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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 167055 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Luglio 31, 2010, 05:13:27 pm »

IL COMMENTO

La fine del regime

di MASSIMO GIANNINI


Un governo balneare, di fine regime. è tutto quello che resta della grande illusione berlusconiana. Prometteva di cambiare l'Italia e di durare per "almeno tre legislature". Dopo la rottura definitiva decretata ufficialmente da Fini, è quasi certo che il Berlusconi Terzo, nato due anni fa con la più schiacciante maggioranza parlamentare della storia repubblicana, non arriverà a concludere nemmeno la sua prima legislatura. Ma con la giornata di ieri non tramonta solo un'illusione di governo.

Muore anche l'illusione di una Nuova Destra, moderna ed europea, che in questo Paese, sotto le insegne del Cavaliere non ha e non avrà mai la possibilità di esistere. É in nome di questa Destra impossibile che Gianfranco Fini ha consumato il suo strappo. E stavolta è uno strappo vero e non più sanabile. Stavolta non siamo "alle comiche finali", come l'allora leader di An disse sprezzante tre anni fa di fronte alla Rivoluzione del Predellino, salvo poi salirci a sua volta per "co-fondare" (turandosi il naso) il Partito del Popolo delle Libertà. Stavolta Fini, reagendo alla "purga" berlusconiana del giorno prima, stila il certificato di morte definitiva di quel partito che ha contribuito a costruire, ma nel quale è sempre stato trattato, alternativamente, o da ospite, o da estraneo o da intruso.

In quella scarna ma esiziale cartella di testo letta dal presidente della Camera è riassunta davvero la "brutta pagina" di storia di questo centrodestra. Che non è stata scritta nell'epilogo di questi giorni, ma stava già tutta nel suo prologo di tre anni fa. Era tutto già chiaro, per chi avesse voluto capire, al congresso fondativo del Pdl. Già Fini tracciò la linea del Piave di un'"altra Destra", incompatibile con quella berlusconiana. Una destra costituzionale, repubblicana, laica. Non incostituzionale, populista, atea devota (come quella del Cavaliere). E nemmeno a-costituzionale, secessionista, pagana (come quella del Senatur). Già lì Fini osò l'inosabile, chiedendo a Berlusconi di non essere più Berlusconi: cioè di accettare il pluralismo delle idee e di rispettare la  diversità delle opinioni, di inseguire l'interesse collettivo e di valorizzare la democrazia parlamentare, di tutelare i diritti delle persone e di difendere le istituzioni. Già lì Fini comprese, sia pure senza dirlo, l'impraticabilità della scommessa: invitò la sua gente, che scioglieva da Alleanza Nazionale, a "non aver paura di lasciare la casa del padre", ma sapeva in cuor suo che la "nuova casa" sarebbe stata un misto tra un casino e una caserma, e che il "nuovo padre" sarebbe stato un misto tra un padrino e un padrone.

Così é stato, da allora. Questi due anni narrano la cronaca di un partito mai nato. Le due destre, contaminate da una terza destra di Bossi, non potevano convivere, ma solo confliggere. È quello che è accaduto, e che il documento di Fini fotografa fedelmente. Questo Pdl, persino più del Pd, è il vero "amalgama mal riuscito" della politica italiana. Il collasso avviene sulla legalità, che non a  caso (insieme alla "giustizia sociale" e all'"amor di patria") è la piattaforma identitaria che Fini rivendica e rilancia. E non a caso, proprio sulla legalità, il cofondatore porta l'attacco più duro al cuore del berlusconismo, quando dice "onoreremo il patto con milioni di elettori onesti, grati alla magistratura e alle forze dell'ordine, che non capiscono perché nel nostro partito il garantismo significhi troppo spesso pretesa di impunità".

Parole semplici e chiare, che negano alla radice una legislatura finora interamente vissuta dal premier all'insegna della "politica ad personam", dove l'interesse di un singolo o di una casta ha fatto premio su tutto il resto. Ma il divorzio poteva avvenire su altro. E in questi mesi ha più o meno incubato su tutti i fronti dell'azione di  governo: dall'immigrazione all'economia. Perché su tutto le differenze erano e sono rimaste irriducibili, com'era ovvio per il dna di due culture politiche incomparabili  e com'era stato plasticamente dimostrato nella  drammatica direzione del Pdl in cui i due leader (che ne sono portatori) hanno inscenato per la prima volta in pubblico uno scontro non solo ideologico, ma addirittura fisico. Era un patto con il Diavolo, quello di Fini. Non poteva reggere, e non ha retto. Non puoi credere che Berlusconi possa diventare De Gasperi, e nemmeno che possa scimmiottare Andreotti: cioè rassegnarsi ad essere il segretario di un vero partito di massa dei moderati e dei conservatori. Berlusconi é un capo, é il prototipo degli illiberali, e coltiva una visione proprietaria delle istituzioni e gregaria dei partiti. Fini lo scrive testualmente, nel suo documento, rivendicando la presidenza della Camera (che non é ovviamente nelle disponibilità del presidente del Consiglio, checché ne dica citando a sproposito un Pertini del '69) e contestando al Cavaliere la "logica aziendale" con la quale amministra la cosa pubblica (che non può obbligare la terza carica dello Stato a comportarsi come un "amministratore delegato").

"Cesarismo carismatico" è la formula che, riecheggiando impropriamente il "centralismo democratico" del vecchio Pci, riflette al meglio la natura del potere berlusconiano. Un ossimoro vagamente moroteo, che  dimostra l'evidenza di un fatto, a Fini e a tutti coloro che vogliono coglierla: dove c'è un Cesare non può esserci una democrazia. Questo, dunque, è l'abisso che oggi separa le due destre, e nel quale sprofonda per sempre non solo il Pdl, ma lo stesso governo che ne era l'emanazione diretta. Solo i patetici cantori di regime possono affermare che "ora il Pdl e il governo sono più forti di prima". Idiozie da Tg1, che non funzionano più nemmeno in Transatlantico.

Da ieri, con l'uscita dei finiani e la nascita del gruppo autonomo Futuro e Libertà, il Pdl ha cessato di esistere politicamente, e il governo ha cominciato  a sopravvivere pericolosamente. A dispetto della sofferta sicumera del premier, Fini ha argomenti e numeri per mettere alle corde questa maggioranza disgregata e disperata, ormai ad esclusiva trazione forzaleghista. Dalle intercettazioni al federalismo, dalla manovra alla fecondazione assistita, per l'autunno si profila un rovinoso e rischioso Vietnam parlamentare. Il sostegno apparente che la pattuglia del presidente della Camera promette all'esecutivo, condizionato ai singoli provvedimenti e al rispetto dell'interesse generale, vuol dire in realtà una sola cosa. Per Fini é iniziata la stagione delle mani libere. Non sappiamo dove lo porterà. Ma sappiamo che da oggi, specularmente, Berlusconi e il suo governo hanno le mani legate. C'è un solo modo, per sciogliere la corda. Dichiarare la resa. E affidarsi senza condizioni (meno che mai quelle assurde, come le elezioni anticipate) alle sole mani che contano in questo momento: quelle del presidente della Repubblica.
m.giannini@repubblica.it

(31 luglio 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #136 inserito:: Agosto 05, 2010, 03:33:14 pm »

IL COMMENTO

Le anime morte

di MASSIMO GIANNINI

È finita. Il vascello fantasma del governo Berlusconi (come lo aveva definito Ezio Mauro meno di un mese fa) naviga ormai alla deriva.
Senza un nocchiero, senza una rotta, senza una meta. Neanche più in balia di se stesso, ma piuttosto di una "Cosa" che non ha ancora un nome e un colore, ma che in Parlamento già esiste, e già cambia la geografia politica del Paese. Questo dice il voto della Camera sulla mozione di sfiducia contro il sottosegretario Caliendo: la maggioranza di centrodestra che aveva stravinto le elezioni due anni e mezzo fa non solo non esiste più politicamente, com'era ormai evidente già da qualche mese.

Ma ora ha cessato di esistere anche aritmeticamente. Quella che fu l'Invincibile Armata berlusconiana, amputata della componente finiana e ridimensionata nel perimetro forzaleghista, non ha più i numeri per governare.

Berlusconi può anche sdrammatizzare, accusando il presidente della Camera e ripetendo che il governo non si manda a casa per una questione che non riguarda il programma. Bossi può anche tirare a campare, dicendo "resistiamo" e ripetendo il rozzo esorcismo del "dito medio" alzato di fronte ai cronisti. Ma da ieri, in Parlamento, la somma dei voti delle opposizioni e dei gruppi di Futuro e Libertà, Udc, Api e Mpa è superiore alla somma dei voti di Pdl e Lega. E non di poco, visto che a Montecitorio, nello scrutinio sulla sfiducia al suo sottosegretario, il governo si è piantato a quota 299 contrari (dunque ben 17 voti sotto al quorum) contro i 304 tra favorevoli e astenuti.

Questo è il primo elemento di valutazione politica, più generale: il voto di ieri segna il destino della legislatura. Com'era chiaro fin dalla scorsa settimana, la rottura con Fini e con i finiani non era e non è solo l'alzata di capo di un leader in cerca di più potere e l'ammutinamento velleitario di un drappello di colonnelli in cerca di più visibilità. Era ed è invece da un lato la fine di una costruzione ideologica (il Pdl) totalmente imperniata intorno alla biografia e alla mitologia berlusconiana, e dall'altro lato l'inizio di una formazione politica (il gruppo FeL) fortemente impegnata nell'alternativa di una destra moderata e moderna, costituzionale e legalitaria, repubblicana ed europea. Tutto ciò che la destra berlusconiana non è mai stata e non sarà mai, immersa com'è nella venerazione acritica del Capo, nell'adorazione populistica delle sue gesta, nella difesa parossistica dei suoi affari.

È bastato che il presidente della Camera parlasse di una "questione morale" esplosa dentro il Popolo delle Libertà, che chiedesse una serie di doverosi passi indietro su posizioni eticamente indifendibili (da Brancher allo stesso Caliendo), che invocasse una forza conservatrice sì, ma nel solco delle famiglie del popolarismo occidentale, cioè autenticamente capace di incarnare gli interessi nazionali della collettività, e non più solo quelli personali di una casta. È bastato tutto questo, in pochi giorni, per allargare le colonne d'Ercole tra il vascello fantasma del Cavaliere e del Senatur e la leggera ma promettente imbarcazione di Fini. E soprattutto per allargare uno spazio politico assai vasto, nella solita "terra incognita" del centro. Da Fini a Casini, da Rutelli a Lombardo, e domani chissà, da Montezemolo ai pentiti della ex Margherita. Non sappiamo se e quanto questo spazio sia effettivamente agibile, in termini di consensi attuali e potenziali, nell'Italia di oggi. Anzi, tenderemmo a pensare che i margini, almeno sotto il profilo elettorale, siano piuttosto ristretti, visto che il Paese, in questi anni di pur tormentata transizione, ha dimostrato di aver acquisito comunque una consolidata cultura del bipolarismo.

Ma quello che sappiamo è che da ieri, almeno in Parlamento, questa Terza Forza esiste a tutti gli effetti. Agisce e reagisce al di fuori del perimetro segnato dal bipartitismo. Pensa in maniera convergente e pesa in misura determinante, su tutto ciò che passa al vaglio delle assemblee legislative. Qui sta il cambio di fase: da oggi, per Berlusconi e quindi per l'intera politica italiana, governare è ogni giorno la traversata di un oceano in tempesta. E ogni giorno puoi andare a fondo, se non tratti ma vuoi solo comandare, se non fai politica ma solo propaganda. Ecco perché, comunque vada, da oggi si può considerare esaurito anche questo ciclo berlusconiano. Il suo propulsore ne é stato, ancora una volta, il distruttore. La regressione autoritaria e la vocazione proprietaria del premier hanno finito per assorbire, fino ad esaurirla, l'intera spinta iniziale e inerziale di questa sedicente "Nuova Destra". Che ora, per paradosso, rischia di morire sotto i colpi di un ipotetico "Nuovo Centro". Saprà anche di Prima Repubblica, come ribadisce con spregio lo stesso Cavaliere, dimenticando che proprio al "Caf" di Craxi-Andreotti-Forlani deve tutte le sue fortune. E sarà anche "piccolo", come ripetono i suoi nemici dalla spaurita ridotta azzurro-verde. Ma ieri ha dimostrato di essere grande quanto basta per cambiare, qui ed ora, il corso della storia.

Ma c'è anche un secondo elemento di valutazione politica che va colto nel voto di ieri, e che riguarda il tema più specifico, ma non meno importante, della legalità. Il modo in cui il Pdl e la falange berlusconiana hanno continuato a difendere in aula e fuori dall'aula il sottosegretario Caliendo è semplicemente vergognoso. Solo un potere disperato e dissennato può esprimere un tale livello di inciviltà politica e di insensibilità istituzionale, facendo quadrato su un uomo di governo implicato in un'inchiesta in cui si parla di "reti criminali" che hanno come obiettivo quello di condizionare le scelte di giudici e magistrati su questioni "sensibili" per il presidente del Consiglio (sentenza della Consulta sul Lodo Alfano) o per alti esponenti della maggioranza (sentenze del Tar sulle liste elettorali in Lombardia). Solo un incauto replicante del premier come il Guardasigilli Alfano può spacciare l'opportunismo clanico per "garantismo giuridico", e ri-raccontare l'opera buffa della P3 come "un'invenzione di certi pm e di certa sinistra", e non invece come la tragica replica di un sistema di potere fondato sulla corruzione e sull'infiltrazione degli amici, sul ricatto e sulla distruzione dei nemici. E infine solo un voltagabbana irresponsabile come Cicchitto, invece di fare qualche onesto mea culpa individuale e collettivo, può attaccare in aula, e per l'ennesima volta, questo giornale e il suo editore. Ha parlato di "rito tribale che si rinnova una volta al mese", con il quale ogni volta si deve "immolare una persona al giustizialismo".
Responsabile di questa deriva sarebbero "Repubblica e Carlo De Benedetti, che ha ferocia ma non ha carisma personale".

Ad un politico squalificato come Cicchitto, transitato dalla nobile sinistra lombardiana all'assai meno nobile destra berlusconiana, non si dovrebbe mai rispondere. Ma poiché l'attacco è avvenuto in Parlamento, a questo "onorevole" vanno ricordate due cose. La prima è che "Repubblica", sullo scandalo dell'eolico, sul ruolo di Cesare e sul coinvolgimento di Caliendo, non ha costruito teoremi, ma si è limitata a pubblicare le intercettazioni pubbliche dell'inchiesta e a raccontare gli atti ufficiali delle procure. La seconda é che un qualche "deficit" di "carisma personale" lo ha avuto Cicchitto, visto che per acquisirne un po' lo andò ad elemosinare direttamente da Licio Gelli, con tanto di cerimonia di iniziazione e poi di tessera di iscrizione alla vecchia Loggia P2, in tutta evidenza "modello di riferimento" anche della giovane P3.

Ma in fondo, al punto in cui siamo arrivati e nel gorgo in cui sta affondando la maggioranza, questi sono aspetti ormai quasi marginali. Resta il dato politico, gravissimo, di un Paese a un passo dalla crisi, e di un governo che non si rassegna a prenderne atto. Senza politica, senza aritmetica. Vagano per lo Stige. "Anime morte", avrebbe detto Gogol. Ma in questa deriva l'Italia non può e non deve finire.
m.giannini@repubblica.it

(05 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/05/news/anime_morte-6077588/?ref=HREA-1
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« Risposta #137 inserito:: Agosto 09, 2010, 10:14:38 am »

IL COMMENTO

Responsabilità e ricatti

C'è una sola fabbrica che non chiude per ferie ma che invece produce la sua "merce" a ritmi serrati: è la berlusconiana "fabbrica del fango" che attraverso l'uso scellerato dei giornali di famiglia e l'abuso combinato di servizi e polizie sforna dossier avvelenati contro amici e nemici del presidente del Consiglio

di MASSIMO GIANNINI


NELLA torrida e torbida estate italiana, come purtroppo avevamo previsto, c'è dunque una sola fabbrica che non chiude per ferie, ma che invece produce la sua "merce" a ritmi sempre più serrati. È la berlusconiana "fabbrica del fango", che attraverso l'uso scellerato dei giornali di famiglia e l'abuso combinato di servizi e polizie sforna dossier avvelenati contro amici e nemici del presidente del Consiglio.

Da qualche giorno, com'era ovvio dopo la sacrilega rottura umana e politica con il padre-padrone del Pdl, il fango ha ricominciato a sommergere copiosamente Gianfranco Fini per la vicenda del famigerato appartamento di Montecarlo ereditato da Alleanza nazionale, rimesso sul mercato e poi finito nella disponibilità del cognato dello stesso presidente della Camera.

Nel metodo, diciamo subito che Fini ha compiuto un gesto di responsabilità, onorando il ruolo che ricopre e cercando di chiarire fin da subito tutti i punti della vicenda. Senza aspettare il corso dell'inchiesta della procura di Roma, senza urlare contro i giudici "comunisti" come fa quotidianamente il premier, ma anzi esprimendo la massima fiducia nel lavoro dei magistrati.

Fini dà prova di grande senso dello Stato. Equilibrio politico, rispetto del potere giudiziario, disponibilità a fare luce: così si comporta un uomo delle istituzioni, quando è in gioco l'onorabilità della sua carica e la trasparenza dei suoi comportamenti. Già qui si coglie l'abisso culturale e temperamentale che separa il presidente della Camera dal presidente del Consiglio, abituato a destabilizzare l'ordine giurisdizionale con i suoi furori ideologici e ad umiliare il potere legislativo con le sue leggi ad personam.

Nel merito della vicenda, le precisazioni riassunte da Fini in otto capitoli sembrano sufficienti a sgombrare quasi completamente il campo dagli equivoci e dai dubbi. Tranne che in un punto, che merita un approfondimento ulteriore. Dopo aver chiarito al punto quattro che nel 2008 Giancarlo Tulliani (fratello dell'attuale compagna del presidente della Camera, Elisabetta) lo aveva informato che "in base alle sue relazioni e alle sue conoscenze del settore immobiliare a Montecarlo, una società era interessata ad acquistare l'appartamento", Fini dichiara al punto sette che la vendita dell'appartamento è avvenuta il 15 ottobre 2008, e che lui non sa "assolutamente nulla" sulla "natura giuridica della società acquirente" né sui "successivi trasferimenti" dello stesso immobile. Solo "qualche tempo dopo" (conclude l'ex leader di An al punto otto) "ho appreso da Elisabetta Tulliani che il fratello Giancarlo aveva in locazione l'appartamento".

Ricapitolando. Alleanza nazionale riceve un lascito ereditario di diversi cespiti immobiliari. Uno di questi è a Montecarlo, stimato 450 milioni di vecchie lire e regolarmente iscritto nel bilancio del partito. È "fatiscente e non abitabile", come attestano le ispezioni fatte dal tesoriere del partito e dalla segretaria personale di Fini. Ma il luogo è di pregio, e qualche anno dopo (nel 2008) si profila un'offerta d'acquisto di cui Giancarlo Tulliani fa cenno a Fini. Poco dopo l'offerta si concretizza in 300 mila euro, più del valore stimato, spiega adesso il presidente della Camera. E così Fini, in quanto segretario di An, autorizza l'amministratore a vendere. Si tratta di un bene che appartiene a un partito, non sono in ballo soldi pubblici. E questa è una distinzione doverosa e fondamentale per inquadrare la vicenda.

Ma Fini, e qui è l'aspetto opinabile della sua ricostruzione dei fatti, non sa nulla, né di chi sia l'offerta iniziale di cui gli parla il cognato, né di quale sia la società che effettivamente poi compra l'appartamento, ne di chi ci andrà ad abitare nei mesi successivi, come proprietario o come locatario.

Quando si parla di case i politici non possono e non devono permettersi leggerezze, anche se avvengono nel rispetto della legge, come dimostra il caso D'Alema ai tempi della prima Affittopoli. Inoltre non sapere chi offre, chi compra e poi chi affitta una casa di Montecarlo, per il capo di un partito che la vende, genera un vago "effetto Scajola", capace di dichiararsi all'oscuro del chi e del perché gli sia stato pagato il famoso appartamento da un milione e 600 mila euro con vista Colosseo.

Ma nel caso di Fini e dell'appartamento venduto o affittato al cognato, a quanto pare, non si pone affatto un profilo penale. E non si può discutere nemmeno di un problema etico, ma tutt'al più "estetico". Sul piano formale, un segretario non é tenuto a sapere a chi il suo partito vende o da chi compra ognuno dei propri beni patrimoniali: c'è un amministratore che ha la delega per farlo. Sul piano sostanziale, il massimo che si può dire è che il presidente della Camera sia stato un po' naif, visto l'iniziale coinvolgimento nell'affare del fratello della sua compagna. Ma questo, al momento, sembra essere tutto.

Al contrario, resta in campo il tema vero che si agita sullo sfondo di questo presunto "scandalo" ossessivamente inscenato sugli house-organ del premier. Vale a dire la tecnica del dominio e il sistema di potere che sovrintendono a queste chirurgiche operazioni di killeraggio mediatico e politico. Dopo Veronica Lario per la denuncia sul "ciarpame politico" e Fassino-Consorte per la telefonata su Bnl, dopo Dino Boffo per le critiche sulle escort e il giudice Mesiano per la sentenza sul caso Mondadori, dopo Marrazzo per il video sui trans e Caldoro per il dossier sui gay, la fabbrica del fango sta "macinando" Fini.

L'ex alleato, diventato avversario, deve essere infangato, delegittimato, distrutto. Così si regolano i conti della politica, nell'era della truce decadenza berlusconiana. Così si zittiscono i critici o i dissidenti, nell'epoca tecnicamente totalitaria dell'orwelliano "Partito dell'Amore". Tra minacce, intimidazioni e ricatti, c'è solo da chiedersi chi sarà la prossima vittima da annientare, in questo folle gioco al massacro della democrazia.

(09 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/09/news/giannini_fini_berlusconi-6164448/?ref=HREA-1
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« Risposta #138 inserito:: Agosto 17, 2010, 09:24:24 pm »

IL COMMENTO

Macelleria istituzionale

di MASSIMO GIANNINI
 
La macelleria politica e costituzionale del tardo-berlusconismo ha infine obbligato il Quirinale a compiere un atto irrituale ed estremo. Solo nell'Italia di oggi, destabilizzata dalle pulsioni tecnicamente eversive del capo del governo e avvelenata dalle operazioni di killeraggio mediatico dei suoi sicari, può accadere che un presidente della Repubblica debba scrivere in una nota ufficiale che chi nutre dubbi sul suo operato ha il "dovere" di chiederne l'impeachment. Come prevede la stessa Carta del 1948, che all'articolo 90 indica le modalità e le procedure della messa "in stato d'accusa" del Presidente, nei casi specifici di "alto tradimento" e di "attentato alla Costituzione".

A tanto, dunque, è stato costretto Giorgio Napolitano, per fermare "le gratuite insinuazioni e le indebite pressioni" che, nell'avvitarsi di una crisi sempre più drammatica del centrodestra, colpiscono da giorni la più alta carica dello Stato. Il suo comunicato dà la misura di quanto sia grave e pericoloso il conflitto istituzionale in atto. E solo una lettura ipocrita e riduttiva del monito lanciato dal Colle può ridimensionarne la genesi alla necessità di rispondere all'intervista che due giorni fa il vicecapogruppo del Pdl alla Camera ha rilasciato al "Giornale".

Maurizio Bianconi ha trattato Napolitano come un nemico, che "tradisce la Costituzione fingendo di rispettarla". L'ha accusato di "incoerenza gravissima", perché colpevole di dire "no al voto anticipato e sì alla ricerca di un governo tecnico". Parole inconsulte e irresponsabili, scagliate come pietre contro il massimo organo di garanzia della nazione. Ma chi ora definisce Bianconi un semplice "peone", o un "golpista da operetta", non rende un buon servizio alla verità. Non si può non vedere come questi vaneggiamenti riflettano un "sentire comune" che, nella disperata trincea del Popolo della Libertà, accomuna più o meno tutti gli esponenti dell'armata forzaleghista.

Da Alfano a Maroni, da Gasparri a Cicchitto: in queste settimane l'intera batteria dei luogotenenti del premier, sproloquiando di "ribaltoni" e di "congiure di palazzo", non fa altro che sfidare il Capo dello Stato, cercando di mettere in discussione il suo ruolo, di snaturare le sue prerogative, di condizionare le sue scelte. E non si può non vedere come queste urla riecheggino nel silenzio assordante e colpevole dello stesso presidente del Consiglio. Berlusconi tace, e dunque acconsente. Lasciando le ridicole precisazioni di prammatica ai Capezzone e ai Rotondi: tocca a loro riempire il tragico vuoto politico dell'agosto berlusconiano, replicando le intimidazioni ma rinnovando al presidente della Repubblica una "stima" e un "affetto" che suonano paurosamente vuoti, retorici e perciò falsi.

Siamo arrivati al limite estremo, alla rottura di tutti gli equilibri istituzionali. Dunque, quando Napolitano denuncia "interpretazioni arbitrarie" e "processi alle intenzioni", non è certo a Bianconi che si riferisce. Il Capo dello Stato parla a tutto il centrodestra, e rilancia la sfida al leader che ne incarna l'anima "rivoluzionaria" e ormai palesemente anti-statuale. In vista dell'ormai inevitabile showdown d'autunno, il comunicato del Colle suona quasi come una "chiamata finale", dalla quale si possono e si devono trarre alcune lezioni. La prima lezione: le istituzioni appartengono alla Repubblica, e non al Cavaliere, e dunque vivono nella reciproca autonomia e nel mutuo rispetto delle norme sancite dalla Costituzione.

La seconda lezione: la Costituzione è la casa di tutti gli italiani, e dunque non può essere piegata all'ermeneutica di parte o alla logica di partito. La Carta assegna prerogative precise e compiti tassativi al Capo dello Stato, che li esercita con la massima indipendenza e la massima responsabilità, nella normale dialettica tra i poteri e nella leale collaborazione tra gli organi di garanzia. Tutto questo vale sempre: nella fisiologia della vita politica, quando si tratta di promulgare o rinviare una legge al Parlamento, come nella patologia di una crisi, quando si tratta di sciogliere le Camere o di verificare se esistano maggioranze alternative. Questo dice la Costituzione, di cui il presidente della Repubblica è il custode e il garante.

Di qui la terza ed ultima lezione: quando rivendica le sue prerogative costituzionali, Napolitano tutela la Costituzione formale, che non può essere stravolta da una costituzione materiale introdotta surrettiziamente con la semplice iscrizione della parola "Berlusconi" su una scheda elettorale, come fosse la formula magica della modernità politica. Il premier farà bene a ricordarselo, in vista della battaglia di settembre. Per quanto svilita, la democrazia ha le sue regole. E le regole sono una garanzia per tutto il popolo italiano, non un appannaggio del solo Popolo delle Libertà.
m.giannini@repubblica.it

(17 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/17/news/macelleria_istituzionale-6327641/?ref=HREA-1
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« Risposta #139 inserito:: Agosto 18, 2010, 11:21:26 am »

L'INTERVISTA

Amato: "Mi disse che faceva il matto altrimenti sarebbe stato impeachment"

L'ex presidente del Consiglio: "Eravamo amici".

"Fu lui a portare gli ex comunisti al governo del Paese assumendosene la piena responsabilità"

di MASSIMO GIANNINI

ROMA - "Ora che Francesco non c'è più, posso dirlo: la sua è stata una storia assai complessa, nella quale la dimensione politica e pubblica è stata investita pesantemente dalle traversie personali e psicologiche...". In vacanza ad Ansedonia, Giuliano Amato ricorda così "l'amico Cossiga". "Ho cominciato con lui ai tempi in cui ero sottosegretario a Palazzo Chigi e Francesco era Capo dello Stato. Si è sviluppata da allora quella naturale liason istituzionale che si crea tra la presidenza del Consiglio e il Quirinale. Ho vissuto con lui proprio gli anni cruciali della sua trasformazione, da notaio a Picconatore".

Quanto ha pesato questa metamorfosi, nel giudizio politico che si può dare di Cossiga?
"Francesco ha vissuto una vita privata difficile, accompagnata da fase depressive sempre più accentuate. E questo ha inciso sui suoi comportamenti, sui suoi rapporti con gli altri ed anche sulle vicende politiche del Paese. Posso dirlo, ora che non c'è più: io sono stato uno dei suoi amici, nella vita. Eppure, in più occasioni, ha avuto reazioni irritate anche nei miei confronti. Ma più volte, dopo i suoi sfoghi pubblici, mi ha chiamato per dirmi: "caro Giuliano, ho detto su di te cattiverie che non meriti, ma quando ho questi momenti non riesco a controllarmi...". L'uomo era così. E certo, questo suo carattere spesso confliggeva con il suo ruolo di presidente della Repubblica".

Ricorda qualche momento in cui questo "conflitto" fu più aspro?
"Uno su tutti. Quanta fatica facemmo per evitare che definisse l'allora leader dei Ds "uno zombie". Era un linguaggio che non si addiceva a un capo dello Stato. Ma non c'era nulla da fare. E queste intemperanze gli costarono molto, anche in sede giudiziaria. Tuttavia, un'altra cosa va detta, oggi: in queste sue reazioni sproporzionate incise molto anche il modo in cui venne combattuto nella vita politica e istituzionale".

Sta dicendo che se Cossiga diventò il Picconatore, questo dipende anche dal modo in cui lo attaccarono i suoi avversari?
"E' così. Limitiamoci all'episodio dell'impeachment, che proprio non meritava. E' vero, le sue stravaganze offensive erano frequenti.
Ma mai, neanche in quell'infausta vicenda, si trasformarono in tradimenti della Costituzione. I suoi comportamenti istituzionali non giustificarono mai le aggressioni a cui fu sottoposto. Ci fu un vero e proprio attacco concentrico contro di lui. Ed io temetti un nuovo caso Leone".

Ma quel clima giustificava invece le sue "picconate"?
"Quanto meno le spiegava. Una sera mi disse: "Tu, caro Giuliano, ti domanderai se io penso davvero certe cose che dico. Ebbene, sappi che se non mi fossi comportato come una specie di pazzo, forse l'impeachment sarebbe scattato...". Una confessione che mi colpì molto. Mi suggerì l'immagine di una sorta di Enrico IV di Pirandello. Un'immagine tragica. E anche anomala, perché sempre sul crinale: da una parte una condizione psicologica difficile, ma dall'altra parte una grande lucidità e capacità di capire, prima di altri, come si muoveva
la politica intorno a lui...".

Anche su questo i giudizi su di lui sono molto controversi. Capì davvero che senza una radicale riforma politica e costituzionale la Prima Repubblica sarebbe crollata?
"Cossiga si mise a picconare un mondo che stava oggettivamente franando. Si potrà obiettare che quello era il suo mondo. Ma resta il fatto che lui lo capì, e lo denunciò alla sua maniera. E non fu la sua unica intuizione. Certo, nessuno immaginava che alla Terza Via di Aldo Moro si sarebbe arrivati nel modo tortuoso con il quale ci si arrivò nel '98, dopo la caduta del primo governo Prodi. Ma fu lui a voler portare gli ex comunisti al governo. E lo volle in un momento difficile per gli ex comunisti, costretti ad assumere la responsabilità di governare un paese che di lì a poco avrebbe dovuto decidere l'intervento militare nei Balcani. Sono convinto che vi fosse anche questa consapevolezza, nella scelta di Cossiga. Perché di scelta si trattò: altrimenti avremmo avuto il secondo governo Ciampi, e non il primo governo D'Alema".

Lei citava Moro. Altro passaggio cruciale: il rapimento, la linea della fermezza, l'assassinio. E la storia d'Italia che cambia radicalmente. Come giudica il Cossiga di quei giorni?
"Anche in quella vicenda Cossiga visse in una doppia e ancora una volta tragica dimensione. Da un lato doveva rappresentare lo Stato in prima linea, che non può cedere al ricatto dei brigatisti. Ma dall'altro lato doveva verificare se e in quali condizioni si potesse evitare che l'amico e maestro venisse ucciso. Visse insomma questo tragico sdoppiamento: ebbe il dovere di teorizzare la linea della fermezza, ma al tempo stesso andò febbrilmente in cerca di consiglieri, purtroppo non tutti giusti, che lo aiutassero a trovare uno spiraglio per salvare l'ostaggio. Tenere insieme questi due piani era e fu purtroppo impossibile. Proprio questo spiega perché poi si dimise: percepì la morte di Moro come una sua sconfitta personale, anche se per lo Stato della fermezza fu una drammatica vittoria".

E dell'ultimo Cossiga, quello dopo il Quirinale, cosa ricorda?
"Ritrovarsi a soli 60 anni ad essere già un ex capo dello Stato non fu certo facile. Sentiva di dover partecipare ancora alla vita politica del Paese. E ha trovato il modo di farlo. Sempre alla sua maniera. Intervenendo anche su temi che proprio non ti aspetti. Ma con una qualità rara, che è stata tutta sua ed è tuttora di pochi: quella di saper trarre succo politico anche da vicende che in mano ad altri sarebbero del tutto prive di sapore. E alla fine con un'altra qualità, che non ha mai perso e che oggi mi piace ricordare: quella di saper essere amico, pur continuando ad essere a volte così estremo nei giudizi".

Anche con lei questa amicizia non si è mai persa?
"Le racconto un ultimo aneddoto. Tre anni fa, appena diventato ministro degli Interni, ebbi con lui un piccolo disaccordo politico, e ad essere sincero non ricordo nemmeno su cosa. Immediatamente dettò un secco comunicato ufficiale alle agenzie, in cui annunciava che, nella sua veste di senatore a vita, non si sarebbe più avvalso dei servizi della "batteria" del Viminale, poiché era passata sotto le mie dipendenze. Il giorno dopo ci incontrammo per caso, davanti a un ascensore del Senato. Mi venne incontro, e mi abbracciò dicendo "Giuliano, amico mio, ti voglio bene...". Questo era Francesco Cossiga".

(18 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/18/news/amato_mi_disse_che_faceva_il_matto_altrimenti_sarebbe_stato_impeachment-6346275/?ref=HREA-1
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« Risposta #140 inserito:: Agosto 31, 2010, 03:40:03 pm »

IL CASO

Sviluppo economico, 4 mesi senza ministro mentre il Paese insegue la ripresa

Uno scandalo, dopo la falsa promessa di Berlusconi al Quirinale di nominare il responsabile in 7 giorni.

Un'altra poltrona è vuota: da oltre due mesi non viene scelto il presidente della Consob

di MASSIMO GIANNINI

C'È una vicenda esemplare che la politica, l'establishment e l'opinione pubblica continuano a sottovalutare. Fotografa la palude nella quale sta sprofondando il governo Berlusconi. Riflette l'irresponsabilità nella quale sta declinando il presidente del Consiglio. Questa vicenda si chiama ministero per lo Sviluppo Economico. Oggi sono 119 giorni. Sabato prossimo saranno 4 mesi esatti. Nell'anno più nero dell'industria italiana, nel cuore di una recessione di cui non si vede l'uscita, a tanto "ammonta" il vuoto di potere in quel dicastero, strategico per la tenuta del Sistema-Paese e per il sostegno delle imprese.

La sede è "vacante" da maggio. Da allora il premier esercita un'impalpabile e insostenibile "supplenza", in attesa di nominare il nuovo ministro. Attesa vana, consumata nel Palazzo tra annunci ambigui, tentativi grotteschi, promesse inevase. Attesa cara, pagata dall'Italia al prezzo di una crisi economica e occupazionale gravissima. Ci si chiede come sia possibile, in una grande democrazia industriale impegnata a fronteggiare la "tempesta perfetta" di questi ultimi due anni.

Eppure succede, nell´Italia berlusconiana di oggi, dove l´intera dimensione della politica economica si esaurisce nella tenda beduina di Gheddafi, nella pacca sulle spalle con Putin, nel verso del «cucù» ad Angela Merkel. Era il 4 maggio scorso, dunque, quando Claudio Scajola si dimise da ministro dello Sviluppo Economico in circostanze avventurose. Sui giornali rimbalzano da giorni i verbali delle procure, dai quali si evince senza ragionevoli dubbi che la «cricca» del G-8 - cioè quel micidiale sistema di potere imperniato intorno ad Anemone, Balducci e la Protezione Civile di Guido Bertolaso - ha pagato al ministro il prestigioso appartamento romano, vista Colosseo, nel quale risiede con la famiglia. In conferenza stampa, di fronte ai cronisti attoniti, l´autodifesa di Scajola è surreale: «Un ministro non può sospettare di abitare una casa pagata in parte da altri... Siccome considero la politica un´arte nobile, con la p maiuscola, per esercitarla bisogna avere le carte in regola e non avere sospetti... Mi devo difendere, e per difendermi non posso fare il ministro come ho fatto in questi due anni...». Quasi un caso di comicità involontaria. Il premier assume invece i toni gravi: «Scajola ha assunto una decisione sofferta e dolorosa, che conferma la sua sensibilità istituzionale e il suo senso dello Stato...». È un testacoda, nel quale il colpevole diventa vittima, il sospettato diventa colui che sospetta. La sera stessa Berlusconi va al Quirinale da Napolitano, e prende l´interim del dicastero. Rassicura il Capo dello Stato: «Presidente, dammi qualche giorno e tornerò da te con il nuovo ministro per il giuramento».

Mai promessa fu più bugiarda. Il presidente del Consiglio ci prova, ma a modo suo. Risultano agli atti almeno tre tentativi. Il primo è un sondaggio telefonico con Luca Cordero di Montezemolo, a metà maggio. Respinto al mittente: il presidente della Ferrari non lascia il suo team, e comunque ha ben altre ambizioni. Il secondo tentativo è di pochi giorni dopo. Il 27 maggio, all´assemblea annuale della Confindustria, il premier lancia un´«opa» su Emma Marcegaglia. Davanti ai duemila delegati confindustriali, sale sul palco e dice: «Volete voi che il nostro presidente di Confindustria affianchi il presidente del Consiglio al ministero dello Sviluppo Economico? Alzi la mano chi dice sì...». In una sala ammutolita, tra lo stupore e l´imbarazzo, cala il gelo. E il premier chiosa la sua gaffe: «Nessuno? Allora non potete lamentarvi di quei poveracci che sono al governo e che hanno ereditato un deficit pubblico che si è moltiplicato per otto...». Il terzo tentativo è di un mese dopo: a metà giugno, al termine di un incontro a Palazzo Chigi con le parti sociali, Gianni Letta «abborda» il leader della Cisl, Raffaele Bonanni: «Silvio mi chiede di dirti se saresti disposto a fare il ministro dello Sviluppo Economico...». La notizia non è il rifiuto di Bonanni. Quanto piuttosto la disinvoltura con la quale un importante incarico di governo, decisivo per gli assetti dell´economia, viene offerto indifferentemente a chiunque: un leader degli industriali o un dirigente sindacale.

Incassati i tre no, Berlusconi tira avanti come nulla fosse. Fa di peggio: non nomina un ministro necessario, ne nomina uno impossibile. Il 24 giugno porta al Quirinale non il successore di Scajola, ma Aldo Brancher, premiato «ad personam» all´Attuazione del federalismo, e nominato ministro solo per sfuggire a un processo penale, come nella migliore tradizione berlusconiana. Intanto crescono le tensioni sociali, e in parallelo le pressioni politiche. Dilagano le crisi della Glaxo, deflagrano le proteste dei minatori nel Sulcis, esplode il conflitto sulla Fiat di Pomigliano. In Parlamento piovono le interrogazioni parlamentari su un interim che, alla luce di quello che sta avvenendo nel Paese, sembra sempre più incomprensibile. Il 22 luglio i capigruppo dell´Idv al Senato, Donadi e Belisario, scrivono al presidente della Repubblica: «Intendiamo, con questa lettera aperta, portare alla Sua attenzione la nostra preoccupazione per questo delicatissimo dicastero, strategico per il rilancio dell´economia italiana...». L´iniziativa coglie nel segno. Il giorno dopo al Quirinale, durante la cerimonia del Ventaglio, Napolitano parla chiaro ai giornalisti, prima della pausa estiva: «L´istituzione governo non può ormai sottrarsi a decisioni dovute, come quella della nomina del titolare del ministero dello Sviluppo Economico e del presidente di un importante organo di sorveglianza come la Consob...». Nel frattempo, infatti, all´urgenza di sostituire Scajola si aggiunge quella di sostituire Lamberto Cardia, che il 28 giugno ha lasciato dopo 13 anni il vertice della Commissione di controllo sulle società e la Borsa. Altra posizione «apicale», che una grande nazione capitalista alle prese con fibrillazioni finanziarie e tracolli di mercato non dovrebbe permettersi di lasciare sguarnita.

L´appello del Capo dello Stato sembra raccolto. Lo stesso giorno, a Milano, al termine di un bilaterale con il presidente russo Putin, Berlusconi in conferenza stampa fa un annuncio impegnativo: «In questo periodo ho fatto qualche cambiamento importante nella struttura del ministero, ma ora posso annunciare che la prossima settimana procederemo alla nomina del nuovo ministro per lo Sviluppo Economico...». La notizia viene accolta da un sospiro di sollievo. Non solo sul Colle, ma anche in Parlamento e tra le parti sociali. Ma il sollievo svanisce presto. Il 4 agosto, nell´ultimo Consiglio dei ministri prima delle ferie, la nomina del nuovo ministro «non compare all´ordine del giorno». Il leader del Pd Bersani tuona: «È una vergogna». Fioccano nuove interrogazioni parlamentari. Trapela l´irritazione del Quirinale. Ma il premier tace. Non ha nulla da dire. Nella maggioranza parla solo Daniela Santanchè, con una frase memorabile: «Berlusconi all´interim sta facendo bene...». Da allora, più nulla. E adesso, alla ripresa di settembre, lo Sviluppo Economico rimane ancora «sede vacante».

Nel metodo, l´interim è un´anomalia per due ragioni. La prima ragione è che Berlusconi ci ha abituato a farne un uso smodato. Accadde il 5 gennaio 2002, quando lo assunse agli Esteri dopo le dimissioni di Renato Ruggiero in polemica sull´Europa. Accadde il 2 luglio 2004, quando lo assunse all´Economia dopo le dimissioni di Giulio Tremonti in seguito agli scontri con An e Udc. Accadde il 10 marzo 2006, quando lo assunse alla Sanità dopo le dimissioni di Francesco Storace travolto dal Laziogate. in totale, 471 giorni di interim in tre legislature. Troppi. La seconda ragione è che anche questo interim amplifica, ancora una volta, l´ennesimo conflitto di interessi di un presidente del Consiglio-proprietario di un impero mediatico che, nella sua veste di «ministro competente», deve decidere l´assegnazione delle frequenze televisive alle quali concorre anche Sky (principale concorrente di Mediaset sulla tv digitale) e deve firmare il contratto di servizio con la Rai (principale concorrente di Mediaset sulla tv generalista).

Nel merito, l´interim è un danno per il Paese. Mentre Berlusconi si occupa d´altro, la recessione non rallenta, semmai morde più a fondo nella carne viva degli italiani. Il premier-ministro non parla delle numerose crisi emerse, da Telecom alla Fiat di Pomigliano e Melfi. E non si occupa delle innumerevoli crisi sommerse. Secondo Movimprese, nel secondo trimestre di quest´anno (e dunque in piena coincidenza con l´interim) le aziende italiane che hanno portato i libri in tribunale per fallimento sono aumentate a 3.505, contro le 2.897 dello stesso periodo del 2009. E secondo un report diffuso dallo stesso dicastero dello Sviluppo Economico a metà agosto, i «tavoli» di crisi aziendale aperti presso il ministero, nei primi otto mesi dell´anno, sono passati da 100 a 170. Chi se ne occupa? «I posti di lavoro a rischio - si legge nel documento - sono circa 200 mila». Chi se ne fa carico? «Su 686 "Sistemi locali di lavoro" mappati a livello nazionale, 113 sono in "elevata crisi", 136 sono in "crisi medio-alta"». Chi li monitorizza? Sono domande senza risposta. L´unica cosa certa è che prima dell´estate (come «Repubblica» ha certificato) è cominciato un silenzioso smembramento del ministero. La manovra 2011 gli ha sottratto 900 milioni di fondi di dotazione. I fondi Ue e Fas sono stati trasferiti al ministro degli Affari regionali Raffaele Fitto. I circa 800 milioni di fondi per il turismo sono passati direttamente sotto la gestione di Michela Vittoria Brambilla. L´Istituto per la Promozione Industriale è stato soppresso. E il 24 giugno 150 imprenditori che avevano vinto il bando per le agevolazioni previste dal programma «Industria 2015» e non hanno visto un solo euro, hanno scritto una lettera al premier: «In queste condizioni è difficile realizzare gli obiettivi condivisi dal ministero».

Non hanno avuto né soldi né risposte. La poltrona dello Sviluppo Economico è mestamente vuota. Da 119 giorni. Quella della Consob lo è altrettanto, da 64 giorni. Ma non importa. «La nave va», avrebbe detto uno dei più famosi «maestri» del Cavaliere. Giusto pochi mesi prima di sfasciarsi sugli scogli.
 

(31 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/31/news/il_ministro_che_manca_da_119_giorni-6642685/?ref=HREC1-2
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« Risposta #141 inserito:: Settembre 04, 2010, 02:57:19 pm »

L'INTERVISTA

Tremonti: "L'emergenza è finita Patto con l'opposizione per l'economia"

Il ministro dell'Economia lancia il nuovo Patto di stabilità e dice: "Non c'è bisogno di una Finanziaria vecchio stile o di una manovra correttiva".

Messaggio al Pd: "Lavoriamo insieme per rilanciare la competitività"

di MASSIMO GIANNINI


"QUESTO autunno avrebbe dovuto essere il terzo autunno atteso per il crollo dell'Italia. Non è così. Non sarà così. Non c'è bisogno di fare una Finanziaria "vecchio stile". Non c'è bisogno di fare una "manovra correttiva". I titoli di Stato finora sono stati collocati bene. Non ci sono elementi di rottura nelle strutture economiche, industriali e sociali del Paese. Non c'è dunque un'emergenza autunnale".

Giulio Tremonti si ripresenta così, alla ripresa di settembre. "Ma c'è bisogno di qualcosa di molto più impegnativo - aggiunge il ministro del Tesoro - e cioè re-ingegnerizzare il sistema economico italiano. Va fatto nel nostro interesse, va fatto perché lo chiede a tutti l'Europa". "Nessuna emergenza", è dunque la parola d'ordine. Almeno sull'economia. Perché dell'altra emergenza, quella politica, il ministro non vuole proprio parlare. "Alziamo e allarghiamo lo sguardo: quello che il ceto politico non vuol capire è che la nostra dimensione è l'Europa".

Ministro, partiamo proprio dall'Europa. Lunedì e martedì torna a riunirsi l'Ecofin. Che succederà a Bruxelles?

"Si dice che i popoli imparano la geografia con le guerre e capiscono l'economia con le crisi. È quello che sta succedendo in Europa. Lunedì e martedì a Bruxelles è convocato un Ecofin "straordinario", di nome e di fatto. Serve per scrivere il nuovo "Patto di Stabilità e di Crescita". Un atto che marcherà la fine delle politiche "national oriented", e con questo il principio di una vera e nuova politica economica europea comune, coordinata e collettiva, non più eclettica ed estemporanea, diversa stato per Stato. È logico: l'Europa è un continente, ha un'economia-mercato comune, ha una moneta comune, non può continuare con 27 diverse politiche economiche. Farlo era curioso prima della crisi, continuare è impossibile dopo la crisi. È suonato il gong sull'Europa: il passaggio "rivoluzionario", dal G7 al G20, drammaticamente evidenziato dalla crisi, ha segnato la fine di un'epoca. La fine della rendita coloniale europea: prima potevamo piazzare le nostre merci e i nostri titoli dove e come volevamo, adesso non possiamo più farlo".

Veniamo ai contenuti: come sarà il "nuovo" Patto?

"Ogni anno, da gennaio ad aprile, tutto ruoterà per tutti gli Stati intorno alla sessione di bilancio europea. Ed è così che cambieranno, e per tutti, le sedi e la forma della politica economica europea. Con la sessione di bilancio prenderà forma un "luogo" politico nuovo. Ogni Stato presenterà i suoi documenti, destinati ad essere discussi collettivamente da tutti gli altri Stati e coordinati dalla Commissione europea. In sintesi: una fondamentale devoluzione di potere, insieme "dal basso verso l'alto" e "dal diviso all'unito". La forma è economica, ma la sostanza è politica. Ed è ad altissima intensità politica. Nella forma è un passaggio procedurale, nella sostanza sarà un cambiamento costituzionale. Le linee fondamentali comuni su cui si svilupperà la politica europea sono marcate da due sigle: "SCP" e "NRP". "Stability and convergence program"e "National Reform Program". Le due politiche fondamentali della nuova Europa: stabilità delle finanze pubbliche, competitività del blocco continentale".

Tutto questo per l'Italia cosa significa? Abbiamo il terzo debito pubblico del mondo, e non accenna a diminuire.

"Il nostro Programma di Stabilità contiene la manovra di luglio ed è stato già approvato in Europa. Su questa base possiamo assumere che il nostro "SCP" è stato già impostato. Il problema che abbiamo è sull'altra politica, quella marcata dalla sigla "NRP". È su questa che dobbiamo e possiamo concentrarci. In una prospettiva temporale non istantanea, ma neppure lunghissima: da qui a gennaio-aprile del 2011".

Ma c'è chi continua a parlare di manovra aggiuntiva...

"Ipotesi lunare. Dopo la riforma della legge di bilancio e dopo la manovra di luglio, questo autunno la Finanziaria potrà e dovrà essere solo tabellare. E dunque molto diversa dalle vecchie Finanziarie. È piuttosto l'altra politica, non sulla stabilità ma sulla competitività, che va impostata. La stabilità è assolutamente necessaria, ma non è da sola sufficiente. Ed è appunto arrivato il tempo "europeo" per re-ingegnerizzare il nostro Paese in termini di competitività europea. Con una specifica preliminare: si possono seguire tutte le vie per lo sviluppo, tranne la via del deficit, che non causa sviluppo ma crisi".

Assumetevi una responsabilità. Se c'è un programma di riforme europee così vasto da portare avanti, coinvolgete tutte le forze in campo, invece di continuare a dividere le parti sociali e a demonizzare l'opposizione.

"Guardi, alla sessione di bilancio europea tutti i paesi dovranno essere presenti con un documento proiettato sul prossimo decennio. Twenty-Twenty, cioè 2010-2020. Il software politico con cui scrivere quel documento dovrà essere "europeo" e non nazionale, perché la competitività o è coerente con la struttura del blocco continentale o non è. Lo spirito politico con cui scrivere il documento non potrà essere "di parte", ma del Paese. Non scritto solo in base alla logica politica di un governo, ma ispirato da una visione medio-lunga sul bene comune del Paese. I governi possono passare - non è il caso del governo Berlusconi, che è un unicum - ma i Paesi no. In Italia questo vuol dire - e i documenti europei lo chiedono - un ruolo molto intenso del Parlamento, e di tutti gli altri soggetti e forze economiche e sociali del Paese. Fuori dalla lotta politica e fuori dalla dialettica di parte, idee e proposte certo dovranno essere alla fine sintetizzate, ma prima dovranno essere sul più vasto catalogo possibile e nel più ampio dibattito possibile. E in questo il ruolo dell'opposizione potrà e dovrà essere positivo e costruttivo".

La colpa è anche vostra, visto che da mesi governate a colpi di fiducia...

"La mia e la nostra speranza è che la nostra "NRP" sia un documento e rifletta una politica di alto livello. Possiamo e dobbiamo farcela, tutti insieme".

Ora ci spieghi le proposte concrete che il governo metterà in campo, proprio sul tema cruciale della competitività.

"Di tutto questo, nei mesi scorsi e anche ad agosto, ho discusso a lungo con il presidente del Consiglio, cui compete la responsabilità finale della firma del nuovo Patto di Stabilità. Sulla competitività abbiamo messo a fuoco alcuni punti essenziali. Indicativamente, per ora sono otto: la competizione con i giganti; il costo delle regole; il Sud; il nucleare; il rapporto capitale-lavoro; il fisco; il federalismo fiscale; il capitale umano, cioè ricerca scientifica e istruzione tecnica. Non so se qui riusciamo a parlare di tutti. Mi prenoto per la prossima puntata. Primo punto: nel mondo G-20 la competizione è tra "giganti". Nell'arcipelago Europa, destinato a farsi blocco continentale, il sistema economico italiano ha una criticità fondamentale: abbiamo imprese troppo piccole. La maggior parte del nostro Pil è fatto da aziende straordinarie, ma miniaturizzate, con un numero di addetti che va da 10 a 50. La Germania compete con i giganti da gigante, con dieci grandi "kombinat" industriali. È questa la ragione del suo straordinario successo sull'export: dare una commessa a una grande industria da parte di un grande Paese è del tutto naturale. Nello stesso settore industriale, dare commesse a mille imprese è enormemente più costoso: da gigante a nano non ti siedi neanche al tavolo per parlare di cifre...".

Giustissimo. Resta da capire perché il governo Berlusconi non fa qualcosa di concreto, invece di uscire dalle tende beduine dicendo "abbiamo ottenuto lavori per un punto di Pil"...

"Sulla diplomazia commerciale andiamo piuttosto bene. Per decreto non puoi fondere tra loro le piccole e medie imprese: lo spirito d'impresa italiano è molto individuale. Tutti i governi hanno offerto incentivi per la aggregazione. Ma non hanno funzionato abbastanza. E tuttavia: è appena partito il "mega-fondo" pubblico-privato per il sostegno delle piccole e medie imprese. Nella manovra ci sono gli strumenti e gli incentivi per le "reti" di imprese, e su questo è atteso l'impegno reale di Confindustria. È sull'estero che si deve ancora fare molto, concentrando il nostro sostegno all'export. Secondo punto: la competizione non è solo tra giganti, ma tra giganti diseguali. Abbiamo in Europa troppe regole. Le regole utili sono un investimento, le altre sono un costo di sistema che non possiamo più permetterci. L'Europa ha già iniziato a invertire il suo ciclo "giuridico": "stop regulation, less regulation, better regulation". L'Italia deve fare lo stesso. Da noi domina il "tutto è vietato tranne ciò che è graziosamente permesso dallo Stato". Deve essere l'opposto: "tutto è libero tranne ciò che è vietato dalla legge". Il divieto deve essere l'eccezione e non la regola. Una "rivoluzione liberale" da introdurre nella nostra Costituzione".

La riforma dell'articolo 41, ammesso che sia davvero quello il problema della competitività, cosa di cui dubito fortemente, l'ha già annunciata più volte. Perché non presentate il disegno di legge, una volta per tutte?

"Lo faremo. Ci stiamo lavorando a Palazzo Chigi. Non sottovaluti l'impatto di un cambiamento di questo tipo. Ma ci sono mille altre cose da fare sulle regole. Le opere pubbliche costano il doppio si fanno se va bene nel doppio del tempo, per via delle cosiddette "riserve" e delle "opere compensative". Porre un limite invalicabile a queste pratiche riporterà costi e tempi delle opere pubbliche a dimensioni economiche e temporali europee. Non solo: un'altra piccola "rivoluzione" può essere introdotta nel processo civile, altro enorme fattore di blocco dell'economia. Con la Finanziaria 2008 abbiamo introdotto il "processo telematico", superando le regole di un processo che ancora viaggiava su faldoni cartacei e sui "camminatori" per le notifiche. Non ha ancora funzionato. Un po' come avere una Ferrari e tenerla in garage o metterla in un ingorgo di traffico. Creare con incentivi una corsia agevolata per il processo telematico potrebbe essere una piccola-grande riforma".

Ministro, se è tutto qui quello che avete da offrire al Paese per la ripresa d'autunno c'è da preoccuparsi...

"Abbiamo altre leve da muovere. Punto terzo: il Sud. La questione meridionale non è la somma delle questioni regionali. È qualcosa di più e di diverso, è una questione nazionale su cui va fatta una politica nazionale e non più solo regionale. Una "regia" che concentri gli enormi fondi ancora disponibili su obiettivi strategici e fondamentali. L'Italia è ancora un Paese duale, ma non può e non deve diventare un paese diviso. Quarto punto: il nucleare. La mancanza del nucleare la paghiamo sul Pil: gli unici ad importare tutta l'energia. Quinto punto: il fisco: il cantiere della riforma fiscale l'avevamo aperto in gennaio, poi è venuta la Grecia. Adesso può essere riaperto...".

Questa è una notizia. Riaprite il cantiere della riforma fiscale? E per fare cosa?

"Allargare e semplificare la base imponibile, ridurre le aliquote, concentrare il "favor" fiscale su tre voci essenziali: famiglia, lavoro, ricerca".

Ma avete annunciato un'infinità di volte che ridurrete la pressione fiscale, che invece aumenta. Perché non mantenete la promessa?

"Con il terzo debito pubblico del mondo, e con uno Stato sociale grande e generoso, la pressione fiscale si può ridurre soprattutto aumentando il Pil e riducendo l'evasione. Oggettivamente lo stiamo facendo. Ci aiuterà il sesto punto del nostro piano, che è il federalismo fiscale, e che va avanti".

Il vero tema, che il governo finge di non vedere, è però quello del lavoro. Stiamo vivendo lo scontro sulla Fiat, da Melfi a Pomigliano. E stiamo vivendo soprattutto il dramma della disoccupazione giovanile, che in Italia non ha riscontri con il resto d'Europa.

"Il conflitto capitale-lavoro non c'è nella dimensione d'impresa dominante: con alcune decine di addetti. Si manifesta salendo di scala. A luglio, lavorando sulla manovra con Angeletti, Sacconi, Marcegaglia e Bonanni, usavamo la formula "contratti alla tedesca". Convinti allora, almeno io, che questo era il modello competitivo giusto. E con riserva di sviluppare in questa logica i contratti di produttività. Come ci racconta da un anno il governatore tedesco Axel Weber, lo straordinario successo della competitività tedesca si spiega così: la ricerca del miglior rapporto possibile tra capitale-lavoro, impresa per impresa".

Come può crescere un Paese che non finanzia la ricerca? Perché continuate a non fare nulla in questo campo?

"Su questo si deve fare oggettivamente molto di più. Sappiamo bene che servono i soldi. Pensi comunque che inventariando i fondi per il Sud sono venuti fuori circa 5 miliardi destinati alla ricerca, ma non utilizzati. L'istruzione tecnica è la grande assente nel nostro sistema educativo, che si è troppo allontanato dal mondo produttivo".

Tutto giusto, tutto avviato. Ma allora mi spiega perché il presidente della Repubblica due giorni fa ha denunciato l'assenza di una seria politica industriale in questo Paese? Cosa risponde a Napolitano?

"Più che di "politica industriale" forse si deve parlare di competitività, come ho cercato di spiegare finora. Competitività che non può essere disegnata in un Paese solo o da un governo solo, ma che deve essere disegnata attraverso un dibattito e raccogliendo contributi, i più ampi possibili, in funzione del nostro "NRP", cioè del paradigma europeo. C'è ancora tempo, ma non possiamo perdere tempo".

Perché da quattro mesi manca il ministro dello Sviluppo? Perché manca il presidente della Consob?

"Penso che saranno nominati presto. Ma per tornare al paradigma europeo della competitività, c'è bisogno di tutto e di tutti. Non di un singolo ministro, ma di tutto il governo. E non solo del governo, ma del Parlamento. E di tutte le forze sociali, economiche e ideali del Paese. Vede, troppe volte in questi mesi in Italia si è rappresentata l'Italia come "La torre di Babele" di Bruegel il Vecchio. Non è così. Io ne sono certo: l'Italia è stata, è e sarà diversa e migliore".

m.giannini@repubblica.it


(04 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/09/04/news/tremonti_l_emergenza_finita_patto_con_l_opposizione_per_l_economia-6747603/?ref=HREA-1

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« Risposta #142 inserito:: Settembre 06, 2010, 05:51:13 pm »

IL COMMENTO

Il manifesto di Fini per un'altra destra

di MASSIMO GIANNINI

Forse è davvero finita un'epoca, per l'anomala destra italiana nata dalle macerie del popolarismo democristiano e forgiata nel fuoco del populismo berlusconiano. Con il Manifesto di Mirabello, Gianfranco Fini varca un confine e politico, ed entra in una terra incognita sulla quale può costruire finalmente un'"altra destra". Compiutamente democratica e liberale, moderata e costituzionale. Nel solco delle grandi famiglie conservatrici europee.

Era enorme l'attesa per questo rientro in campo del presidente della Camera, dopo un agosto trascorso nella trincea di Ansedonia a patire in silenzio l'assalto del "Giornale". Quella di Fini, stavolta, è davvero una svolta radicale. Può ridisegnare geografie e geometrie della politica italiana. E può cambiare il corso della legislatura berlusconiana.   

Con un discorso di un'ora e mezzo, degno per toni e per temi di un congresso di fondazione e non certo di un raduno di corrente, Fini ha reciso per sempre le sfibrate e impalpabili radici che ancora lo tenevano unito a Berlusconi. Certo, le vicende personali hanno pesato.
La "macchina del fango" messa in moto a Montecarlo dai giornali-fratelli del presidente del Consiglio non può non aver influito sulla reazione durissima messa in scena a Mirabello dal presidente della Camera. Quei "Tg ridotti a fotocopie dei fogli d'ordine del Pdl", quelle "campagne paranoiche e patetiche", quegli "atti di lapidazione islamica" e quegli "atteggiamenti infami rivolti non a me, ma alla mia famiglia": era difficile, se non impossibile, che la rabbia finiana covata in queste settimane ed esplosa ieri dal palco non si traducesse solo in una inesorabile denuncia dell'aggressione subita, ma alla fine sfociasse anche nell'inevitabile rinuncia a proseguire la convivenza politica nel Pdl.

Ma insieme, e oltre alla rottura umana, pesa la rottura politica. Nell'elenco puntiglioso dei motivi che in questi due anni hanno portato al divorzio definitivo tra fondatore e co-fondatore non  c'è solo la rivendicazione del diritto al dissenso che dovrebbe costituire l'essenza di un vero "partito liberale di massa". C'è invece la piattaforma identitaria di una destra politica che non è più conciliabile, e forse non lo è mai stata, con quella berlusconiana. Dall'idea malintesa della "riforma della giustizia" fatta nell'interesse di un singolo e del garantismo come "impunità permanente", coltivata da chi al potere si sente forte e crede per ciò di essere "meno uguale" degli altri di fronte alla legge, al disprezzo per le istituzioni e gli organi di garanzia, esercitato da chi usa "il Parlamento come dependance dell'esecutivo". Dalla mancata difesa dei diritti degli "extracomunitari onesti", praticata da chi declina l'immigrazione come pura "guerra ai clandestini", alla mancata difesa dei veri valori dell'Occidente, svenduti per bieca "realpolitik" nella "genuflessione" di fronte a Gheddafi. Nell'aspra requisitoria finiana su ciò che è accaduto nel Pdl in questi mesi, non c'è conflittualità "congiunturale" che non nasconda anche un'evidente incompatibilità culturale.

E questo non vale soltanto per la "cifra" identitaria delle due anime che in questi mesi hanno faticosamente convissuto nel Pdl. Vale anche per l'azione di governo, che per Fini è stata deficitaria sotto tutti i punti di vista. Dai tagli lineari di spesa che hanno generato le "proteste sacrosante" delle forze dell'ordine e dei precari della scuola al ridicolo "ghe pensi mi" col quale si è creduto di riempire il vuoto al ministero dello Sviluppo. Dal federalismo inteso come "favore a Bossi" alle promesse tradite sul taglio delle province, sulle norme anti-corruzione, sugli aiuti alle famiglie. Il presidente della Camera non fa sconti, né al Berlusconi-leader né al Berlusconi-premier. E il dissenso, stavolta, è totale e radicale. Di metodo e di merito. Perché Fini ha finalmente il coraggio di dire quello che era ormai chiaro da almeno sei mesi. Da quando cioè, in quell'incredibile direzione del 22 aprile scorso, andò in onda in diretta su tutte le televisioni lo scontro "fisico" tra i due. E cioè che si sente ormai "altro" da questo Pdl, che il Cavaliere ha ridotto a "contorno del leader", a "coro di plaudenti" o a "popolo di sudditi". Ha fatto regredire a rozzo "partito del predellino", o a versione scadente di "Forza Italia allargata a qualche ex colonnello di An" pronto a servire qualunque generale.   

Dunque, quando il leader di Futuro e Libertà dice che "il Pdl è morto il 29 luglio", con quell'atto autoritario di marca "staliniana" con il quale il co-fondatore è stato estromesso, non si limita a chiudere per sempre la breve stagione del Popolo delle Libertà. Fa molto di più. Il suo non è solo l'epitaffio conclusivo di un vecchio ciclo. Ma è anche l'atto fondativo di un nuovo corso. Non c'è ancora l'annuncio ufficiale della nascita del partito, che deve dare forma e sostanza a quello che per ora continua ad essere solo un gruppo parlamentare. Ma c'è già il manifesto di principi e di valori sul quale il nuovo partito sarà edificato. Un partito rigorosamente di destra, questo è chiaro. Pronto a rivendicare il suo Pantheon e a risalire all'Msi di Giorgio Almirante, che Fini non esita a celebrare. Pronto a dimenticare in fretta le tappe di uno "sdoganamento" repubblicano che avremmo voluto assai più sofferto, assai più autocritico. Ma un partito di destra pronto a saldare definitivamente il conto con Berlusconi, e a saldare direttamente la "rivolta di Mirabello" del 2010 con la "svolta di Fiuggi" del 1995. Come se il Cavaliere - in questi quindici anni di "traghettamento" dell'ex Movimento sociale, dalle "fogne" di un tempo alle alte cariche istituzionali di oggi - fosse stato una parentesi. Più o meno felice. Ma ormai chiusa per sempre.

Il presidente della Camera ha cercato in tutti i modi di non vestire i panni del Bruto, capace di accoltellare Cesare in nome di chissà quale congiura di Palazzo. "Né ribaltoni, né cambi di campo", quindi. Ed è stato attento anche a non offrire alibi al Cavaliere, né sulla fine anticipata della legislatura (che sarebbe "un fallimento  per tutti noi") né sulla minaccia di elezioni anticipate (che è solo "avventurismo politico"). Non solo: il presidente della Camera ha offerto al premier un "patto di legislatura", per far fare a questo governo tutto quello che ha promesso in campagna elettorale e non è stato capace di garantire ai cittadini. Certo, in un quadro e in un equilibrio politico diverso, dove la maggioranza non poggia più su "un tavolo a due gambe di Berlusconi e Bossi", dove i parlamentari non sono in vendita "come i clienti della Standa" e dove le grandi riforme "in nome del bene comune si fanno anche coinvolgendo l'opposizione". Persino sulla giustizia il leader di F&L si è spinto a dare una sponda estrema al Cavaliere, non certo sul processo breve, ma su un provvedimento che ricalchi il Lodo Alfano e il legittimo impedimento, e gli garantisca "il diritto di governare" senza fare strage dei processi che interessano migliaia e migliaia di cittadini in attesa di giudizio.

Ma è chiaro che, al punto in cui siamo, queste offerte appaiono inutili. Improponibili per chi le formula, e irricevibili per chi le dovrebbe accogliere. Se è vero, come dice Fini, che il Pdl non c'è più, e che "non si rientra in una cosa che non c'è più", allora è ancora più vero che non c'è più neanche la maggioranza che ha vinto le elezioni il 13 aprile di due anni fa. Ancora una volta, la previsione più sensata l'aveva fatta quell'animale politico che risponde al nome di Bossi: "Fini romperà, e allora vedo grossi problemi per il governo: il Cavaliere sarà un premier dimezzato...". Il Senatur è stato fin troppo ottimista.

Più che dimezzato, stavolta il presidente del Consiglio sembra finito. Ha di fronte a se soltanto una strada: aprire la crisi, e azzardare la richiesta di elezioni anticipate, che non dipendono da lui ma dalle regole della Costituzione e dalle prerogative del Capo dello Stato.

E' un rischio mortale. Il "pifferaio di Arcore" ha smesso di ammaliare i finiani. E forse comincia a incantare un po' meno anche gli italiani.

(06 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #143 inserito:: Settembre 15, 2010, 05:58:04 pm »

La lezione del Presidente

di MASSIMO GIANNINI

La democrazia rappresentativa intesa come premierato di comando. Il consenso popolare declinato come assenso populista. Il Parlamento svilito a gran bazar. Nella fase discendente del ciclo berlusconiano, tocca ancora una volta al Capo dello Stato l'esercizio di una "pedagogia repubblicana", senza la quale l'Italia di oggi rischierebbe una deriva sudamericana. A Salerno, dove nel '44 Palmiro Togliatti annunciò la sua "svolta" contro il fascismo, Giorgio Napolitano impartisce la sua "lezione" al berlusconismo. È prima di tutto una lezione di ordine politico. Non è vero che il ricorso al popolo è sempre "il sale della democrazia", come hanno ripetuto spesso in queste settimane il Cavaliere e i suoi scudieri. E non è vero che il ricorso al popolo "è il balsamo per ogni febbre". Il messaggio del presidente della Repubblica è chiarissimo. Ha una portata generale: in democrazia la sovranità appartiene certamente al popolo, che tuttavia la esercita nei modi e nelle forme previsti dalla Costituzione.
Ma ha anche una portata specifica: nelle condizioni attuali, non si può immaginare di risolvere un problema interno alla maggioranza ricorrendo alle urne. Sarebbe una farmacopea dissennata: se il centrodestra ha la febbre, è il centrodestra che deve curarsi, non le Camere che devono sciogliersi. Dunque, Berlusconi si dimentichi l'automatismo "crisi di governo-elezioni anticipate": il ricorso alle urne, oggi, non avrebbe alcun senso. In attesa dell'ordalia di fine settembre, e del voto sui cinque punti di rilancio programmatico, c'è una maggioranza che ha il dovere di riorganizzarsi, e c'è un governo che ha il dovere di governare. Il resto sono chiacchiere, alibi o diversivi.

Sembrano ovvietà. E lo sarebbero, in un Paese normale. Non lo sono affatto nell'Italia di oggi, dove il "contesto" riflette ed amplifica la sempre più gigantesca anomalia berlusconiana. Il presidente del Consiglio vive sospeso. Ha rotto con Gianfranco Fini. Non si fida di Giulio Tremonti. È ostaggio di Umberto Bossi. In questa inconsueta condizione di vuoto politico e di solitudine personale, alterna fragorose minacce e indecorose retromarce. Nei giorni pari, in privato, lascia trapelare la sua ferma volontà di arrivare alle elezioni anticipate. Nei giorni dispari, in pubblico, rilancia la sua ferrea certezza di poter arrivare in gloria alla fine della legislatura.

Nel frattempo, mentre il Dottor Stranamore studia per lui qualche altra "ghedinata" per ripararlo dai processi di Milano, il premier mette in scena un indecente mercato delle vacche, azzardando la più massiccia compravendita di parlamentari che la storia repubblicana ricordi. Con un doppio, paradossale effetto boomerang. Primo: l'operazione di sostituire il pilastro dei finiani con la stampella dei centristi muore in culla il giorno dopo la nascita: persino le anime vacue in transito perenne tra Pri, Udc e Mpa preferiscono non salire su un carro che appare ormai perdente.

Secondo: l'operazione tradisce la visione palesemente contraddittoria e volgarmente trasformista del berlusconismo. Dopo aver invocato il delitto di lesa maestà contro il presidente della Camera, reo di aver fondato il suo gruppo parlamentare di "Futuro e Libertà" che avrebbe modificato il perimetro della maggioranza e alterato la natura del Pdl, il premier inventa una manovra uguale e contraria, assecondando la nascita del gruppo parlamentare di "Responsabilità nazionale". Bisognerebbe spiegare agli italiani perché la seria diaspora della destra vicina a Fini è un "tradimento degli elettori", mentre l'improbabile armata Brancaleone riunita intorno a Nucara è un "rafforzamento della maggioranza".

In questo abisso di bassezze e di controsensi, quella di Napolitano è anche una lezione di ordine costituzionale. Dopo un'estate di spallate violente contro le istituzioni di garanzia, il Capo dello Stato è costretto a ricordare "la polemica allusiva e non sempre garbata" che la maggioranza ha sollevato nei suoi confronti, proprio a proposito delle elezioni anticipate. "Si è mostrato stupore per il fatto che il presidente della Repubblica non apparisse pronto, con la penna in mano, a firmare un decreto di scioglimento delle Camere...".

Con l'arma dell'ironia, Napolitano risponde agli attacchi del presidente del Consiglio e dei suoi luogotenenti, che da mesi tengono sotto assedio il Quirinale e sotto ricatto la Costituzione formale, in nome di un'inesistente "Costituzione materiale" forgiata dagli elettori attraverso l'indicazione del nome del candidato premier sulla scheda. Con l'arma della fermezza, Napolitano ripete che "la vita di un Paese democratico e delle sue istituzioni elettive, nelle quali si esprime la volontà popolare, deve essere ordinata secondo regole per potersi svolgere in modo fecondo".

Ma è proprio sulle regole che il berlusconismo svela ancora una volta i suoi limiti strutturali e i suoi deficit culturali. Il premier non conosce Saint Just, che alla vigilia del Termidoro scriveva "le istituzioni sono la garanzia della libertà pubblica, perché moralizzano il governo e lo Stato". Non sa nulla di Rousseau, che diceva "la forza non fa il diritto". Per il Cavaliere l'unico diritto possibile si chiama Berlusconi. E oggi non è più neanche una forza, ma semmai una debolezza. Per questo, e non è un paradosso, è ancora più pericolosa.
m.giannini@repubblica.it

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« Risposta #144 inserito:: Settembre 22, 2010, 04:56:09 pm »

L'ANALISI

La vittoria dell'asse Berlusconi-Geronzi

di MASSIMO GIANNINI

La battaglia contro Alessandro Profumo e la conquista di Unicredit è l'ultima, grande operazione del capitalismo di rito berlusconiano-geronziano. L'indecoroso "dimissionamento" dell'amministratore delegato e il clamoroso ribaltone al vertice della prima banca italiana non è solo la sconfitta di una certa idea del libero mercato, dove ognuno fa il suo mestiere: la politica detta le regole del sistema, i manager gestiscono le società creando valore per gli azionisti, e i soci incassano gli utili e i dividendi. In Italia non funziona così: nelle grandi casseforti dell'economia e della finanza, spesso blindate tra partecipazioni incestuose e relazioni pericolose, politici arrembanti e azionisti deferenti si alleano per far fuori i manager disobbedienti. Letta in questa chiave, la battaglia di Piazza Cordusio e la cacciata di Profumo lasciano sul campo due sicuri vincitori: Silvio Berlusconi e Cesare Geronzi. Il presidente del Consiglio ottiene una vittoria politica, in vista dell'appuntamento cruciale che, nella sua agenda, è fissato per il marzo 2011: le elezioni anticipate. Il presidente delle Generali strappa una vittoria finanziaria, in vista della mossa che, nella sua testa, chiuderà il "Risiko" dei Poteri Forti: la fusione Generali-Mediobanca.

Tra un appuntamento a Palazzo Chigi (dove dispone di un suo ufficio) e una colazione da Mario a via dè Fiori (dove pranza con gli ospiti di riguardo) lo spiega direttamente Luigi Bisignani, fiduciario di Gianni Letta e uomo di raccordo della filiera berlusconian-geronziana: "Voi continuate a mettermi in mezzo, ma con questi affari io non c'entro. Detto questo, mi pare che stiamo solo al primo passo: il prossimo sarà la grande fusione... ". La "grande fusione", appunto. Cioè il "merger" Mediobanca-Generali, di cui il Cavaliere di Arcore dichiara di non occuparsi e il Leone di Trieste giura di non sapere nulla. In realtà le cose stanno diversamente. E l'affondamento di Profumo è solo una tappa, in questo percorso di guerra. Unicredit è il primo azionista di Mediobanca, con l'8,6% del capitale. Qualunque operazione su Piazzetta Cuccia non si può fare, se non controlli il capo-azienda di Piazza Cordusio. Anche per questo è partito l'attacco a "Mister Arrogance". Ecco in che modo.

La partita politica. Come riassume un ministro che si è occupato in questi mesi della vicenda, "il destino di Profumo era segnato da un anno e mezzo, e lui era il primo a saperlo". In parte è così. L'amministratore delegato sapeva di avere ormai troppi nemici, dentro e fuori dalla banca. C'è chi sostiene addirittura che la sua fine sia stata decretata l'8 luglio, nella famosa cena a casa di Bruno Vespa, dove Berlusconi, seduto a fianco di Cesare Geronzi, avrebbe imposto al governatore della Banca d'Italia Draghi uno "scambio": io ti sostengo per la corsa alla Bce, tu non ti opponi al ribaltone in Unicredit. Ipotesi ardita. Forse fantasiosa. Sta di fatto che il ministro del Tesoro Tremonti, non invitato a quella cena, non ha gradito. E da quel momento, dopo aver bastonato per due anni le banche e i banchieri, ha curiosamente cominciato a difendere Profumo.

E sta di fatto che lo stesso Profumo, prima dell'estate, si è mosso con i libici, per cercare una sponda che gli desse manforte contro gli altri azionisti all'attacco, dalle Fondazioni delle Casse del Nord ai tedeschi dell'Allianz guidati dal presidente di Unicredit Dieter Rampl. Per questo all'inizio di agosto, alla vigilia della partenza per le ferie, lo stesso Profumo è andato in missione ad Arcore, a spiegare a Berlusconi il senso dell'ingresso dei libici nel capitale Unicredit. Dal suo punto di vista, i fondi sovrani del Colonnello Gheddafi dovevano essere il suo "cavaliere bianco". E invece si sono rivelati il "cavallo di Troia", che lo stesso Berlusconi, Bossi e Geronzi - attraverso Palenzona, Biasi e Rampl - hanno usato per sfondare le sue difese.

Il premier, in quell'occasione, ha dato ampie garanzie a Profumo: "Procedi pure con i libici". Ma è stata una pillola avvelenata. Nel frattempo il suo affarista di fiducia per l'area Sud del Mediterraneo, Tarak Ben Ammar, con la benedizione di Geronzi di cui è a sua volta amico personale, ha trattato direttamente con Gheddafi i termini del suo impegno in Unicredit. Un impegno che doveva servire da alibi, per lanciare l'offensiva contro Profumo, ancora una volta all'insegna (pretestuosa) della difesa dell'"italianità" dei campioni nazionali. Il segnale che l'operazione libica stava prendendo una piega diversa da quella immaginata dall'amministratore delegato è arrivato un mese dopo. Il 25 agosto, al meeting di Cl a Rimini, proprio Geronzi si è lasciato andare a una frase sibillina: "Fin dai tempi di Capitalia, i libici sono stati i migliori soci che io abbia mai avuto". È parsa una dichiarazione distensiva verso l'aumento progressivo della partecipazione dei fondi di Tripoli in Unicredit. E invece è stata solo un'altra pillola avvelenata contro Profumo.

Lo si è capito pochi giorni più tardi, quando il 30 agosto il Colonnello è sbarcato a Roma, accolto con tutti gli onori dal presidente del Consiglio e dalla plaudente "business community" italiana. Tra il faccia a faccia a Palazzo Chigi e la cena alla caserma Salvo D'Acquisto, Gheddafi e Berlusconi hanno parlato dell'affare Unicredit. Subito dopo, Geronzi si è recato a Palazzo Grazioli, è ha messo a punto insieme al Cavaliere il piano d'attacco a Profumo. Un piano in tre mosse. Prima mossa: allarme mediatico per la "scalata libica", lanciato ai primi di settembre dalla Lega, che ha costretto la Consob e la Banca d'Italia a chiedere chiarimenti a Profumo. Seconda mossa: attacco mediatico dalla Germania, con la "Suddeutsche Zeitung irritata per "l'arroganza" del ceo. Terza mossa: convocazione di un consiglio straordinario da parte dei "grandi azionisti", per ridiscutere l'operato del management. È esattamente quello che è accaduto in queste tre settimane, e che ha portato l'amministratore delegato alla resa finale.

La vittoria politica di Berlusconi si può riassumere così. In uno scenario che precipita palesemente verso le elezioni anticipate, il premier sistema la partita strategica di Unicredit, si libera di un manager troppo autonomo dal Palazzo, e in un colpo solo rinsalda il suo patto di ferro con Umberto Bossi, sigla una tregua con il governatore di Bankitalia Draghi, e ridimensiona le velleità politiche del suo ministro-antagonista Tremonti. Sembra fantascienza. Ma forse non lo è affatto. Lo prova, paradossalmente, la sobrietà con la quale lo stato maggiore del Carroccio festeggia le dimissioni di Profumo. Lo prova, allo stesso modo, la battaglia non proprio campale che Via Nazionale ha condotto per difendere la governance della prima banca italiana. Lo prova, infine, l'ultima battuta di Tarak, all'uscita della riunione del patto Mediobanca di ieri: "I libici irritati per quello che è successo a Unicredit? Non credo affatto...". Per molte ragioni, la sconfitta di "Mister Arrogance" ha accontentato diverse casematte del potere, politico ed economico.

La partita finanziaria. Se il premier su Unicredit ha giocato dunque la sua partita politica, Geronzi su Profumo ha giocato la sua partita finanziaria. E lo ha fatto con l'obiettivo raccontato da Bisignani. Espugnare la fortezza di Piazza Cordusio, per poi coronare il progetto che si porta dietro dalla scorsa primavera, da quando cioè ha traslocato dal vertice di Mediobanca alla presidenza delle Generali: fondere Piazzetta Cuccia con il Leone di Trieste. E così ridefinire una volta per tutte, a suo vantaggio, gli equilibri del capitalismo italiano. Da maggio scorso, a dispetto di una governance che formalmente assegna allo stesso Geronzi poche deleghe in Generali, lasciando a Mediobanca il controllo delle partecipazioni strategiche come Rcs, Telecom e le banche, il nuovo Cesare del capitalismo italiano ha ingaggiato una guerra senza quartiere con i due "alani" rimasti a Piazzetta Cuccia. Lo ripete lo stesso Bisignani, senza farne mistero: "Con Renato Pagliaro e Alberto Naghel gli scontri sono continui...".

Geronzi si sta smarcando sempre di più, dall'orbita Mediobanca. E lo fa non per lasciare all'Istituto che fu di Enrico Cuccia la sua piena autonomia, ma per raggiungere il risultato contrario: cioè tornare a comandare anche lì. Con l'operazione di "reverse merger" di cui si parla da tempo, e che "Repubblica" ha anticipato nella primavera scorsa, e che ora lo stesso Bisignani conferma. Un'operazione che, secondo fonti di mercato, coinvolgerebbe persino la Mediolanum, di cui il premier vuole disfarsi, perché non sa cosa farne, e che lo stesso Geronzi sarebbe pronto ad accollarsi, per rendergli l'ennesimo favore. Sembra fantascienza, anche questa. Domani fioccheranno smentite. Ma anche fino alla scorsa primavera il banchiere di Marino aveva smentito il suo progetto di trasferirsi in Generali. Sappiamo poi com'è andata a finire.

Al fondo, resta l'immagine di un capitalismo ancora una volta provinciale, asfittico, autoreferenziale, etero-diretto dalla politica. In questa ultima grande partita del potere italiano non ha perso Profumo, uno dei pochi grandi banchieri di caratura internazionale in questo sciagurato paese. Ha perso l'intera, sedicente "élite" della solita, piccola, Italietta.

(22 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #145 inserito:: Settembre 23, 2010, 10:09:10 am »

UNICREDIT

Geronzi: non sono io il capo della Spectre il vero problema è il potere delle Fondazioni

"Con Alessandro un buon rapporto. La Lega? Aprono bocca a vanvera". Con la politica non ho alcuna relazione pericolosa. Io sono un menestrello, dò consigli e suggerimenti. La fusione tra Mediobanca e le Generali? Non ci penso e non ci ho mai pensato

di MASSIMO GIANNINI


"Mi dispiace deluderla, ma non sono io il capo della Spectre...", giura Geronzi. Dal suo ufficio di Piazza Venezia a un passo dal Foro Romano, il Cesare del capitalismo  si sfila dalla "congiura" contro Profumo.

"Non ho niente contro Alessandro, e mi sono sempre adoperato per la stabilità del sistema finanziario". A sentire la ricostruzione del presidente delle Generali, nella battaglia su Unicredit non c'è stata nessuna vittoria dell'asse Berlusconi-Geronzi, nessun piano orchestrato dalla solita politica e dalla grande finanza per sconfiggere Profumo, prima attraverso il "cavallo di Troia" dei libici, poi con l'affondo coordinato tra le Fondazioni delle casse del Nord, il presidente di Unicredit Dieter Rampl e i soci tedeschi e italiani a lui vicini. "Vede, quando le cose sono semplici, a me non piace che siano raccontate come un romanzo. Meno che mai un romanzo di fantascienza". Per Geronzi è "fantascienza" l'incontro tra lui e il premier durante la visita romana di Gheddafi, volto a trasformare l'ingresso dei libici in Unicredit in un'arma per abbattere lo strapotere dell'amministratore delegato.

Questo è il primo punto che il numero uno del Leone di Trieste ci tiene a chiarire: il "ribaltone" a Piazza Cordusio non è stata una sua vendetta contro il "ceo": "Io non ho nulla contro Profumo, e non ho mai avuto nulla contro di lui. Mi citi un episodio, uno solo, nel quale ci saremmo scontrati... ". L'elenco è lungo: dalla
fuoriuscita dal capitale Rcs ai Tremonti Bond, dalla governance di Mediobanca al passaggio dello stesso Geronzi da Piazzetta Cuccia alle Generali. Ma anche in questo caso, il banchiere di Marino nega tutto: "Non è affatto vero che io e Alessandro abbiamo litigato su questi punti. E soprattutto è una leggenda che Profumo fosse contrario al mio passaggio alle Generali: in realtà lui, giustamente, si preoccupava solo del fatto che ci fosse una continuità aziendale in Mediobanca. Vuole sapere la verità su me e Profumo? La verità è che io, insieme a lui, ho fatto la più bella operazione del sistema bancario italiano di questi anni, e cioè la fusione tra Unicredit e Capitalia. Un'operazione straordinaria non solo per me e per lui, ma per il Paese. Allora creammo insieme la prima banca italiana per capitalizzazione, e lo facemmo con tanta concordia tra noi che chiudemmo l'operazione in quattordici giorni. Poi, certo, nella gestione quotidiana ci possono essere momenti in cui non si condivide qualcosa. Ma questo rientra nella fisiologia dei rapporti di lavoro, e non ha nulla a che vedere con il rancore, e meno che mai con la vendetta".

Il secondo punto che Geronzi ci tiene a precisare riguarda i suoi rapporti con la politica, e il ruolo che Palazzo Chigi ha giocato nella partita Unicredit. "Io non so dire che cosa abbia fatto Palazzo Chigi in questa vicenda. So però che io non ho avuto alcun contatto con il governo, per discutere dell'affare Unicredit. Lei potrà anche non crederci, perché spesso vengo rappresentato come il "braccio armato" dalla politica nel mondo della finanza, ma la verità è che io con la politica non ho alcuna "relazione pericolosa". Io sono un menestrello, rispetto a chi fa politica per professione... Do consigli e suggerimenti, e solo quando mi vengono richiesti". Non è questo il caso dell'operazione Unicredit, garantisce il presidente delle Generali: "Nessuno mi ha chiesto nulla, e io non ho suggerito nulla". Eppure i conti non tornano, se uno degli uomini considerati vicini allo stesso Geronzi, e cioè Luigi Bisignani, accredita l'ipotesi che la cacciata di Profumo sia solo la prima tappa di un percorso, rinsaldato sull'asse Berlusconi-Letta, che deve poi portare alla "grande fusione" Mediobanca-Generali. Su questo punto il banchiere di Marino taglia corto: "Forse c'è chi vuole accreditare giochi di potere e comportamenti non rituali nella gestione di istituzioni finanziarie importanti come le nostre. Ma io non faccio giochi, questo modo di operare non mi appartiene e non mi è mai appartenuto. La mia storia parla per me, dai tempi in cui lavoravo alla Banca d'Italia".

Prendendo per buona la versione del banchiere di Marino, resta allora da capire chi ha davvero voluto far fuori Profumo. Se l'ipotesi Berlusconi-Geronzi è "un romanzo di fantascienza", il "colpevole" non può essere il solito maggiordomo, come nei romanzi gialli di serie B. Sono stati i libici? "No, su questo concordo perfettamente con lei: la presunta scalata dei libici è stata solo un pretesto, un alibi, oltre tutto pessimo, perché confermo che nel caso di Capitalia i libici sono stati i migliori azionisti che io abbia mai avuto". Allora sono stati i tedeschi, tanto che ora Bossi, dopo aver agitato lo spauracchio di Gheddafi, lancia l'allarme sulla "calata degli unni" dalla Germania? "Non diciamo sciocchezze. Qui c'è chi apre bocca e da fuoco ai denti. Far serpeggiare adesso il rischio della scalata dei tedeschi con il solito slogan del "no pasaran", dopo aver gridato al pericolo dei libici, mi pare davvero un modo stravagante e propagandistico di "leggere" gli eventi. Non facciamoci prendere dalle dietrologie e dalle strumentalizzazioni... ".

Scartato Palazzo Chigi, escluso lo stesso Geronzi, sgomberato il campo dall'equivoco sui libici e sui tedeschi, chi rimane tra i possibili "congiurati"? Restano i "grandi azionisti" del Nord, cioè le Casse di Torino e di Verona dietro alle quali la Lega si è mossa e si muove eccome, a dispetto delle smentite di queste ultime ore. E qui il presidente delle Generali si fa più pensoso: "Mettiamola così. Io penso che tutto nasca dal grande processo di trasformazione delle casse di risparmio, e poi di creazione delle Fondazioni, avviato all'inizio degli anni '90. Quella riforma ha consentito indubbiamente il disboscamento di quella che allora Giuliano Amato definì giustamente la "foresta pietrificata" del credito. Ma col tempo quel processo di modernizzazione ha cambiato natura. E oggi le Fondazioni stanno riproducendo antiche formule del passato, e stanno ripercorrendo una strada che mi ricorda quella delle vecchie camere di commercio. Stiamo tornando a quel livello, e questo mi preoccupa molto, da cittadino prima di tutto. Perché vede, in nome di questo malinteso senso del "radicamento con il territorio", le Fondazioni rischiano di disgregare il sistema, mentre c'è bisogno di cementarlo... ". Eccoli, allora, i colpevoli della congiura contro Profumo: Palenzona e Biasi, le Fondazioni piemontesi e venete, debitamente ispirate dalle camice verdi.

Quando si parla della "politica che vuole allungare le mani sulle banche", insomma, secondo Geronzi non si fa riferimento ad un'intenzione generica del Palazzo. Ma è di questo che si sta parlando: della Lega, che usa le Fondazioni per costruire le sue roccaforti locali. "Unicredit è il primo esempio. Ce ne potrebbero essere altri. Non Banca Intesa, per fortuna, dove Bazoli ha gestito al meglio la fase critica e Guzzetti, che è uomo di grande qualità, è riuscito a coniugare al meglio la vocazione globale e la collocazione territoriale". Almeno un "colpevole", alla fine, è uscito fuori. Ma può essere solo il Carroccio, il pericolo per il sistema bancario? E può essere solo il Carroccio ad aver mobilitato tutti i consiglieri di Unicredit contro "Mister Arrogance"? Il banchiere di Marino ci crede: "Ma una cosa è certa. Non è così che si gestisce un problema all'interno di una delle più grandi banche d'Europa. Vede, Profumo era un uomo di carattere, e un temperamento molto forte. Ha gestito e superato momenti difficilissimi, perché nel 2008 e 2009 la crisi è stata durissima. Si può immaginare che qualche suo tratto non "arrogante", perché l'arroganza non c'entra, ma magari semplicemente "autoritario", può non essere piaciuto agli azionisti. Ma se anche fosse stato questo il problema, il modo in cui è stato affrontato e "risolto" è stato pessimo... ".

Dice di più, Geronzi: "Unicredit è una grande istituzione sovranazionale. Il modo in cui è stato affrontato il caso Profumo non è degno di una "banchetta" di provincia. Io non sono azionista di Unicredit. Ma da "banchiere di sistema" che si è sempre battuto per la stabilità, dico che in questi giorni è stata data ai mercati internazionali una pessima dimostrazione di ciò che è il sistema finanziario italiano. Il consiglio di amministrazione dell'altro ieri, con gente che entra e che esce e foglietti che volano da un tavolo all'altro, è uno spettacolo avvilente. In Francia e in Germania una cosa del genere non sarebbe mai accaduta. Mi chiedo perché debba accadere da noi. E da questo punto di vista sono convinto che, con questa vicenda, sia stata fatto un grave danno all'Italia. In un grande Paese, l'establishment non si comporta così...".

Su questo, davvero, non si può che essere d'accordo con Geronzi. Resta da capire a che punto è il progetto di fusione Mediobanca-Generali, che Bisignani descrive come il vero, grande sogno del banchiere di Marino: "Se scrive di nuovo che questo è il mio progetto mi offendo. Non ci penso, non ci ho mai pensato... ". L'obiezione finale è fin troppo facile: aveva smentito seccamente anche l'ipotesi di un suo trasloco da Piazzetta Cuccia al Leone Alato, che invece nella primavera scorsa è andato puntualmente in porto. "Quella è tutt'altra storia - conclude Geronzi - poiché decisi di accettare il trasferimento solo l'ultima settimana, e nel comitato nomine di Mediobanca decidemmo tutti assieme, all'unanimità. Io ho a cuore la stabilità. Mi si può dire che le Generali possono essere gestite meglio, in modo più dinamico o più redditizio. Accetto tutto. Ma non mi si può e non mi si potrà mai dire che un'istituzione che presiedo possa concorrere a sfasciare il sistema. In tutta la mia vita ho fatto esattamente l'opposto. E continuerò a farlo". Vedremo chi ha ragione. Appuntamento alla prossima primavera.

m.giannini@repubblica.it

(23 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #146 inserito:: Ottobre 01, 2010, 09:50:42 am »

IL COMMENTO

Ma nell'agenda manca l'Italia

di MASSIMO GIANNINI

Datemi il Lodo, e vi solleverò il mondo. Sarebbe il "titolo" migliore, per la due giorni parlamentare che è valsa al presidente del Consiglio la "fiducia avvelenata" con la quale dovrebbe governare fino al termine della legislatura. E a sentire le sue parole di ieri al Senato, sembra davvero che Silvio Berlusconi abbia in mano i destini dell'universo. Forse non ce ne siamo accorti. Ma ha salvato lui le banche americane dal disastro, convincendo Obama a varare il più grande piano di aiuti della storia americana (mentre tutti sanno che il Tarp nasce alla Casa Bianca dalla testa di Lawrence Summers).

Ha salvato lui la Russia, convincendo l'amico Putin a non attaccare la "nemica" Georgia (mentre tutti sanno che a Tbilisi nessuno conosce il Cavaliere). Ha salvato lui il mondo, convincendo Obama a firmare con Putin il trattato sulla riduzione degli arsenali atomici "prima del G8 dell'Aquila" (mentre tutti sanno che a firmare Start 2 è stato Medvedev il 7 aprile di quest'anno, cioè nove mesi dopo il vertice dei Grandi in Abruzzo). L'ultimo stadio del berlusconismo ci precipita dunque in una surreale "terza dimensione". Tra la meta-storia e la meta-politica. Tra la propaganda velleitaria del salto nel cerchio di fuoco staraciano, e la comicità involontaria del "Grande Dittatore" chapliniano.

Se in questo "tempo sospeso" il premier si fosse occupato anche dell'Italia, magari adesso staremmo tutti un po' meglio. E invece, a dispetto della tonitruante campagna mediatica di regime, stiamo molto peggio. Peggio nei tassi di crescita, che come si è finalmente accorta anche la leader della Confindustria Marcegaglia ci inchiodano stabilmente agli ultimi posti dell'Eurozona. Peggio nei salari, che come denuncia il segretario della Cgil Epifani ci fotografano storicamente agli ultimi posti dell'area Ocse. In questa lenta accelerazione del declino, l'unica certezza della fase è la strutturale latitanza del governo. L'ultimo provvedimento qualificante varato dall'esecutivo risale al 28 maggio scorso: la manovra economica da 25 miliardi. Da allora, a Palazzo Chigi e in Consiglio dei ministri, più nulla. Il governo è "sede vacante", come dimostra la vicenda di due istituzioni che aspettano da troppo tempo di tornare alla piena funzionalità gestionale e amministrativa.

Oggi ricorrono i 95 giorni di assenza del presidente della Consob. Da quando ha lasciato il suo incarico Lamberto Cardia, il 28 giugno scorso, il principale organo di vigilanza sul mercato finanziario e sulla Borsa è senza "testa". È vero che in questi tre mesi i tre commissari che provvisoriamente lo governano (Vittorio Conti, Luca Enriques e Michele Pezzinga) stanno facendo un lavoro egregio e infinitamente migliore di quello che la stessa Commissione ha svolto nei sette anni di gestione Cardia. Questo è un miracolo che ci conforta, ma che non può durare. In Piazza Affari accadono fatti di un qualche rilievo, tra le società quotate sta avvenendo di tutto, dal ribaltone su Unicredit ai movimenti su Premafin. Come si può accettare che l'unica poltrona che interessa alla maggioranza sia quella del quarto commissario (anche quello mancante), sulla quale si allungano ancora una volta i tentacoli della Lega di Bossi, attraverso la candidatura tutt'altro che eccelsa di Carlo Maria Pinardi? Come si può immaginare che un'autorità amministrativa così importante per il controllo dei mercati possa operare a "scartamento ridotto"? Si parla da settimane della probabile nomina dell'attuale viceministro dell'Economia, Giuseppe Vegas. Forse non è la migliore delle scelte possibili, vista la provenienza del candidato da un impegno governativo e da un partito politico (è stato senatore di Forza Italia). Ma potrebbe essere comunque accettabile. Cosa si aspetta a formalizzarla?

Ma oggi si "celebrano" soprattutto i 150 giorni di interim del presidente del Consiglio alla guida del dicastero dello Sviluppo Economico. Da cinque mesi esatti, la quinta potenza economica d'Europa non ha un ministro che si occupa stabilmente e strutturalmente della gestione dei fondi alle imprese. Dei 170 tavoli di crisi aziendali sparse per la penisola. Delle vertenze Fiat di Melfi e Pomigliano. Dei dissesti dell'Eutelia e degli esuberi Telecom. Dei disastri della Glaxo e della chimica in Sardegna. Una "vacatio" inconcepibile, in qualunque altra democrazia industriale, e invece "normale" nell'autocrazia berlusconiana. In compenso, il premier-ministro, in quanto competente "ad interim" anche sulla materia delle telecomunicazioni e del sistema radiotelevisivo, si occupa della distribuzione delle frequenze tv nel "triangolo delle Bermude" Rai-Mediaset-Sky, e del rinnovo del contratto di servizio con la stessa Rai. Un conflitto di interesse intollerabile, in qualunque altra democrazia occidentale, e invece "normale" nell'anomalia berlusconiana.

Da cinque mesi il premier prende in giro gli italiani, le parti sociali e le istituzioni. Al presidente della Repubblica aveva promesso la nomina del successore di Claudio Scajola "la prossima settimana": era il 28 giugno scorso, e da allora sono passati invano altri tre mesi. Non pago di aver snobbato irresponsabilmente l'invito di Giorgio Napolitano, Berlusconi ha bissato la presa in giro il 3 settembre. "La prossima settimana sottoporrò al capo dello Stato il nome di un nuovo ministro per lo Sviluppo Economico", ha scritto in un comunicato ufficiale. Quasi quattro settimane dopo, non c'è traccia del nuovo ministro. Il Quirinale aspetta. Gli industriali aspettano. I sindacati aspettano. Per "intrattenerli" ancora un po', l'altroieri alla Camera, nel suo discorso sulla fiducia il presidente del Consiglio si è lanciato in un'autodifesa appassionata non solo della sua missione di risolutore dei problemi planetari, ma anche del suo lavoro di ministro pro-tempore: "Allo Sviluppo Economico non c'è alcun vuoto di potere: ho lavorato ininterrottamente anche nel mese di agosto, esaminando i dossier di decine di crisi aziendali, intervenendo per la soluzione e firmando più di 300 decisioni per il ministero".

I risultati pratici di questo "lavoro ininterrotto" non si sono visti. L'unica cosa di cui non dubitiamo è che il premier abbia effettivamente esaminato "decine di dossier". Ma con tutta evidenza devono aver riguardato "altro", considerato ciò che nel frattempo ha sfornato la macchina del fango nella battaglia contro Gianfranco Fini. La Consob, il ministero per lo Sviluppo, l'economia italiana: tutto può aspettare. Il presidente del Consiglio ha ben altri impegni. Non possiamo pretendere che trovi anche il tempo per governare l'Italia.
m.giannini@repubblica.it

(01 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #147 inserito:: Ottobre 05, 2010, 03:36:20 pm »

IL COMMENTO

Saldi di fine regime

di MASSIMO GIANNINI

Dopo ben centocinquantatre giorni di colpevole latitanza e di irresponsabile iattanza, il presidente del Consiglio ha finalmente nominato il nuovo ministro dello Sviluppo Economico. Dovremmo essere compiaciuti, per la fine di un grave "vuoto di potere" che su questo giornale avevamo denunciato da tempo, indicandolo come vero paradigma di un ancora più grave "vuoto di politica" che ormai caratterizza lo stadio terminale del berlusconismo. E invece non c'è proprio nulla da festeggiare.

La scelta di Paolo Romani soddisfa la "meccanica" di governo: c'era una poltrona vuota, quella di Claudio Scajola, che ora viene nuovamente occupata. Ma offende l'etica: c'è un conflitto di interessi strutturale, quello di Silvio Berlusconi, che ora viene ulteriormente codificato. Romani, già viceministro, è infatti un perfetto ingranaggio della "macchina" Mediaset. È l'uomo che ha contribuito a scrivere la scandalosa legge Gasparri sulle tv. Ha fatto pressioni sulla Ue per negare a Sky la deroga sull'asta per il digitale terrestre. Ha tentato di sfilare la rete a Telecom, per consentire all'azienda del premier di prendersene un pezzo. Ha regalato alla stessa Mediaset il canale 58, per permettergli di sperimentare il digitale in alta definizione prima della gara. Ora che è stato promosso ministro, dovrà firmare il contratto di servizio della Rai, scaduto a fine 2009.

Immaginiamo con quanta equanime solerzia saprà valorizzare il servizio pubblico, e difenderlo dallo strapotere di quello privato. Il Cavaliere e i suoi scudieri brindano. "Vendono" la nomina di Romani come il segno che il governo è vivo, e va avanti. È vero il contrario. Siamo ai "saldi" di fine regime. Caligola ha incoronato il suo cavallo. Sistemerà gli ultimi affari. Poi l'Impero potrà finalmente cadere.
m.giannini@repubblica.it

(05 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #148 inserito:: Ottobre 15, 2010, 10:54:40 pm »

IL COMMENTO

Maggioranza in agonia

di MASSIMO GIANNINI


IL PROCESSO di "balcanizzazione" del centrodestra compie un ulteriore salto di qualità. In un solo giorno si moltiplicano gli strappi sul già logoro tessuto politico che dovrebbe tenere insieme il governo per l'intera legislatura. In Parlamento Schifani e Fini rompono sulla legge elettorale. A Palazzo Chigi i ministri rompono con Tremonti sulla finanza pubblica. Al Senato il Pdl rompe con se stesso sul Mezzogiorno. Tre indizi, stavolta, fanno una prova: questa maggioranza non regge più.

Eppure, proprio mentre agonizza, il "berlusconismo da combattimento" diventa più dannoso. Lo dimostra l'ultimo blitz sulla bugiarda "riforma della giustizia" in arrivo: una norma che prevede l'obbligo per la Consulta di deliberare con una maggioranza dei due terzi in tutti i casi in cui si giudichi l'incostituzionalità su una legge. Un'altra misura eversiva: limiterebbe drasticamente l'autonomia dei giudici e squilibrerebbe una volta di più il bilanciamento dei poteri. Un'altra norma ad personam: per il passato, avrebbe impedito la bocciatura del vecchio Lodo Schifani, e per il futuro potrebbe impedire la bocciatura del nuovo Lodo Alfano. C'è solo da sperare che, nella totale entropia della fase, salti anche questa ennesima manomissione dei principi repubblicani.

La rottura sul "Porcellum" è preoccupante. La bega procedurale non riflette più solo un dissenso politico, ma si traduce in un conflitto istituzionale. Il presidente del Senato "avoca" a sé il dibattito sulla nuova legge elettorale, con l'intenzione di frustrare le velleità riformatrici del presidente della Camera. Fini vorrebbe modificare a Montecitorio la "porcata" di Calderoli, per consentire agli italiani di tornare a votare con una legge elettorale più giusta, che tolga alle segreterie di partito il "potere" di nominare i propri parlamentari e restituisca ai cittadini il "diritto" di scegliere i propri rappresentanti. Schifani glielo impedisce, ancorando il confronto nelle sabbie mobili di Palazzo Madama, perché in ossequio ai voleri del Cavaliere preferisce che gli italiani votino con questa pessima legge elettorale. Il risultato, oltre alla spaccatura orizzontale tra Pdl e Fli, è una frattura verticale tra la seconda e la terza carica dello Stato.

La rottura sulla Legge di stabilità è devastante. I "tagli lineari" del ministro dell'Economia affondano non tanto sulla pelle sottile degli altri dicasteri, ma nella carne viva della società italiana. Scuola e università pagano il conto più salato della recessione. Ma è l'intero Sistema-Paese che, senza ossigeno, è a un passo dall'asfissia. Tremonti tiene sotto scacco il governo: in Europa è tornata la tensione sui debiti sovrani, e si teme la "seconda ondata" della tempesta perfetta. L'Italia è ad altissimo rischio: non ha un euro da spendere, e nei prossimi tre anni la Ue esigerà manovre per 9 punti di Pil. Ma la linea del rigore assoluto, se può premiare a Bruxelles, è ormai insostenibile a Roma. Non si governa dicendo solo "no". Neanche (o soprattutto) in tempi di crisi. Il "genio dei numeri" avrebbe dovuto costruire una exit strategy per lo sviluppo. Non l'ha fatto. E oggi è troppo tardi. La "speranza" non c'è più. È rimasta solo la "paura". Il governo non è più in grado di costruire consenso intorno a un progetto di crescita dell'economia e della società italiana.

La rottura sui crediti d'imposta al Sud è promettente. In Senato, ancora una volta, si è formato l'embrione di una maggioranza diversa, intorno ad un emendamento presentato dal gruppo "Io Sud", votato da finiani, Pd, Mpa e alcuni senatori del Pdl. Per il Cavaliere è una calamità. Per il Paese può essere un'opportunità. Fuori dal disperato perimetro berlusconiano, c'è forse una maggioranza alternativa. Per bloccare nuove leggi ad personam ed altri sabotaggi agli organi di garanzia. Per far passare una legge sul conflitto di interessi. Per cambiare la legge elettorale. E magari per sostenere, nel pieno rispetto della Costituzione, un governo che si dia proprio quell'unica missione, e poi riporti gli italiani alle urne. Non si vede altra via, per uscire da questa livorosa e pericolosa decomposizione del "corpo mistico" berlusconiano.
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« Risposta #149 inserito:: Ottobre 23, 2010, 06:34:02 pm »

IL COMMENTO

Il nuovo Lodo Alfano un Frankenstein costituzionale

di MASSIMO GIANNINI


Questa volta, dunque, non c'è bisogno di attendere una pronuncia della Consulta. Il nuovo Lodo Alfano voluto dal premier per proteggersi dai suoi processi, anche nella sua formula "rinforzata" di legge di revisione costituzionale, non è solo l'ennesima e intollerabile norma ad personam di questo quindicennio berlusconiano. È un Frankenstein giuridico, che mina alla base i principi su cui si regge la nostra Costituzione. Lo scrive nero su bianco il presidente della Repubblica che, della Carta del 1948, è il supremo "custode e garante".

Se Giorgio Napolitano ha avvertito l'urgenza di intervenire subito, a dibattito parlamentare ancora in corso, per indicare le sue "profonde perplessità" e la "palese irragionevolezza" del testo all'esame del Senato, vuol dire che il rischio di vedere stravolti gli equilibri repubblicani ha superato il livello di guardia. Proprio ieri avevamo segnalato su questo giornale i "dubbi" che inquietano il Capo dello Stato, per un provvedimento dagli effetti devastanti e imprevedibili: "Rischia di stravolgere la forma di governo parlamentare sancita dagli articoli 55-69, di alterare le prerogative del presidente della Repubblica fissate dagli articoli 87-91, di squilibrare i poteri del governo disciplinati dagli articoli 92-96".

Ora Napolitano esplicita e precisa questi "vizi" giuridici del disegno di legge, confermando che "incide sullo status complessivo del presidente della Repubblica", e ne riduce "l'indipendenza nell'esercizio delle sue funzioni". Il Quirinale concentra l'attenzione sull'emendamento che equipara il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, ai fini della sospensione dei processi penali, sulla quale il Parlamento può votare in seduta comune e "a maggioranza semplice". Una norma contraria all'articolo 90 della Costituzione, secondo cui "il presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione", e in tali casi il presidente "è messo in stato d'accusa dal Parlamento in seduta comune e a maggioranza assoluta dei suoi membri".

"Degradando" il Capo dello Stato sullo stesso piano del Capo del governo, il nuovo Lodo Alfano trasforma il presidente della Repubblica da garante super partes della Carta costituzionale in ostaggio permanente della maggioranza parlamentare. Un problema che nei mesi scorsi era stato segnalato da diversi costituzionalisti, a partire da Stefano Ceccanti, e che il premier e i suoi Dottor Stranamore non hanno mai voluto affrontare e risolvere. Un problema che si rinviene in tutti gli altri punti critici della legge all'esame del Senato, compreso quello che esclude i ministri dalla sospensione dei processi, trasformando il presidente del Consiglio in un "primus super pares" ed "elevandolo", in questo caso, allo stesso rango del presidente della Repubblica.

Ma al di là dei singoli motivi "tecnici", quello che si evince dalla lettera di Napolitano è che questa pseudo-riforma, in un insensato e micidiale meccanismo di causa-effetto, produce come unico risultato l'assoluto disordine costituzionale. Con l'unico obiettivo di salvare il Cavaliere dalle sue solite ossessioni processuali, stravolge in modo irrimediabile tutti gli equilibri istituzionali. Ancora una volta il cesarismo carismatico, mondato dai suoi peccati e sacralizzato attraverso il lavacro dell'urna, pretende che la biografia collettiva della nazione si pieghi e si modelli sulla biografia personale di Silvio Berlusconi. Non più con l'uso della legge ordinaria, ma ormai addirittura attraverso l'abuso della Costituzione.

Diciamo subito che questo scempio da macelleria costituzionale, compiuto sulla carne viva del Paese, non può e non deve passare. Per quanto disperato e incattivito dal declino avventuroso e perciò pericoloso del suo leader, il centrodestra non può ignorare il monito di Napolitano. Se non al prezzo di aprire un conflitto tra i poteri dello Stato che non ha precedenti nella storia repubblicana. Una riflessione che vale per tutti. Non solo per Berlusconi, che farà bene a meditare sui rischi ai quali lo espone la sua irresponsabile "fuga presidenzialista". Ma anche per Fini, che farà bene a riconsiderare il via libera fin troppo arrendevole concesso al nuovo Lodo Alfano. "Sulla nostra democrazia grava un macigno", ha detto ieri il Cavaliere alla "Frankfurter Allgemeine Zeitung". Alludeva ai magistrati, ovviamente. Ma è chiaro a tutti che ormai il vero "macigno che grava sulla democrazia" è solo lui.
m.giannini@repubblica.it

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