sui mercati piovano pietre sempre più pesanti, l'irresponsabile propaganda governativa continua a ridimensionare la portata degli attacchi speculativi contro i titoli della nostra piazza finanziaria e del nostro debito sovrano. Di fronte a questa dissennata disinformazione di massa, il comunicato congiunto di tutte le forze della rappresentanza economica e sociale ristabilisce il "principio di verità". C'è un problema europeo di fragilità strutturale dei Paesi periferici. C'è un problema americano legato al rischio-default della nazione guida della produzione e degli scambi. Ma l'Italia, proprio l'Italia, è sotto attacco, e non per caso. La sua economia non cresce, il suo debito non è sostenibile, e soprattutto la sua politica non è all'altezza del compito che la fase gli assegna: innescare un "immediato recupero di credibilità nei confronti degli investitori".

L'iniziativa straordinaria di questo "partito trasversale" dei ceti produttivi ha dunque un doppio significato. Un significato economico: dà la misura della drammatica emergenza che l'Italia sta attraversando. Un significato politico: mette in mora Berlusconi, e di fatto lo "liquida" in nome di un interesse generale che il suo governo non è più in grado di assicurare. Per questo serve una "discontinuità capace di realizzare un progetto di crescita del Paese", che garantisca "la sostenibilità del debito e la creazione di nuova occupazione".

Si potrà discutere a lungo sull'esegesi del termine. Ma evocare una "discontinuità", in questa congiuntura politica, vuol dire invocare la fine di questa disastrosa avventura berlusconiana, che sta scaricando sulla collettività un "costo" ormai proibitivo, tra manovre inique e recessive, differenziale tra Btp e Bund, e quindi aumento del costo del denaro per famiglie e imprese.
Come nel '92, le parti sociali esigono un cambiamento radicale. Propongono una "supplenza", sostituendo una politica che non ce la fa. In questa chiave va letto il rilancio di un grande "Patto per la crescita" che coinvolga tutte le forze in campo. Esattamente come accadde quasi vent'anni fa, quando gli accordi di luglio sul costo del lavoro tra Confindustria e sindacati risollevarono un Paese distrutto dalle macerie di Tangentopoli.

Ma sembrano proporre anche una "reggenza", alludendo a una politica che ce la può fare. Governo "tecnico", affidato a Mario Monti? Governo di "salute pubblica", affidato a Giuliano Amato? Governo di "emergenza nazionale", affidato a Giulio Tremonti? Non importano la "formula" e il "nome". Quello che importa è che la richiesta delle forze sociali è ormai in campo. E tutti i protagonisti della partita in atto dovranno tenerne conto.

Dovrà tenerne conto il ministro dell'Economia, che a questa "rete" di forze guarda con attenzione e che da questa stessa "rete" di forze è stato spesso sostenuto. Tremonti ha il dovere ormai irrinunciabile di sgombrare il terreno (se è davvero in grado di farlo) dagli equivoci e dalle ambiguità: a proposito dei suoi rapporti con Marco Milanese, del "mercato di nomine" organizzato dal suo ex braccio destro nelle aziende controllate dal Tesoro, del suo presunto "contributo" al canone d'affitto della casa di Via Campo Marzio.

E forse dovrà tenerne conto il presidente della Repubblica, che ha sempre mostrato una sensibilità particolare per tutto ciò che fibrilla e si muove nella società italiana. Napolitano certamente avrà già valutato la portata di questa mossa trasversale, che vede sigle e corpi intermedi, spesso in conflitto tra loro, stavolta riuniti sotto le stesse insegne, quelle della "responsabilità". Organi della rappresentanza che, in questi tre anni, hanno palesato un colpevole collateralismo gregario nei confronti del governo (a partire dalla Cisl di Raffaele Bonanni) e che oggi recuperano tra loro quell'autonomia cercata invano dentro il Pdl.

L'unico che non terrà conto di questa svolta, perché non ne condividerà i contenuti e non ne
accetterà le conseguenze, è Silvio Berlusconi. Il presidente del Consiglio, ancora ieri, era totalmente immerso nelle sue consuete "turbe" giudiziarie: la poltrona di ministro della Giustizia affidata al fedele deputato che nel 2001 presentò una vergognosa norma salva-Previti, l'ennesimo abuso di potere architettato con la legge sul "processo lungo" che deve evitargli una sentenza sul Ruby-gate. Mentre l'Italia cedeva sotto i colpi della speculazione internazionale, la Borsa bruciava 23 miliardi di capitalizzazione, l'allargamento degli spread oltre quota 300 punti ci caricava di un fardello ulteriore (a regime) di 48 miliardi di interessi sul debito, il premier inseguiva i suoi soliti fantasmi. La giustizia, le toghe, i processi... In questo abisso che si allarga, tra le preoccupazioni pubbliche degli italiani e le ossessioni private del premier, c'è la vera cifra del suo fallimento politico.
m.giannini@repubblica.it


(28 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #202 inserito:: Luglio 29, 2011, 09:30:01 am »

IL CASO

Tremonti: "Una stupidata quella casa ci andai perché mi sentivo spiato"

Le spiegazioni offerte dal ministro sulla discussa offerta di Milanese colpiscono l'intero sistema di potere berlusconiano.

Il titolare del Tesoro temeva di essere vittima di una guerra tra bande dentro la Finanza.

"In caserma non ero tranquillo: ero controllato, pedinato".

"Chi parla di evasione fiscale è in malafede: posso dimostrare l'assoluta regolarità del mio comportamento"

di MASSIMO GIANNINI


"LO RICONOSCO. Ho fatto una stupidata. E di questo mi rammarico e mi assumo tutte le responsabilità. Ma in quella casa non ci sono andato per banale leggerezza. Il fatto è che prima ero in caserma ma non mi sentivo più tranquillo. Nel mio lavoro ero spiato, controllato, pedinato. Per questo ho accettato l'offerta di Milanese...". Finalmente, dopo lunghi giorni di imbarazzi e di silenzi, ecco la versione di Giulio Tremonti, al culmine di un assedio che lo vede all'angolo da un mese, e che rischia di farlo cadere da un giorno all'altro. Non una banale giustificazione "tecnica". Ma una brutale ricostruzione politica che, se autentica, tocca il cuore del sistema di potere berlusconiano.

Il "partito degli onesti" è un grumo di malaffari pubblici e di rancori privati. Un ministro dell'Economia, che ha appena imposto agli italiani una stangata da 48 miliardi di euro, si può pagare l'affitto di casa in nero? In quale altra democrazia occidentale sarebbe pensabile un simile cortocircuito etico e politico? Impensabile, insostenibile.

E infatti Tremonti è nell'occhio del ciclone. Non solo le rivelazioni che si inseguono ogni giorno, dalle carte dell'inchiesta sulla P4 e sull'Enav. Non solo le opposizioni che chiedono conto, rimpallando sul centrodestra una "questione morale" che si vorrebbe invece intestata al solo centrosinistra. Ma anche il "fuoco amico" del Pdl, con Berlusconi che non risparmia i veleni, i suoi "volenterosi carnefici" che si prodigano a mescolarli e i giornali di famiglia che non smettono di inocularli nel circuito politico-mediatico.

Da settimane sulla graticola, Tremonti tenta ora di passare al contrattacco. Di cose da chiarire ce ne sono tante. Basta rileggere le ordinanze dei giudici e dei pm. Tra il ministro e il deputato del Pdl "c'è uno stretto e attuale rapporto fiduciario che prescinde dal ruolo istituzionale rivestito da Milanese": lo scrive il pm di Napoli Vincenzo Piscitelli. "Assolutamente poco chiari i rapporti finanziari tra Tremonti e Milanese": lo scrive il gip di Napoli, Amelia Primavera. E dunque: perché il ministro decise di andare ad abitare nella casa per la quale Milanese versava al Pio Sodalizio un canone d'affitto di 8.500 euro al mese? E perché Tremonti, su questo canone mensile, ha pagato una quota di 4 mila euro, in contanti?

"La cosa più giusta è quella che ha detto Bossi  -  osserva adesso il ministro, chiuso nel suo ufficio di Via XX Settembre - ho fatto una stupidata, e di questo mi assumo la responsabilità di fronte agli italiani". È stata dunque una "leggerezza", aver accettato la proposta di un suo collaboratore: usare il suo appartamento per le trasferte nella Capitale. Tremonti rimanda al suo comunicato del 7 luglio, quando provò a troncare sul nascere l'ennesimo "ballo del mattone" che fa vacillare il Pdl, dallo scandalo Scajola in poi. "La mia unica abitazione è a Pavia. Mai avuto casa a Roma. Per le tre sere a settimana che da più di 15 anni trascorro a Roma, ho sempre avuto soluzioni temporanee, in albergo o in caserma. Poi ho accettato l'offerta dell'onorevole Milanese. Da stasera, per ovvi motivi di opportunità, cambierò sistemazione". Questo diceva Tremonti, un mese fa. Ora ha cambiato sistemazione, appunto. Ma resta sulla sua coscienza la consapevolezza di aver commesso, appunto, "una stupidata". Comunque grave. Gravissima per un ministro.

Nonostante questo, Tremonti non accetta di passare per un disonesto o un evasore fiscale. "Chi parla di evasione fiscale è in malafede. Questa accusa non la posso accettare. Sono in grado di dimostrare in modo tecnicamente e legalmente indiscutibile l'assoluta regolarità del mio comportamento, e del mio contributo alle spese di quell'affitto". Non lo toccano le nuove carte uscite dall'inchiesta Enav, né la ricostruzione dell'imprenditore Tommaso Di Lernia, secondo il quale l'affitto della casa non lo pagava Milanese, ma un altro imprenditore, Angelo Proietti, che in cambio otteneva sub-appalti. "È una storia di cui non so nulla  -  commenta il ministro - non conosco quell'imprenditore indagato, non so nulla del contesto nel quale ha raccontato quei fatti".

Ma la novità clamorosa, che emerge dallo sfogo di Tremonti sull'intera vicenda, non riguarda tanto le spiegazioni "formali" sulla quota d'affitto versata a Milanese, quanto piuttosto le ragioni "sostanziali" che lo spinsero ad accettare il "trasloco". Tra le righe, il ministro accenna qualcosa, proprio nel primo comunicato del 7 luglio. "Per le tre sere a settimana che da più di 15 anni trascorro a Roma, ho sempre avuto soluzioni temporanee, in albergo o in caserma. Poi ho accettato l'offerta dell'onorevole Milanese...". Questo è il punto cruciale. Per molti anni, e per l'intera legislatura 2001-2006 in cui è ministro, Tremonti dorme "in albergo o in caserma". Ma a un certo punto, dal febbraio 2009, decide di "accettare l'offerta dell'onorevole Milanese". Cosa lo spinge a farlo? Non il risparmio. Anzi, l'appartamento di Via Campo Marzio gli costa, mentre l'albergo lo paga il ministero, e la caserma la paga la Guardia di Finanza. E allora? Perché Tremonti decide di traslocare?

"La verità è che, da un certo momento in poi, in albergo o in caserma non ero più tranquillo. Mi sentivo spiato, controllato, in qualche caso persino pedinato...". Eccolo, il "movente" che il ministro alla fine rende pubblico, dopo oltre un mese di tiro al bersaglio contro di lui. Ecco la "bomba", che Tremonti fa esplodere nel nucleo di uno scandalo che non è suo (o almeno non solo suo) ma semmai dell'intero sistema di potere berlusconiano. L'aveva fatto capire lui stesso, il 17 giugno scorso, nel colloquio con il pm Piscitelli che lo aveva ascoltato come testimone. In quell'occasione Piscitelli fa sentire al ministro un'intercettazione telefonica (registrata nell'inchiesta sulla P4 di Bisignani) tra Berlusconi e il Capo di Stato Maggiore Michele Adinolfi. Ed è allora che  -  come si legge nell'ordinanza  -  "il ministro riferisce dell'esistenza di "cordate" nella Guardia di Finanza, che si sono costituite in vista della nomina del prossimo Comandante Generale, precisa come alcuni rappresentanti di quel Corpo siano in stretto contatto con il presidente del Consiglio".

Dunque, nella guerra per bande dentro la GdF, Tremonti sa da tempo di essere nel mirino di una "banda". In particolare, di quella che riferisce direttamente al premier. Lo dice lui stesso a Berlusconi, in un colloquio di cui parla proprio il generale Adinolfi, a sua volta interrogato da Piscitelli il 21 giugno (quattro giorni dopo il ministro). "Berlusconi  -  racconta il generale  -  mi mandò a chiamare, dicendomi che Tremonti gli aveva fatto una "strana battuta" allusiva, paventando che tramassi ai danni del ministro. Chiamò Tremonti davanti a me e lo rassicurò". Evidentemente quelle rassicurazioni non servono a nulla. "Vittima" di questa guerra per bande fin dal 2009, quando cominciano i primi dissapori interni alla maggioranza e il Cavaliere comincia a sospettare degli "inciuci" tremontiani con la Lega e delle sue mire successorie dentro il Pdl, il ministro dell'Economia non si sente "tranquillo". Al contrario, si sente "spiato". E ora lo dice, apertamente: "In tutta franchezza, non me la sentivo più di tornare in caserma. Per questo, a un certo punto, ho accettato l'offerta di Milanese. L'ospitalità di un amico, presso un'abitazione che non riportava direttamente al mio nome, mi era sembrata la soluzione per me più sicura".

Una scusa estrema, e tardiva, di un uomo disperato? Difficile giudicare. Ma questa è la ricostruzione di Tremonti. Se è vera, siamo al nocciolo duro del "metodo di governo" berlusconiano, che incrocia le P3 e le P4, la Struttura Delta e la "macchina del fango", gli apparati dello Stato e il malaffare economico. "Non accetterò che si usi contro di me il metodo Boffo", ha detto il ministro al Cavaliere, in un drammatico faccia a faccia dei primi di giugno, quando gli apparati del premier lo lavoravano ai fianchi, per convincerlo a dimettersi. Forse siamo ancora dentro quel film. Se è così, è più brutto e più serio della pur imperdonabile "stupidata" di Tremonti.

(28 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #203 inserito:: Agosto 11, 2011, 12:27:13 pm »

IL COMMENTO

Il risveglio sul Titanic

di MASSIMO GIANNINI

SE QUELLO che si sta consumando sotto i nostri occhi in questo agosto di tregenda non fosse un vero dramma, verrebbe da dire che siamo ancora una volta alle "comiche finali". Un governo senza storia, guidato da un premier senza vergogna, insegue un obiettivo senza speranza. Ritrovare la forza di una politica e la dignità di una leadership, per imporre al Paese la cura dolorosa ma necessaria senza la quale c'è solo l'Apocalisse. Questo tentativo, continuamente inseguito e continuamente fallito, marchia a fuoco la via crucis degli incontri tra la risibile "armata berlusconiana" e le parti sociali. Li rende ogni volta velleitari, deludenti e dunque alla fine tragicamente dannosi.

"Negli ultimi cinque giorni tutto è precipitato", sostiene preoccupato Gianni Letta. Peccato che il governo non se ne sia accorto. L'effetto della "scoperta" fatta dal plenipotenziario del Cavaliere è quanto meno surreale. Ricorda il ministro della Propaganda iracheno, che diceva davanti alle telecamere "We are in controll" mentre i tank americani sullo sfondo varcavano le porte di Bagdad. Qui la crisi ha varcato i confini dell'Italia da almeno tre anni. E nessuno se n'è accorto, se non i cittadini che hanno subito una caduta dei redditi, dei consumi, dell'occupazione. Non se n'è accorto Berlusconi, convinto da sempre che "la nave va" perché gli italiani fanno la fila sulle autostrade nei weekend, riempiono i ristoranti la sera e comprano tanti cosmetici. Analisi dotta, da "statista" e uomo d'azienda, che dimostra di sapere bene "come funziona l'economia". Non se n'è accorto Tremonti, che dopo aver intravisto la "tempesta perfetta" all'inizio del 2008, invece di fronteggiarla si è scansato, parlando a lungo di filosofia, salvo informarci alcuni anni dopo che sul Titanic affondano tutti, e non si salvano nemmeno i passeggeri di prima classe. Analisi "colta", da commercialista e uomo di mondo, che dimostra di sapere bene come si deprime un'economia.

E adesso siamo qui. Con il presidente del Consiglio che dichiara che bisogna anticipare il pareggio di bilancio al 2013, ma non sa dire perché siamo arrivati a questo punto, come contiamo di uscire dalla tormenta e chi pagherà il conto finale. Con un ministro del Tesoro che annuncia che "la manovra va ristrutturata", ma non sa spiegare alle parti sociali dove era sbagliata quella vecchia e come cambierà quella nuova. Un raro esempio di inettitudine, riscrivere una manovra finanziaria due settimane dopo averla varata, e averci spiegato che erano ridicole le critiche di chi lamentava il folle rinvio del risanamento del deficit al biennio elettorale 2013-2014, ed erano assurdi i dubbi di chi temeva una risposta negativa dei mercati e una risposta perplessa della Ue e della Bce. "La manovra è perfetta e strutturale, ed è esattamente come ce la chiede l'Europa": questo era il "dogma", alla fine di luglio. Si è visto il risultato. Governo italiano commissariato dal "direttorio" Merkel-Sarkozy, lettera-capestro della Banca centrale europea sulle misure urgenti da varare subito, oltre 48 miliardi di aumento del costo del debito come risultato dell'impennata degli spread, quasi 80 miliardi bruciati in Borsa come risultato della perdita di capitalizzazione delle nostre banche.

Questa improbabile "coppia di fatto", un premier sfiancato dagli scandali privati e dal discredito internazionale e un ministro fiaccato dagli intrighi immobiliari e dai nemici interni, azzarda ora un decreto straordinario per il 18 agosto. Mossa disperata, ma purtroppo tardiva, ambigua e poco credibile. Mossa tardiva, perché era chiaro a tutti già un mese fa che la speculazione, dopo aver fatto le prove generali su Irlanda e Grecia, affilava le armi per un'estate di fuoco contro Eurolandia e i suoi debiti sovrani, e dunque sarebbe stato necessario lanciare subito, già allora, un segnale immediato sulla volontà di accelerare il pareggio di bilancio. Mossa ambigua, perché ora non si capisce davvero dove il governo voglia colpire. Berlusconi, ubriaco dei soliti fumi ideologici, non vuole introdurre nessuna "patrimoniale" perché "è una cosa di sinistra". Bossi, ebbro dei soliti vizi antropologici, non vuole misure sulla previdenza perché "le pensioni padane non si toccano". Tremonti, isolato e insultato da tutti, non sa più cosa toccare, se non i soliti ticket sanitari a carico dei soliti noti del ceto medio e basso. Tutti insieme, irresponsabilmente, non sanno far altro che aprire inutili tavoli. Un tavolo sul lavoro affidato a Sacconi, un tavolo sulle infrastrutture affidato a Matteoli, un tavolo sulle privatizzazioni affidato a Romani. Tutto precipita, intorno al Palazzo romano, e loro si siedono a chiacchierare senza dire nulla. Non un'idea concreta sui sostegni alla crescita economica, non una parola pratica sul taglio draconiano ai costi della politica.

Mossa non credibile, dunque, per tutte queste ragioni. E sia detto senza alcun compiacimento, ma al contrario, con tutta la preoccupazione imposta dalla fase. Nessuno può più giocare al "tanto peggio tanto meglio". L'opposizione non deve cedere alle derive "sfasciste", la Cgil non deve cedere alle pulsioni massimaliste (delle lacrime di coccodrillo piante adesso dalla Cisl e dalla Uil non vale nemmeno la pena di parlare, tanto è stato penoso il collateralismo di Bonanni e Angeletti in questi ultimi tre anni). Ma è evidente che questo governo non può farcela. Non è mai stato all'altezza del compito in tempi normali. Figuriamoci oggi, in tempi emergenziali. Si obietta che una "discontinuità politica in questo momento sarebbe troppo rischiosa. Ma anche questo, ormai, è tutto da dimostrare. E comunque oggi c'è in ballo molto di più del destino di un governo. In gioco, qui come nel resto d'Europa, c'è il risparmio e il lavoro delle famiglie, il mercato e gli investimenti delle imprese. La "posta" è l'Italia. Una posta troppo alta e troppo importante, per lasciarla ancora nelle mani di Berlusconi, Bossi, Tremonti e Scilipoti.
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« Risposta #204 inserito:: Agosto 13, 2011, 11:16:39 am »

IL COMMENTO

La manovra della disperazione

di MASSIMO GIANNINI

IL GOVERNO della dissipazione ha infine raffazzonato la manovra della disperazione. Come i peggiori esecutivi andreottiani della Prima Repubblica, costretti a turare in extremis gli allegri buchi di bilancio, buttavano giù in tutta fretta i decretoni di Natale, così anche il gabinetto di guerra berlusconiano, obbligato dal direttorio franco-tedesco e dal board della Banca centrale europea, improvvisa il suo decretone d'agosto. Quarantacinque miliardi "aggiuntivi" di tasse e di tagli, dicono Berlusconi e Tremonti, per accentuare il peso simbolico dello "sforzo" di fronte alla business community. In realtà si tratta di misure che solo in minima parte si sommano, mentre in massima parte si integrano e anticipano la "prima rata" di norme, già evanescenti nel merito e urticanti nel metodo, varate a metà luglio. È il prezzo da pagare all'improvvisazione politica, come i fatti di questi tre anni dimostrano, e non certo alla speculazione finanziaria, come la vulgata governativa si affanna a far credere.

È un prezzo altissimo. Nella quantità: una manovra complessiva che, sia pure su base pluriennale, si avvicina ai 50 miliardi di euro, non ha precedenti nella storia repubblicana. Nella qualità: una stangata che, sia pure con un qualche apparente rispetto del principio di progressività del prelievo, ruota per tre quarti sull'aumento della pressione fiscale, ha precedenti forse solo nella storia sudamericana. Per fortuna che questo dice di essere il governo che "non mette le mani nelle tasche degli italiani". Berlusconi e Tremonti continuano a ripetere che "in cinque giorni tutto è cambiato e tutto è precipitato". Sappiamo bene che non è così. Tutto sta cambiando dall'inizio della crisi globale del 2007, con il crac dei mutui subprime americani. Tutto sta precipitando dall'inizio della crisi europea del 2010, con il crac del debito irlandese e poi di quello greco. Tutto sta precipitando dall'inizio della crisi occidentale del 2011, con il fantasma della double dip recession che soffoca Stati e mercati. Non averlo capito per tempo è la colpa più grave e imperdonabile che il governo italiano si porta dietro. E che ora si scarica sugli italiani, già provati da una caduta del reddito, del risparmio e dell'occupazione senza paragoni con il resto di Eurolandia, e adesso obbligati a questo drammatico supplemento di sacrifici.

La vera e unica novità di questa stangata è il cosiddetto "contributo di solidarietà" per i redditi più alti. Una misura che, nella forma, vorrebbe ricordare l'eurotassa introdotta dal governo Prodi nel '96 per raggiungere il traguardo di Maastricht. Ma nella sostanza la nuova norma è mal congegnata, e alla fine ha il solito sapore "di classe", come tutte le scelte fatte dai liberisti alle vongole cresciuti nell'allevamento di Arcore. La scelta di aggredire l'Irpef penalizza soprattutto il lavoro dipendente. La soglia scelta per il doppio prelievo fa sì che a pagare siano pochi "super-ricchi" (511 mila italiani, cioè l'1,2% dei contribuenti secondo la Cgia di Mestre). E il tetto scelto per i lavoratori autonomi (55 mila euro l'anno) fa sì che all'imposta straordinaria sfuggirà la stragrande maggioranza di chi già evade abbondantemente le tasse (e infatti dichiara in media poco meno di 30 mila euro l'anno). Dunque, l'intenzione del governo poteva anche essere buona, ma la realizzazione è pessima sul piano pratico, e discutibile sul piano etico.

Per il resto la stangata è una miscela caotica di vuoti e di pieni, che conferma l'impianto sostanzialmente regressivo seguito dalla maggioranza in questi tre anni. Da un lato, il carniere del rigore è sicuramente pieno per quanto riguarda il ceto medio, che sopporta da solo quasi l'intero onere del risanamento. È ceto medio il pubblico impiego che, ancora una volta, è il perno ideologico intorno al quale ruota la politica economica del centrodestra: dal Tfr agli straordinari, i dipendenti pubblici sono anche oggi la vittima sacrificale di una coalizione che si accanisce senza pietà contro le categorie che non la votano. È ceto medio l'universo dei pensionati, che tra disincentivi all'anzianità e anticipo dell'età delle donne, subisce un altro colpo necessario ma pesante, perché non bilanciato da una degna politica attiva del Welfare. Dall'altro lato, il carniere del rigore è altrettanto pieno per quanto riguarda i ministeri e gli enti locali, che patiscono il danno più devastante perché accompagnato dalla beffa del federalismo, ormai un feticcio virtuale persino per Bossi. Dopo la mannaia indiscriminata dei tagli lineari, il colpo di scure su dicasteri, regioni e comuni si accelera rispetto alla tempistica già prevista nel pacchetto di luglio: nulla di nuovo, dunque, ma l'esito non potrà non essere l'aumento dei tributi locali e l'azzeramento dei servizi sul territorio. Se è vero che c'è da soffrire (ed è doveroso farlo, perché il Paese ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità e chi lo governa ha fatto di tutto per non farglielo capire) è anche vero che non possono soffrire sempre gli stessi.

Ma quello che abbaglia di più, in questa manovra dell'emergenza agostana, sono i vuoti. Il primo vuoto riguarda i famosi tagli ai "costi della politica". Ancora una volta l'improntitudine di questa casta berlusconiana ha tradito tutte le già malriposte attese della vigilia. C'è finalmente una sforbiciata delle province e l'accorpamento dei piccoli comuni (merce inutilmente "svenduta" nella campagna elettorale del 2008). Ma per il resto, tra stipendi pensioni e benefit dei parlamentari, c'è poco e niente, a parte il modestissimo "obolo" sulla tassa di solidarietà raddoppiata per deputati e senatori e la trasformazione dei loro viaggi in business class in voli in economy. Il secondo vuoto, che conferma la visione corporativa e aziendalista di questa maggioranza, riguarda la cosiddetta "patrimoniale": l'unica forma di imposizione che, se ben architettata, avrebbe potuto far pagare davvero chi ha di più e lo nasconde, e che avrebbe dato un segno di vera equità a una manovra altrimenti squilibrata. E non bastano, a bilanciare questa assenza che salva ancora una volta gli evasori, norme pur sacrosante come la tracciabilità delle operazioni sopra i 2.500 euro, che Prodi e Visco avevano introdotto nel 2006 e che il Cavaliere aveva voluto colpevolmente eliminare all'inizio della sua legislatura perché le considerava "leggi di stampo sovietico".

Ma il vero vuoto più clamoroso e più rovinoso di questa manovra riguarda, anche stavolta, il sostegno alla crescita dell'economia e alla produzione della ricchezza. È l'aspetto più inquietante e deprimente di questa stagione politica, marchiata a fuoco da una leadership inconsistente e imbarazzante che a tutto ha pensato fuorché agli interessi del Paese. Senza un'idea e senza un progetto per lo sviluppo, questa stangata estiva, che pure andava fatta, non potrà che generare nuova recessione, e aggiungere declino al declino. Tutti gli stati dell'Eurozona stanno somministrando cure da cavallo ai propri popoli. La differenza è che insieme ai sacrifici quei Paesi sanno costruire anche i benefici, mentre in Italia ci sono solo i primi senza i secondi. Occorreva dire la verità, agire prima e dotarsi di una politica. Così si uccide un'economia. "Gronda il sangue dal cuore, ma dovevamo farlo", ha detto il premier in conferenza stampa alla fine del Consiglio dei ministri. Se è vero, è sangue di coccodrillo.
m.giannini@repubblica.it

(13 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #205 inserito:: Agosto 22, 2011, 04:21:00 pm »


IL COMMENTO

Il falò delle verità

di MASSIMO GIANNINI

SENZA verità non c'è democrazia. È il principio-cardine intorno al quale ruota la cultura politica dell'Occidente, come ci ha insegnato Hannah Harendt. Anche per questo l'Italia "moderna" sprofonda in una palude di democrazia "a bassa intensità". Il berlusconismo della Seconda Repubblica, involuzione matura dell'Andreo-Craxismo della Prima, ci ha definitivamente trasformato in un Paese che ha smarrito l'etica della verità. Nella stortura delle regole costituzionali. Nella rottura delle relazioni istituzionali. E ora nell'avventura della crisi economica e finanziaria.

Non c'è un solo ambito nel quale il presidente del Consiglio, pressato dalle sue urgenze private, non abbia edulcorato le emergenze pubbliche e manipolato la "narrazione" da offrire ai cittadini-elettori. La drammatica estate di "lacrime e sangue" è il vero tributo che ora paghiamo all'irresponsabile "autodafè" che il governo Berlusconi ha acceso in questi tre anni, raccontando agli italiani la favola del "Paese ricco, forte e vitale", che "sa reagire meglio degli altri alla crisi", salvo poi scoprire che siamo di nuovo sprofondati nel girone infernale del "Club Med" di Eurolandia.

Dunque, dobbiamo essere grati a Giorgio Napolitano, che con la sua "lezione di Rimini" ha scritto per l'ultima volta la parola "fine" sulla favola berlusconiana, e ci ha restituito il "linguaggio della verità". Quello che il premier non ha parlato fin dall'inizio della legislatura, e che invece è oggi un imperativo politico e morale. Quello che è invece indispensabile, per far capire ed accettare all'opinione pubblica una dose aggiuntiva di pesanti sacrifici che in molti avevamo previsto, e che il governo aveva sempre negato. Nel teatrino della politica fioccano le solite letture "palindrome": ma mai come stavolta il discorso del presidente della Repubblica non si presta a strumentalizzazioni di rito o ad interpretazioni di parte. Il suo è prima di tutto un atto d'accusa, nei confronti di chi, in questo "angoscioso presente", si è pervicacemente rifiutato di guardare in faccia alla realtà, ha furbescamente evitato di spiegarla agli italiani ed ha colpevolmente declinato ogni atto di responsabilità nella gestione attiva della crisi.

"Abbiamo parlato in questi tre anni il linguaggio della verità? Lo abbiamo fatto noi, che abbiamo responsabilità nelle istituzioni?". La domanda che il capo dello Stato rivolge all'intero ceto politico dal palco del Meeting di Rimini è palesemente retorica. La risposta è naturalmente negativa. Il "linguaggio della verità" ci è stato scientificamente negato dall'unica istituzione che aveva il dovere politico di parlarlo, e cioè il governo. E perseverare in questo errore è diabolico e autolesionistico. Come Napolitano giustamente ripete, "non si dà fiducia minimizzando o sdrammatizzando i nodi". Eppure, è esattamente quello che Berlusconi continua a fare. Abituato com'è, da consumato populista, a tagliare i nodi con la spada della propaganda piuttosto che a scioglierli con la fatica della politica, il Cavaliere aggiunge confusione al caos. Fa filtrare la sua insoddisfazione per una manovra che mette rovinosamente le "mani nelle tasche" dei contribuenti. Fa circolare ipotesi di modifica del "contributo di solidarietà" e di piani di intervento sulle pensioni, allargando da una parte l'abisso che lo separa da Tremonti e irritando dall'altra il nervo che lo allontana da Bossi.

Tutto quello che Napolitano chiede da Rimini questo presidente del Consiglio e questo governo non possono darlo, perché non l'hanno mai dato. "Reagire con lungimiranza" di fronte al Prodotto interno lordo che declina, all'occupazione che crolla, al debito che esplode. Guardare in faccia alla realtà "con intelligenza", e con "il coraggio della speranza, della volontà, dell'impegno". Virtù che il premier e il suo ministro dell'Economia non hanno mai espresso, e continuano a non saper esprimere, impaniati dentro una logica di coalizione nella quale nulla più si tiene. E poi, in vista del dibattito parlamentare sulla manovra: "occorrono più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche", occorre un "confronto aperto". Questo invoca il capo dello Stato. Come possono ascoltarlo, un premier che guarda alle opposizioni come a un "cancro", o un ministro che parla della libera stampa come un'accolita di "delinquenti"? E infine: basta "assuefazioni e debolezze nella lotta all'evasione fiscale, di cui l'Italia ha il triste primato". Come può raccogliere questo invito, un ministro dell'Economia che paga parte del suo affitto in nero, e che ha già regalato agli evasori con i capitali all'estero uno scudo fiscale tassato con un'aliquota volutamente e scandalosamente bassa?

Il presidente della Repubblica ha fornito un'ennesima prova di alta pedagogia politico-istituzionale. Si è confermato come l'unico caposaldo forte e credibile di una stagione politica in cui tutto va in rovina. La sua, ancora una volta, è una "predica utile". Ma chi dovrebbe farlo, purtroppo, non la potrà e non la saprà raccogliere. Ha venduto al Paese troppe bugie e troppe ipocrisie. Nel gigantesco "falò delle verità" costruito dal governo in questi tre anni, purtroppo, stiamo bruciando tutti. Salvarsi dalle fiamme è ancora possibile. Purché a farlo non siano più quelli che hanno appiccato l'incendio.

m.giannini@repubblica.it

(22 agosto 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #206 inserito:: Agosto 30, 2011, 10:07:50 am »

IL COMMENTO

La manovra delle bollicine

di MASSIMO GIANNINI


Una volta tanto il presidente del Consiglio è stato di parola. "Ho messo da parte le bottiglie per brindare all'accordo", ha detto durante il vertice di maggioranza ad Arcore. Dopo oltre sette ore l'intesa è arrivata. Ma dall'estenuante braccio di ferro di Villa San Martino è uscito esattamente quello che Berlusconi auspicava: una "manovra-champagne". All'apparenza, spumeggiante e piena di bollicine.
Nella sostanza, sempre più inconsistente e piena di buchi.

La partita politica dentro il centrodestra si chiude con un esito chiarissimo. Ora tutti alzano i calici, fingendo di aver portato a casa il risultato. La verità è ben diversa. L'unico vincitore è il Cavaliere, che ha messo in riga Tremonti e Bossi. "Non metto le mani nelle tasche degli italiani", aveva tuonato il premier. In nome di questo slogan da propaganda permanente, ha preteso e ottenuto la cancellazione del contributo di solidarietà sui redditi superiori ai 90 mila euro. Così, almeno in parte, ha evitato quel bagno di sangue perpetrato soprattutto ai danni del ceto medio, che avrebbe avuto un costo elettorale per lui insopportabile. Era l'unico obiettivo che gli stava a cuore. L'unico vessillo, psicologico e quasi ideologico, che voleva issare di fronte ai cittadini-elettori.

C'è riuscito. Ma ai danni dei suoi alleati. E anche ai danni del Paese. La "manovra-champagne" è solo un'altra, clamorosa occasione mancata. È confusa né più né meno di quelle che l'hanno preceduta. È altrettanto povera di senso e di struttura. Soprattutto, è altrettanto ininfluente sul piano del sostegno alla crescita, per la quale non c'è una sola misura di stimolo. E dunque è altrettanto depressiva sul piano dei redditi, dei consumi, degli investimenti, dell'occupazione. D'altra parte, non poteva non essere così. Tre manovre radicalmente diverse, affastellate in un mese e mezzo, sono il segno inequivocabile del caos totale che regna dentro una maggioranza pronta a tutto, pur di galleggiare e di sopravvivere a se stessa.

Berlusconi ha ridicolizzato Tremonti. Il ministro dell'Economia aveva annunciato una prima manovrina all'acqua di rose a giugno, spiegando che l'Italia era a posto sul debito e sul deficit. Travolto dalla crisi europea e dall'ondata speculativa dei mercati, ha presentato una manovra-monstre da 45 miliardi a luglio, spiegando che "in cinque giorni tutto è cambiato". Si è presentato ad Arcore chiedendo che quel pacchetto d'emergenza non fosse toccato, per evitare guai con la Ue e traumi sugli spread. Ebbene, quel pacchetto, al vertice di Arcore, non è stato "toccato": è stato totalmente distrutto. Della manovra tremontiana di luglio non resta quasi più nulla. Salta il contributo di solidarietà, saltano i pur risibili tagli ai costi della politica, salta la cancellazione dei piccoli comuni.

Berlusconi ha umiliato Bossi. La Lega pretendeva la supertassa sugli evasori fiscali e la salvaguardia delle pensioni "padane". Non ha spuntato niente. La maxi-patrimoniale si è annacquata in un più tollerante giro di vite sulle società di comodo alle quali i lavoratori autonomi intestano spesso appartamenti, auto di lusso e barche. Quanto alla previdenza, il Senatur non solo non salva le camice verdi, ma deve incassare un intervento a sorpresa sulle pensioni di anzianità dalle quali, ai fini del calcolo, verranno scomputati gli anni riscattati per la laurea e il servizio militare. Peggio di così, per il Carroccio, non poteva andare. A dispetto dei trionfalismi di Calderoli, ormai ridotto a un Forlani qualsiasi.

La partita economica sul risanamento, viceversa, si chiude con un esito assai meno chiaro. La rinuncia al contributo di solidarietà (congegnato in modo iniquo perché non teneva in alcun conto i carichi familiari e il cumulo dei redditi) attenua solo in parte il grave squilibrio della manovra, che resta comunque fortemente sbilanciata sul fronte delle tasse. L'aumento delle aliquote Iva è solo rinviato alla delega fiscale e assistenziale. La riduzione di 2 miliardi dei tagli a comuni e regioni non impedirà l'aumento delle addizionali Irpef e l'abbattimento dei servizi sul territorio e del Welfare locale. L'intervento sulla previdenza è solo un'altra "tassa sul pensionato", ed è lontano anni-luce dalla riforma che servirebbe al Paese per stabilizzare definitivamente la spesa, cioè il passaggio al sistema contributivo pro-rata per tutti.

Così riformulata, questa terza manovra berlusconiana è piena di buchi. Come si arrivi ai 45 miliardi promessi resta un mistero, ancora più insondabile di quanto non lo fosse già la seconda manovra tremontiana. Quanto valgono le misure anti-elusione contro le società di comodo? Quanto frutteranno i maggiori poteri attributi ai comuni nella lotta all'evasione? Nessuno lo sa. Le uniche certezze riguardano quelli che sicuramente pagheranno fino all'ultimo euro il costo di questo ennesimo compromesso al ribasso firmato dalla coalizione forzaleghista. Gli enti locali, per i quali restano tagli nell'ordine dei 7 miliardi.

I dipendenti pubblici, per i quali restano lo stop degli straordinari, il differimento del Tfr e il contributo di solidarietà, oltre tutto non più deducibile. E adesso anche le cooperative, per le quali si profila una drastica riduzione della fiscalità di vantaggio. Un blocco sociale ed economico vasto, ma con un denominatore comune: non appartiene alla constituency elettorale del centrodestra. È stato "selezionato" per questo. E per questo merita lacrime e sangue.

Certo, da consumato spacciatore di merchandising politico, nella "sua" manovra Berlusconi ha voluto anche le bollicine. Il contributo di solidarietà solo per i parlamentari. La soppressione di tutte le province e il dimezzamento del numero dei parlamentari. Misure che fanno un certo effetto mediatico e simbolico. Sono rigorosamente affidate a disegno di legge costituzionali (dunque non si faranno in questa legislatura, e quindi probabilmente non si faranno mai). Ma a sentirle annunciare, sembrano colpire al cuore la "casta" che il Cavaliere (pur facendone parte) finge di disprezzare.

Resta un problema, drammatico per il Paese, che misureremo nelle prossime ore e nei prossimi giorni. La "manovra-champagne" la puoi far ingoiare a un po' di pubblico domestico, meno informato o male informato dai bollettini di Palazzo Grazioli. Ma fuori dai confini della piccola Italia, purtroppo, è tutta un'altra storia. I finanzieri della business community, i tecnocrati della Bce e i partner dell'Unione Europea, sono la moderna "società degli apoti" di Prezzolini: loro non la bevono.

(30 agosto 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #207 inserito:: Settembre 05, 2011, 05:13:00 pm »

RETROSCENA

Bankitalia avverte il governo

Aumentare l'Iva e più tagli

Cresce il pressing della Banca centrale europea sull'Italia.

Nella riunione del board i "falchi" chiederanno maggiori impegni ai paesi indebitati.

Via Nazionale propone due vie d'uscita per riequilibrare i conti

di MASSIMO GIANNINI


L'AUTUNNO caldo è cominciato.
"L'Italia deve scegliere: o lancia un vero segnale di svolta sulla manovra, o si offre in pasto ai mercati esponendo l'intera Eurozona a un enorme pericolo". Si apre una settimana che può cambiare il destino dell'italia e dell'Europa. In queste ore difficili, tra Banca centrale europea e Banca d'Italia, non c'è un solo interlocutore che non esprima "grandissima preoccupazione" per quello che sta accadendo nel nostro Paese. Il "caos totale" nel quale il governo è precipitato in questi ultimi due mesi, cambiando radicalmente per ben quattro volte il menu delle misure di risanamento per assicurare il pareggio di bilancio nel 2013, è una miccia accesa nel cuore della moneta unica. Per ora, a disinnescarla ha contribuito proprio la Bce, che ha comprato a piene mani i Btp sul mercato secondario, per disarmare la speculazione internazionale.

Ma quanto può durare, l'ombrello aperto su di noi dall'Eurotower?
È la domanda cruciale, alla quale la Bce proverà a dare una prima risposta giovedì prossimo, al primo board convocato per la ripresa dopo l'estate. A Francoforte c'è consapevolezza della grande difficoltà della fase. "I dati della congiuntura internazionale non sono affatto confortanti", dicono all'Eurotower. Eurolandia è in forte frenata. Come già anticipato dal Fondo monetario, le economie dell'area cresceranno nel 2011 solo dell'1,9%. Nel 2012 andrà peggio, con un deludente 1,4%. "Preoccupa il rallentamento della Germania", che dopo aver trainato il Continente quest'anno, si fermerà l'anno prossimo a un fiacco 1,6%. L'Italia va peggio di tutti: non supera lo 0,8% quest'anno, e si ferma allo 0,7% l'anno prossimo. C'è quindi un primo nodo da sciogliere: già con queste cifre, "la manovra da 45 miliardi messa in campo da Berlusconi andrebbe rafforzata ulteriormente". Se scende il Pil, infatti, crescono più del previsto il deficit e il debito. Dunque "servono più tagli di spesa, per garantire il pareggio di bilancio".

Ma la manovra appena varata dal centrodestra, nella sua quarta e schizofrenica versione, non da garanzie.
Né sulle singole misure, né sui saldi. Trichet lo ha già lasciato intendere. I suoi uomini sono ancora più espliciti. "L'Italia deve fare di più e di meglio. E deve farlo subito". Oggi riaprono Borse e mercati: le turbolenze ricominceranno. E la Bce non può continuare a togliere le castagne dal fuoco al governo italiano. Al board di giovedì i governatori dell'Eurosistema ne discuteranno, nel frattempo "sull'acquisto dei titoli di Stato sul mercato secondario si decide giorno per giorno". Ma una cosa è certa: "Il Security Market Program non è un meccanismo permanente". Se dunque è vero, come sostiene Trichet, che il salvagente della Bce sui Btp non è scattato solo dopo la garanzia che il governo italiano avrebbe rafforzato e accelerato la manovra, è anche vero che, a regime, il primo non dura in assenza della seconda. "Non possiamo coprire una qualsiasi forma di "azzardo morale" sul mercato dei titoli", sostengono alla Bce. Già i "falchi", tra politici ed economisti tedeschi, hanno criticato la Banca centrale perché con i suoi interventi "ha agevolato il lassismo dei Paesi periferici dell'area". E' ora di cambiare rotta. E già alla riunione di giovedì se ne potrebbe avere un anticipo, indirizzato implicitamente proprio all'Italia. "Altri Paesi - segnalano a Francoforte - si stanno dimostrando più responsabili. Uno su tutti: la Spagna, dove il Parlamento ha già varato la sua Legge Finanziaria, ed ha approvato l'inserimento della disciplina di bilancio in Costituzione".

L'Italia è indietro.
Sui tempi e sui numeri. E questo, sulla sponda interna, allarma la Banca d'Italia. Mario Draghi si prepara al "trasloco", ma in queste ore gli uomini del Direttorio sono in contatto costante e diretto con i loro "colleghi" d'oltrefrontiera. A Via Nazionale l'apprensione sul destino della manovra è persino più acuta che a Francoforte. Il messaggio lanciato con le tre versioni estive del pacchetto anti-deficit è stato "pessimo": confusione, improvvisazione, approssimazione. Vista da Palazzo Koch, la manovra è un "patchwork indecifrabile".
"E' arduo affidare al recupero di evasione fiscale un rientro dal deficit di così vasta portata", si sostiene in Bankitalia, in piena sintonia con i dubbi della Ue. Berlusconi e Tremonti, accecati da un regolamento di conti tra loro, non vedono più la realtà. Dimostrano di non avere un'idea su ciò che è e su ciò che deve diventare la società italiana. Prima colpiscono il ceto medio con il contributo straordinario, poi colpiscono i pensionati con la gabella sulla naia e la laurea, poi fanno la faccia feroce contro gli evasori, dopo averli blanditi con lo Scudo fiscale e con l'irresponsabile sostegno pre-estivo alla diffusa Vandea per le "vessazioni di Equitalia".

Così non si va da nessuna parte.
A Via Nazionale, si teme il vicolo cieco. Le vie d'uscita che la Banca d'Italia caldeggia sono due. La prima, sul lato delle spese, è "accelerare sulla spending review", affondando con il bisturi della priorità politica finalizzata a ricerca e sviluppo e non più non con il machete dei tagli lineari e indiscriminati su tutte le voci. La seconda, sul lato delle entrate, è "un intervento mirato e selettivo sulle aliquote Iva". Questa, secondo Palazzo Koch, sarebbe la soluzione migliore, sul piano delle opportunità macro-economiche e delle compatibilità politico-sociali. La Banca d'Italia ha fatto i suoi studi e le sue simulazioni. L'aumento dell'Iva non avrebbe impatti recessivi maggiori di quelli che la manovra in sé già presenta ora. E dal punto di vista dell'inflazione, "l'impatto sarebbe quasi nullo, poiché il quadro dei prezzi nonostante le ultime fiammate va verso un raffreddamento e la domanda di petrolio è in discesa". Dunque questa è la scommessa di Draghi e dei suoi uomini: pressato dalla Bce e dai mercati, alla fine Berlusconi sarà costretto ad agire sull'Iva, a dispetto dei timori infondati di Tremonti. Sarà il male minore, e garantirà un gettito certo, al contrario delle norme "dissuasive" e assai demagogiche sulla delazione e la gogna fiscale.

Il dubbio vero è se questo governo abbia ancora la forza per scelte politiche nette, riconosciute e riconoscibili.
O se invece la perdità di credibilità cumulata in tre anni di dissennatezze politiche e dissipazioni contabili sia irreversibile. All'Eurotower e a Via Nazionale si sa bene qual è la posta in palio. Tra Btp, Bot e Ctz, a settembre il Tesoro deve collocare sul mercato ancora quasi 45 miliardi di euro. Di qui alla fine dell'anno, le emissioni complessive di titoli di Stato ammonteranno a circa 148 miliardi. Se si allenta la sponda della Bce, come prevedono i "duri e puri" di Francoforte, basta un niente per far fallire un'asta e far banchettare gli speculatori internazionali. Sarebbe il disastro finale. Dopo aver rovinato l'Italia, Berlusconi e Tremonti si prenderebbero il merito di aver affondato anche l'Europa. Possono farcela, purtroppo.

m.giannini@repubblica.it
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« Risposta #208 inserito:: Settembre 07, 2011, 05:21:47 pm »

 
IL COMMENTO

La riduzione del danno

di MASSIMO GIANNINI

Se non li puoi convincere, confondili. È la legge di Truman. Berlusconi e Tremonti, ormai svuotati di spessore politico, la applicano alla manovra con rigore scientifico. Dopo quattro tentativi miseramente falliti in appena due mesi, spunta ora la quinta versione del decreto anti-crisi. Già questa abnorme bulimia quantitativa sarebbe sufficiente a giudicare disastrosa l'azione del governo. Ma quello che stupisce, e indigna di più, è la totale schizofrenia qualitativa delle misure messe in campo.

A giugno Tremonti aveva garantito che, d'accordo con l'Europa, l'Italia non aveva bisogno di una vera e propria manovra di bilancio, e per questo aveva annunciato una modesta leggina di minima "surplace" contabile. Ai primi di luglio abbiamo scoperto che eravamo sull'orlo dell'abisso. Così è cominciata la folle teoria estiva dei decreti usa e getta. Prima la stangata del contributo di solidarietà sui ceti medio-alti. Poi la batosta sulle pensioni d'anzianità cumulate con il riscatto della laurea e della naja. Poi ancora la finta caccia agli evasori fiscali a colpi di "carcere & condono". Trovate estemporanee di questo o quel ministro, frustate casuali all'una o all'altra categoria. Senza logica politica, senza tenuta economica. Non solo i cittadini allibiti e gli speculatori affamati, ma l'intero establishment interno e internazionale ha fatto giustizia di tanta irresponsabile approssimazione. L'Unione Europea e la Bce, la Banca d'Italia e la Confindustria. Da ultimo, addirittura il Capo dello Stato, che con il suo intervento ufficiale di due giorni fa ha compiuto un passo senza precedenti, fin dai tempi della Prima Repubblica. Ha imposto la linea non solo sui tempi, ma persino sui contenuti della manovra.

Alla fine, dopo molte figuracce penose esibite sul mercato politico e molti miliardi bruciati sul mercato finanziario, il governo si è dovuto arrendere. L'ennesima, radicale riscrittura della manovra non cancella le storture di fondo. Con l'aumento dell'Iva e la reintroduzione della supertassa sui redditi oltre i 300 mila euro si fa persino più massiccio il ricorso alla leva fiscale, che già occupava quasi il 70% del menù dei provvedimenti varati nelle stesure precedenti. Svanisce così, ormai anche sul piano simbolico, la ridicola promessa del Cavaliere: "Non mettiamo le mani nelle tasche dei contribuenti", aveva giurato il premier, che ora invece in quelle tasche ci entra non solo con le mani, ma con tutte le scarpe. Si anticipa il giro di vite sull'età pensionabile delle donne, e si rinuncia così a qualunque ambizione riformatrice più generale sul capitolo della previdenza. Resta la drammatica carenza di misure concrete per la crescita e lo sviluppo. Resta la plastica evidenza di un governo che non ha una visione sulla società italiana di oggi, né una soluzione per quella che vuole costruire domani.

Tuttavia la quinta manovra, per quanto iniqua e sgangherata, almeno un pregio ce l'ha: i saldi contabili sono finalmente più solidi, come la stessa Commissione di Bruxelles ha già puntualmente riconosciuto. È certo il gettito in aumento dell'imposta sul valore aggiuntivo, il "male minore" invocato da tempo dalla Banca d'Italia e osteggiato per puro puntiglio dal ministro del Tesoro. È certo l'incasso a regime dell'intervento sulle pensioni delle donne, suggerito da Confindustria e ostacolato per puro ideologismo dal leader della Lega. È certo, per quanto risibile, il maggior introito del mini-tributo di solidarietà per i ceti più abbienti, inopinatamente preferito a una seria imposta sui grandi patrimoni per puro opportunismo elettorale. Dunque, almeno sulla copertura integrale dei 45 miliardi, la manovra risulta oggettivamente migliorata. Anche se rimane la sua irrimediabile inefficacia, rispetto alle esigenze di equità sociale e alle urgenze di rilancio del Pil. E anche se rimane la sua probabile insufficienza, rispetto agli impegni sottoscritti in Europa sul pareggio di bilancio e alle aspettative delle società di rating e della business community.
Quella di ieri, in definitiva, è solo una tardiva "riduzione del danno". I problemi dell'Italia sono tutt'altro che risolti. Nel momento in cui aggiusta la manovra, il governo certifica paradossalmente la sua fine. Berlusconi, Bossi e Tremonti si acconciano a continui compromessi al ribasso, ormai logorati dentro una convivenza da separati in casa, che li spinge a camminare a tentoni nella buia notte calata su Eurolandia. Il governo non c'è più. Lo sostituisce Napolitano, lo commissaria la Banca d'Italia, lo etero-dirigono i mercati. La stessa coalizione di centrodestra ne è tanto consapevole, che si vede costretta all'ultimo sfregio alle istituzioni: la richiesta del voto di fiducia, su una manovra che lo stesso Pd era pronto a non votare ma a non ostacolare, sembra più un atto di forza interno al centrodestra che non un atto di sfida rivolto al centrosinistra.

In queste condizioni si può tamponare un'emergenza congiunturale, ma non si può affrontare una crisi globale. Lo scrive ormai anche la grande stampa mondiale, dal "Wall Street Journal" al "Financial Times": l'Italia è unanimemente considerata la zavorra che rischia di affondare l'euro. Per questo, ancora una volta, l'unica via d'uscita da questa tempesta imperfetta è l'approvazione rapida del decretone, e poi le dimissioni immediate del governo. Sarebbe l'ultimo, e forse l'unico gesto di responsabilità compiuto dal presidente del Consiglio. Con la quinta manovra si recupera un po' di attendibilità aritmetica, ma non si ricostruisce la credibilità politica. Quella, per il Cavaliere, è perduta per sempre.
m.giannini@repubblica.it

(07 settembre 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #209 inserito:: Settembre 14, 2011, 08:54:24 am »

Signor dietrofront

di MASSIMO GIANNINI

Ci sono molti modi per naufragare. Giulio Tremonti lo sta facendo alla sua maniera. Inseguito dal fantasma di Marco Milanese, che è per lui come un morto che afferra il vivo, il ministro scompare e riappare, simula e dissimula, dice e non dice. Schiacciato dal peso di una crisi economica che ha saputo fiutare ma non ha voluto affrontare, schiantato dai vecchi patti e dai nuovi ricatti subiti dal suo ormai nemico Cavaliere, l'ex "genio dei numeri" alterna le solite fughe nei cieli stellati dell'alta filosofia kantiana alle discrete sortite negli scantinati della bassa macelleria italiana.

Oggi alla Camera sarà convertita in legge la manovra più confusa e contraddittoria del dopoguerra. Uscita da ben quattro pasticciati rifacimenti, su ciascuno dei quali il ministro è stato costretto a piazzare il suo imbarazzato cappello, la maxi-stangata da 54 miliardi non ci salva dal feroce verdetto quotidiano dei mercati e non ci basta a raggiungere il pareggio di bilancio nel prossimo triennio. Lo hanno capito tutti, e prima di tutti lo ha capito la Commissione europea, che già ci avverte dell'opportunità di pensare fin da ora a un pacchetto di misure aggiuntive perché i tagli di spesa non reggono e le entrate da evasione non garantiscono.

E Tremonti? Cosa dice? Cosa pensa? Nessuno lo sa. A Cernobbio e a Marsiglia ha divagato, parlando di Heidegger e di Habermas. Ma ora scopriamo che, nel frattempo, ha anche lavorato a due importanti dossier. Il primo dossier riguarda le privatizzazioni. Si annuncia un nuovo,
gigantesco piano di cessione del patrimonio pubblico. Si vocifera addirittura di un "Britannia 2". Cioè di un bis di quanto accadde il 2 giugno 1992, quando il governo Amato alla canna del gas, e con il Paese a un passo dalla bancarotta, avviò un piano di dimissioni che dieci anni dopo avrebbe fruttato circa 180 miliardi di vecchie lire. Allora fu Mario Draghi, direttore generale del Tesoro, a spiegare ai signori della City riuniti sul panfilo della Regina Elisabetta in rotta tra Civitavecchia e l'Argentario, il grande saldo di fine stagione per lo Stato Imprenditore. Oggi, a quanto pare, ci risiamo. Si parla di cessioni pubbliche per 400 miliardi di euro, tra quote di Eni ed Enel, Terna e Poste, Rai e beni immobili.

Benissimo. È una soluzione buona e giusta, che semmai andava fatta all'inizio della legislatura, in un progetto ragionato e organico, non con l'acqua alla gola della tempesta finanziaria e delle elezioni anticipate. Ma è un'operazione credibile? No, non lo è. Soprattutto perché il ministro che la patrocina è lo stesso che in tutti questi anni ha criticato le privatizzazioni degli Anni Novanta, e ha rinfacciato al Draghi del "Britannia 1" di aver svenduto le aziende pubbliche per pagare il prezzo dell'entrata italiana nel club di Maastricht.

Il secondo dossier riguarda la Cina. Si apprende ora che il ministro dell'Economia, in questi ultimi giorni, ha ricevuto in via riservata una vasta delegazione del Cic, ricchissimo fondo sovrano di Pechino, interessato a comprare i nostri gioielli di famiglia (meglio se energetici) e disposto ad acquistare (quasi fosse una contropartita) tanta parte dei nostri titoli di Stato.

Benissimo. La Cina è un interlocutore prezioso, anche se ingombrante. Una delle poche economie mondiali che tirano, e che dispongono di risorse finanziarie pressoché illimitate. Averla come "socio" nelle privatizzazioni, in un rapporto di partnership equa e vigilata, può aiutarci. Così come può aiutarci averla come compratore di ultima istanza dei nostri Btp, quando la Bce smetterà prima o poi di esserlo.
Ma oggi è un'operazione credibile? No, non lo è. Soprattutto perché il ministro che la sovrintende è lo stesso che in questi anni ha additato la Cina come il nostro nemico peggiore. Lo stesso che nel suo fortunato best-seller La paura e la speranza con il quale ha orientato a favore della destra la campagna elettorale del 2008, scriveva: "I cinesi fanno piani strategici... Piani imperiali. Farli non è colpa della Cina. I cinesi fanno i cinesi. Subirli e invece una colpa dell'Occidente e soprattutto dell'Europa, che ne riceverà il danno maggiore. Una colpa che, in Europa, e anche specificamente propria di quella quinta colonna costituita dagli eurocinesi...". Tremonti ha sempre indicato la Cina come una minaccia. Al punto di considerare il via libera all'ingresso di Pechino nel Wto il "peccato originale" dell'Occidente, l'inizio della sua fine. Al punto di considerare la data di quel via libera, l'11 dicembre 2001, alla stessa stregua simbolica dell'11 settembre 2001, quando l'America subì l'attacco alle Torri Gemelle e cominciò lo scontro di civiltà. Al punto da costruire su questo teorema il cuore del processo a Romano Prodi, allora presidente della Commissione Ue e dunque "quinta colonna" degli "eurocinesi".

Travolti dagli eventi epocali, sconvolti dai risentimenti personali, i politici possono anche cambiare idea. Basta aver l'onestà di ammetterlo. Basta avere il coraggio di riconoscere di aver sbagliato. E basta, soprattutto, non pretendere che l'opinione pubblica dia ancora credito a chi ha commesso errori così numerosi, così gravi, così imperdonabili. In questi giorni si parla di un governo dei migliori. Non sappiamo se esistono. Ma siamo certi che questo, ormai, e solo il governo dei peggiori.

(14 settembre 2011) © Riproduzione riservata
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