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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 167001 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Marzo 01, 2011, 03:25:02 pm »

Il patto scellerato del Cavaliere


Braccato dai pubblici ministeri che lo inseguono in tre processi ed ora lo inchiodano a un imminente "rito immediato". Ricattato dalle veline-meteorine-coloradine che hanno animato le sue serate e ora battono cassa. Logorato da una maggioranza forzaleghista che non ha più numeri per galleggiare né idee per governare. Tenuto artificialmente in vita da un disperato drappello di "disponibili" che con poco senso del ridicolo si sono ribattezzati "responsabili". In queste condizioni precarie, che c'è di meglio dell'ennesimo, improbabile diversivo? È quello che ha appena inventato il presidente del Consiglio, con la proposta di un nuovo "piano bipartisan per la crescita" lanciato attraverso le colonne del Corriere della Sera.

Qui non c'entra il pregiudizio ideologico: cioè l'irriducibilità dell'antiberlusconismo militante, o l'indisponibilità a riconoscere che il Cavaliere è l'uomo che tanta parte dell'opposizione parlamentare, sociale o mediatica "ama odiare" (come ripete ossessivamente Giuliano Ferrara). Qui c'entra il giudizio politico: cioè l'assoluta vacuità della proposta, e la sua oggettiva inidoneità ad affrontare e risolvere i problemi strutturali del Paese.

Lasciamo da parte il tema dell'imposta patrimoniale, troppo complesso per essere liquidato con le solite fumisterie propagandistiche da padroncino brianzolo, "nobilitate" dalle lezioni della scuola di Chicago. Quello che il premier offre all'Italia e
al centrosinistra, fuori contesto e fuori tempo massimo, è l'ennesimo simulacro di un patto scellerato. Dice Berlusconi: noi liberalizziamo l'economia, modificando l'articolo 41 della Costituzione e rendendo finalmente "consentito tutto ciò che non è vietato". In cambio, i ceti produttivi fanno emergere "la ricchezza privata nascosta". Lo chiama "scambio virtuoso": da una parte "maggiore libertà e incentivo fiscale all'investimento", dall'altra parte "aumento della base impositiva" oggi occultata.

Dov'è la scelleratezza? In tutti e due i fattori dello scambio. Dal lato delle "libertà". Intanto questo governo di liberisti un tanto al chilo, da due anni e mezzo, ha fatto solo passi indietro sul tema delle liberalizzazioni, riducendo in brandelli la lenzuolata di Bersani della passata legislatura. E poi la riforma dell'articolo 41, ammesso che serva a qualcosa, è una riscrittura del dettato costituzionale. Esige un disegno di legge di revisione della Carta del '48, dunque una quadrupla lettura parlamentare e, in caso di approvazione senza il voto dei due terzi del Parlamento, un referendum confermativo. Tempi realistici di approvazione: non meno di un anno e mezzo. "Lungo periodo": di qui ad allora, come diceva Keynes, "saremo tutti morti". E ad ogni modo: da almeno sedici mesi il ministro Tremonti ha annunciato la riforma una decina di volte, un paio delle quali in consessi internazionali (come il G20 di Busan, in Corea del Sud). Se ci crede tanto, cosa aspetta a presentare il disegno di legge? Non è difficile: sono due righe di testo, forse anche meno. Perché non passa dalle parole ai fatti?

Dal lato della fiscalità. Che senso ha proporre a chi evade l'ennesimno scambio? Proprio oggi la Guardia di Finanza fa sapere che nel 2010 sono stati scoperti 8.850 evasori totali, e che il lavoro d'indagine ha fatto emergere la cifra record di 50 miliardi di redditi non dichiarati. Di fronte a questo oceano di illegalità non c'è proprio nulla da "scambiare". Visto che le Fiamme Gialle lo hanno scoperto, c'è solo da prosciugarlo, facendo pagare caro chi finora non ha pagato. Ma questo, con tutta evidenza, è un bel problema per Berlusconi e per la sua sfibrata maggioranza. Si tratterebbe di prendere di petto la constituency politico-elettorale del Pdl, invece di continuare a lisciargli il pelo. Il Cavaliere non l'ha mai fatto. Meno che mai può farlo oggi, mentre imbocca il suo viale del Tramonto. Il suo modello non è Milton Friedman. È Cetto La Qualunque.

m.giannini@repubblica.it
 

(31 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #181 inserito:: Marzo 01, 2011, 03:26:31 pm »

IL COMMENTO

L'ideologia dell'anti-stato

di MASSIMO GIANNINI

Dichiarato ufficialmente "contumace" alla ripresa del processo Mediaset, il presidente del Consiglio si lancia nel suo Vietnam giudiziario con una dissennata dichiarazione di guerra. E seleziona con precisione chirurgica i suoi "nemici": il presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Sono loro, le due massime istituzioni di garanzia, che gli impediscono di governare. Se "non gli piacciono" le leggi varate dal Consiglio dei ministri, Giorgio Napolitano le rinvia alle Camere, gli "ermellini rossi" le respingono.

Si avvera dunque la facile profezia che avevamo formulato solo una settimana fa. Altro che senso dello Stato, altro che tregua istituzionale: Silvio Berlusconi si prepara a consumare quel che resta della legislatura all'insegna del conflitto permanente. C'è da chiedersi perché lo fa. C'è da chiedersi quale vantaggio possa trarre lui stesso, da un'aggressione sistematica che destabilizza gli equilibri costituzionali e avvelena le relazioni istituzionali. Le sue parole, da questo punto di vista, si prestano a un doppio livello di analisi possibile.

In primo luogo c'è la strategia politica. Risolto con una scandalosa compravendita il duello contro Gianfranco Fini, rinsaldata a suon di prebende un'esangue maggioranza aritmetica, neutralizzato momentaneamente l'assedio dell'opposizione parlamentare, il premier ha ora un bisogno disperato di trovare altri "contro-poteri" e di additarli all'opinione pubblica come ostacoli insormontabili sul cammino della "modernizzazione".
Sa che non potrà fare le "grandi riforme" promesse in campagna elettorale. Non potrà varare la storica "rivoluzione fiscale" che consentirà ai contribuenti di pagare meno tasse, perché non ha il coraggio di stanare l'evasione. Non potrà varare un serio pacchetto di "scossa" all'economia, perché non sa trovare le risorse necessarie. Non potrà varare un vero riordino della giustizia nell'interesse di tutti i cittadini, perché la sua unica ossessione è un "ordinamento ad personam" che consenta solo a lui di salvarsi dai suoi processi.

Il suo carniere è vuoto. E resterà vuoto di qui alla fine della legislatura, anticipata o naturale che sia. Per questo deve trovare un capro espiatorio, sul quale scaricare i suoi fallimenti e travestirli da "impedimenti". Il Quirinale e la Consulta sono due bersagli ottimali. Con il suo attacco frontale, il Cavaliere sta dicendo agli italiani: sappiate che se non sono riuscito a risolvere i vostri problemi la colpa non è mia, ma di chi ha demolito le mie leggi. Quello di Berlusconi è solo un gigantesco alibi, che nasconde una colossale bugia. Ma solo di questo, oggi, può vivere il suo sfibrato governo e la sua disastrata coalizione: alibi e bugie, su cui galleggiare fino al 2013, per poi tentare il grande salto sul Colle più alto. A dispetto degli scandali privati di cui è stato protagonista e dei disastri pubblici di cui è stato artefice.

In secondo luogo c'è la "filosofia" politica. E qui, purtroppo, il presidente del Consiglio non fa altro che confermare la natura tecnicamente eversiva del suo modo di intendere il governo e la dialettica tra i poteri, la Carta costituzionale e lo Stato di diritto. In una parola, la democrazia. È tecnicamente eversiva l'idea che il presidente della Repubblica o la Consulta possano rinviare o bocciare una legge "perché non gli piace": non lo sfiora nemmeno il dubbio che l'uno o l'altra, nel giudicare sulla legittimità di una norma, agiscano semplicemente in base alle prerogative fissate dalla Costituzione agli articoli 74, 87 e 134. È tecnicamente eversiva l'idea che in Parlamento "lavorano al massimo 50 persone, mentre tutti gli altri stanno lì a fare pettegolezzo": non lo sfiora nemmeno il sospetto che la trasfigurazione delle Camere in volgare "votificio" sia esattamente il risultato della torsione delle regole che lui stesso ha voluto e causato, con decreti omnibus piovuti sulle assemblee legislative e imposti a colpi di fiducia.

Ma qui sta davvero l'essenza del berlusconismo. Cioè quell'impasto deforme di plebiscitarismo e populismo, di violenza anti-politica e onnipotenza carismatica. Da questa miscela esplosiva, con tutta evidenza, nasce l'Anti-Stato che ormai il Cavaliere incarna, in tutte le sue forme più esasperate e conflittuali. In questa dimensione distruttiva, la stessa democrazia, con i suoi canoni e i suoi precetti, non è più il "luogo" nel quale ci si deve confrontare, ma diventa la "gabbia" dalla quale ci si deve liberare. Contro il popolo, in nome del popolo. "Dispotismo democratico", l'aveva definito Alexis de Tocqueville. Scriveva dall'America, due secoli fa. È una formula perfetta per l'Italia di oggi.

m.gianninirepubblica.it
 
(01 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #182 inserito:: Marzo 04, 2011, 06:38:59 pm »

I vantaggi della confusione

di MASSIMO GIANNINI

Gli esperti americani di "spin" li chiamano i "talking points". Sono quei messaggi specifici, fatti di poche ma precise parole, che il network deve ripetere a raffica, quando si tratta di difendere il capo o attaccare i nemici. I "talking points" sono pane quotidiano per la Struttura Delta. Anche nello scandalo-Ruby. Un esempio: i controinterrogatori che Ghedini e Longo hanno condotto tra il 28 gennaio e il 3 febbraio con Valentino Valentini, Paolo Bonaiuti e i ministri Galan e Frattini, per dimostrare la buona fede del premier sulla tesi della "nipote di Mubarak".

Alle domande sulla cena del 19 maggio 2010 a Villa Madama tra la delegazione italiana e quella egiziana, le risposte sono una fotocopia. Tutti concordano: Berlusconi, parlando di Ruby con Mubarak, "accennò che doveva trattarsi di una parente o comunque di una persona della cerchia del presidente". Affermazione assolutoria ma pericolosa, perché smentibile. La Struttura Delta lo sa. Per questo fa dire, a tutti gli interrogati, che il leader egiziano non capì, e che comunque "la conversazione fu molto confusa".

Meglio cautelarsi: all'epoca Mubarak era ancora un "raìs", e uno dei "migliori amici" di Silvio.
 

(04 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #183 inserito:: Marzo 06, 2011, 10:37:51 pm »

Malati di  mente

di MASSIMO GIANNINI

Giovedì prossimo arriva la riforma della giustizia. E sarà "epocale", come annuncia il presidente del Consiglio. Ma più che aiutare i cittadini, servirà a bastonare i giudici. Il potere politico, in altri termini, attiva il potere legislativo per colpire il potere giudiziario. Questa, nei fatti, è la "ratio della riforma". Nelle chiacchiere, ancora una volta, l'imperativo categorico è uno solo: confondere l'opinione pubblica. Preparare il terreno, dal punto di vista informativo ed emotivo, non al giusto processo per gli imputati, ma alla giusta punizione per i magistrati. La Struttura Delta sta lavorando per questo. Da giorni il kombinat politico-mediatico del premier frulla nell'apposito network commenti, reportage e servizi sugli "orrori e gli errori delle toghe". Il "senso" l'aveva dato qualche tempo fa lo stesso Berlusconi: per fare i magistrati bisogna essere "malati di mente". Ora tv e giornali cognati eseguono. Titoli: "Fermiamo i magistrati matti", "Stanno usando il processo Mastella per affilare la ghigliottina per il premier". Seguono pagine di inchiesta, nell'ordine, sul "pm che ipnotizza il testimone", la toga al ristorante "che non paga il conto", la "giudice in pelliccia che chiede l'elemosina". Eccoli, finalmente, i veri guai della giustizia italiana.

(m.giannini@repubblica.it)

(06 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #184 inserito:: Marzo 11, 2011, 04:23:10 pm »

IL COMMENTO

Una legge ad castam

di MASSIMO GIANNINI


LA giustizia italiana, per poter esser davvero utile ai cittadini, aveva bisogno di tutto. Ma non certo di questa "rivoluzione" celebrata con un evviva dal capo del governo. Quella approvata ieri a Palazzo Chigi non è una "riforma epocale", ma una "contro-riforma incostituzionale". Un manifesto ideologico, che riscrive tredici articoli della Carta del '48, stravolge i principi che hanno retto le istituzioni della Repubblica, ribalta gli equilibri che hanno garantito il bilanciamento tra i poteri dello Stato.

È vero. Almeno per il momento, nel pacchetto-giustizia licenziato ieri a Palazzo Chigi c'è una rottura significativa con il passato: non contiene norme "ad personam", con le quali il presidente del Consiglio si cuce addosso un salvacondotto personale. Ma non per questo è meno dirompente. Al contrario: questa è una riforma "ad castam", con la quale un'intera classe politica pretende di cucirsi addosso un salvacondotto collettivo. Lo dice lo stesso Berlusconi, una volta tanto sincero, nella conferenza stampa con la quale cerca di spiegare la "filosofia" di questo "punto di svolta", come l'ha chiamato: "Questo cambiamento, se fosse stato introdotto vent'anni fa, avrebbe evitato l'esondazione, l'invasione della magistratura nella politica e quelle situazioni che hanno portato nel corso della storia degli ultimi venti anni a cambiamenti di governo, a un annullamento della classe dirigente nel '93".

Questa, per ammissione del suo stesso ispiratore, è dunque la "ratio" della riforma. Un complesso di "regole" che avrebbero impedito ai giudici di Mani Pulite di scoprire Tangentopoli. Avrebbero impedito al pool di Milano, sia pure tra alcuni errori e qualche eccesso, di scoprire il malaffare endemico del ceto politico della Prima Repubblica. Avrebbero impedito alle procure di indagare allora sui reati commessi da Berlusconi-imprenditore, e oggi su quelli commessi anche da Berlusconi-premier. Avrebbero impedito ai pubblici ministeri di condurre inchieste "pericolose", da Cosentino a Cuffaro, da Verdini a Tedesco. Questo, a dispetto delle chiacchiere del premier che parla di "un testo organico che non è contro nessuno", è il vero impianto ideologico e psicologico della contro-riforma berlusconiana: una vendetta postuma nei confronti della magistratura.

Tutto, in questo presunto "testo organico", tradisce l'intenzione di una rivincita del potere politico (che viene sovra-ordinato e irrobustito) sul potere giudiziario (che viene ridimensionato e intimidito). L'esercizio obbligatorio dell'azione penale risulta fortemente limitato e ricondotto nell'alveo delle priorità stabilite dal governo (attraverso la legge ordinaria) e dal Guardasigilli (attraverso la sua relazione annuale alle Camere). Il Csm è smembrato e cessa di essere organo di "autogoverno" della magistratura, per diventare organo "sotto il controllo" del governo, attraverso la modifica della proporzione tra membri togati e membri eletti. La polizia giudiziaria è sostanzialmente sottratta al coordinamento delle procure e assegnata alle cure del ministero dell'Interno.

La politica riafferma così il suo "primato" sulla giurisdizione. Non c'è più "check and balance" tra i poteri dello Stato, non c'è più un sistema di garanzie reciproche, come dispone la Costituzione. C'è un potere che sovrasta l'altro. E questo è tutto. Allora, se questo è il senso dell'operazione, non serve che ci sia un altro "scudo processuale" nascosto tra articoli e commi della riforma, per considerarla comunque dannosa e pericolosa.

"Se non ora, quando?", chiede con vaga ironia Alfano, per giustificarne l'urgenza. Il ministro mente sapendo di mentire. Per essere politicamente sostenibile, una riforma costituzionale così vasta si presenta all'inizio della legislatura, discutendola con i magistrati e condividendola con l'opposizione. Non viene approvata in tutta fretta da un governo che cerca disperatamente di galleggiare per un altro anno e mezzo, illustrandola poche ore prima al Capo dello Stato e sbattendola in faccia alle toghe e al Parlamento. Per essere credibile, una riforma "di sistema" così devastante si prepara al riparo dalle contingenze processuali del presidente del Consiglio. Non viene lanciata nel fuoco della battaglia mortale che l'esecutivo sta conducendo contro il giudiziario.

C'è un problema "tecnico", da chiarire una volta per tutte. Nessuno difende "a priori" i magistrati: anche le toghe hanno sbagliato e sbagliano. E nessuno si sogna di difendere lo status quo: il nostro sistema giudiziario fa acqua da molte parti, in termini di efficienza, di rapidità e spesso anche di equità. Ma non è questa la riforma che serve agli italiani, costretti ad aspettare quasi cinque anni per avere una sentenza civile e oltre otto per avere una sentenza penale. In questo pacchetto non c'è nulla che renda più veloci e più "giusti" i processi. Non c'è l'intenzione di aiutare i cittadini. C'è solo la tentazione di punire i magistrati.

C'è un nodo politico, da sciogliere una volta per tutte. Nessuno crede al "ravvedimento" improvviso del Cavaliere. Con una mano offre all'opinione pubblica e al Parlamento un pacchetto-giustizia che, in apparenza, riguarda tutti e non più lui. Ma cosa nasconde nell'altra mano, nessuno lo sa né lo ha capito. Viene ricalendarizzata la legge sul processo breve, si continua a parlare di immunità parlamentare, si ventilano ipotesi di norme sulla prescrizione ridotta per gli incensurati. Su questa zona d'ombra, che si espande ai margini della "riforma epocale", va fatta luce e va chiesta chiarezza. Troppe volte il Cavaliere ci ha abituato ai suoi bluff, ai suoi blitz, ai suoi doppi e tripli giochi.

In questa chiave, davvero si fatica a comprendere il solito dibattito surreale che si sviluppa nell'opposizione, sospesa tra l'"arroccamento" e il "dialogo". Si dice, a sinistra: stavolta non possiamo non andare a vedere le carte. Che significa? Alcune carte, come abbiamo appena detto, sono ancora coperte, e su questo sarà bene sospendere il giudizio e vigilare. Ma altre carte le ha messe ieri sul tavolo il governo. L'opposizione (pre o post-bicameralista che sia) è in grado di dire con franchezza se questa è la riforma della giustizia che serve al Paese oppure no? Ed è in grado di dire se è sensato oppure no un confronto con la maggioranza su questo testo-monstre di revisione costituzionale, che richiederebbe comunque ben quattro letture parlamentari e poi un sicuro referendum confermativo?

Con un po' di buon senso, e un po' di onestà intellettuale, non è difficile rispondere a queste domande. La riforma "ad castam", inventata dal governo per far finta di governare, può anche vellicare qualche suggestione "bipartisan". Ma non vedrà mai la luce, perché questo centrodestra non ha più né il tempo né la forza per farla passare. E questo, in fondo, è il suo unico, ma grandissimo "pregio".

m.giannini@repubblica.it

(11 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #185 inserito:: Aprile 06, 2011, 04:39:22 pm »

   
Polis

Il processo lunghissimo

Massimo GIANNINI


"Brigatismo giudiziario". "Ostruzionismo efferato".
Il linguaggio del presidente del Consiglio e dei suoi "bravi" assume toni ogni giorni più violenti e avvilenti. Nella guerra sulla giustizia la maggioranza non sente ragioni e non fa prigionieri. Ogni arma è lecita. Le leggi ad personam e i ricatti. Il conflitto di attribuzione e l’ intimidazione. Berlusconi agisce per ubbìe individuali, la sua maggioranza opera con schizofrenie ordinamentali. Il combinato disposto dei due fattori rende geneticamente non credibile qualunque ipotesi di "riforma della giustizia" formulata da questa destra, cesarista e populista. E non per una pregiudiziale ideologica, ma per un’evidenza fattuale.

L’ ultimo esempio è di queste ore.
E la dice lunga sugli infiniti e contraddittori "piani" sui quali la coalizione forzaleghista sta conducendo le sue "battaglie".
La Camera è militarizzata per il dibattito intorno al disegno di legge sul processo breve, anzi "europeo", come ora Berlusconi ha imposto di chiamarlo a tutti i suoi luogotenenti. Un provvedimento che contiene il famigerato accorciamento della prescrizione per gli incensurati, grazie al quale il premier si salverà nel processo Mills, estinto prima dell’ estate se il ddl sarà convertito in legge entro i termini previsti. Norme spacciate all’ opinione pubblica con la seguente motivazione: non è un Paese degno e moderno, quello nel quale un processo penale dura in media otto anni, e un processo civile quattro anni. L’ Europa ci chiede di essere più rapidi ed efficienti: per questo ci servono processi velocizzati e prescrizioni "accorciate". Motivazioni false, richiami strumentali alla Ue. Il processo breve, come conferma il Csm, è in realtà una vera e propria "amnistia", che nega la giustizia, non l’afferma. Ma tant’è: a giustificarlo, almeno sulla carta falsa usata dal Cavaliere, c’è il principio dell’ economia processuale.

Al Senato, in questi stessi giorni, i figuranti della Pdl si lanciano in un offensiva di segno completamente diverse. Meglio, diametralmente opposto. Se a Montecitorio la parola d’ ordine è "processo breve", a Palazzo Madama il grido di battaglia è "processo lungo". In commissione Giustizia il capogruppo pidiellino Franco Mugnai ha infatti presentato due emendamenti al testo sul giudizio abbreviato 1, con i quali si stabilisce il divieto di utilizzare le sentenze definitive come prova dei fatti in esse accertati e si afferma la facoltà della difesa di presentare liste infinite di testimoni, anche superflui, oltre che di far ripetere prove già assunte senza che il giudice possa impedirlo. In altri termini, con queste norme si sancisce il diritto delle difese, con tutte le tecniche possibili e immaginabili, di intralciare il corso del procedimento e di dilazionare quanto più possibile le sentenze. Appunto: processo lungo. Anzi lunghissimo. E non processo "europeo", ma processo "levantino". Qui non conta più l’ economia processuale, ma l’ ipertrofia procedurale.

Il cortocircuito logico è evidente. Il cinismo politico è patente. Il collasso etico è eclatante.

Eppure, agli italiani, vendono l’ intero "pacchetto" come "una riforma della giustizia epocale".

(06 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #186 inserito:: Aprile 07, 2011, 12:10:37 pm »


L'ANALISI

Dal tramonto del "Cesarismo" al declino di Berlusconi

Così è saltato un sistema di potere. Anche Tremonti in campo contro Geronzi.

Caltagirone si è mantenuto in una posizione mediana, ma poi ha dato il via libera a Nagel

di MASSIMO GIANNINI

L'impensabile è dunque accaduto.
Persino in un Paese bloccato come l'Italia. Il ribaltone al vertice delle Generali, senza enfasi, è davvero una "svolta epocale". Un "regime exchange": nel gergo della diplomazia internazionale, non c'è altra formula possibile per definire l'uscita di scena di Cesare Geronzi.

Un vero e proprio "cambio di regime".

Un "cambio di regime" che rispecchia la metamorfosi in corso negli assetti della finanza. Ma un "cambio di regime" che riflette anche il mutamento in atto negli equilibri della politica.

Sul piano politico, la fine del "geronzismo" coincide con il declino del berlusconismo. E non poteva essere altrimenti, vista la perfetta omogeneità e complementarità dei due fenomeni. Se è esistito e resiste un "cesarismo" politico, questo è rappresentato da Berlusconi.
Se è esistito e ora si estingue un "cesarismo" finanziario, questo è sempre stato rappresentato da Geronzi. L'uno aveva bisogno dell'altro, per radicarsi e perpetuarsi. E dunque, fatalmente, la caduta dell'uno indebolisce anche l'altro.

Lo sancì un editoriale del "Foglio" di due anni fa, quando il Cavaliere aveva da poco trionfato alle elezioni e Geronzi, allora presidente di Mediobanca, veniva consacrato come unico, grande "banchiere di sistema" e "snodo fondamentale", al crocevia tra politica ed economia, del sistema di potere berlusconiano. Lo aveva confermato una cena a casa di Bruno Vespa l'8 luglio 2010, quando il premier (insieme all'inseparabile Gianni Letta, gran sacerdote del rito geronziano) sedeva allo stesso tavolo con lo stesso banchiere di Marino e con il segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone.

Le dimissioni forzate di Geronzi sono un colpo mortale per quel sistema di potere, cattolico-apostolico-romano, che attraverso l'asse Geronzi-Letta ha blindato il Cavaliere. Facendolo finalmente entrare e poi rafforzandolo nel Salotto Buono del capitalismo italiano. Portandogli in dote un potere d'influenza, diretta o indiretta, sulle banche e le aziende strategiche rimaste nel Paese (da Mediobanca a Generali, da Ligresti a Pirelli, da Telecom a Rcs). Alimentandolo sotto il profilo lobbistico-mediatico (spesso con l'ausilio della "macchina del fango"), attraverso la rete collaudata della P4 di Luigi Bisignani e dei siti Internet più o meno "amici" (come Dagospia).

Tutto questo, oggi, viene spazzato via. Con il contributo decisivo di Giulio Tremonti, e questa è l'altra enorme novità politica: attraverso Geronzi, il ministro dell'Economia affonda la lama nel cuore del suo "carissimo nemico" Letta. Si crea così una rottura, proprio nell'ingranaggio vitale dell'apparato. Si produce una sconnessione, proprio dentro il circuito di potere che in questi anni ha garantito continuità al sistema. Dalla Cassa di risparmio alla Banca di Roma, dalla Banca di Roma a Capitalia, da Mediobanca alle Generali: nelle sue tante vite, Geronzi ha incarnato il "motore immobile", il punto di equilibrio. Quando c'era la Dc garantiva Andreotti. Quando è nata Forza Italia ha garantito Berlusconi. Sempre all'insegna della contiguità, e della continuità. Ora tutto questo non c'è più. E questo è già un enorme passo avanti, per il piccolo mondo antico del capitalismo italiano.

Sul piano della finanza, cioè degli assetti interni ai Poteri Forti e alle Generali, resta da capire come e perché il ribaltone sia stato possibile. E qui è stato fatale l'approccio che Geronzi ha sempre adottato, quando ha preso in mano le redini di un gruppo. Con l'unica "delega" che gli è sempre stata a cuore, cioè il telefono, il banchiere di Marino ha sempre segato il ramo sul quale sedevano i suoi manager. Lo fece con Pellegrino Capaldo, ai tempi della Cassa. Lo fece con Matteo Arpe, ai tempi di Capitalia. Lo fece con Alessandro Profumo, ai tempi di Unicredit. Lo ha fatto con Nagel e Pagliaro, ai tempi di Mediobanca. L'ha fatto con Giovanni Perissinotto, in questo anno vissuto pericolosamente alle Generali.

Lo scontro tra Geronzi e Perissinotto, in questi mesi, è stato molto più feroce di quanto non si immagini. È cominciato come un conflitto "locale" (il caso Kellner e l'affare Vtb), ma è diventata ben presto una guerra totale (il ruolo strategico e il futuro della compagnia). Presidente con l'unica delega sulla comunicazione, Geronzi ha cercato in tutti i modi di continuare a controllare le partecipazioni strategiche di Generali (da Mediobanca a Intesa a Rcs) e di far diventare anche il Leone Alato un "braccio armato" della politica economica del governo, ipotizzando di snaturare l'azienda più ricca d'Italia (con attivi per 470 miliardi di euro) in una "compagnia di sistema". Il suo alleato iniziale, in questa battaglia, è stato il finanziere bretone Vincent Bollorè, vicepresidente, col quale si dice condividesse il progetto segreto di una successiva fusione Generali-Axa.

Perissinotto, Ceo group con tutte le deleghe, ha resistito. E alla fine l'ha spuntata, forte del sostegno dei consiglieri d'amministrazione "di minoranza". Diego Della Valle su tutti, protagonista e capofila della lotta più strenua contro Geronzi. Ma poi Lorenzo Pelliccioli, i tre consiglieri espressione dei fondi, e alla fine anche i due consiglieri di Mediobanca e lo stesso Francesco Gaetano Caltagirone, vicepresidente vicario.

Il momento più drammatico dello scontro è avvenuto il 16 marzo, nel cda in cui Bollorè si è presentato chiedendo di sfiduciare Perissinotto: "Il Ceo se ne deve andare, per me il bilancio è falso". La seduta è stata interrotta tre volte. E per ben tre volte, chiuso in una stanza attigua a quella del consiglio, Bollorè è stato "arginato", e alla fine convinto a ripiegare su un'astensione da Nagel, da Pelliccioli e da Caltagirone. Geronzi ha tentato solo una timida mediazione, ma nulla di più. E quello è stato l'inizio della fine.

Il giorno dopo, 17 marzo, Perissinotto ha scritto a Geronzi una lettera di fuoco: "Non posso accettare che un vicepresidente dichiari che il bilancio è falso. Questo episodio lede il nome e l'immagine delle Generali. Su questo non transigo, nessuno si può permettere di dubitare dell'onestà mia e dei miei dirigenti". Già in quella missiva, il manager chiedeva al presidente un atto formale che risolvesse il caso Bollorè: da una presa di distanza pubblica alla richiesta di un passo indietro. Quell'"atto formale" non è mai arrivato. Il presidente, come Don Abbondio, ha cercato di troncare e sopire. Ma senza mai schierarsi apertamente a fianco del management, perché non ha mai rinunciato all'idea di una trasformazione genetica delle Generali.

Per prendere tempo, il banchiere di Marino ha cercato un ultimo compromesso con il Ceo, nel faccia a faccia del 24 marzo a Piazza Venezia. Un altro confronto-scontro burrascoso. Geronzi ha offerto la tregua: "Chiudiamo la polemica, facciamo un comunicato congiunto e lasciamo decantare le cose...". Perissinotto ha risposto picche. "No, è troppo tardi, lei ha destabilizzato la compagnia, ed io non mi fido più. Se vuole fare il capo-azienda lo dica chiaramente in consiglio, ma così non si può andare avanti". Quella sera stessa, Perissinotto è stato convocato a Via XX Settembre da Tremonti. È stata la mossa che ha cambiato definitivamente il corso della partita.

Il superministro dell'Economia ha preso in mano la pratica Generali. Ufficialmente, per ascoltare il resoconto di Perissinotto e formulargli un invito ecumenico: "Siate responsabili...". Ma sostanzialmente, per assestare la spallata finale al Tempio Sacro del potere di Letta.
In queste due settimane sono stati frequenti i contatti tra il ministro e Nagel, che dopo qualche incertezza iniziale ha avallato il contrattacco di Perissinotto. In una telefonata del 24 marzo l'ad di Mediobanca avrebbe addirittura caricato il Ceo delle Generali: "Spiega a Tremonti che Geronzi è un problema, e che Bollorè è un pericolo...". La risposta: "D'accordo, io lo faccio. Ma perché non lo fai anche tu?". E Nagel lo ha fatto. In queste due settimane anche Mediobanca ha cambiato strategia. Dall'attesa è passata all'attacco.

Alla fine della scorsa settimana, poi, si è mosso Caltagirone.
Il vicepresidente vicario si era mantenuto su una posizione mediana. Fortemente irritato dalle manovre di Geronzi: "Stavolta ha veramente esagerato". Ma anche perplesso su certe sfuriate di Della Valle: "Se lui è il "nuovo", non andiamo lontano". E anche su alcune scelte di Perissinotto: "Abbiamo saputo del nuovo assetto della governance in Telecom solo a cose fatte, e questa è un'anomalia...". Ma alla fine il costruttore romano si è convinto che così le Generali non potevano reggere. E ha dato via libera a Nagel.

Così si è chiuso il ciclo di Geronzi.
Con uno strappo che cambia radicalmente il panorama del potere italiano. Ma le prossime mosse saranno cruciali. Dalla scelta del nuovo presidente di Generali agli assetti di Mediobanca, dal ruolo di Unicredit su Fonsai-Ligresti alla difesa delle aziende strategiche come Parmalat o Edison. Il "sacrificio" di Geronzi non sarà stato inutile solo se consentirà al sistema industrial-finanziario di diventare più moderno, alle strutture proprietarie di diventare più aperte al mercato e ai manager di diventare più autonomi dalla politica. La "rupture" delle Generali segna la fine del vecchio capitalismo. Ma il nuovo è ancora tutto da costruire.

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(07 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #187 inserito:: Aprile 09, 2011, 12:19:58 pm »

L'INCHIESTA

Il piano truffa del premier, così la scossa all'economia è diventata un bluff

Costituzione, Sud, casa e incentivi: promesse addio.

A due mesi esatti dal varo del tanto sbandierato pacchetto per la crescita, non uno degli impegni è stato avviato


di MASSIMO GIANNINI

ANNUNCIAVANO una "scossa", e invece è stata una truffa. Oggi, a due mesi esatti dal varo del famoso "Big bang della ripresa", i nudi fatti dimostrano che il pacchetto "scossa all'economia", approvato a Palazzo Chigi il 9 febbraio scorso, è stata una banale operazione di marketing politico, una volgare "televendita", un puro diversivo. L'Italia è ferma, e il governo è immobile. È un giudizio basato sull'evidenza, non un pregiudizio dettato dall'ideologia. E non lo inficia il grande attivismo di Giulio Tremonti, sulle nomine nelle public utilities, sul ribaltone alle Generali e ora sulla nascita del Fondo salva-imprese da 20 miliardi, che nascerà lunedì sulle fondamenta della Cassa depositi e prestiti e che (anche se il ministro lo nega) somiglia tanto all'Iri del Terzo Millennio.

Queste sono altre "partite": riguardano il potere dell'establishment, non la crescita del Paese. La partita della crescita la stiamo perdendo. Per la semplice ragione che il governo non la sta giocando. "Per tornare a crescere dobbiamo dare una forte scossa all'economia. Forse la più forte che ci sia mai stata". Era il 2 febbraio, e Silvio Berlusconi, in un'intervista al Tg1 delle otto rassicurava così gli italiani, fiaccati da una lunga crisi economica, da una crescita zero del Prodotto lordo, da una disoccupazione giovanile al 30%. Una settimana dopo, il 9 febbraio appunto, ecco l'atteso "elettroshock". Consiglio
dei ministri straordinario a Palazzo Chigi, per varare il pacchetto "scossa all'economia". In conferenza stampa, con la parata dei ministri al gran completo e un Tremonti silenzioso (e palesemente conscio dell'effetto-raggiro della messinscena) il presidente del Consiglio annunciava entusiasta: "Siamo a un punto di svolta. Con questa scossa rilanceremo l'economia. Siamo sicuri che ci saranno sviluppi positivi, con un impatto sul Pil dell'1,5%. L'obiettivo è raggiungere una crescita del 3%, e perché no, anche del 4% nel giro di 5 anni".
Un trionfo. Salutato con toni celebrativi dall'intero circuito mediatico berlusconiano. Quel mercoledì 9 febbraio, il governo dava il "colpo d'ala" e il premier usciva finalmente dall'angolo, dopo settimane di stillicidio giudiziario con il tribunale di Milano e di quasi suicidio politico dentro la maggioranza. La "scossa" per far ripartire l'economia ruotava intorno a quattro "stimoli". La riforma dell'articolo 41 della Costituzione, per recidere lacci e lacciuoli dello Stato regolatore. Il riordino degli incentivi alle imprese, per renderli veloci e selettivi. Un provvedimento sulla semplificazione, per snellire procedure e adempimenti. Il Piano Sud, rilanciato per la quinta volta in un anno e mezzo. Il Piano Casa, ripresentato per la terza volta dalla vittoria elettorale del 13 aprile 2008.

A sessanta giorni esatti dai proclami del premier, il pacchetto si è dissolto nel nulla. Non uno di quei cinque punti spacciati come "rivoluzionari" all'opinione pubblica si è tradotto in norma di legge. Non uno di quei "miracoli" venduti alle parti sociali si è tradotto in atti concreti. Non c'è nulla. Non solo di varato, ma neanche di discusso, alla Presidenza del Consiglio, nei ministeri competenti, in Parlamento, negli enti locali. Nulla. A dispetto delle emergenze degli italiani e delle urgenze delle imprese.

L'articolo 41 di Tremonti
"È permesso tutto ciò che non è espressamente vietato". Questo era il nuovo "dogma" liberal-liberista, con il quale il governo aveva presentato la riforma dell'articolo 41 di una Costituzione considerata "sovietica" dal premier. Tremonti l'aveva preannunciata da almeno un anno, indicandola come un formidabile propellente per lo spirito d'impresa. Il 9 febbraio il provvedimento viene annunciato dal Consiglio dei ministri. Cambiano tre articoli della Costituzione: non solo il 41 (sulla funzione sociale dell'impresa), ma anche il 97 (con l'introduzione del "merito" nella Pubblica Amministrazione) e il 118 (che si modifica attribuendo allo Stato e agli enti locali il compito di "garantire l'autonoma iniziativa dei cittadini sulla base del principio di sussidiarietà").

Il ministro del Tesoro, che dovrebbe gioire, in conferenza stampa glissa e se ne va quasi subito, per prendere il treno che lo porterà nel Mezzogiorno insieme a Bonanni e Angeletti, in quello che è stato subito ribattezzato come "il viaggio della speranza". Ma riporre speranze salvifiche nel nuovo articolo 41 è fallace. Intanto perché è una revisione costituzionale, che ai sensi dell'articolo 138 richiede quattro lettura parlamentari e un eventuale referendum confermativo. Poi perché in 63 anni le imprese italiane sono nate e cresciute libere anche senza questa "revisione", di cui si fa fatica a comprendere l'impatto. E infine perché quel testo (rubricato alla Camera come n. 4144) è già affondato nel mare degli oltre 120 ddl di riforma costituzionale depositati e mai esaminati neanche in commissione. Nonostante questo, durante la conferenza stampa del 9 febbraio il ministro del Welfare Sacconi non risparmia i soliti toni epici: "Questa è una riforma storica". Come tutto quello che da due anni questo governo annuncia. Ma non fa.

Gli incentivi alle imprese di Romani
Altro ingrediente forte della "scossa", il neo-ministro dello Sviluppo Paolo Romani lo descrive così: "Con questo provvedimento eliminiamo le norme esistenti e riordiniamo gli incentivi in tre categorie: 1) rendiamo più semplice l'accesso agli incentivi automatici; 2) lanciamo nuovi bandi per il finanziamento di programmi organici; 3) snelliamo le procedure negoziali per il finanziamento dei grandi progetti d'investimento". Il testo riscrive "la disciplina della programmazione negoziata e degli incentivi per lo sviluppo del territorio, degli interventi di reindustrializzazione delle aree di crisi, degli incentivi per la ricerca e l'innovazione, di competenza del ministero dello Sviluppo a norma dell'articolo 3 della legge 99 del 23 luglio 2009". Ma c'è un primo problema: come recita il comunicato di Palazzo Chigi del 9 febbraio, il Cdm quel testo non l'ha varato affatto, ma si è limitato ad approvare "lo schema, rinviando ad un apposito decreto legislativo" da esaminare in un successivo Consiglio. C'è un secondo problema: anche quel decreto legislativo non ha mai visto la luce, perché nel frattempo in Parlamento sono scaduti i tempi per esercitare la delega. Quindi si ripartirà da zero. Se mai si ripartirà.

La semplificazione di Calderoli
Il terzo movimento della "frustata" incide sul rapporto tra Stato e mercato. Lo spiega ai cronisti il ministro competente, il leghista Roberto Calderoli: "Si tratta di norme semplificatorie che riguardano campi diversi, contratti pubblici, riqualificazione urbana, immobili di interesse culturale, volte a conferire celerità e snellezza delle procedure". Ma già dalla lettura del comunicato ufficiale di Palazzo Chigi del 9 febbraio, si capisce che la propaganda sta correndo più veloce della realtà. Anche in questo caso, il Consiglio dei ministri non ha approvato nulla, ma "ha avviato l'esame di un pacchetto di norme", e successivamente "ha rinviato a un tavolo di concertazione tra i numerosi ministri interessati la stesura definitiva del provvedimento, che sarà successivamente approvato in una prossima seduta". Da allora, non è stato messo in piedi alcun "tavolo", non c'è stata alcuna "stesura definitiva", non è stata convocata nessuna "prossima seduta". Non basta: il 9 marzo, un mese dopo l'annuncio della "scossa", lo stesso Calderoli ferma clamorosamente le macchine: "Il provvedimento sulla semplificazione slitta a dopo Pasqua". La motivazione riflette il caos entropico e la debolezza politica della coalizione forzaleghista: "Serve prima riportare la maggioranza nelle commissioni, a partire dalla Bilancio". Dunque, anche sulla semplificazione nulla di fatto. Se ne riparlerà a maggio. Salvo ulteriori rinvii.

Il Piano Sud di Fitto
Che sia un probabile bluff si capisce già il mercoledì della "scossa". Il Piano Sud era stato presentato e rilanciato già quattro volte. Ma in conferenza stampa il ministro per le politiche regionali Raffaele Fitto annuncia che entro il primo marzo arriverà la delibera Cipe e dichiara: "Si conferma l'impianto di novembre 2010, ed entro il 30 aprile sarà avviato il pacchetto di provvedimenti di attuazione". Il primo marzo è passato, e la delibera Cipe non si è vista, Al 30 aprile mancano tre settimane, ma non si è mossa una foglia. Lo ha ammesso malvolentieri lo stesso ministro, rispondendo in Senato a un parlamentare dell'opposizione: "La situazione è abbastanza preoccupante per le quantità di risorse rispetto agli obiettivi del piano... Entro marzo, e comunque non oltre aprile, il governo completerà l'iter approvativo... Quanto al Cipe, è chiaro che il riferimento al primo marzo era per segnare un periodo entro il quale completare questa fase... ". Come dire: è una scadenza buttata lì a caso, ma non conta niente e non vincola nessuno. Infatti la scadenza è passata, e niente è accaduto.

Il Piano Casa del Cavaliere
È il progetto sul quale il presidente del Consiglio ha dovuto già innescare due imbarazzanti retromarce. Non pago, il 9 febbraio ci riprova. "Riparte il Piano Casa, in uno dei prossimi Consigli dei ministri vareremo un decreto legge per rimuovere tutti gli ostacoli burocratici". Due mesi dopo, nessun Consiglio dei ministri riunito sul tema, nessun decreto legge varato, nessun ostacolo burocratico rimosso. Il Piano Casa resta una delle peggiori truffe mediatiche di questi ultimi anni. Le Regioni che possono vanno avanti da sole, con misure parziali ed episodiche che aiutano qualche piccola ristrutturazione, ma non danno certo "carburante" alla ripresa. Finora tredici governatori (dal Lazio alla Lombardia, dall'Emilia al Piemonte) hanno varato Piani Casa locali. Da Palazzo Chigi tutto tace.

La parabola del "pacchetto scossa" è tutta qui. La più colossale operazione di propaganda politico-economica mai costruita da un governo nella storia repubblicana. La più inquietante "arma di distrazione di massa" mai concepita da una maggioranza occupata soltanto a risolvere i problemi giudiziari del premier. Solo una domanda, cruciale: di fronte a questi imbrogli evidenti e fraudolenti, l'establishment no ha nulla da dire? Dov'è la Confindustria, raggirata sugli incentivi e sulla sburocratizzazione? Dove sono Cisl e Uil, ingannate sul fisco e sul Mezzogiorno? In attesa di risposte, non resta che aspettare il 12 aprile: entro martedì prossimo, Tremonti dovrà consegnare alla Ue il nostro Piano Nazionale di Riforme. Sarà il momento della verità. A Roma puoi anche barare, a Bruxelles non te lo permettono.

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(09 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #188 inserito:: Aprile 15, 2011, 04:33:54 pm »

IL COMMENTO

L'ultima difesa

di MASSIMO GIANNINI

LA TRENTOTTESIMA legge ad personam appena varata dalla Camera è l'espediente giuridico per un imputato eccellente, ma anche il ricostituente politico per un centrodestra agonizzante. Rianimato dall'atto di forza imposto al Parlamento, il presidente del Consiglio può rilanciare la fase che gli è più congeniale: quella del berlusconismo "da combattimento".

Non basta il via libera sulla prescrizione breve che lo può salvare dal processo Mills, ottenuto da un'aula di Montecitorio militarizzata dai capigruppo forzaleghisti e svilita dalla compravendita dei "responsabili". Non basta il dissennato disegno di legge sul "processo lungo" che lo può proteggere dalle sentenze su Ruby, Mediaset e Mediatrade, e che nel frattempo i "volonterosi carnefici" del premier stanno portando avanti al Senato con sprezzo assoluto dell'armonia ordinamentale e dell'economia processuale. Non basta la falsa "riforma epocale della giustizia" che il Guardasigilli Alfano gli ha confezionato, per punire i magistrati, per ingannare l'opposizione politica e per distrarre l'opinione pubblica. Il premier annuncia già la prossima battaglia. Vuole anche la legge-bavaglio, cioè la norma che limita drasticamente l'uso delle intercettazioni.

Non c'è limite a questa offensiva di primavera che ci accompagnerà fino alle prossime elezioni amministrative, tra un Parlamento trasformato nella Fortezza Bastiani del deserto dei tartari e un Tribunale di Milano trasformato nel palcoscenico di un predellino permanente. Berlusconi combatte perché vuole durare. Per questo non fa prigionieri.

Il premier non ha più dalla sua la politica: il governo non esiste, su nessuno dei fronti caldi della fase. Si alternano solo confusione e improvvisazione, dall'emergenza dei profughi all'esigenza delle riforme, dalla politica estera alla politica economica. L'unica "missione" visibile è la stessa da ormai diciassette anni: salvare il soldato Silvio dai suoi guai giudiziari. Per questo il capo del governo non esita a portare l'attacco al cuore dello Stato, delle istituzioni di garanzia, dei giudici.

Ma il premier ha ancora dalla sua l'aritmetica: la maggioranza è inchiodata a quota 314, lo stesso numero con il quale riuscì a respingere la mozione di sfiducia contro il governo presentata dai futuristi finiani il 14 dicembre e quella contro l'ex ministro Bondi presentata dal Pd il 26 gennaio. La fatidica quota 330, più volte evocata, resta una chimera. La coalizione è sfibrata dalla sua inettitudine operativa e lacerata dalle cene di corrente. Ma resiste, nonostante tutto. Nella sua metà campo, conta sulla precettazione forzata di ministri e sottosegretari. Nel campo avverso, si giova della defezione segreta dei franchi tiratori.

"Forte" della sua inconsistenza politica e della sua sufficienza numerica, Berlusconi non si rassegna al suo declino. E va fino in fondo, nel suo disegno di destrutturazione del sistema e di costituzionalizzazione della sua anomalia. La prescrizione breve è solo l'ultimo dei tanti, salatissimi "prezzi" che fa pagare agli italiani, per proteggere se stesso. Ma su questa ennesima legge-vergogna, o "amnistia permanente" secondo la definizione delll'Anm, sono ora accesi i riflettori del Quirinale. Le parole che il presidente della Repubblica ha pronunciato ieri, da Praga, sono chiarissime: "Valuterò i termini di questa questione quando saremo vicini all'approvazione definitiva in Parlamento". In quel "valuterò" non c'è l'annuncio di un'iniziativa specifica e preventiva sul disegno di legge che ora passa all'esame del Senato: né una bocciatura anticipata, né una moral suasion riservata. Napolitano si limita ad avvisare governo e maggioranza che esaminerà con particolare attenzione i contenuti ordinamentali e i profili costituzionali del testo, come prevedono le prerogative che l'articolo 87 della Carta del '48 gli riserva in materia di promulgazione delle leggi.

Il capo dello Stato, prima di firmare quel provvedimento, valuterà a fondo i suoi effetti. Avrà un precedente giuridico importante, sul quale parametrare la legittimità dell'attuale prescrizione breve: la legge ex Cirielli varata nel 2005 dallo stesso governo Berlusconi, che ridusse i termini della prescrizione con effetti retroattivi su tutti i processi pendenti, compresi quelli in Cassazione. Altra norma ad personam: allora per il Cavaliere c'erano in ballo i processi "toghe sporche", Sme e Imi-Sir. Altra forzatura delle regole: allora vi si opposero prima il presidente della Repubblica Ciampi (che pretese correzioni al testo in corso d'opera) e poi la Corte costituzionale (che giudicò parzialmente illegittima la legge). Oggi il precedente della ex Cirielli (che ha molte analogie con il caso del ddl Paniz) potrebbe avere un peso assai rilevante, nelle valutazioni di Napolitano. Il Quirinale, opportunamente, ha smesso da tempo di usare lo strumento della moral suasion, che presuppone la "leale collaborazione" tra le istituzioni.

Nei prossimi giorni tutto è dunque possibile. Il capo dello Stato saprà decidere per il meglio, come ha sempre fatto in questi anni difficili di "coabitazione all'italiana" con Berlusconi. Napolitano saprà come difendere i principi dello Stato di diritto, di fronte ai colpi di quello che i suoi cantori si ostinano a chiamare, simpaticamente, "il giocoliere galante", per occultarne la spinta destabilizzante. Si può "giocare" con tutto, ma non con la Costituzione della Repubblica italiana.

m.giannini@repubblica.it

(15 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #189 inserito:: Aprile 24, 2011, 05:59:47 pm »

Paniz e la macchina del pongo

Massimo GIANNINI

Sul campo minato della giustizia è in corso un'interessante evoluzione della strategia politico-mediatica berlusconiana. In prima linea c'è il premier, che porta avanti la sua azione di sfondamento, supportato da una truppa scelta di assaltatori sconosciuti ma risoluti (da Pini a Ceroni). E qui non ci sono spazi di mediazione: c'è solo l'attacco frontale, violento e sistematico, contro magistratura e istituzioni di garanzia. Ma nelle retrovie c'è una novità: l'ascesa di Maurizio Paniz, il parlamentare dell'emendamento sulla prescrizione breve.

Da qualche giorno, Paniz dilaga su giornali e talk-show. Volto risorgimentale, eloquio forbito, competenza indiscutibile, tono fermo ma pacato: Paniz è chiaramente il front-man scelto dalla Struttura Delta per spacciare agli italiani l'"altra faccia" del berlusconismo.

Quella più presentabile: seria, moderata, dialogante. Quella che non fa paura, ma rassicura. Ma al di là della forma, la sostanza non cambia. Paniz serve a confondere l'opinione pubblica, e a dimostrare, per interposta persona, che Berlusconi non insulta ma viene insultato, non perseguita ma viene perseguitato.

Il messaggio subliminale: i veri moderati siamo noi. Insomma, l'ennesima manipolazione. Anche Paniz è un ingranaggio della macchina. Stavolta del "pongo", non del fango. Ma il risultato finale è lo stesso.

m.gianninirepubblica.it 1

(23 aprile 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #190 inserito:: Aprile 26, 2011, 05:37:45 pm »

IL COLLOQUIO

Economia, Tremonti avverte il Pdl "La crescita non si fa con il deficit"

Il ministro: "Nessuno si faccia illusioni, il rigore non ha alternative".

Congiure? "Solo sciocchezze. Ho avuto l'appoggio di tutti i ministri".

Su Berlusconi: "Lui è il Pdl. Senza  l'uno non c'è l'altro. Silvio è insostituibile"

di MASSIMO GIANNINI


"MANOVRE, congiure, complotti? Sciocchezze. Qui si lavora, come sempre...". Nonostante i veleni che l'hanno preceduta, Giulio Tremonti racconta di aver passato una Pasqua "assolutamente tranquilla". Una Pasqua "di ordinario lavoro", appunto: "business, as usual", come diceva Churchill agli inglesi ai tempi delle grandi guerre. Il ministro dell'Economia sta preparando il Decreto Sviluppo, che sarà varato entro la prima metà di maggio. Considera "superati" gli attacchi del collega Galan 1, amplificati in prima pagina dal giornale della famiglia Berlusconi. "Mi creda, è stata un'iniziativa estemporanea, che non aveva nulla di strutturale ma molto di personale. Non l'ho mai letta come una "manovra" contro di me, autorizzata o addirittura ispirata dal presidente del Consiglio 2".

Tremonti giura di aver chiarito tutto con Berlusconi, nel lungo faccia a faccia di venerdì scorso. Si considera "soddisfatto" delle garanzie ottenute dal premier, e della dichiarazione ufficiale di "sostegno politico" che ha ricevuto da lui. "Soddisfatto" anche dello scudo protettivo che su di lui continua ad erigere la Lega dell'amico Bossi. "D'altra parte - aggiunge - mai come in questa occasione c'è stato l'appoggio degli altri ministri: per la prima volta, forse, si sono mobilitati per me...". C'è appena un filo di ironia, nelle parole del titolare del dicastero di Via XX Settembre, che tuttavia non si sente "in pericolo", come successe nel 2004, quando fu costretto alla resa dall'assedio di Fini e Follini, e dovette cedere la sua poltrona a Domenico Siniscalco. Stavolta non vede colleghi-congiurati pronti a colpirlo alle spalle, come successe due autunni fa con Brunetta e Scajola, che muovevano minacciosi contro di lui come la foresta di Birnan circonda Macbeth sulla collina di Dunsinane. E meno che mai vede "cospirazioni" anti-berlusconiane che lo riguardino o lo coinvolgono: ha sempre detto che "Berlusconi è il Pdl", e che "senza l'uno non c'è l'altro", e ripete ormai da cinque anni che "Silvio è insostituibile, e dunque il problema, quando si porrà, non è "chi", ma "cosa" lo sostituirà...".

Dunque il governo va avanti, sia pure "in un quadro difficile e indecifrabile", in cui ci sono continue fibrillazioni politiche e tensioni istituzionali. Ma proprio per questo il ministro del Tesoro si concentra sul suo "core business": l'economia. Sta limando il Decreto Sviluppo, che vedrà la luce entro la prima decade del mese prossimo e sarà illustrato informalmente alla riunione dell'Ecofin e dell'Eurogruppo il 16-17 maggio. Tremonti attribuisce una certa importanza al provvedimento, sia per ragioni legate al "coordinamento europeo degli interventi di politica economica", sia per ragioni di politica interna. Non sarà una "svolta epocale", come troppo spesso ripetono ministri poveri di idee ma ricchi di retorica. Ma conterrà misure simboliche "tutt'altro che irrilevanti", che anticipano in parte il "Programma Nazionale di Riforma" sul quale dovrà pronunciarsi la Commissione Ue nell'ambito del nuovo "Semestre Europeo". Cioè quello che Tremonti, rimandando alla lettura della sua "Premessa" al Documento di Economia e Finanza deliberato dal Consiglio dei ministri il 13 aprile 2011, definisce "il luogo comune per cominciare a organizzare, all'interno di un unico processo politico, indirizzi ed impegni condivisi e coordinati" tra gli Stati membri. Un passo decisivo, dopo quel "Patto per l'Euro" ratificato il 25 marzo dal Consiglio d'Europa dei capi di Stato e di governo, "che rappresenta un traguardo destinato a modificare radicalmente la struttura costituzionale europea".

Con il Decreto Sviluppo - anticipa il ministro - "cominciamo a ridurre l'oppressione fiscale sulle imprese". Si tratta soprattutto di misure di semplificazione, che riguardano gli adempimenti connessi agli studi di settore e, per le famiglie, l'eliminazione dell'obbligo di inoltrare ogni anno al fisco il quadro aggiornato dei familiari a carico, per poter beneficiare delle relative detrazioni. Poi ci saranno sgravi parziali per la ristrutturazione edilizia degli immobili, misure di agevolazione per la rinegoziazione dei mutui casa con le banche, un avvio di quella fiscalità di vantaggio per il Mezzogiorno (sulla quale pende tuttavia il giudizio della Commissione), e l'ennesimo rilancio del Piano Casa, con una formula - sostiene Tremonti - "che ci consentirà di superare le asimmetrie tra Stato e regioni: se queste non si adeguano, vale lo schema nazionale". Infine, ci sarà il sostegno alla ricerca: "Lavoriamo a un credito d'imposta del 90% per le imprese che commissionano ricerche o finanziano investimenti nelle università e negli istituti di ricerca: e questo bonus è davvero una grande innovazione, per un Paese come l'Italia".

Tutto questo non basterà certo a imprimere quella "scossa all'economia" troppe volte promessa e mai attuata. Non basterà a tacitare i rilievi della Banca d'Italia sulla crescita insufficiente, né ad esaudire le richieste di "svolta" che arrivano dalla Cgil di Susanna Camusso, né a far sentire meno "sola" la Confindustria di Emma Marcegaglia. Soprattutto sul fronte fiscale, "l'oppressione" continuerà a restare tale, finché non si passa dalla limitazione degli adempimenti alla riduzione delle aliquote. E finché questo non accade, anche nella maggioranza i maldipancia resteranno. Ed anzi aumenteranno, in vista delle elezioni amministrative che lo stesso Berlusconi ha già definito "un test nazionale", con il pensiero rivolto soprattutto alla sfida di Milano. Tremonti lo sa, ma avverte: "Noi sui conti pubblici non possiamo abbassare la guardia: abbiamo un sentiero di rientro, che ci deve portare al pareggio di bilancio nel 2014 e alla riduzione del debito pubblico. Da quello non si può uscire. Non esiste la fase due, senza la fase uno...". E di nuovo, anticipando i possibili assalti alla diligenza che ripartiranno nei prossimi giorni grazie al partito trasversale della spesa annidato nel governo e nella maggioranza, il ministro rinvia alla lettura della sua "premessa" al Def: "Lì c'è scritto tutto: basta leggere".

Basta leggere, per capire che "stabilità e solidità della finanza pubblica sono essenziali, tanto nel presente quanto nel tempo a venire", e che "non sono possibili sviluppo economico ed equilibrio democratico senza stabilità e solidità della finanza pubblica". "Non ci sono più spazi per ambiguità e per incertezze - ricorda Tremonti - la politica di rigore fiscale non è temporanea, non è conseguenza imposta da una congiuntura economica negativa, e non è nemmeno "imposta dall'Europa", ma è invece "la" politica necessaria e senza alternative per gli anni a venire". Dunque, è il messaggio finale, governo, Parlamento e parti sociali "devono evitare illusioni, supponendo una presunta alternativa tra rigore e crescita: la crescita non si fa più con i deficit pubblici". Quindi, i cordoni della borsa restano serrati. Entro il 2014 l'impegno irrinunciabile resta quello di raggiungere un sostanziale pareggio di bilancio, abbattendo il rapporto deficit/Pil dal 3,9% del 2011 allo 0,2% e perseguendo, nello stesso tempo, il "sistematico incremento del surplus primario" e la "progressiva riduzione del debito pubblico". Non solo: sul piano ordinamentale Tremonti conferma la volontà di "introdurre nella Costituzione il vincolo della disciplina di bilancio", per renderlo più precisamente e direttamente codificato "in conformità con le nuove regole di bilancio europee". Per questo, come prevede il Def, "sarà presentato e discusso in Parlamento un appropriato testo di riforma costituzionale".

Ribadita la linea del Piave del rigore, resta il nodo dello sviluppo. E qui il piatto piange. Tremonti rimanda al "Programma Nazionale di Riforma", che scommette su quelli che il ministro chiama "motori di sviluppo esterni all'area della spesa pubblica in deficit". Opere pubbliche, edilizia privata, istruzione e merito, Mezzogiorno e turismo il "contenitore" deborda, il contenuto latita. Soprattutto, al primo punto dell'agenda, resta la riforma fiscale, che per il ministro dell'Economia significa riduzione dello sterminato numero dei regimi fiscali di favore, spostamento dell'asse del prelievo dalle imposte dirette a quelle indirette, riduzione delle aliquote attraverso l'abbattimento della spesa pubblica e il recupero dell'evasione fiscale. Promesse fatte tante volte, a parole. Ma mai onorate, nei fatti. E anche questa volta non c'è troppo da illudersi. Tremonti è il primo a sapere che, al momento, non ci sono le condizioni economiche e politiche per ridurre le tasse. Lo ha detto più volte a Berlusconi. Glielo ha ripetuto anche nell'incontro di venerdì scorso a Palazzo Grazioli. "Una seria riforma, che riduca sensibilmente la pressione fiscale, non si fa in un mese, alla vigilia di un voto amministrativo: serve più tempo, e serve un respiro più lungo...". Ma proprio questo è il tema: quanto tempo ha Berlusconi? Quanto respiro ha il suo governo? Ha spacciato miracoli. Ormai "commercia" solo in miraggi.

(26 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #191 inserito:: Maggio 17, 2011, 05:05:16 pm »

L'EDITORIALE

Un'altra Italia

di MASSIMO GIANNINI


LA FAVOLA è finita. Il berlusconismo come narrazione epica e proiezione carismatica cade sotto i colpi della nuda verità. Non c'è più spazio per la menzogna sistematica, la propaganda populistica, la manipolazione mediatica. Questa volta il presidente del Consiglio non può brandire sondaggi posticci come armi di distrazione di massa. Questa volta c'è il voto di tredici milioni di italiani, a dimostrare che la sua parabola politica non è un "destino ineluttabile", e nemmeno una "biografia della nazione".

 È stato Berlusconi ad annunciare che questo appuntamento elettorale era molto più che una contesa locale. È stato lui stesso a definire il voto di Milano "un test nazionale", e a trasformare di nuovo (come ha sempre fatto dalla mitica discesa in campo del '94) la chiamata alle urne nell'ennesimo, titanico "referendum" sulla sua persona. Ebbene, la risposta degli elettori è inequivocabile. Il premier ha perso il suo referendum. E lo ha perso in modo clamoroso, subendo il colpo più devastante proprio nel cuore del suo sistema di potere. Nella città dove la favola era cominciata, e dove la destra forzaleghista ha costruito negli anni una roccaforte che pareva inespugnabile e un'egemonia che sembrava insuperabile.

Questo voto fotografa innanzi tutto una rovinosa sconfitta personale del premier. Berlusconi ha personalizzato l'intera campagna elettorale. Con una strategia chiara: killeraggio politico contro gli avversari nelle città, stato d'assedio permanente contro le istituzioni nel Paese. Mentre sparava parole come pallottole contro le toghe "cancro da estirpare" e contro il Quirinale "potere da ridimensionare", il Cavaliere è sceso in battaglia da capolista a Milano (mettendo la faccia e la firma persino sull'accusa vergognosa e violenta della Moratti contro Pisapia) ed è sceso in campo da tribuno a Napoli (rilanciando le sue colossali "ecoballe" sulla sciagura dei rifiuti, persino quella colpa dei "pm politicizzati"). La strategia non ha pagato. Di più, si è rivelata un suicidio, in entrambi i comuni sui quali il premier si è speso in prima persona.

Milano va al ballottaggio, per la prima volta dal '97, con Berlusconi che vede più che dimezzati i suoi voti di preferenza rispetto alle comunali del 2006, il candidato del centrosinistra che è in vantaggio, il Pd che diventa primo partito della città. E con Pisapia che, a dispetto della bugiarda imboscata morattiana sul suo passato di "amico dei terroristi", viene votato in massa come unico e autentico esponente dei "moderati" nel capoluogo lombardo. Un vero e proprio "miracolo a Milano". E al ballottaggio va anche Napoli, dove Lettieri non sfonda nonostante i disastri del Partito democratico dalle primarie in poi.

Ma questo voto fotografa anche una sconfitta politica della maggioranza. Questa volta non perde solo Berlusconi. Al contrario di quanto accadde alle politiche di tre anni fa, i voti in uscita dal Pdl non sono stati drenati dalla Lega, che a Milano cede quasi 5 punti sulle regionali del 2010 e poco più di 3 punti sulle politiche del 2008. La vagheggiata Padania, invece di rafforzarsi ed espandersi, sbiadisce e restringe i suoi confini. A Torino stravince Fassino, a Bologna  vince Merola, e capoluoghi importanti come Trieste e Savona, Varese e Pordenone, Rovigo e Novara, vanno al secondo turno. Il vento del Nord ha iniziato a cambiare direzione. E questo, per il Carroccio, è molto più che un campanello d'allarme.

Bossi non può dire, come aveva sussurrato prima del voto, "se la Moratti vince abbiamo vinto noi, se perde ha perso Berlusconi". Di fronte a questi dati, è l'intera alleanza forzaleghista che affonda. La Lega paga un prezzo altissimo alla sua metamorfosi, da partito di lotta a partito di governo. E paga un conto salatissimo a quel "vincolo di coalizione" che l'ha unita e la unisce al Pdl: ha sostenuto le campagne più odiose e onerose del Cavaliere, dalle norme ad personam alla guerra in Libia, e non ha ancora portato a casa il federalismo "realizzato". Quanto possono reggere le camicie verdi, ingabbiate dentro questo patto scellerato, e private dello spirito libero, rivoluzionario e pre-politico, grazie al quale hanno sfondato gli argini del Po dal 2001 in poi?

Ma questo voto fotografa anche la vittoria politica delle opposizioni. Di tutte le opposizioni. Il Pd esce dal voto con qualcosa in più del risultato che si aspettava. Bersani aveva detto: mi accontento di due vittorie piene (Torino e Bologna) e di due ballottaggi (Milano e Napoli). È andata esattamente così. Con un dato milanese che va al di là di tutte le aspettative: certo, almeno nel voto di lista dovuto più alla debolezza dell'avversario che alla forza dello sfidante. Ma un dato pur sempre sorprendente, che si accompagna ad una ripresa anche nelle altre città e province in cui si è votato. Con questi numeri, sarà difficile pretendere dal segretario una "verifica" sulla linea politica, come qualcuno aveva chiesto inopinatamente prima del voto. Con questi numeri, sarà opportuno che l'intero stato maggiore dei democratici coltivi il valore dell'unità e non più il rancore delle divisioni.

Il Terzo Polo di Casini e Fini, anche se ottiene un rendimento non esaltante dal punto di vista dei candidati, si consolida come ago della bilancia su scala nazionale. Esattamente quello a cui puntava: con il Centro, grande o piccolo che sia, bisogna scendere a patti, per vincere le elezioni. Anche se la diaspora all'interno di Futuro e Libertà non pare finita, e produrrà probabilmente altre dolorose rese dei conti.

Le altre forze a sinistra del Partito democratico crescono in modo significativo. Non solo l'Idv, con l'exploit di De Magistris a Napoli, ma anche Sinistra e Libertà di Vendola e i candidati "grillini" a Milano e soprattutto a Bologna. Qualche anima bella, soprattutto nel centrodestra sedicente "moderato", lamenterà ora il rischio di un preoccupante bradisismo elettorale verso le ali più radicali dell'opposizione. Ma che cosa c'è stato di più irriducibilmente estremista e tecnicamente eversiva, in questi mesi, se non la guerra totale condotta da Berlusconi contro tutti i suoi nemici?

E ad ogni modo, con questi risultati bisogna confrontarsi, prendendo atto che nel Paese un'ampia fetta di elettorato sente un bisogno di rappresentanza per una sinistra più solida e visibile, in quella metà del campo. In vista dei ballottaggi, questa vastissima area di opposizione è chiamata all'assunzione di una responsabilità forte, all'altezza del compito che gli elettori le hanno affidato. Si vedrà poi quali effetti potranno scaturire, a livello nazionale, da questa scomposizione e ricomposizione del fronte "anti-berlusconiano". Se cioè potrà esserci il rischio di riproporre sul mercato politico una copia sbiadita dell'improponibile Unione del 2006, o se potrà nascere su basi nuove e diverse quell'Alleanza costituzionale per la fuoriuscita dal berlusconismo, senza scorciatoie tattiche o contaminazioni ideologiche.

Ci sarà tempo per riflettere sul dato più generale di queste elezioni amministrative, che ci consegnano un Paese con un elettorato molto più saggio, più pragmatico e più fluido di come forse lo immaginavamo. Un elettorato che non affida cambiali in bianco a nessuno, nemmeno al Grande Imbonitore di Arcore. Che chiede fatti e non parole, soluzioni e non rappresentazioni. Un elettorato che non sembra affatto contento del bipartitismo imperfetto e improduttivo di questi anni e che, pur senza rinnegare le logiche del bipolarismo, guarda a orizzonti più ampi ed esige alleanze più larghe.

Ma intanto occorre prendere atto che quest'area di forte opposizione a Berlusconi esiste. Ed è vastissima. Forse è già maggioritaria, in questa Italia evidentemente non del tutto narcotizzata dal quasi Ventennio dell'anomalia berlusconiana. Un'Italia stanca di guerra, di tracotanze istituzionali e di prepotenze mediatiche, di abusi di potere e di leggi su misura. Un'Italia che non ne può più di un esecutivo indeciso a tutto e di un capo di Stato che incarna l'Anti-Stato. Anche la Lega non potrà non tenerne conto, nella fase che si apre di qui al termine della legislatura. Non si può più governare con l'Intifada azzurra di Berlusconi e con i Responsabili di Scilipoti. Il voto di ieri dimostra che questo Paese merita molto di più, e molto di meglio.

m.giannini@repubblica.it
 

(17 maggio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #192 inserito:: Giugno 01, 2011, 06:10:50 pm »

IL COMMENTO

La menzogna del potere

di MASSIMO GIANNINI


Il potere mente. Per abitudine alla manipolazione e per istinto di conservazione. Non c'è bisogno di aver letto la prima Hannah Arendt, o l'ultimo Don De Lillo, per sapere che "lo Stato deve mentire", o che il governo tecnicamente totalitario "fabbrica la verità attraverso la menzogna sistematica". Ma nessun potente mente con la frequenza e l'impudenza di Silvio Berlusconi. Non pago di aver danneggiato il Paese che governa, in un drammatico e surreale "colloquio" elemosinato a Obama a margine di un vertice tra gli Otto Grandi del pianeta, il presidente del Consiglio torna sul luogo del delitto. E, dopo aver inopinatamente e irresponsabilmente denunciato al presidente americano la "dittatura dei giudici di sinistra", lo "perfeziona", raccontando la stessa delirante bugia agli altri leader del G8.

Abbiamo già detto quale enorme discredito rappresentino, in termini di immagine internazionale, le parole scagliate contro l'Italia dall'uomo che dovrebbe rappresentarla al meglio nel mondo. Abbiamo già detto quali enormi "costi" imponga allo Stato, in termini di credibilità istituzionale, questo vilipendio della democrazia e dei suoi organismi. Ma è necessario, ancora una volta, squarciare la cortina fumogena con la quale il premier manomette i fatti, e denunciare l'ennesima menzogna sulla quale costruisce il teorema della "persecuzione giudiziaria". A Deauville, in una conferenza stampa costruita come una disperata requisitoria contro tutto e contro tutti, Berlusconi
compie l'ultima metamorfosi: da comune inquisito si trasforma in Grande Inquisitore. Accusa le "toghe rosse", insulta "Repubblica" e i giornalisti, "colpevoli" di non indignarsi di fronte allo "scandalo delle 24 accuse che mi riguardano, tutte cadute nel nulla". "Vergognatevi", tuona furente il presidente del Consiglio, calato nella tragica maschera dostoevskiana dei Fratelli Karamazov. Dovrebbe vergognarsi lui, per aver violentato ancora una volta la verità.

 A sentire il Cavaliere e i suoi "bravi", i processi che lo riguardano cambiano secondo gli umori e le stagioni. L'altro ieri aveva parlato di "31 accuse". In passato si era definito "l'uomo più perseguitato dell'Occidente, con 106 processi tutti finiti con assoluzioni". La figlia Marina ha evocato "26 accuse cadute nel nulla". Paolo Bonaiuti ha rilanciato con "109 processi e nessuna condanna". In realtà, come ha ricordato più volte Giuseppe D'Avanzo su questo giornale, i processi affrontati dal premier sono 16. Quattro sono ancora in corso: processo Mills (corruzione in atti giudiziari), diritti tv Mediaset (frode fiscale), caso Mediatrade (appropriazione indebita) e scandalo Ruby (concussione e prostituzione minorile). Negli altri 12 processi, solo tre sono state le sentenze di assoluzione: in un caso con "formula piena" (Sme-Ariosto/1, per corruzione dei giudici di Roma), negli altri due con "formula dubitativa" (Fondi neri Medusa e Tangenti alla Guardia di Finanza).

Gli altri 9 processi si sono conclusi con assoluzione, ma solo grazie alle leggi ad personam, fatte approvare nel frattempo dai suoi governi. Nei processi All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2 il Cavaliere è assolto dalla legge che ha depenalizzato il falso in bilancio. Nei processi sull'iscrizione alla P2 e sui terreni di Macherio è assolto perché i reati sono estinti e le condanne cancellate dall'apposita amnistia.

 Nei rimanenti 5 processi (All Iberian/1, affare Lentini, bilanci Fininvest 1988/1992, fondi neri del consolidato Fininvest e Lodo Mondadori) il premier è assolto grazie alle "attenuanti generiche", che gli consentono di beneficiare della prescrizione (da lui stesso fatta dimezzare con la legge Cirielli) e che operano sempre nei confronti dell'imputato ritenuto comunque "responsabile del reato".

Questa è dunque la verità storica, sull'imputato Berlusconi. A dispetto delle "persecuzioni" che lamenta, e delle "assoluzioni" che rivendica. Bugiarde, le une e le altre. È penoso doverlo ricordare. Ma è anche doveroso, alla vigilia di un turno elettorale che può cambiare il corso di questa disastrosa legislatura. E può spazzare via, finalmente, i danni e gli inganni compiuti dal Grande Inquisitore di Arcore.

m. gianninirepubblica. it
 

(28 maggio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #193 inserito:: Giugno 03, 2011, 02:54:29 pm »

L'INTERVISTA

"Via Berlusconi e faremo la nostra parte per un nuovo governo di fine legislatura"

L'analisi di D'Alema dopo le elezioni amministrative.

"Serve un altro premier se no si va al voto. Senza l'opposizione non si fanno grandi riforme, e quella della giustizia sarebbe spazzata via dal referendum"

di MASSIMO GIANNINI

ROMA - "Il risultato delle amministrative segna una svolta nel Paese. A questo punto, o si è in grado di dar vita a un governo di fine legislatura capace di fare ciò che serve all'Italia, cioè una manovra economica equa e una riforma delle legge elettorale, o si va al voto anticipato. Nell'uno e nell'altro caso, la condizione necessaria è che Berlusconi si faccia da parte". Massimo D'Alema, presidente del Copasir, riassume così il nuovo quadro politico post-elettorale. "I risultati parlano chiaro - dice l'ex ministro degli Esteri del Pd - c'è un cambiamento profondo nel Paese, e soprattutto nel Nord. Si è rotto il nucleo fondamentale del patto Berlusconi-Bossi sul quale si è retta l'Italia in questi anni. È esattamente questo asse di governo che è entrato in crisi con il voto. La parte più moderna ed evoluta del Nord, soprattutto nelle aree urbane, ha voltato le spalle al Pdl e alla Lega. E questa sconfitta non nasce dal linguaggio della campagna elettorale, ma dal fallimento del governo. Dal tradimento dell'idea di una società più libera, meno oppressa dal fisco e dalla burocrazia, che è stata il cuore del messaggio berlusconian-leghista. Questa rottura cambia i rapporti di forza del Paese: il Pd è il primo partito nelle maggiori aree metropolitane. Da Roma in su, tutte le città-capoluogo sono governate da noi".

Secondo avversari e politologi non ha vinto il centrosinistra, ha perso il centrodestra.
"Vedo circolare questa "velina". Ma non ha alcun fondamento. L'opposizione ha vinto, e il maggior partito dell'opposizione, cioè il Pd, ha visto accresciuta la sua leadership. Abbiamo guadagnato molti consensi rispetto alle regionali, e non solo in percentuale. In 29 comuni e province dove il centrosinistra ha prevalso, i nostri candidati vincenti sono 24. A Milano siamo testa a testa con il Pdl, ma negli altri capoluoghi del Nord siamo primi ovunque. Di che parliamo?".

Se parlassimo di Napoli e del Mezzogiorno, dove ce le avete prese?
"Abbiamo perso voti a Napoli, in altre città del Mezzogiorno e soprattutto in Calabria, e questo è derivato da punti di crisi del nostro partito cui bisognerà mettere mano con energia. Ma non è vero che nel Sud vince la destra. E non tutto il Sud è uguale: a parte il record di Salerno, c'è la Puglia dove le cose sono andate bene. Il dato più impressionante nel Mezzogiorno è la frantumazione politica che riflette la crisi sociale. Nelle città medie i candidati ai consigli comunali erano centinaia, e le liste erano decine. Questa polverizzazione da il segno di una mancanza di prospettive, e dunque facilita l'avvento di nuovi capipopolo o il ritorno di vizi antichi e di vecchie consorterie. Questo deve preoccupare tutti".

La questione cruciale è: che succede adesso? Il governo regge?
"Ora siamo al paradosso. Il Paese ha espresso una grande urgenza di cambiamento. L'attuale maggioranza ha una base di consenso ridotta a un terzo degli italiani. Di fronte a un quadro così mutato, è allarmante l'idea di un governo che vuol resistere altri due anni, non si sa bene a fare cosa. Un governo doppiamente delegittimato. In Parlamento, dove c'è una maggioranza numerica raccogliticcia e nata da un mini-ribaltone dopo la rottura con Fini. E ora anche nel Paese, come dimostra il risultato delle amministrative. Ebbene, questi signori pensano di fare finta di nulla?".

Così pare. Il premier rilancia su tutti i fronti, dal governo al partito.
"È una scelta totalmente irresponsabile. Questo non è un momento di ordinaria amministrazione. Siamo di fronte a scelte molto serie e importanti, per esempio sulla finanza pubblica. O si è in grado di dar vita a un governo di fine legislatura, che possa fare qualcosa di utile per il Paese, o si toglie il disturbo e si va alle elezioni".

Berlusconi non ci pensa nemmeno, e risponde: è ora delle grandi riforme.
"È un rito stancante, sentirli rilanciare adesso l'"agenda delle riforme", le più velleitarie e improbabili, tra l'altro. La riforma fiscale? E con quali soldi? La riforma costituzionale della giustizia? Non riesco neanche a indignarmi: in queste condizioni una riforma del genere sarebbe spazzata via dai cittadini, al referendum confermativo. Sono solo perdite di tempo. E di tempo non ce n'è più. Se questi signori intendono restare lì, arroccati a Palazzo Chigi, devono parlare d'altro. Si assumano almeno la responsabilità di risanare i conti, con una manovra economica che sarà più dolorosa proprio per le favole che Tremonti ha raccontato in questi tre anni. Questo è il primo dovere che hanno. Altro che "agenda delle riforme". La vera agenda che serve all'Italia è un'altra".

E quale sarebbe?
"Manovra economica equa e capace di rilanciare lo sviluppo, riforma elettorale, e poi nuove elezioni. Indichino loro una persona che può realizzare quest'agenda in pochi mesi. Noi possiamo prenderci anche una quota di responsabilità".

Naturalmente a patto che Berlusconi si dimetta?
"Non c'è alcun dubbio. Le sue dimissioni sarebbero necessarie non solo nella prospettiva di andare a elezioni anticipate, ma persino se si volesse salvare il cammino della legislatura. Senza l'opposizione non si fanno grandi riforme. Noi siamo pronti a fare la nostra parte. Ma prima se ne deve andare Berlusconi. Chi ci ha detto addirittura che non ci laviamo, ora non può venirci a dire "facciamo qualcosa insieme per l'Italia"...".

Ma la risposta ai problemi dell'Italia la può dare un governo di emergenza nazionale?
"Mi interessa relativamente poco il tipo di governo. L'importante, insisto, è l'agenda, che richiede un certo grado di condivisione. Non saprei dire quale sia la formula di un nuovo governo che riapre il dialogo. L'unica cosa che so, è che Berlusconi non è la persona adatta".

Ma il centrosinistra è adatto, per governare l'Italia? Il voto non dimostra uno spostamento dell'asse politico verso la sinistra più radicale?
"È vero l'opposto. Le candidature di Pisapia e De Magistris hanno portato a stemperare le posizioni più estreme. In questa campagna elettorale abbiamo registrato un comune sentire e una comune assunzione di responsabilità. Trovo straordinario che a Macerata il candidato di Sel sia venuto a sostenere il candidato dell'Udc. Come trovo interessante che la maggior parte dei candidati del Terzo Polo abbiano votato Pisapia a Milano. Mentre i politologi dicono che non si possono mescolare Vendola e Casini, gli elettori dimostrano che li vogliono mescolare allegramente".

Ora c'è invece chi sostiene che è inutile inseguire il centro, secondo l'idea fissa di D'Alema, quando basta ricompattare la sinistra.
"L'obiezione è priva di fondamento. Abbiano vinto perché sostenevamo l'idea di una larga alleanza democratica. Il maggior partito di centrosinistra non sbatte le porte in faccia al partito moderati. Se fossimo andati a votare dicendo "a noi del voto dei moderati non ci frega nulla", non li avremmo convinti a votare i candidati del centrosinistra. E invece questo è accaduto, e il risultato ci ha premiato. Qui nasce un cortocircuito: il partito va con una proposta politica alle elezioni, le vince e da questo trae l'insegnamento che la proposta politica va cambiata. Stravagante, non trova?".

D'accordo. Ma ora dovete passare dalle formule ai programmi. E qui sarà dura. Non si rischia il caravanserraglio della vecchia Unione?
"Questo è ora il nostro compito: lavorare a un programma di ricostruzione del Paese. Ma dobbiamo mettere a punto anche norme di comportamento precise. Ci vuole un vincolo di disciplina che ciascuno deve accettare, in Parlamento e fuori. Nella Spd tedesca, quando un parlamentare non è d'accordo con il partito su una questione di coscienza o sulla politica estera, può esprimere il suo dissenso con una dichiarazione in aula, ma non con il voto. Dobbiamo pensare a qualcosa di simile, per offrire ai cittadini la garanzia di una vera e duratura stabilità di governo".

E di Bersani cosa mi dice? Il Pd si è finalmente convinto del suo segretario? Sarà lui il vostro candidato premier?
"Bersani esce molto rafforzato. Si è confermata la sua capacità di lavorare alla ricostruzione del partito. Lui è certamente il nostro candidato premier. E lo sosterremo anche nelle primarie. In tutti i paesi democratici il leader del maggior partito è il candidato alla guida del governo. Io penso che sarà così anche in Italia".

E dei referendum del 12-13 giugno cosa pensa?
"La spinta al cambiamento dovrà proseguire anche lì. Ci impegneremo con tutte le nostre forze per raggiungere l'obiettivo".

m.giannini@repubblica.it

(03 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #194 inserito:: Giugno 06, 2011, 12:38:02 pm »

L'INTERVISTA

"Via Berlusconi e faremo la nostra parte per un nuovo governo di fine legislatura"

L'analisi di D'Alema dopo le elezioni amministrative.

"Serve un altro premier se no si va al voto.

Senza l'opposizione non si fanno grandi riforme, e quella della giustizia sarebbe spazzata via dal referendum"

di MASSIMO GIANNINI

ROMA - "Il risultato delle amministrative segna una svolta nel Paese. A questo punto, o si è in grado di dar vita a un governo di fine legislatura capace di fare ciò che serve all'Italia, cioè una manovra economica equa e una riforma delle legge elettorale, o si va al voto anticipato. Nell'uno e nell'altro caso, la condizione necessaria è che Berlusconi si faccia da parte". Massimo D'Alema, presidente del Copasir, riassume così il nuovo quadro politico post-elettorale. "I risultati parlano chiaro - dice l'ex ministro degli Esteri del Pd - c'è un cambiamento profondo nel Paese, e soprattutto nel Nord. Si è rotto il nucleo fondamentale del patto Berlusconi-Bossi sul quale si è retta l'Italia in questi anni. È esattamente questo asse di governo che è entrato in crisi con il voto. La parte più moderna ed evoluta del Nord, soprattutto nelle aree urbane, ha voltato le spalle al Pdl e alla Lega. E questa sconfitta non nasce dal linguaggio della campagna elettorale, ma dal fallimento del governo. Dal tradimento dell'idea di una società più libera, meno oppressa dal fisco e dalla burocrazia, che è stata il cuore del messaggio berlusconian-leghista. Questa rottura cambia i rapporti di forza del Paese: il Pd è il primo partito nelle maggiori aree metropolitane. Da Roma in su, tutte le città-capoluogo sono governate da noi".

Secondo avversari e politologi non ha vinto il centrosinistra, ha perso il centrodestra.
"Vedo circolare questa "velina". Ma non ha alcun fondamento. L'opposizione ha vinto, e il maggior partito dell'opposizione, cioè il Pd, ha visto accresciuta la sua leadership. Abbiamo guadagnato molti consensi rispetto alle regionali, e non solo in percentuale. In 29 comuni e province dove il centrosinistra ha prevalso, i nostri candidati vincenti sono 24. A Milano siamo testa a testa con il Pdl, ma negli altri capoluoghi del Nord siamo primi ovunque. Di che parliamo?".

Se parlassimo di Napoli e del Mezzogiorno, dove ce le avete prese?
"Abbiamo perso voti a Napoli, in altre città del Mezzogiorno e soprattutto in Calabria, e questo è derivato da punti di crisi del nostro partito cui bisognerà mettere mano con energia. Ma non è vero che nel Sud vince la destra. E non tutto il Sud è uguale: a parte il record di Salerno, c'è la Puglia dove le cose sono andate bene. Il dato più impressionante nel Mezzogiorno è la frantumazione politica che riflette la crisi sociale. Nelle città medie i candidati ai consigli comunali erano centinaia, e le liste erano decine. Questa polverizzazione da il segno di una mancanza di prospettive, e dunque facilita l'avvento di nuovi capipopolo o il ritorno di vizi antichi e di vecchie consorterie. Questo deve preoccupare tutti".

La questione cruciale è: che succede adesso? Il governo regge?
"Ora siamo al paradosso. Il Paese ha espresso una grande urgenza di cambiamento. L'attuale maggioranza ha una base di consenso ridotta a un terzo degli italiani. Di fronte a un quadro così mutato, è allarmante l'idea di un governo che vuol resistere altri due anni, non si sa bene a fare cosa. Un governo doppiamente delegittimato. In Parlamento, dove c'è una maggioranza numerica raccogliticcia e nata da un mini-ribaltone dopo la rottura con Fini. E ora anche nel Paese, come dimostra il risultato delle amministrative. Ebbene, questi signori pensano di fare finta di nulla?".

Così pare. Il premier rilancia su tutti i fronti, dal governo al partito.
"È una scelta totalmente irresponsabile. Questo non è un momento di ordinaria amministrazione. Siamo di fronte a scelte molto serie e importanti, per esempio sulla finanza pubblica. O si è in grado di dar vita a un governo di fine legislatura, che possa fare qualcosa di utile per il Paese, o si toglie il disturbo e si va alle elezioni".

Berlusconi non ci pensa nemmeno, e risponde: è ora delle grandi riforme.
"È un rito stancante, sentirli rilanciare adesso l'"agenda delle riforme", le più velleitarie e improbabili, tra l'altro. La riforma fiscale? E con quali soldi? La riforma costituzionale della giustizia? Non riesco neanche a indignarmi: in queste condizioni una riforma del genere sarebbe spazzata via dai cittadini, al referendum confermativo. Sono solo perdite di tempo. E di tempo non ce n'è più. Se questi signori intendono restare lì, arroccati a Palazzo Chigi, devono parlare d'altro. Si assumano almeno la responsabilità di risanare i conti, con una manovra economica che sarà più dolorosa proprio per le favole che Tremonti ha raccontato in questi tre anni. Questo è il primo dovere che hanno. Altro che "agenda delle riforme". La vera agenda che serve all'Italia è un'altra".

E quale sarebbe?
"Manovra economica equa e capace di rilanciare lo sviluppo, riforma elettorale, e poi nuove elezioni. Indichino loro una persona che può realizzare quest'agenda in pochi mesi. Noi possiamo prenderci anche una quota di responsabilità".

Naturalmente a patto che Berlusconi si dimetta?
"Non c'è alcun dubbio. Le sue dimissioni sarebbero necessarie non solo nella prospettiva di andare a elezioni anticipate, ma persino se si volesse salvare il cammino della legislatura. Senza l'opposizione non si fanno grandi riforme. Noi siamo pronti a fare la nostra parte. Ma prima se ne deve andare Berlusconi. Chi ci ha detto addirittura che non ci laviamo, ora non può venirci a dire "facciamo qualcosa insieme per l'Italia"...".

Ma la risposta ai problemi dell'Italia la può dare un governo di emergenza nazionale?
"Mi interessa relativamente poco il tipo di governo. L'importante, insisto, è l'agenda, che richiede un certo grado di condivisione. Non saprei dire quale sia la formula di un nuovo governo che riapre il dialogo. L'unica cosa che so, è che Berlusconi non è la persona adatta".

Ma il centrosinistra è adatto, per governare l'Italia? Il voto non dimostra uno spostamento dell'asse politico verso la sinistra più radicale?
"È vero l'opposto. Le candidature di Pisapia e De Magistris hanno portato a stemperare le posizioni più estreme. In questa campagna elettorale abbiamo registrato un comune sentire e una comune assunzione di responsabilità. Trovo straordinario che a Macerata il candidato di Sel sia venuto a sostenere il candidato dell'Udc. Come trovo interessante che la maggior parte dei candidati del Terzo Polo abbiano votato Pisapia a Milano. Mentre i politologi dicono che non si possono mescolare Vendola e Casini, gli elettori dimostrano che li vogliono mescolare allegramente".

Ora c'è invece chi sostiene che è inutile inseguire il centro, secondo l'idea fissa di D'Alema, quando basta ricompattare la sinistra.
"L'obiezione è priva di fondamento. Abbiano vinto perché sostenevamo l'idea di una larga alleanza democratica. Il maggior partito di centrosinistra non sbatte le porte in faccia al partito moderati. Se fossimo andati a votare dicendo "a noi del voto dei moderati non ci frega nulla", non li avremmo convinti a votare i candidati del centrosinistra. E invece questo è accaduto, e il risultato ci ha premiato. Qui nasce un cortocircuito: il partito va con una proposta politica alle elezioni, le vince e da questo trae l'insegnamento che la proposta politica va cambiata. Stravagante, non trova?".

D'accordo. Ma ora dovete passare dalle formule ai programmi. E qui sarà dura. Non si rischia il caravanserraglio della vecchia Unione?
"Questo è ora il nostro compito: lavorare a un programma di ricostruzione del Paese. Ma dobbiamo mettere a punto anche norme di comportamento precise. Ci vuole un vincolo di disciplina che ciascuno deve accettare, in Parlamento e fuori. Nella Spd tedesca, quando un parlamentare non è d'accordo con il partito su una questione di coscienza o sulla politica estera, può esprimere il suo dissenso con una dichiarazione in aula, ma non con il voto. Dobbiamo pensare a qualcosa di simile, per offrire ai cittadini la garanzia di una vera e duratura stabilità di governo".

E di Bersani cosa mi dice? Il Pd si è finalmente convinto del suo segretario? Sarà lui il vostro candidato premier?
"Bersani esce molto rafforzato. Si è confermata la sua capacità di lavorare alla ricostruzione del partito. Lui è certamente il nostro candidato premier. E lo sosterremo anche nelle primarie. In tutti i paesi democratici il leader del maggior partito è il candidato alla guida del governo. Io penso che sarà così anche in Italia".

E dei referendum del 12-13 giugno cosa pensa?
"La spinta al cambiamento dovrà proseguire anche lì. Ci impegneremo con tutte le nostre forze per raggiungere l'obiettivo".

m.giannini@repubblica.it

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