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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 166714 volte)
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« Risposta #255 inserito:: Luglio 07, 2012, 11:16:07 am »

L'ANALISI

La modica quantità

di MASSIMO GIANNINI


ORA SI CAPISCE perché i governi preferiscono aumentare le tasse. Soprattutto nei Paesi a statalismo diffuso come l'Italia, la spesa pubblica è l'"oggetto" del contratto sociale e il cuore della costituzione materiale. Tagliare la spesa equivale a rinegoziare il primo, e a riscrivere la seconda. Per questo il decreto sulla "spending review" varato da Monti, oltre che un forte impatto economico, ha un alto costo politico.

La lama del governo affonda non solo sugli sprechi, ma nella carne viva della società italiana. La tempestività è soddisfacente. Ma ancora una volta l'equità è intermittente. Il tasso di riformismo del provvedimento non è assente, ma è insufficiente: siamo alla "modica quantità".

"Tagli versus riforme". Tommaso Padoa-Schioppa, che la "spending review" la lanciò nel 2007 da ministro del Tesoro, aveva colto (ma non sciolto) il nodo gordiano. Nell'Italia del compromesso permanente sulle spalle delle generazioni future, dei diritti acquisiti e dei privilegi consolidati, delle sinecure per gli inclusi e delle ingiustizie per gli esclusi, serve innanzitutto la "revisione della spesa", non la sua "liquidazione". Un'operazione che richiede il bisturi, non il machete. Una missione che esige un'idea di Paese, non una "ideologia della cassa".

Questo, per un governo che consideri il Welfare un valore irrinunciabile dell'Occidente e non un ferrovecchio inservibile del Novecento, significa che la spesa pubblica in molti casi va tagliata, ma in qualche altro caso va aumentata. Il saldo finale deve generare un risparmio significativo per il bilancio dello Stato. Ma insieme a questo, deve propiziare anche un "compromesso al rialzo" tra lo Stato che offre servizi e il cittadino che li produce e che se ne serve.

La "spending review" di Monti inclina più verso la voce "tagli" che non verso la voce "riforme". L'urgenza del gettito fa premio sull'efficienza del sistema. In parte era inevitabile, vista la criticità del giudizio dei mercati su un'Italia soverchiata dal suo debito sovrano e la necessità di scongiurare un nuovo giro di vite sull'Iva nel 2013. Almeno su questo, il premier ha mantenuto la promessa, costruendo una manovra estesa anche se non abbastanza profonda. Taglio per taglio. Prima di intervenire sulle "voci" più sensibili si doveva aggredire il capitolo delle spese militari, limitando o azzerando l'investimento da 12 miliardi sui caccia F-35, che servono alla Difesa come biglietto d'ingresso nelle commesse della Lockheed, ma non servono al Paese.

Risparmi per 26 miliardi non sono pochi, per un'economia che decresce da anni e per una società che sopporta sacrifici da mesi. Ma è una cura indispensabile. A dispetto del mal di pancia dei partiti, dell'ira degli enti locali, della rabbia dei sindacati e dei dubbi causidici degli economisti. Avevamo giustamente criticato il decreto Salva-Italia perché ruotava al 70% intorno agli aumenti d'imposta e rinviava i tagli di spesa. Ora che i tagli di spesa arrivano non si può opporre un dissenso uguale e contrario. Piaccia o no (e a noi questo impegno draconiano e non richiesto assunto da Tremonti non piace) l'Italia ha promesso alla Ue il pareggio di bilancio nel 2013. Per rispettare i patti, è giusto attingere con più determinazione al tesoretto "occulto" di un'evasione fiscale da 200 miliardi, e a quello "emerso" di un patrimonio alienabile da 450 miliardi. Ma non basta. E allora, delle due l'una: o si elevano le tasse, o si abbattono le spese. Non volere né l'una né l'altra è una fuga nell'irrealtà.

La voce più critica sul piano sociale riguarda la sanità. Il governo ha opportunamente rinunciato al taglio centralizzato degli ospedali minori: toccherà alle Regioni razionalizzare le strutture e portare lo standard a 3,7 posti letto ogni mille abitanti. Resta il fatto che alla sanità si chiederanno altri sacrifici per 5 miliardi in tre anni. Se si sommano agli 8 miliardi decisi dal precedente governo, il "conto" addebitato alla spesa sanitaria ammonta a 13 miliardi. Pochi, se si pensa che da noi una Tac costa il doppio che in Germania e il triplo che in Francia, e che un posto letto costa 134 mila euro l'anno in Lombardia e 200 mila in Campania. Troppi, se si pensa che l'attesa media per quella stessa Tac è di 3-6 mesi, e in molte strutture anche d'eccellenza quegli stessi posti letto mancano proprio.

Il pubblico impiego paga un dazio pesante, ma obiettivamente non devastante. Gli organici si riducono di 6.954 dipendenti e 293 dirigenti. Il ricorso alla mobilità obbligatoria fa cadere il tabù del posto fisso. Può dispiacere a un settore che da tre anni sopporta già il blocco della contrattazione. Ma è un fatto che oggi la Pubblica amministrazione paga lo stipendio a 3 milioni 458 mila 857 dipendenti che secondo la Corte dei conti, in rapporto alla popolazione residente, costano in media 2.849 euro all'anno per ciascun italiano. Più della Germania (2.830 euro), ma anche della Spagna (2.708 euro) e persino della Grecia (2.436 euro). Ed è un altro fatto che dalla produttività del settore pubblico arrivano "segnali preoccupanti". Pesano "l'assenza della meritocrazia" e la "distribuzione indifferenziata dei trattamenti accessori, al di fuori di criteri realmente selettivi e premiali".

L'amministrazione giudiziaria fa la sua parte. La "rivoluzione epocale" di cui parla il ministro Severino è un eccesso retorico, ma lo sfoltimento di 37 tribunali minori, 38 procure e 220 sezioni distaccate non può far gridare allo scandalo, né incide sui tempi biblici della giustizia civile, che richiede in media 1.210 giorni per la risoluzione di una causa. La giustizia italiana è la più cara d'Europa, costa 67 euro l'anno per ogni cittadino, contro i 46 euro della Francia e i 22 del Regno Unito. La geografia giudiziaria del Paese è difforme e squilibrata: a Bolzano c'è un giudice ogni 110 cancellieri, a Campobasso ce n'è uno ogni 221. Gli avvocati possono urlare finché vogliono il loro sdegno corporativo. Ma disboscare questa giungla è l'affermazione di un dovere, non la lesione di un diritto.

In un quadro di austerità complessiva, anche i famosi "costi della politica" subiscono un ridimensionamento. La soppressione di 60 Province è una vittoria del premier, che ha resistito alle pressioni dei cacicchi, ed è riuscito a fare quello che i partiti promettono da anni e non fanno. Se si aggiungono il dimezzamento delle auto blu, l'abbattimento dei contratti d'affitto, il taglio parziale delle poltrone nei cda delle società pubbliche e delle consulenze negli enti, non si può dire che Monti abbia ceduto alle solite lobby.

Una volta tanto, il Palazzo paga il suo tributo al risanamento. E un provvidenziale ripensamento notturno ha evitato al governo la più folle delle scelte: il taglio di altri 200 milioni all'Università, per dirottare il ricavato al sostegno delle scuole private parificate. Sarebbe stato un danno simbolico ma enorme per un'istruzione pubblica già mortificata in questi anni, e una beffa per i giovani ai quali si promettono ponti d'oro sospesi sull'abisso. Per fortuna il buon senso delle istituzioni repubblicane ha fatto premio sul consenso delle gerarchie ecclesiastiche.

La "spending review" è un "metodo di governo" della cosa pubblica, e dunque è molto più che un antidoto contro il deficit. Questo decreto è solo un passo iniziale, e ancora parziale, sulla strada del cambiamento dei processi di riqualificazione della spesa. Ne serviranno altri, più convincenti. Ma intanto il primo è stato compiuto. Ugo La Malfa sosteneva che in genere "l'Italia fa riforme con spirito corporativo, quindi fa contro-riforme". Almeno questo, stavolta, non è accaduto.

m.giannini@repubblica.it

(07 luglio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/07/07/news/la_modica_quantit-38669102/?ref=HREA-1
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« Risposta #256 inserito:: Agosto 12, 2012, 04:25:28 pm »


L'INTERVISTA

Grilli: "Niente aiuti Bce e meno tasse Ecco come salveremo l'Italia"

Il ministro dell'Economia: "Forse esisteva un caso Italia, ora non più". "Abbiamo fatto molto, no alla patrimoniale.

Intervenire sui mercati del debito sovrano per stabilizzarli è dentro il mandato Bce.

Tutti conoscono la gravità della crisi, ognuno pensa che a cambiare debbano essere gli altri"

di MASSIMO GIANNINI


"L'Italia può uscire da questa crisi, ma deve proseguire sulla strada delle riforme. Il governo farà tutto ciò che serve per mettere in sicurezza il Paese. In autunno avremo due appuntamenti importanti: il piano pluriennale di rientro dal debito pubblico che abbiamo già avviato, e la seconda fase della spending review per efficientare la spesa pubblica". E' l'affermazione impegnativa con la quale Vittorio Grilli, ministro dell'Economia, apre l'intervista su Repubblica oggi in edicola. Il ministro afferma che "occorre accelerare gli interventi di riequilibrio annunciati dalla Bce". E aggiunge: "Per ora l'Italia non ha bisogno di aiuti", annunciando che "appena sarà possibile ridurremo la pressione fiscale su famiglie e imprese". E chiude alla patrimoniale sollecitata da Bersani: "La patrimoniale - spiega - non appartiene al mio vocabolario. Il governo, con l'Imu e i bolli sulle rendite finanziarie, ha già fatto passi importanti per riequilibrare il prelievo, spostandolo dal reddito allo stock della ricchezza. Toccherà ai prossimi governi decidere se fare passi ulteriori".

Poi affronta i dubbi sulla crescita del Vecchio Continente, e rappresenta l'Europa "come un granchio" che "continua a crescere, ma in modo non lineare: a stadi, a balzi. Deve cambiare il suo esoscheletro, per adeguarsi. Questo è un processo faticoso, e come per i granchi la muta è un periodo di grande vulnerabilità. Per questo il cambiamento deve avvenire in fretta, e i tempi li dettano i mercati".

Quindi il delicato tema delle tasse. "Il nostro impegno è ambizioso: noi vogliamo eliminare l'aumento dell'Iva in modo permanente, e contiamo di farcela. È vero, la pressione fiscale è troppo alta, e va ridotta. Com'è noto, gli strumenti sono due: aumentare la base imponibile attaccando le aree di evasione, ridurre in modo strutturale la spesa pubblica. Su entrambi i fronti siamo determinati, e l'abbiamo dimostrato". "Per ora ci siamo concentrati sull'evitare l'aumento dell'Iva. Non vogliamo illudere nessuno con promesse sulla tempistica che ora non siamo in grado di fare, ma appena si creerà uno spazio ridurremo anche le altre imposte". Ed esclude al 100 per cento l'ipotesi di una nuova manovra in autunno: "Sarebbe un errore: se varassimo una manovra per ridurre ulteriormente il deficit nominale, non faremmo altro che deprimere ulteriormente un'economia già in recessione".

(12 agosto 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/08/12/news/intervista_grilli-40810646/?ref=HREA-1
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« Risposta #257 inserito:: Agosto 17, 2012, 06:42:49 pm »

L'ANALISI

La doppia linea d'ombra

di MASSIMO GIANNINI
 

LA "LINEA D'OMBRA" tedesca, come la chiamava Tommaso Padoa-Schioppa, torna a offuscare l'orizzonte d'Europa. È già successo, nella parabola a tratti tragica del Novecento. Succederà ancora, in quella pacifica del Terzo Millennio. L'identità fragile di una moneta rischia di alimentare un'alterità irriducibile tra i popoli. Quello che colpisce di più, nella nuova ondata revanchista partita dalla Germania, è la trasversalità del fronte politico schierato contro i vituperati Paesi del Club Med.
Paesi che prosperano irresponsabili a spese delle finanze tedesche, contro la Bce dell'"italiano" Mario Draghi che gli regge il gioco, e alla fine contro l'euro che finisce per mettere in comune i vizi dei "latini" e le virtù dei "teutoni".

Il voto del prossimo anno non pesa solo a Roma. C'è un elettore anche a Berlino. Ma finora, almeno da quelle parti, non si era mai visto un fuoco incrociato che vede convergere i partiti della maggioranza, la Cdu e l'Fdp, e quelli dell'opposizione, la Spd, su una stessa linea non più solo rigorista, ma al dunque anche potenzialmente anti-europeista. Una linea populista e difensiva, quella emersa a sinistra con Schneider, che dà voce al contribuente tedesco stanco di pagare il costo dell'integrazione europea e del salvataggio dei Paesi periferici dell'eurozona: non i 310 miliardi di cui parla la Merkel, ma quasi 1.000 se si sommano gli aiuti, i crediti e le garanzie prestate finora dalla Bundesrepublik.

Una linea sciovinista e quasi eversiva, quella rilanciata a destra da Willsch e Schaeffler, che dà corda all'ortodossia monetarista della Bundesbank stanca di soccombere nel board di una Bce ormai trasformata in una "bad Bank" finanziatrice di Stati-canaglia: dunque, si cambi "la regolamentazione del peso dei voti nelle sedi decisionali" dell'Eurotower.

Poco importa se la prima tesi sia falsa: la Germania, in rapporto al Pil, contribuisce al fondo salva-Stati meno di molti altri Paesi (compresi quelli del Sud). E poco importa se la seconda ipotesi sia assurda: introdurre nel Sistema delle Banche Centrali un criterio che fu caro a Enrico Cuccia, in base al quale "i voti non si contano, ma si pesano", oltre a implicare una revisione dello Statuto e quindi del Trattato, comporterebbe una violazione del principio democratico. "Una testa, un voto", è una regola che vale e deve valere ovunque, in Occidente. Nel Bundestag come nel board della Bce.

Ma il problema della "linea d'ombra" tedesca, a questo punto, è un altro. L'insofferenza contro i vincoli di questa Europa ineguale e irrisolta non è più solo questione di "falchi", come finora ci siamo comodamente abituati a pensare. Questa sorta di sindrome di Weimar, che ritorna sotto altre spoglie e attanaglia a Berlino l'intero arco costituzionale, riflette con tutta evidenza un malessere sempre più radicato e diffuso nell'opinione pubblica tedesca.

Questa evidenza ha due implicazioni. La prima implicazione riguarda il destino stesso della moneta unica, e in questo ambito il ruolo della Banca Centrale Europea. Com'è chiaro a tutti, la partita inaugurata nel Vertice Ue il 28-29 giugno e poi nel Consiglio direttivo dell'Eurotower, il 2 agosto, non è affatto conclusa, ma semmai è appena cominciata. E Draghi non l'ha certo vinta, quella partita, ma deve ancora giocarla, riempiendo di fatti concreti gli annunci formulati in conferenza stampa. Una missione delicatissima, vista la risoluta e ostinata opposizione tedesca all'acquisto diretto di bond dei Paesi a rischio spread, come la Spagna e l'Italia. Se il programma di rifinanziamento non parte a settembre, qualunque sia la formula scelta (un nuovo Ltro o una riattivazione dell'Smp), la tregua agostana concessa dai mercati finirà, e per la moneta unica suonerà forse la campana dell'ultimo giro.

La seconda implicazione riguarda proprio l'Italia. L'irredentismo tedesco va confutato e arginato. Ma va innanzitutto capito. Il "superiority complex" della Germania non nasce solo dalla spocchiosa arroganza, inaccettabile in un Popolo che non finirà mai di farsi perdonare abbastanza per le carneficine novecentesche che ha generato. Origina anche dalla consapevolezza di un Sistema-Paese fondamentalmente sano, e di una società sufficientemente evoluta. Dove le riforme strutturali sono state compiute e dove la crescita non è solo il risultato di un'economia "sociale", ma anche un derivato della filosofia morale: il giusto premio, cioè, alla scelte etico-politiche condivise dalla nazione.

In un'Europa che si vuole federale e solidale, la pretesa che anche gli altri contraenti del patto comunitario facciano altrettanto non solo non è irricevibile, ma va raccolta perché è profondamente giusta. Questo, in Italia, sembra averlo capito solo Monti. E solo Monti sembra aver capito che, in un momento così difficile, per paradosso il nostro alleato più prezioso è proprio la Cancelliera di Ferro. Non è un caso se proprio la Merkel, in Europa, continua a difendere Draghi. E non è un caso se proprio la Merkel, in Germania, subisce per la prima volta un assedio bipartisan. Oggi noi abbiamo bisogno della Zarina di Berlino. E dunque fa bene il presidente del Consiglio a coltivare con lei un rapporto politico e personale che finora, a parte qualche momento critico, non ha conosciuto appannamenti.

Ma la Zarina di Berlino ha anche bisogno di noi. Per evitare che in casa sua si punti inevitabilmente il dito contro quelle che tra Palazzo Chigi e Via XX Settembre qualcuno chiama "le solite cavallette italiane", l'Italia non deve cedere un millimetro sul fronte della tenuta dei conti pubblici e sul rispetto dell'impegno al pareggio di bilancio strutturale. Come ricordano da giorni il premier e il ministro del Tesoro Grilli, "l'emergenza è tutt'altro che finita". Al di là delle formule, questo significa che la nostra, purtroppo, resta e deve restare ancora a lungo una politica economica "emergenziale".

Margini per tornare a spendere, o per allargare in altro modo i cordoni della borsa, non ce ne sono ancora. E questo vale per il governo in carica, ma anche per i governi che verranno. Cedimenti propagandistici, su questo fronte, producono solo danni: illusioni tradite all'interno, ritorsioni adirate all'estero. Qui si apre un drammatico deficit di consapevolezza, nei partiti che si preparano a una campagna elettorale lunga ed estenuante. È la "linea d'ombra" italiana. E non è meno pericolosa di quella tedesca.
m.giannini@repubblica.it

(17 agosto 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/08/17/news/doppia_linea_ombra-41062654/?ref=HREA-1
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« Risposta #258 inserito:: Agosto 25, 2012, 05:45:23 pm »

L'INTERVISTA

Bersani a Monti: "Cambi passo oppure l'Italia non si salva"

Il messaggio del segretario Pd: "Dico all'esecutivo che è ora di riscrivere l'agenda, di rompere l'avvitamento tra austerità e recessione".

E ancora: "Se passasse l'idea che la politica non è in grado di tirarci fuori dalla crisi, ci porremmo ai margini delle democrazie"

di MASSIMO GIANNINI


"SENTO in giro molte preoccupazioni sul dopo Monti. Allora chiariamo subito un punto: qualunque ragionamento sul prossimo futuro deve partire dal presupposto che non vengano abolite le elezioni, magari su suggerimento di Moody's. Se in Italia passasse l'idea che la politica non è in grado di tirarci fuori dalla crisi, noi ci porremmo automaticamente al margine delle democrazie del mondo". Finite le brevi ferie d'agosto, Pierluigi Bersani torna in campo e detta a Monti le condizioni dell'autunno. Il leader del Pd considera quella del governo tecnico una "parentesi non ripetibile". "Perché vede - spiega - il limite della soluzione tecnica non sta nel governo Monti, che pure ha fatto un gran lavoro, ma nella mancanza di univocità di una maggioranza che ha opinioni diverse, perché in natura esistono una destra e una sinistra alternative l'una all'altra. E se a Bruxelles o sui mercati si ha paura per la tenuta del rigore in Italia, io voglio credere che ci si riferisca a un rischio Berlusconi o a un pericolo populista, non al centrosinistra".

Eppure, segretario, l'impressione è che cancellerie e Borse non si fidino neanche di voi...
"Noi abbiamo fatto la moneta unica, con Prodi, D'Alema e Amato abbiamo raggiunto accordi storici con la Ue e la Nato, io ho lavorato con Ciampi e Padoa- Schioppa. I mercati e le cancellerie non possono far finta di non conoscerci. Se ci sono manovre interessate per dire che nell'Italia del dopo Monti non c'è un presidio credibile, noi siamo qui, con la nostra storia, a dimostrare che non è vero".

Quindi lei fin da ora dice no a un Monti bis e dice no a una Grande Coalizione?
"Io dico che in un Paese maturo si fronteggiano un centrodestra, un centrosinistra ed eventualmente una posizione centrale che da una legislatura all'altra può dare flessibilità al sistema. Chi vince, governa. Questo è il vero tema, non quanti tecnici ci sono nel governo. E questo significa che non si può andare al voto proponendo una Grande Coalizione. Non esiste proprio".

Perciò, Bersani va al voto con il suo programma e le sue alleanze, e se vince va a Palazzo Chigi. Giusto?
"Così funziona, nelle democrazie normali. E poi, hai visto mai, può succedere che una figura come Monti non riesce a portare a casa una legge contro la corruzione, e invece Bersani ci riesce".

Il Pd è sempre più insofferente col governo. Oggi c'è il primo Consiglio dei ministri dopo le ferie. Cosa chiede a Monti?
"A Monti chiedo un cambio di passo. Non sono d'accordo su come stanno andando le cose. È ora di riscrivere l'agenda. Per noi progressisti è il momento di rompere l'avvitamento tra austerità e recessione. Il rigore non va abbandonato. Ma è ora di aprire gli occhi. Lo dico anche al Consiglio dei ministri che si riunisce oggi: date finalmente uno sguardo alla realtà".

Perché finora il premier e i ministri non l'hanno fatto?
"Non sto dicendo questo. Dico che ora ci sono due problemi da affrontare. Il primo è europeo: a settembre il messaggio dell'Ue sulla stabilizzazione degli spread non deve più essere un oggetto da Sibilla Cumana, ma deve diventare operativo. A proposito di battere i pugni sul tavolo, questa è l'occasione. Il secondo è italiano. Sento parlare di via d'uscita dalla crisi. Io credo nella possibilità di uno spiraglio, ma ancora non lo vedo. E ho l'impressione che il governo finora non abbia percepito lo scivolamento dell'economia reale. C'è un crollo della produzione industriale, un segno meno nei consumi, lavorano 22 milioni di italiani su 60. Io chiedo: come affrontiamo queste emergenze?".

E cosa si aspetta che le risponda, Monti?
"Per me il rigore è la condizione necessaria, ma non è l'obiettivo. Il vero obiettivo, qui ed ora, è il sostegno all'economia reale. Leggo di piani energetici, di piani per gli aeroporti. Per carità, va tutto benissimo. Ma i problemi di famiglie e imprese, in questo momento, sono altri. Per esempio: il prezzo della benzina si può ridurre? I pagamenti della Pubblica Amministrazione sono stati sbloccati? E che facciamo di fronte alle crisi industriali, dalla Fiat a Finmeccanica all'Alcoa? Le eventuali operazioni di alienazione del patrimonio pubblico possono essere destinate a politiche industriali e allo stimolo all'economia reale? In agenda io vorrei queste priorità. Attenzione a messaggi troppo astratti, che non generano fiducia ma semmai scollamento".

Da mesi si critica il governo perché non fa niente sulla crescita, ora lei lo critica perché prova a fare qualcosa?
"Io non lo critico, ma dico che non bisogna passare dal niente al troppo. Sento parlare di una defiscalizzazione del-l'Iva sulle infrastrutture, praticamente senza copertura. Bene, ma perché da mesi si dice no alla sterilizzazione dell'Iva sulle accise per la benzina? Ci sono cose che il governo può fare subito. Rafforzi gli sgravi fiscali sulle ristrutturazioni immobiliari in funzione antisismica e ambientale. Adotti misure di sburocratizzazione, eliminando passaggi burocratici o esternalizzandoli. Finanzi l'innovazione coi crediti d'imposta sulla ricerca e la defiscalizzazione degli investimenti. Introduca una vera Dual Income Tax".

Il nodo vero è la pressione fiscale. Lei pensa che Monti dovrebbe cominciare a rimodulare le aliquote Irpef?
"Senta, io non riesco a raccontare favole. È un obiettivo per il futuro, ma per ora non possiamo permettercelo. Dobbiamo scongiurare gli aumenti dell'Iva, questo sì. Ed è possibile farlo, aumentando il recupero dell'evasione fiscale, concludendo l'accordo con la Svizzera sulla tassazione dei capitali, lavorando realisticamente sugli incentivi alle imprese, e poi definendo meglio con gli enti locali la griglia della spending review".

Elsa Fornero ha detto che porterà il taglio del cuneo fiscale in Consiglio dei ministri. Lei è d'accordo?
"Certo, in prospettiva il cuneo fiscale va ridotto. Ma anche qui, non ci sono soluzioni miracolistiche. E poi serve uno schema pattizio: Prodi tagliò il cuneo fiscale di 5 punti, ma purtroppo questo non servì a rilanciare gli investimenti".

E la patrimoniale? La deve fare Monti, o la farete voi quando tornerete al governo?
"Noi proponemmo un'imposta sui grandi patrimoni immobiliari per alleggerire l'Imu. Non si fece allora, per me va fatta adesso. Quanto alla finanza, la ricchezza scappa e la povertà resta. Va rafforzata la tracciabilità dei capitali, anche su scala europea. Questo Monti può farlo, entro la fine della legislatura".

Lei parla di fine della legislatura. Ma tornano in ballo le elezioni anticipate a novembre.
"Le elezioni anticipate sono un'elucubrazione dannosa. Io non le auspico e non le vedo all'orizzonte, anche se è nostro dovere tenerci pronti a qualunque evenienza. Poi, lo dico una volta per tutte, non c'è alcun nesso tra voto anticipato e legge elettorale...".

Ma l'intesa col Pdl sulle modifiche al Porcellum c'è o no?
"Oggi un accordo non c'è ancora, ma da parte nostra c'è la disponibilità a chiudere in fretta. Naturalmente, non rinunciamo ai nostri due paletti. Primo: la sera in cui si chiudono le urne il mondo deve sapere chi governa, altrimenti ci travolge uno tsunami. Secondo: i cittadini devono scegliere chi mandare in Parlamento. In concreto, questo significa due cose. Ci vuole un premio di maggioranza ragionevole, e il 15% lo è, perché sarebbe curioso che il Pdl che nel 2005 ha introdotto una premialità sconosciuta in Occidente oggi dicesse no a una premialità decorosa. E poi ci vuole una quota significativa di collegi uninominali, per ricreare un legame tra elettori ed eletti".

Mi dica la verità, c'è imbarazzo nel Pd sul conflitto sollevato dal presidente Napolitano contro i pm di Palermo per le intercettazioni sulla trattativa Stato-mafia?
"Nessun imbarazzo. Napolitano ha fatto quel che doveva. Dopodiché, in un sistema costituzionale e democratico lo schema non è chi è d'accordo e chi no con il Capo dello Stato, ma chi lo rispetta e chi no. E allora, se il presidente ha chiesto alla Consulta di chiarire un punto cruciale che riguarda le sue prerogative, può anche essere criticato ma deve essere rispettato. E questo non sta avvenendo sempre. C'è una campagna contro Napolitano: esiste un filone populista, in certe aree della politica e del giornalismo, che forse ha anche un disegno in testa. Ma non passerà".

Ma lei e il Pd siete d'accordo con Monti e la Severino, che annunciano una nuova legge sulle intercettazioni?
"Per me in una democrazia liberale il diritto alla riservatezza di chi è al di fuori da un'indagine penale non è un optional. Ma attenzione: questo diritto si garantisce con un filtro rigoroso affidato alla magistratura, senza limiti alle indagini e bavagli all'informazione. Dunque, se il governo vuole presentare un ddl con queste caratteristiche, noi siamo pronti a discuterne. Ma la condizione è che ci sia un pacchetto complessivo di riforma della giustizia, con al primo posto le nuove norme contro la corruzione. E dopo, semmai, anche le intercettazioni".

Le primarie tornano a infuocare la vostra metà campo. Le farete, come e quando?
"Il percorso è chiaro. In autunno vareremo una carta di intenti, con regole d'ingaggio, criteri di partecipazione, impegni e responsabilità comuni. E tra novembre e dicembre faremo le primarie di coalizione, con la massima apertura alle forze politiche e alla società civile ".

Del rottamatore Matteo Renzi che mi dice?
"In questi mesi non ho mai alimentato polemiche, e continuerò a farlo. Siamo dentro la più grave crisi del dopoguerra. Ne usciamo solo se c'è condivisione tra noi".

Sulle alleanze il quadro è problematico, tra Vendola e Casini. Riuscirete a vincere e a governare, mettendo insieme i centristi e i comunisti?
"Noi organizziamo un centrosinistra aperto a un incontro con forze politiche e sociali moderate. Entro ottobre saranno pronti 10-15 punti di programma, non 281 pagine. Sarà poi il candidato premier a fare il resto...".

Lei, presumibilmente...
"Se mi voteranno, sarò io. Sulla base di quel programma, il centrosinistra proporrà un'alleanza di legislatura alle forze liberali e moderate del Paese. Dentro questo perimetro non ci sono solo Vendola e Casini, ma ad esempio anche i socialisti".

Con Di Pietro è finita per sempre?
"Mi pare evidente che lui vuole star fuori. Il centrosinistra deve fare spesso i conti con le forze agite da questo istinto minoritario di auto-esclusione dalle responsabilità. Io, da riformista, lavoro perché questa maledizione finisca. Il Pd è pronto per governare, e sono convinto che governerà".

m.giannini@repubblica.it


(24 agosto 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/08/24/news/bersani-41384653/?ref=HREC1-2
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« Risposta #259 inserito:: Settembre 03, 2012, 12:00:44 pm »

RETROSCENA

Giustizia, subito la legge anticorruzione ma niente forzature sulle intercettazioni

La road map Monti-Severino. Il premier con i ministri ha messo a punto il piano da sottoporre al Parlamento.

La Cancellieri: " Inconcepibile intercettare Napolitano". Si escludono decreti o ddl sugli ascolti. Anche il Quirinale condivide l'agenda.

La ricostruzione integrale su Repubblica oggi in edicola

di MASSIMO GIANNINI

Giustizia, subito la legge anticorruzione ma niente forzature sulle intercettazioni
"Niente strappi, niente forzature". Mario Monti è stato chiarissimo. Lo ha ribadito venerdì mattina, parlando con i suoi ministri per mettere a punto il "cronoprogramma" delle misure varate dall'esecutivo. Lo ha confermato giovedì pomeriggio, parlando al telefono con il Capo dello Stato per esprimere a Napolitano la solidarietà dell'intero governo di fronte al "ricatto" politico-mediatico al quale è stata esposta la più alta istituzione repubblicana. "Le intercettazioni telefoniche sono uno dei temi in agenda, ma in questo momento il governo non ha in cantiere né un disegno di legge, né tanto meno un decreto legge".
Lo stesso presidente della Repubblica, pur lambito dall'onda, invoca prudenza. Al contrario di quanto è stato detto e scritto in questi giorni, il Quirinale non ha mai sollecitato alla presidenza del Consiglio "misure urgenti" per limitare l'uso e l'abuso delle intercettazioni. Si può pensare a un disegno di legge, è la linea del premier, ma sulla giustizia non è questa la priorità.

Anche sulla giustizia, quindi, la road map è dunque definita. Il Guardasigilli Paola Severino ha lavorato l'intero mese di agosto, per metterla a punto. E nel weekend l'ha confrontata con i suoi tecnici e con Palazzo Chigi. "La legge anti-corruzione è il primo vagone che deve partire. Ma io ho seguito e seguo il dibattito che si sta sviluppando anche su tutti gli altri capitoli della giustizia, e sono pronta a fare i miei passi: dalla legge forense alla responsabilità civile dei magistrati". In linea con l'indicazione di Monti, anche il ministro non prevede sviluppi a breve sulle intercettazioni.

Dove invece l'accelerazione ci dovrà essere, secondo i piani della Severino, è appunto sull'anti-corruzione. Il premier l'ha detto e continua a ripeterlo: "Ce lo chiedono gli italiani, ce lo chiede l'Europa. C'è un testo che abbiamo ereditato dal precedente governo. Dobbiamo migliorarlo e rafforzarlo, con il contributo del Parlamento. Ma colpire la corruzione è un fattore di crescita per l'economia e di credibilità per il Paese". La Severino ne è altrettanto convinta: "Dopo il varo del provvedimento alla Camera, ora serve un'intesa politica forte, per far ripartire il ddl al Senato". Parole che lasciano trasparire la volontà di sollecitare Pdl, Pd e Udc ad una piena condivisione sulle modifiche da apportare la testo.

L'articolo intregrale su Repubblica in edicola e su Repubblica+ 1

(03 settembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #260 inserito:: Ottobre 09, 2012, 11:09:05 am »

INTERVISTA

Passera: patto per la produttività ultimo capitolo dell'agenda Monti

Il piano del governo. Si gioca tutto nelle prossime due settimane: ma arrivare a un accordo sarà un miracolo.

L'obiettivo è riformare la contrattazione e puntarla sul rilancio della competitività

di MASSIMO GIANNINI

"Un grande patto per la produttività". È forse l'ultimo "sogno nel cassetto" del governo Monti. La campagna elettorale è già in pieno corso: condizionerà il finale della legislatura, e limiterà inevitabilmente il campo d'azione dell'esecutivo. Ma di cose da fare, oltre al consolidamento dei conti pubblici che dovrà consentire all'Italia di raggiungere il pareggio strutturale di bilancio nel 2013, ce ne sono ancora. Corrado Passera, di rientro da un dibattito nella basilica di Assisi con il cardinal Gianfranco Ravasi, ne è convinto. E il ministro dello Sviluppo economico fissa l'obiettivo principale dell'agenda d'autunno.

"Un accordo tra governo, imprese e sindacati, per riformare la contrattazione e puntarla sul rilancio della competitività del Sistema-Italia". Il momento è propizio, quasi obbligato. Il piatto della crescita è miseramente vuoto. Quello dello sviluppo, nonostante i tanti annunci di questi mesi, piange. Negli Anni Settanta, come ricorda il Cnel, il nostro Paese guidava la classifica dell'Ocse come output per ora lavorata del settore manifatturiero, con una crescita del 6,5%. Nella prima decade degli Anni Duemila siamo crollati all'ultimo posto, con un aumento della produttività dello 0,4% in media d'anno, contro il 3% della Gran Bretagna, il 2,8% dell'Olanda, il 2,5% della Francia, l'1,8% della Germania, l'1,5% della Spagna. Non solo. Secondo Jp Morgan, tra il 2008 e il 2009 l'Italia è l'unico Paese, tra i maledetti Piigs, ad aver
registrato un aumento del costo del lavoro nominale per unità di prodotto, mentre Portogallo, Irlanda, Gracia e Spagna hanno proseguito sulla via della deflazione salariale. Con questi numeri non si va lontano. Per questo Monti cerca l'affondo, e rilancia sul patto per la produttività.
Secondo lo schema del ministro per lo Sviluppo, il governo non si limiterà a fare solo da arbitro del negoziato, ma metterà sul piatto qualcosa. "La detassazione del salario di produttività". Le imprese e i sindacati, da parte loro, dovranno raggiungere un'intesa che ruota intorno a un diverso assetto della contrattazione. Quella di secondo livello, cioè il contratto aziendale, diventa preponderante, ed assorbe la quasi totalità degli aumenti salariali (come già prevedevano gli accordi di luglio e settembre 2011). Quella di primo livello, cioè il contratto nazionale, resta per la parte normativa, ovviamente, e anche per una minima parte economica, che deve coprire l'inflazione attraverso una revisione del meccanismo di adeguamento automatico in base alle previsioni sull'andamento dell'indice dei prezzi armonizzato a livello europeo (il cosiddetto Ipca). Ma anche per questa parte residua di salario, secondo Passera, "dovrebbe scattare un sistema di aggancio automatico agli incrementi di produttività". Come congegnarlo è oggetto della trattativa.

Si gioca tutto nelle prossime due settimane. Da oggi fino a giovedì prossimo la Confindustria dovrà discutere e mettere a punto la sua piattaforma, insieme alle altre associazioni di categoria di Rete Impresa. E dalla settimana successiva ripartirà il tavolo con Cgil, Cisl e Uil. Non sarà facile. Da una parte, il leader degli industriali Giorgio Squinzi non risparmia le critiche a Monti, e ha già bollato come "un aperitivo" il decreto legge sullo sviluppo approvato giovedì scorso dal Consiglio dei Ministri: la Confindustria continua a cavalcare l'idea di un aumento delle ore lavorate, trascurando il fatto che, senza una ripresa apprezzabile dei consumi e un rilancio consistente degli investimenti, il problema non è "quanto" si lavora ma "come" si produce. Dall'altra parte, il segretario della Cgil Susanna Camusso non intende fare più sconti al governo, ed anzi reclama una rapida liquidazione della parentesi "tecnica" a Palazzo Chigi: e su questa trincea, con la Cisl di Bonanni spiazzata a metà del guado, si è attestata persino la Uil di Angeletti, immemore delle tante cambiali in bianco firmate a suo tempo al governo Berlusconi.

Per questo, nelle condizioni attuali, secondo Passera arrivare a un accordo nelle prossime due settimane "sarebbe un miracolo". Ma vale la pena di tentare. Con la congiuntura disastrosa in corso, si profila altrimenti un duplice rischio. Che la via "produttivistica" alla fuoriuscita dalla crisi, secondo il motto squinziano del "lavorare di più", si riveli velleitaria (tanto più in una fase in cui la domanda è piatta). E che alla fine prevalga altrimenti la "via bassa" al recupero di competitività, cioè una tendenza inerziale delle imprese a tagliare comunque il costo del lavoro (con la conseguente, inevitabile erosione dei salari reali e la progressiva, ulteriore riduzione delle coperture del Welfare). E' quello che purtroppo sta già accadendo in alcuni settori, a partire dal sistema bancario.
Il governo, che finora della triade montiana iniziale ha centrato solo il target del rigore e non quello della crescita e dell'equità, non vuole trascorrere in surplace i pochi mesi che separano il Paese dalle elezioni. Passera ha in programma il nuovo Piano energetico nazionale, che dovrebbe vedere la luce entro novembre, e l'asta delle frequenze, che "si farà entro dicembre". Nei prossimi giorni arriveranno finalmente le indicazioni dell'Agcom. Passera sa bene che c'è stato un ritardo di due mesi, ma lo spiega con il passaggio di consegne tra i vecchi e i nuovi vertici dell'Autority. E ora, assicura, si va avanti senza impedimenti:
Sullo sfondo, restano altre due grandi questioni. La prima è l'eventuale richiesta dello scudo salva-spread. Al momento tutto è fermo, in attesa di capire le scelte della Spagna. Ma il premier e i suoi ministri non hanno cambiato idea. Secondo Passera, il problema di un differenziale dei tassi sui nostri Btp che non cala nasce dal dubbio dei mercati su cosa accadrà "dopo Monti", e non certo su come evolverà la tenuta dei nostri "fondamentali" di bilancio. Vittorio Grilli è ancora più netto: "Per noi non c'è nulla di nuovo: andiamo avanti per la nostra strada, e non chiediamo alcun aiuto perché non ne abbiamo bisogno", dice il ministro in partenza per il vertice dell'Eurogruppo che si riunisce oggi a Bruxelles.

La seconda questione è l'eventuale avvio di un percorso di riduzione della pressione fiscale. Anche dentro il governo, il dibattito è in pieno corso. Ci sono ministri che premono per "risarcire" i contribuenti onesti con i proventi dell'evasione. Ma Monti non si piega. "Entro questa legislatura non possiamo permettercelo". E Grilli è sulla stessa linea: "Non ci sono le condizioni", ripete. Anche l'ipotesi di dirottare su qualche sgravio in busta paga i 6,5 miliardi già previsti per evitare l'aumento di due punti delle aliquote Iva viene considerata impercorribile. "Non servirebbe a nulla - sostiene il ministro del Tesoro - se lasciassimo riaumentare l'Iva introdurremmo una misura regressiva e l'eventuale sgravio in busta paga non porterebbe benefici apprezzabili per i contribuenti: spalmando quelle risorse su una platea troppo vasta, ne verrebbe fuori una "mancia" da pochi spiccioli, che certo non servirebbe a sostenere i consumi delle famiglie". Dunque, si va avanti con il percorso già segnato. Ridurre le tasse, rimodulare l'incidenza dell'imposta personale sul reddito, non è nell'orizzonte del governo Monti. Se ne occuperà il suo successore. Cioè lo stesso Monti, secondo l'auspicio di molti.
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(08 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #261 inserito:: Ottobre 10, 2012, 07:30:56 pm »

L'ANALISI

Il ritorno alla realtà e il sogno fiscale

di MASSIMO GIANNINI


BENTORNATI nel mondo reale. Immersi nel fango della questione morale e nel carosello della campagna elettorale, i partiti della strana maggioranza si erano quasi dimenticati dell'emergenza economica italiana.

La legge di stabilità del governo Monti 1 è una scossa che riporta tutti al principio di realtà. Una scossa necessaria, se si guarda al grafico dell'indebitamento finanziario strutturale, che ci siamo impegnati a riportare in surplus già a partire dall'anno prossimo. Una scossa violenta, se si guarda alle drammatiche condizioni materiali di un Paese già stremato dai sacrifici. E dunque una scossa non proprio salutare per l'economia reale, ancorché mitigata da una piccola svolta, e cioè l'avvio di quel "percorso" di riduzione della pressione fiscale che il presidente del Consiglio aveva negato solo una settimana fa.

"Non è un'altra manovra", giura il ministro del Tesoro Grilli. Ma si fa fatica a definire in un altro modo un pacchetto di misure da 11,6 miliardi, che arriva appena dieci mesi dopo il decreto Salva-Italia da oltre 30 miliardi, dopo una doverosa ma durissima riforma delle pensioni, dopo l'indegna stangata per gli esodati, dopo la pesantissima batosta sulla casa. Questa legge, nella forma e nella sostanza, è a tutti gli effetti una Finanziaria bis. La quantità degli interventi non è in discussione: se vogliamo portare al tavolo dell'Unione europea il pareggio di bilancio, questi sono i saldi da rispettare. Ma la qualità delle decisioni del governo soddisfa solo in parte.

La novità più rilevante, dunque riguarda le entrate. La riduzione di 1 punto delle due aliquote Irpef più basse dela curva è una prima inversione di rotta, sulla via della restituzione agli onesti di quanto finora è stato sottratto all'Erario dai disonesti. Si può fare di più e di meglio per sostenere il reddito delle famiglie meno abbienti, visto che a causa dello scandalo di un'evasione da 260 miliardi di euro l'anno la prima aliquota dell'imposta personale la pagano molti imprenditori, artitiani e lavoratori autonomi che non nascondono le tasse. Ma è comunque un segno d'attenzione verso i deboli, che finora non son stati proprio al centro dei pensieri di questo governo. E pazienza se per finanziare questo sgravio aumenterà l'Iva: un minor prelievo in busta paga si sente molto più di un alleggerimento dell'imposta sui consumi. Resta, sul fronte fiscale, il rammarico per l'introduzione effettiva dell'Imu sugli immobili ad uso commerciale della Chiesa solo a partire dal 2013, quando i comuni cittadini il prelievo sul mattone hanno già iniziato a pagarlo da giugno di quest'anno.

Sul fronte dei tagli, le lacrime di coccodrillo dei governatori regionali non ci possono impietosire. Dopo quello che è successo e succede nel Lazio e in Lombardia, in Campania o in Calabria, il nuovo giro di vite sugli enti locali ci sta tutto. Si arrangino loro, con meno ostriche e meno consulenze. Quello che si fa fatica ad accettare, invece, è un ulteriore colpo sulla spesa sanitaria e sul pubblico impiego. Non c'era proprio alternativa al taglio di un altro miliardo e mezzo ai bilanci delle Asl, con tetti di spesa già all'osso sul costo degli apparecchi e degli appalti e strette odiose sui permessi per l'assistenza dei disabili? Non c'era altra via per risparmiare risorse, se non congelando fino al 2017 i contratti degli statali, già bloccati nel triennio passato dal governo Berlusconi? E non c'era altro modo di contenere i costi, se non fissando un nuovo vincolo del 3% l'anno al già risibile budget della spesa universitaria?

Con questi interventi, selettivi al contrario, la spending review assume i contorni dell'accanimento terapeutico. E ancora una volta, i tecnici dimostrano di avere molta attitudine per la contabilità nazionale, ma poca propensione all'equità sociale. Detto questo, la Legge di Stabilità si porta dietro due implicazioni, sulle quali si impone una riflessione.

La prima implicazione è economica. Proprio nel giorno in cui l'Istat fotografa una caduta del 4,1% del potere d'acquisto dei salari 2 e il Fondo monetario certifica il crollo del 2,3% del Pil di quest'anno, la manovra aggiuntiva del governo conferma che l'Italia, come del resto la Spagna e in prospettiva la stessa Francia, ha ormai imboccato un sentiero che conduce ad Atene, e non a Berlino. La spirale più recessione-più rigore sta dispiegando i suoi effetti micidiali. I tagli di spesa e i recuperi di evasione possono finanziare ben poco, oltre al maggior fabbisogno determinato dalla caduta del denominatore nel rapporto deficit/Pil e debito/Pil. E l'aggiustamento, per un Paese che non può più neanche immaginare ulteriori inasprimenti d'imposta in stile Hollande ma dovrebbe semmai cominciare a ridurre la pressione fiscale, non può non avvenire ormai a carico del Welfare. Cioè attraverso la riduzione ancora più spinta del perimetro di una spesa sociale già di per sé iniqua e squilibrata.

È la via "mercantilistica" alle correzioni di bilancio, che genera bilanci pubblici a impatto sempre più regressivo e recessivo. Vale per oggi, ma vale anche per domani. Stretta in questa morsa, e a dispetto di qualche revisione fin troppo generosa del remore, l'Italia non vedrà alcuna ripresa nel 2013. Se ne riparla nel 2014, se va bene. E se non ci fosse da piangere, farebbe sorridere la comicità involontaria di chi, nella Legge di Stabilità appena varata, ha inserito anche una norma per il risparmio energetico denominata "Operazione cieli bui". Mai formula fu più azzeccata, non solo per declinare qui ed ora un tocco di "austerity" da Anni Settanta, ma anche per tracciare l'orizzonte generale del Paese nei prossimi due anni.

La seconda implicazione è politica. Al di là delle apparenze e delle esigenze imposte dalla fase, tra il governo Monti e i partiti che lo sostengono c'è un corto circuito sempre più evidente. A Pd, Pdl e Udc che vagheggiano suggestive riscritture bipartisan della riforma previdenziale della Fornero, il premier contrappone l'irriducibile coerenza dei saldi contabili e l'inevitabile cogenza degli impegni europei. È in atto uno strano paradosso: mentre i leader di una politica in affanno nel centrosinistra e in disarmo nel centrodestra lanciano Monti per la legislatura che sta per cominciare, lo contestano nella legislatura che deve ancora finire. Ma forse c'è una via d'uscita anche a questo paradosso. Il Professore, grazie al suo prestigio e alla sua autorevolezza, ha evitato al Paese la bancarotta, e lo ha riportato agli onori del mondo. Ma nella sua azione di governo ci sono luci ed ombre, cose ben fatte e occasioni mancate. Come dimostra l'ultima stangata decisa in perfetta autonomia dall'Eliseo, per gli Stati di Eurolandia le "condizionalità" del risanamento concordato con la Ue, presenti e future, riguardano la fedeltà complessiva al patto comunitario, non l'adesione acritica a un unico modello di sviluppo. Investono l'equilibrio complessivo di bilancio, non le azioni specifiche necessarie per raggiungerlo. in questa chiave, quella che si sta innescando intorno alla cosiddetta "Agenda Monti" rischia di essere una polemica inutile e dannosa.

Le politiche economiche sono frutto di una scelta, non di un destino. L'Italia ha un solo vincolo invalicabile (ormai anche di rango costituzionale) che chiunque vinca le elezioni dovrà ricordare e rispettare: non si può finanziare più una sola spesa in deficit. Tutto il resto è politica, dunque arte del possibile. Anche dopo il 2013, vero valore aggiunto è Monti, non la sua Agenda.

m.giannini@repubblica.it

(10 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #262 inserito:: Ottobre 15, 2012, 05:52:34 pm »


IL COLLOQUIO

Grilli: "Criticare la manovra è un suicidio i tagli Irpef danno speranza alle famiglie"

Il ministro dell'Economia difende la manovra ma dice: "Si può cambiare".

Conferma che i conti pubblici sono in sicurezza e aggiunge: "All'estero una sola domanda: cosa succederà dopo le elezioni?"


di MASSIMO GIANNINI

"LA LEGGE di stabilità è un punto di svolta". Appena rientrato da Tokyo, Vittorio Grilli traccia un bilancio della missione al Fondo Monetario Internazionale. "È andata molto bene. Tutti, da Christine Lagarde ai cinesi, apprezzano gli enormi passi avanti che l'Italia sta facendo. E a tutti è piaciuta molto la manovra che abbiamo appena varato...". Ma nessuno, evidentemente, è profeta in patria.

AGLI apprezzamenti degli organismi e dei partner internazionali fanno da contraltare le critiche severe che in Italia i partiti e le parti sociali stanno scaricando sulla Legge di stabilità. Pd, Pdl e stavolta persino "l'ultraortodossa" Udc di Casini sparano a zero sulle iniquità della manovra, che da un lato concede qualcosa sull'Irpef, ma dall'altro lato prende molto sulle detrazioni, le deduzioni e l'Iva. La Confindustria è perplessa, la Cgil annuncia lo sciopero generale.

E allora, nella settimana che coincide con l'avvio del dibattito parlamentare sul provvedimento, il ministro dell'Economia ci tiene a ribadire il suo messaggio: "Abbiamo voluto lanciare un forte segnale al Paese: il rigore sta dando i suoi frutti, e questi frutti possiamo cominciare a restituirli ai cittadini, avviando un percorso di riduzione della pressione fiscale. Ora, io capisco le critiche su alcuni punti specifici del provvedimento. Ma qui, per la prima volta da molto tempo, noi tagliamo di due punti le aliquote Irpef sui redditi più bassi.
Questo segnale va raccolto, dalla politica e dalla società, perché è positivo. Ma se anche questo, nella polemica quotidiana, viene trasformato in una segnale negativo, allora diventa un suicidio per il Paese".

Prima di tutto, Grilli cerca di difendere il senso politico della Legge di stabilità. "Dopo molti mesi di sacrifici necessari, noi con questa manovra di parziale riduzione della pressione fiscale vogliamo cambiare le aspettative delle famiglie e delle imprese. Vogliamo ridare speranza agli italiani, che con grande senso di responsabilità hanno capito cosa abbiamo rischiato, e si sono rimboccati le maniche".

LA MANOVRA: "PUNTI CRITICI, MA SCELTE DI EQUITÀ"
Questa iniezione di fiducia, secondo Grilli, non va dispersa nello scontro del giorno per giorno. "Mi rendo conto che certi toni vengono esasperati dalla campagna elettorale ". Ma nella Legge di stabilità ci sono alcuni aspetti oggettivamente discutibili. Per molti scaglioni di reddito, l'effetto della riduzione delle detrazioni e delle deduzioni annulla completamente l'abbattimento delle aliquote Irpef. Non solo: la tassazione supplementare su alcune voci, come le indennità di accompagnamento per gli invalidi, rende molto meno equilibrata una manovra che invece avrebbe dovuto avere una forte cifra "sociale".

Il ministro non nasconde il problema, ma vuole chiarire: "Guardi, a regime, con la nostra manovra sull'Irpef, rimettiamo 6 miliardi di euro nelle tasche degli italiani, e ne riprendiamo 1,2 attraverso la riduzione delle detrazioni e delle deduzioni. Faccia lei il saldo. Non solo: quei 6 miliardi li restituiamo ai redditi più bassi, e quegli 1,2 miliardi li spalmiamo su tutti i contribuenti. Mi dica lei se questa non è una scelta di equità...".

Detto questo, Grilli riconosce che qualcosa da rivedere c'è: "Ci sono alcuni punti del provvedimento che possono essere corretti. Il governo è disponibile a discuterne, e ad accogliere le proposte migliorative che verranno dalle forze politiche in Parlamento. A condizione, ovviamente, che non vengano alterati i saldi, e che non cambi il senso complessivo della manovra. Per esempio, sull'incidenza del provvedimento nella cosiddetta fase transitoria si può discutere ". Il colpo di scure delle detrazioni agisce in senso retroattivo sul 2012, per altro in violazione di un principio fissato dallo Statuto del contribuente.

Il ministro ne è consapevole: "Prima di procedere, abbiamo fatto varie ipotesi. Una di queste prevedeva anche la sterilizzazione del 2012. Purtroppo ci siamo resi conto che, facendo questa scelta, non avremmo avuto le risorse per coprire la riduzione immediata delle due aliquote Irpef, quella del 23% e quella del 27%, ma solo della prima. Ma poiché volevamo trasmettere una scossa forte al Paese, soprattutto in termini di aspettative, abbiamo preferito accantonare l'ipotesi, ed abbattere subito entrambe le aliquote".

Certo, anche il mantenimento di un punto in più sull'aliquota Iva è stata una decisione dolorosa: ma se l'anno prossimo le condizioni lo permetteranno il governo farà di tutto per eliminare anche quello.

LA RICHIESTA DI AIUTI: POSSIBILE BOOMERANG
Da oggi, nell'iter parlamentare del provvedimento, si potrà correggere il tiro. "E' un disegno di legge e non un decreto  -  chiarisce ancora Grilli - e quindi è aperto per definizione ai contributi delle Camere. Io accetto tutte le critiche, ma su un punto vorrei esser chiaro: per mesi siamo stati criticati perché abbiamo aumentato troppo le imposte e non abbiamo tagliato abbastanza le spese. Ora ci criticano perché riduciamo le imposte e tagliamo troppo le spese. Mi sembra un modo un po' autolesionistico di giudicare l'azione di governo ".

Lo stesso autolesionismo che, secondo il ministro del Tesoro, caratterizza il dibattito in corso sull'Agenda Monti, che a destra e a sinistra si ha troppa fretta di "liquidare". "Un altro suicidio, anche quello...", commenta, e invita a "fare un giro nelle cancellerie, o anche solo tra un po' di investitori al di là delle Alpi". Emerge la stessa, ossessiva domanda che ha tenuto banco al vertice del Fondo monetario di questo fine settimana: "Il tema non è più se l'Italia ce l'ha fatta o no, ma che cosa succederà in Italia dopo le elezioni del 2013. E che fine faranno la riforma delle pensioni e quella del mercato del lavoro".

Che l'Italia per il momento sia salva, per Grilli è una certezza. "I conti pubblici sono in sicurezza, e questo ce lo riconoscono tutti, la Ue, la Bce, l'Fmi e gli altri partner europei. Nel 2013 centreremo l'obiettivo del pareggio strutturale di bilancio, e senza aver bisogno di aiuti di alcun genere. Noi siamo convinti e lo ribadiamo ancora una volta: non chiederemo interventi alla Bce o al Fondo Salva-Stati, perché non ci servono".

Il ministro non lo dice, ma a questo punto, come si è convenuto anche in questi quattro giorni di summit a Tokyo, se l'Italia chiedesse gli aiuti adesso rischierebbe un effetto boomerang sui mercati: dopo aver ripetuto da tre mesi che gli aiuti non servono, se Monti ne facesse richiesta all'improvviso gli operatori internazionali potrebbero pensare a qualche emergenza contabile o finanziaria nascosta, o non dichiarata, e a quel punto l'attacco al debito sovrano sarebbe inevitabile.

Dunque, nessun aiuto. Il governo si aspetta piuttosto che gli aiuti li chieda la Spagna, che ne ha bisogno per il peggioramento del suo deficit e della crisi bancaria, e che sara "il test ideale" per verificare l'efficacia degli strumenti messi in campo dalla Bce e dall'Esm. E il governo si aspetta anche una valutazione prudente sulla possibilità di concedere una proroga ulteriore alla Grecia, come sembra sia intenzionata a fare la Trojka.

"L'Italia  -  ragiona Grilli - sosterrebbe il costo maggiore. Già nell'ultimo biennio il nostro debito pubblico è aumentato di 4 punti a causa dei prestiti a Grecia, Irlanda e Portogallo. Se scatteranno gli aiuti alla Spagna per non meno di 100 miliardi, la quota parte italiana sarà pari a un altro punto e mezzo di Pil. Insomma, dobbiamo essere generosi, ma dobbiamo valutare con prudenza anche l'impatto sulla finanza pubblica. Tanto più che attraversiamo una fase congiunturale ancora molto, molto difficile".

RIPRESA, MA SOLO CON UN PATTO SULLA PRODUTTIVITÀ
Anche questo è stato il cuore del vertice del Fondo monetario appena concluso. Le prospettive dell'economia globale, la crescita che non c'è, la ripresa possibile. Il presidente della Bce Draghi vede uno spiraglio all'orizzonte, all'inizio del 2013. Il ministro del Tesoro concorda, anche se non si fa troppe illusioni: "Nella seconda metà del 2012 le economie del pianeta sono crollate. Il Brasile è passato da una crescita dell'8% a un modestissimo 1%, e un fenomeno analogo è accaduto in India e in Cina. Con l'inizio del nuovo anno, le cose dovrebbero migliorare: i cinesi ci hanno assicurato che allenteranno la stretta fiscale e monetaria, dopo averne esagerato la portata per paura dell'aumento dei prezzi alimentari e immobiliari.

Questo potrà portare benefici anche al resto del mondo. Ma per contro, bisogna vedere cosa accadrà negli Stati Uniti, dove pesa il rischio del "fiscal cliff" e non è chiaro lo sbocco delle elezioni presidenziali". Insomma, il quadro è ancora incerto. Ed è per questo che l'Italia, secondo Grilli sofferente di una "crisi di domanda con aspettative negative che si stanno autoavverando ", aveva bisogno di una "scossa fiscale". La Legge di stabilità è stata concepita con questo spirito. Anche se i risultati, per adesso e ancora una volta, non soddisfano le attese di equità e di giustizia sociale.

A questo punto, a completare la missione del governo Monti non manca molto. Il ministro fissa i punti, di qui alla prossima primavera: approvazione della Legge di stabilità, decreto sulle spese delle Regioni, riforma costituzionale del Titolo V e dell'articolo 81 "rafforzato", ddl sulla corruzione, e poi, soprattutto, nuovo patto sulla produttività. Il confronto triangolare è in corso, il sentiero è in salita. Il governo ritiene di aver fatto la sua parte, finanziando proprio con la Legge di stabilità gli sgravi fiscali sul salario di produttività.

Ma questo non è sufficiente. E allora, come già aveva fatto Corrado Passera, anche Grilli rinnova il suo appello: "Il gap che esiste in Italia sulla produttività spiega anche il dissesto dei conti pubblici di questi anni. Quel gap è insostenibile, e va colmato al più presto. Imprese e sindacati devono fare uno sforzo, mettere da parte le pregiudiziali ideologiche, e consentire al Paese di fare il salto di qualità". Appello sacrosanto. Purché non si traduca, ancora una volta, nella solita "via italiana" alla competitività: non meno costo del lavoro per unità di prodotto, ma semplicemente meno salario reale in busta paga.

m.giannini@repubblica.it

(15 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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EDITORIALE

La famiglia Agnelli e il panino olandese

di MASSIMO GIANNINI

Chi ha mai detto che gli Agnelli non battono più un colpo? È vero, forse John Elkann latita un po’ sulle tormentate vicende della Fiat, e lascia al ruvido Marchionne il duro compito di spiegare al governo e agli italiani l’inspiegabile, e cioè come si possa intonare il de profundis per Fabbrica Italia dicendo al tempo stesso che il Lingotto «resterà in Italia». Ma al riparo dai rumori e dai riflettori la famiglia torinese è tutt’altro che inerte sul fronte del business. L’ultima novità in arrivo è la fusione tra Fiat Industrial e Case New Hollande (anticipata prima dell’estate dalla casata sabauda e confermata da Walter Galbiati su “Repubblica” di venerdì scorso). Dall’operazione nascerà una nuova società di diritto olandese. Una grande azienda italiana da 25 miliardi di fatturato cambierà nazionalità. E gli azionisti di maggioranza (gli Agnelli, appunto) lucreranno un consistente pacchetto di vantaggi societari e di benefici fiscali, alla faccia degli azionisti di minoranza. Il sistema più in voga nel Paese dei tulipani è quello di piazzare una Spa-madre nelle Antille Olandesi e una Spa-nipote (operativa) in uno Stato estero.
In mezzo c’è la Spa-figlia, che è controllata dalla prima e controlla la seconda. È lo schema usato dagli Agnelli per la fusione Fiat-Industrial-Cnh. Nel gergo della finanza si chiama «dutch sandwich». Cioè panino olandese. Buon appetito!

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Italia-Germania 0-2? Dimenticati in fretta i fasti degli Europei, i tedeschi rischiano di rifilarci in breve tempo almeno un altro paio di goal. Il primo è lo scippo di un altro gioiello di famiglia: la Siemens sta per chiudere le operazioni per portarsi a casa Ansaldo Energia.
Colpo brutto per il Sistema-Paese che cede un altro pezzo di innovazione, e pessimo per Finmeccanica che paga il caos industrial-giudiziario di questi ultimi anni. La holding di Via Montegrappa, in rosso per 2,5 miliardi, si arricchisce di denaro fresco ma si impoverisce di alta tecnologia. Il secondo goal è lo scippo di Endesa dalla «borsa» dell’Enel, che controlla il gigante spagnolo dell’energia con il 92%.
Per ora è solo una voce, per altro smentita dagli interessati: E.On potrebbe tornare in pista per riprendersi la preda che il colosso italiano gli soffiò nel 2006, con un’Opa da 41,3 euro per azione che valeva quasi il doppio di quella lanciata allora dai tedeschi.
Oggi, per Endesa, E.On dovrebbe scucire la bellezza di circa 50 miliardi. Tanti, forse troppi anche per i potentissimi teutoni.

Anche in questo caso, per l’Italia sarebbe un danno, ma per l’Enel sarebbe una grande boccata d’ossigeno. A fine 2012 l’indebitamento finanziario netto previsto dal gruppo guidato da Fulvio Conti sarà di 43 miliardi. È la maledizione delle public utilities italiane, dall’Eni alla Telecom: molti debiti, poche idee.

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« Risposta #264 inserito:: Ottobre 19, 2012, 05:27:33 pm »

IL COMMENTO

L'occasione mancata

di MASSIMO GIANNINI

NELL'ITALIA dei Berlusconi e dei Formigoni, nel Paese dei Belsito e dei Fiorito, una legge contro la corruzione che vede la luce quasi vent'anni dopo Tangentopoli è un evento storico. E Monti, che sulla legge ci mette la faccia e la firma, si assume per questo una responsabilità rilevante. Dopo mesi di pretestuosa melina parlamentare, di inerzia "comprensibile ma non scusabile di alcune parti politiche", di trattative sopra e sotto il banco, il governo rompe gli indugi con il voto di fiducia al Senato, passato con un plebiscito bulgaro: 257 sì, e solo 7 no. Ci sarebbe da festeggiare. Ma la festa ha un gusto un po' amaro.

Il ministro della Giustizia tuona: "Questa legge non è carta straccia". Ha ragione: questa legge, semmai, è un pannicello caldo. Conforta, ma non cura. Lenisce, ma non risolve. In qualche caso, addirittura, peggiora il male che vorrebbe estirpare. Nessuno nega il segnale politico. Dopo il devastante lavacro di Mani Pulite, e dopo diciassette anni di cultura dell'impunità scientificamente inoculata nelle vene del Paese dalla macchina del potere berlusconiano, il testo della Severino è il primo tentativo di rialzare in qualche modo la bandiera della legalità. Di rimettere mano a una strumentazione normativa logora, contraddittoria e comunque inadeguata ad arginare la nuova ondata di scandali che dalla Lombardia alla Sicilia sta ammorbando la democrazia e soffocando l'economia. La corruzione "vale" 62 miliardi di giro d'affari, "pesa" per il 2,4% sul reddito nazionale e per il 3% sul fatturato delle imprese, riduce del 16% il volume degli investimenti esteri. Se si rimuovesse la metastasi del malaffare, il Pil italiano potrebbe crescere del 4% in 5 anni. Varare una legge che almeno sulla carta si prefigge questo obiettivo è già di per sé un atto di discontinuità con il drammatico "passato che non passa".

Ma i motivi di soddisfazione finiscono qui. Se dal politico si passa al giuridico, e se dal simbolico si passa al pratico, è purtroppo facile dimostrare che questa legge non è affatto una grande svolta, ma una gigantesca occasione mancata. Innanzi tutto, per quello che il testo "non contiene" (come ieri ha giustamente ricordato su questo giornale Barbara Spinelli). Il falso in bilancio, depenalizzato nel 2002 dal Cavaliere. Il reato di "auto-riciclaggio", invocato inutilmente dalla Ue, dalla Banca d'Italia e dal procuratore antimafia Piero Grasso. Il reato di "voto di scambio", utilizzato a man bassa da governatori e assessori, e non più a suon di denaro ma di appalti e assunzioni, ville e vacanze. E poi la sanzione dell'interdizione automatica dai pubblici uffici per i politici concussori, che viene inopinatamente cancellata dal codice e che rischia di precipitarci dalla vetta delle "liste pulite" all'abisso delle "poltrone sporche".

Ma questa legge diventa addirittura pericolosa per quello che invece "contiene". Al di là degli obiettivi passi avanti sulle nuove figure di reato (traffico di influenze, corruzione tra privati) nel caso della concussione la marcia indietro è davvero inquietante. Qui, paradossalmente, il provvedimento del governo non solo non riduce il danno, ma lo produce. Il reato finora disciplinato dall'articolo 317 del codice penale viene spacchettato in due fattispecie diverse. Per uno (la "corruzione per costrizione", ipotesi quanto meno fantasiosa perché in genere nessuno si fa corrompere con la pistola alla tempia) le pene restano immutate a 12 anni nel massimo e si inaspriscono da 3 a 4 anni nel minimo. Per l'altro (la "indebita induzione", ipotesi classica di chi ottiene favori o "utilità" abusando della propria posizione di pubblico ufficiale) le pene si abbattono da 12 a 8 anni. Questa scelta, insensata e dissennata, incide sui tempi di prescrizione, che scendono da 15 a 10 anni. E può tradursi in un vero e proprio colpo di spugna per molti processi, tuttora pendenti di fronte ai tribunali della Repubblica.

Lo stesso ministero della Giustizia stima che i processi per concussione, giunti al traguardo della sentenza definitiva in Cassazione prima della mannaia della prescrizione, sono stati 109 nel 2009, 121 nel 2010, 142 nel 2001. Allo stato attuale, ne risultano pendenti 75. Con la nuova legge almeno la metà di questi potrebbe già decadere. E a saltare potrebbero essere i processi più illustri, con imputati eccellenti e bipartisan. Da quello di Berlusconi per il caso Ruby, la "nipote di Mubarak", a quello di Penati per le aree ex Falck. Da quello di Ottaviano del Turco a quello di Clemente Mastella. Da quello di Alfonso Papa a quello di Alberto Tedesco. Perché questi processi meritano un trattamento di favore rispetto a tutti gli altri, resta un arcano che nessuno ha il coraggio di spiegare.

La Severino, in aula, si difende dalle critiche. Parla di un "equilibrio delle pene" che va sempre rispettato, perché "non ci devono essere eccessi né in basso né in alto". Parla di pene giuste che si devono costruire "tenendo conto dei valori da tutelare". Ma proprio questo è il punto debole del Guardasigilli. La concussione (come dimostrano le cronache giudiziarie di questi mesi e di questi giorni) è forse il reato più grave tra quelli compiuti contro la pubblica amministrazione. Perché merita una diminuzione della pena, rispetto alle norme già in vigore? Dov'è l'equilibrio? Quello che il ministro considererebbe evidentemente un "eccesso" (il mantenimento della pena massima a 12 anni anche per l'indebita induzione, oltre che per la concussione per costrizione) sarebbe fondamentale non solo e non tanto per punire più severamente chi commette il reato, ma soprattutto per mantenere a 15 anni i tempi della prescrizione, e quindi per evitare che saltino i relativi processi ancora in corso. Non è forse questo un "valore da tutelare", in un Paese che ha conosciuto le leggi ad personam di Berlusconi (a partire dalla ex Cirielli, utile a lui proprio per dimezzare le prescrizioni), e che per questo ha subito diversi richiami dall'Europa e dall'Ocse?

Il nodo è giuridico. Ma con tutta evidenza, è prima di tutto politico. Il tira e molla sulla legge anti-corruzione, in corso ormai da quasi due anni, nasconde un non detto che chiama in causa tutti i partiti, e ora anche il governo. Il patto finale, rappresentato da questa legge, conviene a vario titolo a tutti i "contraenti". Gli stessi che ora, a destra e a sinistra, si affrettano a dire che il testo va approvato, ma alcune norme andranno riviste, lo hanno di fatto "blindato" nella parte che gli stava più a cuore, litigando (o fingendo di litigare) su tutto il resto. La Severino respinge i sospetti, ed è legittimo che lo faccia. Grida "nessuno dica che questa legge è frutto di inciuci". Ne prendiamo atto: non ci sono stati "inciuci" negoziati a tavolino (anche se il Guardasigilli in queste settimane di confronto con i partiti deve aver visto l'inferno, altrimenti non aggiungerebbe un sibillino "bisogna passare qui dentro per capire la fatica che c'è dietro ad ogni provvedimento"). Diciamo allora che il risultato finale è probabilmente il frutto di una mutua e forse anche tacita convenienza. E dirlo non è fare i "grilli parlanti", ma semplicemente gli onesti cronisti.

Non tutto è ancora perduto, comunque. Il disegno di legge torna ora alla Camera. Con un rigurgito di coraggio e di consapevolezza, magari supportato da un parere del Csm che stranamente questa volta tarda troppo a venire, il governo potrebbe ancora correggere queste storture. Potrebbe ancora riempire di misure coerenti e cogenti quello che, per adesso, resta solo un passaggio significativo, ma non decisivo, nella lotta alla corruzione. "Siamo un governo di persone oneste, non abbiamo varato queste norme perché siamo amici degli amici dei corrotti": nessuno può dubitare delle parole del ministro della Giustizia, che riflettono al meglio quelle più volte pronunciate dal presidente del Consiglio. Ma proprio per questo ci aspettiamo qualcosa di più. Proprio per questo è nato l'appello e poi la raccolta delle oltre 300 mila firme lanciata da Repubblica. Una legge diversa. Una legge della quale "l'Italia possa andare davvero orgogliosa". Questa, obiettivamente, non lo è.
m.giannini@repubblica.it

(18 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #265 inserito:: Ottobre 28, 2012, 10:33:35 am »

L'INCHIESTA

Il trucco dei film strapagati per creare una cassaforte segreta

Il "sistema Berlusconi": frode da 270 milioni. Cinquantamila pagine di atti e rogatorie internazionali in 12 Paesi.

Alcune società offshore si ritrovano anche in altri processi paralleli del Cavaliere.

Come scriveva D'Avanzo nel 2010, Agrama acquista i diritti e poi li rivende a Mediaset "a prezzi enormemente gonfiati"

di MASSIMO GIANNINI

MILANO - Lo hanno chiamato, con un eufemismo, "processo Mediaset". Sedici anni, tra indagini dei pm e conflitti con il tribunale di Milano. In realtà questa condanna del Cavaliere rivela e colpisce il cuore segreto del "Sistema-Berlusconi": i fondi neri.

Buoni per tutti gli usi: evadere le tasse, pagare tangenti. Un metodo collaudato. Non solo in quest'ultimo processo. Con soggetti e oggetti diversi, ricorre anche in altri processi che hanno visto l'ex presidente del Consiglio sul banco degli imputati: dall'affare Mills al caso Mediatrade, fino ad arrivare alle vicende di All Iberian. C'è questo filo rosso, a legare la lunga sequela di inchieste che lo hanno riguardato e accompagnato in questi diciotto anni di avventura politica e di sventura giudiziaria: creare una "provvista riservata", nelle pieghe dei bilanci societari, per farne un uso indebito e improprio. Per tutelare i propri interessi finanziari, e addomesticare i propri guai processuali. Intrecciato a questo, c'è un altro filo: quello della politica, che Berlusconi ha piegato ai suoi bisogni, militarizzando il Parlamento e deformando i codici con almeno diciotto leggi ad personam concepite con l'unico scopo di difendere se stesso "dai" processi, e non "nei" processi. Una storia che merita di essere ripercorsa, a partire dalla condanna appena irrogata dai giudici milanesi.

PROCESSO MEDIASET: SEI ANNI DI "CORPO A CORPO"
Cinquantamila pagine di documenti. Rogatorie internazionali in dodici Paesi. L'inchiesta sui diritti cinematografici Mediaset muove i primi passi nel giugno 2003. I pm della procura di Milano De Pasquale e Robledo aprono l'ennesima indagine su Berlusconi, allora premier, già imputato in altri 7 processi. Indagando sui fondi riservati del comparto estero delle controllate Fininvest, i magistrati scoprono quello che, nella sentenza di ieri, definiranno un "sistema illegale" (guidato dallo stesso Berlusconi anche dopo il suo ingresso in politica) finalizzato alla costituzione di "disponibilità estere" attraverso l'utilizzo di diverse "società offshore". Alcune delle quali, la Century One e la Universal One, si ritrovano anche in altri processi paralleli che riguardano il Cavaliere.

Tutto ruota intorno alla compravendita fittizia di diritti televisivi su altrettanti film. Diritti che secondo i magistrati sono "oggetto di passaggi di mano e di maggiorazioni ingiustificate". Per realizzarli, il Cavaliere si avvale dei soliti, improbabili "mediatori" che ricorrono nelle sue diverse scorrerie finanziarie, inevitabilmente trasformate in traversie giudiziarie (da Mills a Tarantini e Lavitola). Qui il sensale è un egiziano diventato cittadino americano, Frank Agrama, che compra e rivende diritti, gonfiandone il valore, per conto di Berlusconi. Sono "passaggi privi di qualsiasi funzione commerciale, che servono "solo a far lievitare il prezzo", e dunque a costituire una provvista in nero dentro i bilanci. Per i magistrati il sistema dei costi gonfiati consente così "un'evasione notevolissima". Almeno 270 milioni di euro, sottratti alla società e agli azionisti, e occultati al Fisco.

Berlusconi - all'inizio dell'inchiesta indagato per falso in bilancio, appropriazione indebita e frode fiscale insieme ai figli Marina e Piersilvio, a Fedele Confalonieri e ai manager Fininvest Giorgio Vanoni e Candia Camaggi - nega tutto. Ma come scrive Giuseppe D'Avanzo in un articolo del gennaio 2010, il pm Robledo ritiene di poter dimostrare che Agrama acquista i diritti e poi li rivende alle società di Berlusconi "a prezzi enormemente gonfiati". A Los Angeles li compra a cento. A Milano li rivende a mille. La differenza tra cento e mille resta all'estero e Agrama si preoccupa, molto curiosamente, di "restituire" i profitti su conti nella disponibilità di manager Mediaset, in Svizzera, nel Principato di Monaco, alle Bahamas.

LO SCUDO DELLE 18 LEGGI AD PERSONAM
Ce n'è abbastanza per ritenere che quell'Agrama sia un socio occulto di Berlusconi. Come accade in parallelo nel processo Mills, anche qui ci sono testimoni che confermano. Come Bruce Gordon, responsabile della vendite della Paramount, che dichiara: "In Paramount le società di Agrama sono indistintamente indicate come "Berlusconi companies" e l'esposizione creditoria come "Berlusconi receivables"". Allora Gordon (come poi confermeranno i giudici con la sentenza di condanna di ieri) aggiunge che l'ascesa al governo di Berlusconi non ha mutato la situazione. "Agrama - ricorda il testimone - ci diceva che continuava a riferire a Berlusconi sulle negoziazioni per l'acquisto dei film anche dopo la sua nomina a presidente del Consiglio". Dunque - è la convinzione della magistratura inquirente, ora ribadita anche da quella giudicante - "non esistono gli affari di Agrama, ma soltanto quelli di Berlusconi".

Insomma, fin dall'inizio si capisce che il premier rischia grosso. Comincia così la sua ennesima battaglia contro le toghe. La procedura è quella di sempre: un sabotaggio continuo e sistematico del lavoro dei magistrati. Il 7 luglio 2006, dopo che l'allora ministro della Giustizia Castelli ha bloccato almeno due rogatorie in America ed è stata respinta la richiesta di Ghedini di trasferire il processo a Brescia, il gup Paparella rinvia a giudizio il Cavaliere. Per il Berlusconi imputato, il processo inizia ufficialmente il 21 novembre. Ma nel frattempo, il Berlusconi premier dispiega tutta la sua potenza di fuoco per fermare "i giudici mozza-orecchi". Prima della fine della legislatura, impone alle Camere due micidiali leggi ad personam, quella sulla prescrizione breve e quella sulla depenalizzazione del falso in bilancio.

Equivalgono a due colpi di spugna. E funzionano. Nel gennaio 2007 i giudici di Milano devono prendere atto dell'avvenuta prescrizione per i reati commessi prima del 1999 e per il falso in bilancio. Resta l'accusa di frode fiscale. Ma per questo c'è già pronta un altro salvacondotto: il nuovo Lodo Alfano, che concede l'immunità (e l'impunità) alle alte cariche istituzionali. A settembre 2008 il processo è sospeso, perché i pm invocano l'incostituzionalità del Lodo. La Consulta gli da ragione, ma intanto se n'è andato un altro anno. Il processo riparte a novembre del 2009. Il Cavaliere è già tornato a Palazzo Chigi, ma non ha più scudi per proteggersi. Ne inventa un altro, e lo fa ingoiare a forza alla sua maggioranza e al Paese. La legge sul "legittimo impedimento". Grazie a questa, per quasi due anni non si presenta alle udienze, e viene dichiarato formalmente "contumace". Si rifa vedere ad aprile 2011, per ammonire il pm De Pasquale: "Lei è quello cattivo?".

È quasi un presagio. A giugno di quest'anno De Pasquale chiede la condanna di Berlusconi a 3 anni e 8 mesi: "Sui soldi dei fondi neri - afferma in aula - ci sono le sue impronte digitali". Non più il "teorema di una magistratura inquisitoria che attenta la democrazia". Da ieri questa è una sentenza di un tribunale della Repubblica, emessa in nome del popolo italiano. Con un aggravante: il tribunale infligge all'imputato una condanna più pesante di quella richiesta dalla pubblica accusa. Lo fa in ragione della sua comprovata "propensione a delinquere".

I "106 PROCESSI" E LA FALSA TEORIA DEL COMPLOTTO
Questi sono i fatti. L'ex premier, e la sua cerchia di cortigiani, gridano allo scandalo. Già chiusa la parentesi da "statista" che con l'ennesimo "atto d'amore" verso l'Italia si ritira in una sua immaginaria "riserva della Repubblica", l'unto del Signore risfodera i suoi triti anatemi. Evoca la "persecuzione giudiziaria", la "giustizia a orologeria", il "Paese incivile e barbaro". Parla di "60 procedimenti subiti in diciotto anni di vita politica". E mente, ancora una volta, come sui suoi processi ha sempre fatto fin dal 1994. Nell'ottobre 2009 dichiara: "In assoluto ho subito 106 processi, tutti finiti con assoluzioni e due prescrizioni". Nello stesso giorno, la figlia Marina ridimensiona le esagerazioni paterne: "Mio padre tra processi e indagini è stato chiamato in causa 26 volte". Qualche giorno dopo, il portavoce Paolo Bonaiuti la spara più grossa: "I processi contro Berlusconi sono 109".

La verità è un'altra. Anche questa, raccontata più volte da Giuseppe d'Avanzo su questo giornale. I processi affrontati dal Cavaliere come imputato sono stati finora 17. Di questi, 13 sono conclusi. Le assoluzioni sono state solo 3. In un'occasione con formula piena per l'affare "SmeAriosto/1" (la corruzione dei giudici di Roma). Due volte con la formula dubitativa del comma 2 dell'articolo 530 del Codice di procedura penale che assorbe la vecchia insufficienza di prove: i fondi neri "Medusa" e le tangenti alla Guardia di Finanza, dove il Cavaliere è stato condannato in primo grado per corruzione (dichiarato colpevole ma prescritto in appello grazie alle attenuanti generiche; assolto in Cassazione per "insufficienza probatoria").

I proscioglimenti sono stati 10, propiziati da altrettante leggi ad personam. Riformato e depenalizzato il falso in bilancio dal suo governo, Berlusconi viene assolto in due processi (All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2) perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato". Due amnistie estinguono il reato e cancellano la condanna inflittagli per falsa testimonianza (aveva truccato le date della sua iscrizione alla P2) e per falso in bilancio (i terreni di Macherio). Per cinque volte è salvo con le "attenuanti generiche" che (attenzione) si assegnano a chi è ritenuto responsabile del reato. Per di più le "attenuanti generiche" gli consentono di beneficiare, in tre casi, della prescrizione dimezzata che si era fabbricato come capo del governo: "All Iberian/1" (finanziamento illecito a Craxi); "caso Lentini"; "bilanci Fininvest 1988-'92"; "fondi neri nel consolidato Fininvest" (1500 miliardi); Mondadori (Cesare Previti compra il giudice Metta, ed entrambi sono condannati).

Questa è dunque la vera storia dei processi del Cavaliere. Quasi sempre è risultato colpevole, ma si è salvato grazie alle norme che lui stesso si è cucito addosso. Per trasformare la sua ossessione giudiziaria nell'ossessione di un'intera nazione.

m.giannini@repubblica.it

(28 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #266 inserito:: Ottobre 30, 2012, 05:42:11 pm »

IL COMMENTO

L'onda anomala di MASSIMO GIANNINI


Prima dell'uragano di New York, arriva lo tsunami di Sicilia. Basta che Beppe Grillo attraversi a nuoto lo Stretto di Messina, e l'onda anomala investe l'isola. Devasta quasi tutto, a partire dalle vecchie "casematte" del potere di centrodestra. Tra le macerie si erge un'alleanza di centrosinistra, fragile e non autosufficiente. E si staglia un Movimento 5 Stelle, agile e destabilizzante. Se questo esito del voto siciliano si proiettasse su scala nazionale, ne verrebbe fuori un quadro politico indecifrabile. E un Parlamento ingovernabile.

Sul piano locale, queste elezioni regionali offrono tre spunti di riflessione. La prima evidenza, la più inquietante, è il combinato disposto tra la corsa dell'anti-politica e la fuga dalla politica. Tutti immaginavano che il comico genovese, in trasferta in una terra a lui incognita, avrebbe ottenuto un buon risultato. Ma non era affatto scontato che, con poco più di una settimana di comizi nelle piazze e nelle valli sicule, Grillo riuscisse a diventare il primo partito in quasi tutte le città, con percentuali che oscillano intorno al 18%. Non contano le proposte programmatiche sull'isola formulate dal leader dell'M5S. Conta la voglia di cambiamento purchessia di chi lo ha votato, che fa premio su tutto. Se a questo dato aggiungiamo il record di un'affluenza alle urne che per la prima volta nella storia repubblicana resta sotto la soglia psicologica del 50%, l'abisso che separa gli elettori dagli eletti (per disincanto populista o per disinteresse astensionista) diventa davvero pauroso.

La seconda evidenza, la più stupefacente, è il crollo totale del Pdl, che è alla base dell'insuccesso di Musumeci. La Sicilia è storicamente un feudo della creatura berlusconiana, che qui è nata come Forza Italia, è cresciuta, ha incubato le sue più disinvolte formule coalizionali ed ha coltivato i suoi trionfi epocali. Dalla satrapia condivisa con il "socio" centrista Totò Cuffaro al leggendario "cappotto" 61 a zero del 2001. Dalle vette vertiginose del 46,6% ottenuto alle politiche del 2008, poi parzialmente corretto al 33,4% delle regionali, oggi il Partito del Popolo delle Libertà precipita al 12%. Una miseria di voti, racimolati nella terra dei Marcello Dell'Utri, dei Renato Schifani e soprattutto di quell'Angelino Alfano che qualcuno vorrebbe degno ed unico erede dell'impero del Cavaliere, e che persino nella sua Agrigento incassa l'ennesima umiliazione. Nonostante questo, il segretario di Berlusconi (molto più che del suo partito) parla di un "risultato straordinariamente positivo". Più che indignazione, suscita compassione.

La terza evidenza, la meno sconfortante, è la tenuta dell'asse Pd-Udc, che consente almeno a Crocetta di governare la regione, magari attraverso un ulteriore patto con il movimento di Micciché e Lombardo. è il segno che l'alleanza tra progressisti e moderati ha un suo senso, anche in una regione generalmente "inospitale" per la sinistra. Bersani parla di "un risultato storico", e a suo modo dice il vero. A parte il dominio assoluto della Dc ai tempi della Prima Repubblica, nella Seconda in Sicilia ha sempre governato la destra (con l'insignificante parentesi di Antonio Capodicasa, esponente dell'allora Pds, che guidò Palazzo dei Normanni tra il '98 e il 2000). Dunque, per il centrosinistra aver piazzato comunque la sua bandiera nell'isola è un passo avanti. Ma il segretario farebbe bene a non enfatizzare troppo il "successo". La ditta Pd-Udc è comunque la somma di due debolezze: insieme (se si aggiunge il 6,5% della lista civica Crocetta) fanno più del 30%, ma da soli i democratici calano a poco più del 13% e l'Udc si ferma al 10,8% (contro, rispettivamente, il 25,4% e il 9,4% delle politiche 2008). Vuol dire che il centrosinistra vince sulle rovine del centrodestra, cede consensi ai grillini e non intercetta quelli finiti nel frigorifero dell'astensione.

La Sicilia è da sempre un "laboratorio", che anticipa e consolida le tendenze generali. Questi tre effetti del voto locale avranno dunque implicazioni significative sulla politica nazionale.
A destra si produce l'ennesimo paradosso. Proprio il risultato siciliano (che sancisce plasticamente la fine del ciclo berlusconiano e l'eutanasia di Alfano, un "delfino" mai nato) offre a Berlusconi l'opportunità di rilanciarsi ancora una volta come unico demiurgo della destra italiana. La destra dell'Editto di Villa Gernetto: populista e forzaleghista, anti-europea e anti-repubblicana. La destra che attacca il rigore della Merkel e il Fisco oppressore, accusa la Corte costituzionale e la magistratura inquirente, e un giorno offre a Monti la guida del Ppe italiano mentre il giorno dopo minaccia di togliergli la fiducia in Parlamento. La destra che agita le primarie come una foglia di fico di un impossibile "pluralismo interno", ma che vedrà di nuovo il Cavaliere come il solo e il vero tragicomico Jocker di una campagna elettorale pericolosa per il governo e rovinosa per il Paese.
A sinistra si profila un'opportunità, ma anche un problema. L'idea di una vocazione maggioritaria del Pd, per quanto desiderabile e suggestiva, non sembra in sintonia con gli umori del Paese. Il Partito democratico ha dunque una sola chanche, che il risultato siciliano avalla e per certi versi propizia. Deve saper essere una forza capace di federarne altre, usando l'unica risorsa della quale in questo momento sembra disporre: il suo potere di coalizione. La sua forza di attrazione, che si deve poter esplicare sia alla sua sinistra, sia al centro. è la fatica del riformismo. Chi non capisce questo, e si ostina a porre veti insormontabili sulle alleanze e paletti irrinunciabili sui programmi, rischia di condannare il centrosinistra alla divisione, e quindi alla minorità.

Ma su tutto, resta una preoccupazione di fondo. Il voto siciliano ci consegna un panorama di formazioni politiche che, singolarmente prese, oscillano tra il 10 e il 20%. Tramontati i partiti di massa, esauriti i partiti personali, restano partiti medio-piccoli che per provare a governare possono solo provare a "consorziarsi". Per il resto, un enorme bacino di suffragi in libera uscita, ma senza vie d'uscita: una domanda di cambiamento politico che non trova risposta nei partiti, incapaci di innovare persone e proposte, e quindi finisce nel limbo del non voto. Se questo fosse il risultato delle prossime elezioni nazionali, nella primavera del 2013, l'Italia ne uscirebbe a pezzi. Sarebbe uno scenario che, a dispetto di una politica che vuole tornare a guidare le sorti del Paese, sarebbe obbligata a ripetere l'esperimento in corso, cioè quello di una Grande o Piccola Coalizione. Ma con l'aggravante di un Parlamento balcanizzato, tra le convulsioni dei forzaleghisti e le aggressioni di un centinaio di deputati grillisti. Una prospettiva sicuramente favorevole a un Monti bis. Ma probabilmente sfavorevole all'Italia, che in balia dell'onda anomala si confermerebbe l'unica democrazia "commissariata" dell'Occidente.

m.giannini@repubblica.it

(30 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #267 inserito:: Dicembre 24, 2012, 06:33:55 pm »

La metamorfosi del bipolarismo


di MASSIMO GIANNINI

"QUALCOSA mi dice di non candidarmi", aveva confessato Mario Monti nel colloquio con Eugenio Scalfari su Repubblicadi ieri. Quella "voce di dentro", che in lui covava da tempo insieme a quelle che invece, da fuori, lo spingevano a candidarsi, alla fine ha avuto un peso. L'ultima conferenza stampa del Professore, cerimonia di commiato di un tecnico al capolinea, non si è trasformata nell'epifania di un leader pronto a "salire in politica" con la sua faccia e con la sua lista. Monti, per ora, non si candida. O meglio: si candida, ma a modo suo. Da "candidato riluttante". Si propone cioè nell'unico modo in cui può farlo un senatore a vita obbligato a un profilo di terzietà, e in cui sa farlo un civil servant disposto ad essere "chiamato" dall'establishment, piuttosto che votato dal popolo.

Mette se stesso, e la sua Agenda, a disposizione del Paese e di chi, tra i partiti, vorrà assumere questo intero "pacchetto" come architrave costituente della prossima legislatura. Se questo accadrà, e se glielo chiederanno espressamente, lui sarà pronto a valutare un'eventuale premiership. La linea è sfumata. Il lessico è fumoso. Più che Alcide De Gasperi, la formula montiana ricorda Aldo Moro. Ma il senso di marcia, di qui alle elezioni del 24 febbraio, è ormai abbastanza chiaro.

Stretto tra la moral suasion di Napolitano (fautore del principio di imparzialità imposto dal laticlavio senatoriale) e la forza dissuasiva dei sondaggi (finora infausti per le formazioni moderate) il Professore si tiene ancora aperte tutte le porte. In entrata, se la proposta dell'ipotetica "coalition of the willing" che lui auspica lo convincerà. Ma anche in uscita, se invece non ci saranno le condizioni di "credibilità" dell'offerta che lui ritiene indispensabili.

Il premier uscente interrompe così l'insostenibile melina di questi ultimi giorni, e rilancia la palla nella metà campo dei partiti. Dicano loro che "uso" vogliono fare del montismo, e dell'eredità positiva lasciata da questo governo di "salvezza nazionale". Poi lui deciderà. Questa mossa presta il fianco ad almeno due critiche. Da un lato, prolunga il clima di incertezza sulla geometria e la fisionomia degli schieramenti in vista del voto di febbraio. Dall'altro lato, riflette lo stesso schema emergenziale dal quale è nato un anno fa il governo tecnico: la "democrazia degli ottimati" che prevale, ancora una volta, sulla democrazia degli eletti. Ma in questa mossa c'è anche una svolta strutturale. Un gigantesco "cambio di gioco", di cui Monti diventa l'artefice. Nella bolla di relativa incertezza, che il Professore non ha voluto sgonfiare per ragioni di coerenza istituzionale di convenienza personale, ci sono alcune certezze ormai evidenti. Destinate a incidere profondamente sulla campagna elettorale e sulle prospettive della prossima legislatura.

La prima certezza è la rottura, insanabile e definitiva, con la destra berlusconiana. Al di là delle cortesie formali, che fanno parte del collaudato fairplay montiano, il premier uscente ha liquidato l'epopea populista e cesarista del Cavaliere con parole eleganti, ma taglienti come la lama di un rasoio. Lo "sbigottimento" di fronte alle schizofrenie quotidiane di Berlusconi riassume e riflette lo sconcerto di tanti italiani. Già nella conversazione con Scalfari, il premier uscente aveva escluso una possibile alleanza con il Pdl: "Non lo farò mai". Ora, questa sentenza diventa inappellabile. Quando Monti arriva ad esprimere "fatica nel seguire la linearità del pensiero" di Berlusconi, e a parlare di una "comprensione mentale che mi sfugge ", non c'è più altro da aggiungere. Il berlusconismo è archiviato. E questa destra, ancora una volta dominata dalla figura tragicomica del suo padre padrone, è inservibile per qualunque progetto costituente. Averlo detto con assoluta chiarezza di fronte all'opinione pubblica non è solo un gesto di coraggio, ma anche un atto di forza del Professore, che in questo anno di tormentata coabitazione con il Cavaliere ha dovuto ingoiare fin troppi rospi, senza mai potersi togliere la soddisfazione di urlare la sua verità. Ora questa verità è venuta a galla, ed è un bene per tutti.

La seconda certezza è speculare alla prima. Se davvero anche Monti pensa ed agisce nella logica di un futuro governo "pienamente politico", questo significa che i possibili alleati di una futura maggioranza che non si vuole più "strana" ma "normale", non potranno essere che il nuovo centro di Monti (Grande o Piccolo che sia) e il centrosinistra di Bersani. Questo carica tutti di enormi responsabilità. Il premier uscente lo ha già detto a Scalfari: "Considero indispensabile un'alleanza post-elettorale con il Pd". Ma nel frattempo, pur nella validità del suo paradigma che ruota intorno all'alternativa cambiamento/conservazione, dovrà convincersi che esiste ancora una sinistra diversa dalla destra, e che non tutto quello che è stato fatto dal suo governo (sul fronte dolente della crescita e dell'equità sociale) va preservato e venerato come un totem. I centristi di Casini e Montezemolo, che si identificano nel Professore, dovranno dimostrarsi all'altezza del compito. Rinunciando per sempre alle tattiche andreottiane dei due forni. Incarnando al meglio la cultura del popolarismo europeo, piuttosto che l'incultura del tatticismo doroteo. Selezionando con cura le liste dei propri candidati, come gli chiede implicitamente lo stesso Monti, prima di scendere in campo con loro o anche solo prima di dar loro la sua "benedizione".

Infine, il Pd. Bersani fa benissimo a ricordare al Professore che ora la parola spetta ai
cittadini-elettori. Il segretario sa che, prima del voto, con Monti funzionerà un meccanismo di competizione. Ma sa anche che, dopo il voto, sarà opportuno (se non addirittura necessario) un meccanismo di collaborazione. Andranno studiati i tempi e le forme. Ma è uno sbocco quasi inevitabile. Prima di tutto per scongiurare l'ipotesi di un "pareggio " al Senato, dove il premio su base regionale può favorire l'asse Pdl-Lega in regioni chiave come il Veneto, il Piemonte e la Lombardia. E poi perché, per un Partito democratico che punta finalmente a riscoprire la famosa "vocazione maggioritaria", la prospettiva della completa autosufficienza può rivelarsi controproducente. Vellica il settarismo del vecchio Pci, ma non aiuta la nascita di un riformismo nuovo e moderno.

Se è legittimo e giusto rivendicare un programma imperniato su una maggiore equità sociale, sulla difesa dei diritti e dei deboli, è altrettanto legittimo e giusto allargare il perimetro della rappresentanza, e adoperarsi per rendere finalmente possibile un vero patto tra moderati e progressisti. Le istanze ugualitarie di Vendola, e le rivendicazioni protestatarie della Cgil, sono una risorsa della sinistra. Ma non possono e non devono esaurirne la spinta, a meno che non ci si voglia rinchiudere nella "fortezza" dell'esistente.

Da ieri il quadro politico è già cambiato. Grazie a Monti, l'Italia è uscita dal baratro finanziario nel quale stava precipitando. Grazie a Monti, qualunque sia il giudizio sul suo operato e sui singoli punti della sua Agenda, l'Italia ha oggi un ancoraggio solidissimo con l'Europa. E grazie a Monti, il bipolarismo italiano è già diverso da quello che abbiamo conosciuto in questi ultimi vent'anni. Con la definitiva esclusione della destra forza-leghista dal perimetro della governabilità, cade quella "anomalia necessaria" che ha giustificato le Larghe Intese di un anno fa. L'incubo della Grande Coalizione con Berlusconi, da oggi, non è più all'orizzonte. La stagione dei patti col diavolo è finita.
Il Paradiso resta ancora lontano. Ma stavolta, forse, possiamo almeno uscire dall'Inferno.

m.giannini@repubblica.it

(24 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #268 inserito:: Dicembre 29, 2012, 07:51:47 pm »

Le divergenze parallele

di MASSIMO GIANNINI


La metamorfosi è compiuta. Non basta più essere Professori, per reggere quattro ore di trattativa con gli ex, i post e i neo democristiani, a discutere di coalizioni e liste elettorali, candidature e comizi. La riunione-fiume con casiniani, finiani e montezemoliani sancisce la definitiva trasformazione di Mario Monti. Il "tecnico prestato alla politica" diventa un politico forgiato dalla tecnica. Il Centro Montiano non nasce come partito nella forma, solo perché il senatore a vita non si sente di tradire la missione concordata con il presidente della Repubblica che lo ha nominato.

Ma lo è, con tutti gli ossimori e le ambiguità del caso, nella sostanza. Lista unica al Senato, liste separate ma coalizzate alla Camera, e l'ex premier che accetta (secondo l'aberrazione costituzionale del Porcellum) il ruolo esplicito di "leader della coalizione".

Dunque, la nuova Cosa Bianca ha una testa: Monti. Ha diverse gambe: i cespugli centristi. E ha anche un progetto: disarticolare gli assetti del bipolarismo, rompere lo schema binario destra/sinistra, sostituirlo con il paradigma cambiamento/conservazione, riaggregare i moderati sotto le insegne dell'ortodossia europeista e di un'economia sociale di mercato all'italiana. L'idea è ambiziosa. Addirittura velleitaria, se si considera che manca appena un mese e mezzo al voto, e che la piattaforma programmatica del Centro Montiano, per quanto salvifica in
questi ultimi tredici mesi, sconta l'altissimo tasso di impopolarità della stangata sull'Imu in queste ultime settimane.

Monti cessa di essere il "candidato riluttante", e sale in politica da "candidato militante". Non si presterà ai bagni di folla, ma sarà in campo con il suo nome e con la sua faccia. Una scelta non scontata: prima della conferenza stampa di fine anno sembrava ormai prevalere la rinuncia. Una scelta per molti versi coraggiosa: il Professore, abituato a "concedersi" nei più alti consessi, accetta di "contarsi" dentro le urne. E qui, nell'accettazione di questa sfida a viso aperto, si nascondono insieme un'opportunità e un problema.

L'opportunità è quella di misurare quante "divisioni" ha davvero Monti, e quanta capacità di attrazione può sprigionare in quella zona grigia della società italiana sopravvissuta prima all'eclisse democristiana e poi all'apocalisse berlusconiana. Dal novembre 2011 in poi, il Professore è stato sempre popolare e mai populista. "Cooptato" a Palazzo Chigi, ci è entrato e ci ha abitato senza avere un suo "popolo". Oggi si tratta di capire se un suo "popolo" si è formato ed esiste davvero. È una verifica importante, per un tecnocrate abituato a gestire il potere dall'alto, e non a conquistarselo dal basso. E perciò non selezionato dalla democrazia, dove valgono i consensi dei cittadini. Ma piuttosto legittimato da un'aristocrazia, dove valgono le cancellerie internazionali, le gerarchie ecclesiastiche o le dinastie industriali. Il 24 febbraio, per fortuna, non varrà la vecchia regola di Enrico Cuccia: i voti non si peseranno, si conteranno. Ed è un bene che la "conta" riguardi anche questo rinato Terzo Polo, visti i clamorosi insuccessi subiti dai tanti "piccoli centri" abortiti in questi ultimi vent'anni.

Il problema è che questo tentativo spinge Monti e i suoi "ottimati" su una posizione inevitabilmente "frontista" rispetto ai due Poli. Con la destra, per fortuna, la rottura è ormai consumata ed è irrimediabile. Berlusconi, del Centro Montiano, è un nemico non solo politico e simbolico, ma a questo punto addirittura personale. Tutto, nel forzaleghismo ritrovato del Cavaliere, è l'antitesi del montismo. E d'altro canto, se l'operazione del Professore ha un senso, è quello di ereditare in futuro l'elettorato conservatore in fuga definitiva dal Pdl, per traghettarlo dentro il porto sicuro del vero popolarismo europeo, laico, costituzionale, repubblicano. Dunque è in quell'area sociale e politica che la coalizione moderata deve cominciare a pescare, oggi e in prospettiva. Ma per fare questo, Monti deve inasprire i toni e allargare il fossato che lo separa da Bersani.

E qui il problema diventa paradosso. Con la sinistra, il Centro Montiano dovrà provare a fare un accordo, se non vuole scommettere sull'ingovernabilità, puntando a una Folle Coalizione che tiene dentro anche Berlusconi e Grillo. Un accordo non pre, ma post-elettorale, che serva a garantire una maggioranza sicura anche al Senato dove la partita è più incerta. Ma questo patto andrebbe discusso, ragionato e preparato in un clima di collaborazione tra Monti e Bersani. Invece, come dimostrano i prodromi di questi ultimi giorni, la campagna elettorale è destinata a infiammarsi intorno alla competizione tra il premier e il segretario. Il primo costretto a prendere sempre più platealmente le distanze dal Pd, per ridurre quelle che lo separano dall'elettorato del Pdl. Il secondo obbligato, per ragioni uguali e contrarie, a rimarcare sempre più orgogliosamente il presidio identitario della sinistra.

Il risultato rischia di essere a saldo zero per tutti. Parafrasando l'antica lezione di Moro, Monti e Bersani sono destinati alle "divergenze parallele". Almeno nella prossima legislatura. Più in là ognuno riprenderà la sua strada, centro e sinistra potranno diventare alternativi. Ma non è ancora il momento. E se dunque i due leader si condannano già oggi a una cooperazione conflittuale, fanno la fine di Craxi e De Mita, e non rendono un buon servizio al Paese. La Terza Repubblica non può nascere con i vizi letali della Prima.

m.giannini@repubblica.it

(29 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #269 inserito:: Febbraio 07, 2013, 11:40:03 pm »


Se Zuckerberg guidasse il cane a sei zampe
 
Massimo Giannini

La Consob ci riprova. Dopo anni di torpore ispirato da Lamberto Cardia, "sacerdote" del laissez faire di culto lettiano, il docile watchdog della Borsetta italiana tenta per l'ennesima volta di fare la faccia feroce. Stamattina Giuseppe Vegas e i suoi uomini hanno convocato negli uffici di Piazza Verdi i vertici della Saipem. Vogliono capire come sia stato possibile l'ultimo scandalo che, insieme a quello del Montepaschi, ha riprecipitato nel fango il già opaco mercato finanziario tricolore. Un profit warning che, dalla sera alla mattina, taglia del 50 per cento le stime sugli utili attesi. E soprattutto, nel frattempo, quel pacco del 2,3 per cento di azioni Saipem vendute a caro prezzo sul mercato da un misterioso Fantomas, prima che il titolo precipitasse del 34 per cento. Si sospetta il temuto "market abuse", quel magnifico reato di abuso di mercato di recente conio per il quale in Italia, del resto, non viene condannato quasi mai nessuno. Non sappiamo cosa racconteranno alla Commissione Alberto Meomartini e Umberto Vergine, presidente e amministratore delegato del gruppo controllato dall'Eni. I manager, nel colloquio con Luca Pagni che pubblichiamo oggi, cercano di fornire qualche spiegazione sul collasso dei profitti, ma difficilmente potranno dire qualcosa sull'audace colpo messo a segno da qualche occhiuto investitore, poco prima che la società bruciasse di lì a poco un terzo della capitalizzazione e trascinasse nell'abisso l'intero listino. Solo un gonzo può credere che si sia trattato di una coincidenza.

Chi ha venduto quei titoli era a conoscenza dell'annuncio che Saipem stava per fare. Come sempre, tutti gli indiziati smentiscono di aver avuto parte nel delitto. Smentisce l'Eni, smentisce Fidelity. Il colpevole, come nei gialli di serie B, sarà il solito maggiordomo. Nell'attesa, purtroppo verosimilmente vana, che la Consob e la magistratura vengano a capo del misfatto, viene da fare un'altra riflessione, più generale, che riguarda il senso di responsabilità e l'accountability delle tanto celebrate "classi dirigenti". Prendiamo per buone le rassicurazioni dell'Eni, che si chiama totalmente fuori dalla vicenda. Ma viene in mente un paragone, che dovrebbe insegnare qualcosa. Tutti conosciamo il bagno di sangue di Facebook. Il prezzo per azione del colosso dei social network, prima con l'Ipo e poi con la quotazione a Wall Street, è crollato in tre mesi da 38 a meno di 17 dollari. Innescando psico-drammi, class action e sospetti di ogni tipo. Zuckerberg non ci ha pensato due volte: ha rassicurato soci e dipendenti, e ha ricomprato 101 milioni di azioni, per un valore di 1,9 miliardi di dollari. Al prezzo di collocamento. Bene: se oggi a tenere il guinzaglio del cane a sei zampe ci fosse uno come Zuckerberg, magari farebbe la stessa cosa.

 

(05 febbraio 2013) © Riproduzione riservata

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