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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 167010 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Gennaio 08, 2011, 03:25:59 pm »

IL RETROSCENA

Tra politica ed euro-crac così è nato il "fantasma" Tremonti

Dal federalismo al deficit: Tesoro in trincea nel governo.

Per Berlusconi il ministro è diventato una nuova ossessione: teme che il "genio dei numeri" diventi il "capo dei congiurati"

di MASSIMO GIANNINI

La "cena degli ossi". Gli ultimatum di Bossi. Il complotto dei "rossi". Sono tanti gli spettri che turbano i sonni del presidente del Consiglio. L'ipotesi che la Consulta non dia via libera alla legge sul legittimo impedimento, riaprendo la caccia dei "pm al servizio dei comunisti", è tutt'altro che campata in aria. L'aut aut del leader della Lega, o il federalismo entro il 23 gennaio o si va al voto, è tutt'altro che uno scherzo. Ma sullo sfondo, c'è un altro spettro che lo inquieta di più perché, per sventura politica e congiuntura economica, li sintetizza tutti: è Tremonti.

Il "fantasma di Giulio" è la nuova ossessione del Cavaliere. La sua paura è che il "genio dei numeri" diventi il "capo dei congiurati", per sostituirlo a Palazzo Chigi. Ogni mossa del superministro viene letta dal premier come un tentativo di sabotare il suo governo e di affossare la sua leadership. Basta che Tremonti si attovagli con i vertici del Carroccio in Cadore. Basta che neghi risorse ad Alfano o alla Gelmini. Basta che dica "la crisi non è finita". Indizi che, messi insieme, fanno la prova: "Giulio vuole farmi fuori". Così, assediato dal fantasma di Tremonti, Berlusconi non vede il vero fantasma che si aggira sull'Europa: quello di una nuova tempesta finanziaria.

Ieri la presidenza del Consiglio è tornata a smentire dissidi con il Tesoro. Ma per avere la conferma che il dissidio c'è basta sfogliare "il Giornale" di famiglia. "Tutti gli incubi di Tremonti", era il titolo di apertura di ieri. Oltre all'allarme sull'andamento dell'economia rilanciato il giorno prima dal ministro a Parigi, ampio risalto all'inchiesta della Procura di Napoli su Marco Milanese, parlamentare Pdl e collaboratore di Tremonti a Via XX Settembre. Un segnale preciso. Non siamo ancora al trattamento-Boffo o alla terapia-Fini. Ma il piano inclinato, sul quale si sta posizionando la solita "macchina del fango", potrebbe sembrare lo stesso.

Quello che c'è da capire è perché, nella mente del premier, nasce e prende corpo il fantasma di Tremonti. E qui, appunto, si incrociano due "cromosomi". Il cromosoma X è la politica. E la politica dice chiaramente due cose. La prima: la maggioranza forzaleghista alla Camera e nelle commissioni non c'è più, e non basta l'integrazione di 10 parlamentari "comprati" a tenere in piedi la coalizione. La seconda: il Carroccio è disposto a tenere in piedi questa maggioranza solo se porta a casa il federalismo fiscale, e non basta l'approvazione dei decreti ma serve la loro effettiva attuazione. Questi, al dunque, sono stati i piatti forti della "cena degli ossi" di martedì scorso all'Hotel Ferrovia di Calalzo: Bossi, Calderoli e Tremonti hanno convenuto sul fatto che "senza una maggioranza organica, e non solo numerica, non si va da nessuna parte". Perché "fare il federalismo fiscale non vuol dire soltanto varare i decreti entro le prossime due settimane: poi bisogna gestire la loro realizzazione, e bisogna reggerli politicamente".

Proprio per questo, la preoccupazione condivisa del Senatur e del superministro è una maggioranza risicata ed episodica, che "il voto se lo deve conquistare tutti i giorni, perché governare è un sondaggio quotidiano". Proprio per questo, pur non volendo tradire il patto con Berlusconi, i due potrebbero essere comunque propensi ad "allargare gli orizzonti delle alleanze" (e dunque a sostenere un'altra maggioranza, senza ricorrere alle elezioni anticipate) se il premier non dovesse riuscire ad evitare la crisi. Bossi, mentre il Cavaliere tuona contro "i comunisti in cachemire", dichiara che lui con i "comunisti" ci dialoga, e sulla road map del federalismo si confronta ogni giorno col sindaco di Torino Chiamparino e col governatore dell'Emilia Errani. E Tremonti, mentre il Cavaliere lancia i suoi anatemi contro il Pd, parla con D'Alema e si prepara a intervenire il 20 gennaio al convegno sull'austerity di Enrico Berlinguer insieme a Nicola Zingaretti. È proprio questa "intelligenza col nemico" dell'asse padano che genera la sindrome da accerchiamento del Cavaliere.

Il cromosoma Y è l'economia. E l'economia dice essenzialmente due cose. La prima: la congiuntura va male in tutto il mondo, e l'Europa rischia una nuova crisi finanziaria. La seconda: l'Italia è nel mirino dei mercati, e non può permettersi un solo passo falso con i partner dell'Ue. E qui Tremonti è più che mai al centro dei "giochi". Ieri, a Parigi, ha detto chiaro quello che pensa da tempo: "La crisi è proteiforme, e appena crediamo di aver battuto il mostro, questo si ripresenta altrove". Il superministro non ha parlato a sproposito. I suoi interlocutori, a livello di Eurozona, sono stati espliciti: "Già dalla prossima settimana - dicono - sui mercati potrebbe partire un'ondata di attacchi speculativi contro i Paesi deboli di Eurolandia".

Le avvisaglie ci sono tutte. Dall'America Geithner parla di "rischio default" ed evoca un debito americano pari al 185% del Pil (400% se venisse calcolato secondo i nostri standard). In Germania, dopo il formidabile traino dovuto all'export tedesco dovuto al piano keynesiano di investimenti cinesi, la produzione industriale rallenta. In Irlanda, per la prima volta nella storia, i "credit default swaps" a 5 anni contro i rischi di insolvenza costano più di quelli argentini. In Belgio, che oggi conquisterà il record storico in Europa con 209 giorni senza governo, si addensano nubi pesantissime. In Portogallo la situazione precipita, e la Banca centrale svizzera si rifiuta di sottoscrivere bond di Lisbona. In Spagna si teme per il sistema creditizio, e si sussurra addirittura di "enormi problemi di liquidità" per una delle principali banche del Paese. Il sistema bancario franco-tedesco è esposto su Madrid per un trilione di euro. "E - come ripetevano l'altro ieri a Parigi gli interlocutori di Tremonti - se salta la Spagna salta l'euro, perché quel Paese non è tanto "too big to fail", ma "too big to save"...".

Questo è il panorama dell'eurozona, del quale Berlusconi non si occupa, ma del quale il superministro del Tesoro si preoccupa. Perché l'Italia, a dispetto dei "bagni di ottimismo" invocati dal Cavaliere, c'è dentro fino al collo. Ieri, in una giornata di tensione per tutti i Pigs, gli spread dei nostri titoli di Stato rispetto a quelli tedeschi sono tornati vicini a 200 punti base. "Finora l'Italia ha tenuto bene i suoi conti - è il ragionamento che i colleghi di Tremonti gli hanno ripetuto a Parigi - raggiungerete il 5% previsto nel rapporto deficit/Pil. Ma il fatto che nel 2010 abbiate "tenuto" non significa che adesso potete ricominciare a spendere: semmai che dovete fare ancora meglio quest'anno...".

Ecco perché Tremonti ripete "la crisi non è finita". Ecco perché respinge le pressioni del Cavaliere, che si lamenta della sua "rigidita da tecnico" e ora gli chiede la "flessibilità del politico" nell'uso delle risorse. Ma a queste richieste, visto l'inesorabile "vincolo esterno che ci lega", il superministro non può cedere. Non può cedere ad Alfano, che deve trovare i fondi per l'informatizzazione dei tribunali nel bilancio del ministero della Giustizia. Meno che mai può cedere alla Gelmini, che in un'intervista al "Sole 24 Ore" si illude di poter trasformare il decreto mille-proroghe "nell'appendice della vecchia Legge Finanziaria". Raccontano che in queste ore Tremonti, oltre al leggendario barattolo di pelati Cirio, si tenga sulla sua scrivania una frase di Quintino Sella: "Il bilancio dello Stato contiene vizi e virtù di un popolo". In questa fase rovente, il Tesoro tiene solo alle virtù, e non può cedere ai vizi degli "irresponsabili" che non sanno cosa stiamo rischiando e che, credendo di evitare la "bancarotta del governo" con una impossibile "fase due", finirebbero per causare la "bancarotta del Paese". Ma è proprio questa "linea del rigore", che per il superministro è un "impegno europeo inderogabile" e non una "astrazione numerologica", che alimenta la psicosi del complotto nel Cavaliere.

Dunque, il fantasma di Tremonti nasce così. Dalla combinazione di questi due elementi. "L'amico Giulio", per ruolo politico e per funzione governativa, presidia un crocevia fondamentale per i destini della legislatura. Da un lato c'è l'obiettivo del federalismo fiscale, che per la Lega può richiedere una piattaforma politica più larga di quella (sempre più esigua) ormai condivisa con il solo Pdl. Dall'altro lato c'è una possibile crisi finanziaria, che come hanno confermato al superministro gli "amici" a Parigi "condiziona e condizionerà la politica economica italiana" e impedirà a chiunque governi "di fare il furbo con qualunque forma di disimpegno contabile". Questo è lo scenario, problematico se non addirittura drammatico, dei prossimi quindici giorni. Più che per Tremonti, un incubo per Berlusconi.

(08 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/08/news/giannini_tremonti-10966863/?ref=HREC1-8
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« Risposta #166 inserito:: Gennaio 15, 2011, 11:07:28 am »

IL COMMENTO

Il patto diseguale

di MASSIMO GIANNINI

La vera sfida di Mirafiori comincia adesso. Sapremo solo a notte fonda l'esito del referendum . Ma quando il nuovo paradigma della modernità impone una riscrittura così radicale del patto tra Capitale e Lavoro, rifondandolo sullo scambio disuguale e asimmetrico tra un salario e il nulla, l'esito sembra scontato.

"Vinceranno i sì, anche se in molti avrebbero preferito votare no", era la previsione della vigilia. I primi voti scrutinati danno un risultato diverso, con i sì e i no in bilico intorno al 50%. Già questo sarebbe un risultato clamoroso, che potrebbe far saltare tutti gli scenari. Con la sua consueta, lapidaria schiettezza, l'amministratore delegato del Lingotto Sergio Marchionne aveva spiegato la sua linea: se prevalgono i sì andiamo avanti con l'investimento e diamo una scossa all'Italia, se prevalgono i no ce ne torniamo a festeggiare a Detroit e ce ne andiamo a fare auto in Canada. Una posizione "win-win": io vinco comunque. La realtà è assai più complessa. In attesa di capire l'esito della consultazione, qualcosa si può dire subito. Su due punti fondamentali: i contenuti dell'accordo e sulle prospettive che si aprono.

1) Sui contenuti dell'accordo. È diseguale lo scambio sui diritti (ammesso che su questo terreno, nonostante la dura legge della globalizzazione, qualcosa si possa e si debba scambiare nelle democrazie occidentali). Ma si potrebbe dire: hai ceduto sul diritto individuale allo sciopero, hai ceduto sul "mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda", hai ceduto sui "diritti di costituzione e di assemblea delle rappresentanze sindacali aziendali". Ma in cambio hai ottenuto la versione italiana della Mitbestimmung, cioè la co-gestione conquistata da decenni dai sindacati tedeschi della Ig-Metall, presenti nei consigli di sorveglianza della Volkswagen, oppure la partecipazione all'azionariato ottenuta dai sindacati americani dell'Uaw, presenti nei consigli di amministrazione con il 63% della Chrysler. E invece non è così.

È diseguale lo scambio sulle retribuzioni (ammesso che siano vere le cifre scritte dall'azienda sull'accordo separato). Si potrebbe dire: hai ceduto sulle pause ridotte, hai ceduto sui turni, hai ceduto sulle indennità di malattia. Ma in cambio hai ottenuto l'allineamento del tuo salario medio annuo (23 mila euro in Italia) a quello dei tuoi colleghi tedeschi (42 mila euro in Germania). E invece non è così. La tua pausa ridotta vale 18 centesimi l'ora, cioè un euro al giorno, cioè 32 due euro al mese, lordi e persino esclusi dal calcolo del Tfr. Il tuo straordinario possibile, 120 ore all'anno, è a discrezione dell'azienda, vale teoricamente 3.600 euro di aumento futuro, ma sconta una contraddizione attuale: l'accordo prevede "la cassa integrazione straordinaria, per crisi aziendale... per tutto il personale a partire dal 14 febbraio per la durata di un anno". Come potrai fare lo straordinario, se starai in Cig per tutto il 2011?

2) Sulle prospettive future. Resta il sospetto che fossero vere le affermazioni sfuggite a Marchionne a "Che tempo che fa", il 24 ottobre: "Senza l'Italia la Fiat potrebbe fare molto di più...". Produrre auto in Italia, per la Fiat, è un problema che neanche l'accordo su Mirafiori può risolvere. Al supermanager italo-svizzero-canadese, apolide e multipolare, il Belpaese non conviene. Per due ragioni di fondo.

Non c'è convenienza "politica". Lo dicono i fatti. Finora il salvataggio e il rilancio della Fiat sono avvenuti sulla base di uno schema collaudato con gli Stati: io costruisco, salvo o rilancio le fabbriche, tu mi paghi. È avvenuto in una prima fase in Italia, finché sono andati avanti gli ecoincentivi. È accaduto in Messico, dove il Lingotto ha ottenuto un prestito statale da 500 milioni per rifare l'impianto di Toluca. È accaduto in Serbia, dove per l'impianto di Kragujevic il gruppo incassa un contributo statale di 10 mila euro per ogni assunzione. È accaduto in America, dove l'operazione Chrysler è passata attraverso il "bailout" pubblico da 17 miliardi di dollari. E sta accadendo in tutti gli altri Paesi dove la Fiat vuole essere presente, dal Canada al Brasile, dall'Argentina alla Polonia.

Nel mondo i governi stanno spendendo soldi per salvare l'auto, e tra i principali stakeholder del settore ci sono proprio gli Stati. Obama ha speso 60 miliardi di dollari per le Chrysler, Ford e Gm. Sarkozy ha speso 7 miliardi per Psa-Renault. La Merkel ha speso 3 miliardi per la Opel. In Italia gli aiuti pubblici sono finiti nel 2004. Per la Fiat, dunque, lo Stato non è un interlocutore. E non lo è il governo, che non ha un euro da spendere e un "titolo" per intervenire. Ecco perché Marchionne può andarsene, se crede e quando crede, con la "benedizione" di Berlusconi, che in due anni (di cui quasi uno da ministro dello Sviluppo ad interim) non ha trovato il tempo per convocare almeno una riunione sul caso Fiat.

Non c'è convenienza economica. Lo dicono i numeri. La Fiat produce all'incirca 2,1 milioni di automobili l'anno. Circa 730 mila sono in Brasile, dove lavorano 9.100 dipendenti: ogni operaio sforna 77,6 automobili. Circa 600 mila in Polonia, dove lavorano 6.100 dipendenti: 100 auto per ogni operaio. In Italia 22.080 operai producono meno di 650 mila auto: 29,4 auto per dipendente. Il tasso medio di utilizzo degli impianti, da noi, oscilla tra il 30 e il 40%, con punte bassissime a Cassino (24%) e a Pomigliano (14%), contro una media dell'80% negli impianti dei costruttori franco-tedeschi. Su queste basi, in teoria, si fonderebbero gli accordi separati a Pomigliano e Mirafiori: bisogna lavorare di più, per schiodare l'Italia dallo scandaloso 118esimo posto (su 139) nella classifica Ocse sull'efficienza del lavoro.

Ma qui c'è il grande rebus e il grande limite della Dottrina Marchionne. Il grande rebus: riportare il coefficiente di utilizzo degli impianti a livelli competitivi è un impegno colossale: può bastare il "modello" di accordo sottoscritto da Fim, Uilm, Fismic e Ugl il 23 dicembre scorso? Nessuno, realisticamente, lo può credere. Non può bastare la rimodulazione dei turni su quattro diverse tipologie. Non può bastare la riduzione di 10 minuti delle pause giornaliere infra-turno. Non possono bastare le 120 ore annue di "lavoro straordinario produttivo". Non può bastare il disincentivo all'assenteismo basato sul mancato pagamento del primo giorno di malattia collegata a periodi pre o post festivi. Non può bastare nemmeno la "nuova metrica del lavoro" imposta dal famigerato metodo "Ergo-Uas", la scomposizione post-taylorista dell'ora di lavoro di ogni operaio in 100 mila unità di "tempo micronizzato" e la previsione pseudo-orwelliana di 350 operazioni effettuate dal singolo operaio in 72 secondi ciascuna.

Il problema della produttività non si risolve così, senza una strategia sull'innovazione di prodotto. Produrre di più per fare che cosa? Questo è il grande limite della Dottrina Marchionne. Se con un colpo di bacchetta magica il "ceo" riuscisse a far lavorare gli impianti italiani a ritmi di produttività tedeschi o americani, e se per magia ogni operaio di Mirafiori o di Pomigliano sfornasse 100 automobili all'anno come il "collega" serbo, la Fiat non saprebbe che farne. Le vetture prodotte in più resterebbero invendute nei piazzali. La Fiat non è in affanno perché la sua offerta, sul piano dei volumi, non riesce a soddisfare la domanda. Non è in affanno per ragioni di quantità, ma di qualità. È in difficoltà perché non ha nuovi modelli, soprattutto nella gamma alta e nel segmento a più elevato contenuto ecologico e tecnologico. E perché i modelli che ha soffrono sempre di più la concorrenza straniera. Nel 2010 il calo delle immatricolazioni Fiat (meno 16,7%) è il doppio della media del mercato (-9,2). E la quota di mercato si è ridotta al 30% (era 32,7 nel 2009).

Sulla carta, il rilancio di Mirafiori dovrebbe servire a colmare queste lacune. Con la produzione di "automobili e Suv di classe superiore per i marchi Jeep e Alfa Romeo". Con la possibilità di "produrre fino a più di mille auto al giorno per un totale di 250-280 mila vetture l'anno". Con l'investimento promesso che "supera il miliardo di euro, suddiviso tra Fiat e Chrysler". Questo è l'impegno del Lingotto, affidato al comunicato stampa accluso all'intesa e sottoscritto dai sindacati firmatari. Non c'è nulla, nel testo dell'accordo, che ne garantisca il rispetto. E non c'è nulla, nel misterioso piano "Fabbrica Italia" da 20 miliardi, che apra uno scenario industriale plausibile sui prossimi dieci anni. Si tratta allora di aggrapparsi disperatamente a quello che si ha, qui ed ora. E per il futuro, affidarsi a Marchionne. Una "scommessa" giocata su una "promessa". Il rischio è altissimo. Se fallisce, perdono tutti. Perdono i sindacati e la politica. Ma perde anche la Fiat. E perde anche Marchionne, anche se se ne torna a brindare a Detroit.
m.giannini@repubblica.it

(15 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #167 inserito:: Gennaio 21, 2011, 05:38:24 pm »

IL RETROSCENA

Svolta centrista e ribaltone Lega per Berlusconi l'incubo del 1994

Dopo il cambio di linea di Udc, Fli e Api sul federalismo il premier preoccupato ha voluto incontrare sia Tremonti che Calderoli.

E Bersani rilancia l'offerta al ministro dell'Economia

di MASSIMO GIANNINI


È IL GIORNO della tenaglia. Da una parte le istituzioni, dal Quirinale alla Chiesa, che attaccano Berlusconi sullo scandalo Ruby. Dall'altra le opposizioni, dal Pd al Terzo Polo, che lo assediano sul federalismo. Stretto in questa morsa, il Cavaliere cerca una disperata resistenza. Ma mentre sembra voler reggere a tutti i costi l'urto giudiziario dell'inchiesta della procura di Milano sul suo impeachment sessuale, per il premier potrebbe rivelarsi persino più difficile reggere l'urto politico di uno stop alla riforma federale. Al prezzo di un'ulteriore torsione del nostro sistema democratico e dell'ennesima distorsione della verità dei fatti, il presidente del Consiglio può tentare di respingere le accuse dei pm. Quello che non può fare, è impedire all'unico alleato che ancora lo sostiene, cioè Umberto Bossi, di staccare la spina al governo se dovessero saltare i due decreti delegati attuativi del federalismo, all'esame delle commissioni parlamentari.

È l'incubo del '94, che allora travolse il primo governo del Cavaliere, quando la Lega ruppe sulle pensioni, e spianò la strada al governo "tecnico" di Lamberto Dini, cioè al famoso "ribaltone". Ieri questo incubo ha ripreso corpo, quasi all'improvviso, quando l'Associazione nazionale dei Comuni italiani da una parte, il Polo della Nazione dall'altra, hanno annunciato il no al pacchetto federalista assemblato da Tremonti e Calderoli. Una mossa a sorpresa, che a Palazzo Chigi nessuno si aspettava. "Sembrava tutto a posto -
diceva nel pomeriggio un ministro - il testo era stato concordato punto per punto con l'Anci, e mercoledì sera erano arrivate persino sollecitazioni dal Colle ad approvare in fretta i decreti. Poi tutto è cambiato, e non capiamo ancora il perché...".
Ma in attesa di capire cosa stesse accadendo, la mossa congiunta dei sindaci e dei centristi ha fatto temere al premier che, proprio sul federalismo, si fosse rinsaldato l'asse che punta a farlo cadere subito, ad evitare le elezioni anticipate e a far nascere un altro governo, magari guidato proprio dal superministro dell'Economia, con l'ovvio sostegno del Carroccio. Uno scenario da 1994, appunto. Con Tremonti al posto di Dini. E con una nuova maggioranza sostenuta dalla Lega di Bossi, dal Terzo Polo di Fini e Casini, dal Pd di Bersani e persino dall'Idv di Di Pietro. Fanta-politica? Può darsi. Forse anche fanta-matematica, visto che stiamo parlando di un'equazione da almeno una decina di incognite. Ma la preoccupazione del Cavaliere è fortissima. Anche per questo, ieri sera, ha voluto incontrare a Palazzo Grazioli prima Tremonti, poi Calderoli. Per avere chiarimenti su quanto sta accadendo sul federalismo. E per avere ancora una volta garanzie sulla "fedeltà" del suo ministro. Come lo stesso "amico Giulio" ha spiegato a un Silvio sempre più diffidente, il federalismo ha ora due nodi.

Il primo nodo è di natura "tecnica". Lo ha sollevato l'Anci, ed è un nodo complesso, anche se forse non inestricabile. Lo ha illustrato Sergio Chiamparino, sindaco di Torino e presidente dell'Anci, al telefono con lo stesso Tremonti: "Caro Giulio, voi avete drasticamente peggiorato il testo. Noi non possiamo accettare che a regime la nuova aliquota dell'Imu sia determinata attraverso la Legge di Stabilità. Se le cose stanno così, per il 2011 almeno la quota Irpef e l'imposta di soggiorno devono restare di competenza dei Comuni, altrimenti noi non possiamo neanche chiudere i bilanci. E se c'è un tributo la cui aliquota è fissata anno per anno dal governo, noi saremo costretti ogni volta a venire a Roma con il cappello in mano. E questo per noi è inaccettabile". Per questo, come ha annunciato Calderoli e poi ha confermato Bossi, il governo concederà una proroga sui tempi di approvazione del decreto sul federalismo municipale. "Siamo pronti a venire incontro alle esigenze dei sindaci - è il ragionamento di Tremonti - e quanto meno sul piano della tempistica siamo d'accordo a concedere un margine per una riflessione ulteriore". Gli enti locali, per ora, incassano questa disponibilità: "Vedremo se ci ascolteranno - aggiunge Chiamparino - perché per noi la questione, benché tecnica, è dirimente. Se i decreti non cambiano, saltano i bilanci dei Comuni. Questo non è federalismo, è un suicidio".

Il secondo nodo è invece di natura politica. Ed appare più insidioso e ingarbugliato. Nasce dalla sterzata del Terzo Polo, che ha deciso di mettersi di traverso e di esprimere parere contrario, se non saranno recepite le modifiche richieste ai decreti. "Perché Casini e Fini hanno deciso all'improvviso di cavalcare il no al federalismo, insieme alle opposizioni?", si chiedeva ieri sera Berlusconi, nel vertice con Calderoli e Tremonti. "Dobbiamo ragionare sulle mosse del Terzo Polo, altro che crogiolarsi sull'appoggio della Terza Gamba", è l'opinione dei ministri. E la strategia dei centristi ha in effetti cambiato in pochi giorni il quadro politico: "Prima sono passati dal Patto di pacificazione alle elezioni anticipate. Ora dicono no al federalismo, radicalizzano lo scontro e si ricompattano almeno su questo con il Pd. Tutto questo come si spiega, se non con il tentativo di dividere Berlusconi da Bossi, e magari di profilare alla Lega un patto implicito sul dopo-Berlusconi?". Questa era la domanda che circolava ieri sera tra i ministri forzaleghisti.

Allo stato attuale, con questo scarto terzopolista e con il passaggio di Mario Baldassarri all'opposizione, la maggioranza rischia di non avere i numeri per far passare i decreti delegati in Commissione Bicamerale. Sicuramente non li ha in Commissione Bilancio. Questo, per Bossi, è un campanello d'allarme. E per questo il Senatur si dichiara disponibile a trattare, ma a questo punto non si può più precludere altre soluzioni. Ripete che "se salta il federalismo si va a votare". Ma può essere tentato di aprire una trattativa con l'opposizione. "Umberto sarà leale fino all'ultimo minuto con Berlusconi - ripete un ministro che lo conosce meglio di chiunque altro - ma se vede che il federalismo è a rischio ci mette un minuto ad allargare gli orizzonti. E poi, per lui, il fascino degli amministratori comunisti è sempre forte...".

Al di là delle battute sui "comunisti", quanto è realistica l'ipotesi che si apra un dialogo tra Lega da una parte, Pd e Terzo Polo dall'altra, e che il federalismo diventi la merce di scambio per chiudere una volta per tutte la stagione berlusconiana? La suggestione c'è. Ma c'è anche la preoccupazione. Sul versante del centro, almeno allo stato attuale, i finiani hanno giurato che non farebbero mai patti di maggioranza o cartelli elettorali con il Pd. La stessa cosa hanno assicurato i casiniani, che non reggono accordi con un'opposizione allargata a Vendola e Di Pietro. Sul versante della sinistra, il Pd non sa se fidarsi né della Lega, né del Terzo Polo. "Io - riflette il leader Pierluigi Bersani - sono pronto ad offrire a Bossi la garanzia che oggi il Cavaliere non è in grado di dargli, cioè l'attuazione del federalismo, ma al momento mi pare che i due siano legati da un patto di sangue praticamente inossidabile". La stessa cosa vale per Casini e Fini: "Gli ho fatto la mia proposta di Alleanza costituzionale, più di quella non so che possiamo fare. Ora sta a loro fare un passo concreto, e non limitarsi più agli anatemi contro il Cavaliere".

Lo stesso ragionamento lo fa il capogruppo Dario Franceschini: "La Lega, come anche il Terzo Polo, sa bene che noi siamo pronti a tutto, pur di mettere fuori gioco Berlusconi. La stessa cosa la sa anche Tremonti. Il problema è che sia al centro che a destra tutti ripetono che è finita e che così non si va avanti, ma tutti aspettano chissà quale intervento divino, che faccia accadere il miracolo. Invece il miracolo va costruito, non solo evocato...". E per adesso è proprio questo che manca. La costruzione del "miracolo". Ma una cosa è certa: se c'è un "cantiere" possibile, questo è proprio il federalismo.
m.giannini@repubblica.it

(21 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/21/news/incubi_cavaliere-11473773/?ref=HREC1-2
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« Risposta #168 inserito:: Gennaio 24, 2011, 10:10:40 pm »

Chi tocca i fili muore


Dopo un brevissimo periodo di tregua, le macchine del fango del presidente del Consiglio hanno ricominciato a fulminare chiunque si azzardi a criticare, a obiettare, a dissentire. Il caso più eclatante è quello di Emma Marcegaglia 1. Domenica sera, sulla poltrona di Fabio Fazio a "Che tempo che fa", il presidente di Confindustria si è limitata a certificare l'ovvio: "Da sei mesi a questa parte l'azione dell'esecutivo non è sufficiente". Un giudizio fin troppo generoso, persino paludato. L'ultimo provvedimento "qualificante" (ammesso che lo si voglia considerare tale) transitato per il Consiglio dei ministri, è stato la Legge di Stabilità. Data del varo: 28 maggio 2010. Da allora encefalogramma piatto. L'azione di governo non è stata "insufficiente", come sostiene la Marcegaglia. È stata nulla, se si esclude il frenetico ma inutile lavorio intorno ai decreti attuativi del federalismo, che ancora non hanno ottenuto il via libera dei comuni.

Ma al leader degli industriali verrebbe da chiedere: prima degli ultimi sei mesi cos'altro ha fatto di buono il governo Berlusconi? Siamo ancora fermi al giudizio positivo sulla tremontiana "tenuta dei conti pubblici"? La tenuta c'è stata. Ma accontentarsi è davvero ridicolo per una borghesia produttiva che vuole essere l'avanguardia della modernizzazione: dalla crisi del 2007 il mondo è cambiato, e noi abbiamo
avuto l'unico merito di restare fermi, mentre i governi di tutto il pianeta hanno costruito piani di emergenza e di rilancio dei quali non c'è traccia in questo Paese. Siamo ancora fermi ai "passi avanti" della legge Gelmini sull'università? Non prendiamoci in giro da soli: qui non c'entrano le violenze degli studenti o le resistenze dei professori, c'entra l'oggettiva pochezza di una "riforma" che non basterà affatto a riqualificare l'istruzione dei primi perché non rilancerà la formazione dei secondi. Siamo ancora fermi "all'estensione" della cassa integrazione in deroga? Non siamo patetici: questo è un Paese con un sistema di protezione sociale che lascia scoperto un terzo dei suoi "occupati", i più giovani, i più precari, e dunque i più deboli e i più esposti alle criticità del ciclo economico.

E allora? Che altro si può ricordare, delle straordinarie realizzazioni del "governo del fare" nel corso di questa legislatura? La detassazione al 10% degli straordinari, che avrebbe avuto un minimo di senso in una fase di boom economico ma che non ha alcuno in un momento di crisi, quando nessun lavoratore fa straordinari perché le aziende chiudono e licenziano? Eppure, nonostante questi pietosi silenzi confindustriali, è bastata un'osservazione minimamente perplessa della Marcegaglia per esporla all'attacco immediato delle bocche di fuoco del premier. "Il Giornale" la descrive come "la maestrina dalla penna rossa che parla per nascondere il suo fallimento". Lo stesso trattamento è riservato a Lucia Annunziata, "rea" di aver intervistato a "In mezz'ora" Emilio Fede, rivolgendogli domande circostanziate sul contenuto delle intercettazioni che lo vedono fervido "animatore" dei festini di Arcore e accurato "selezionatore" delle ragazze più gradite al padrone di casa. "Annunziata guardona radical chic", è allora l'insulto sparato in prima pagina dal giornale contro la ex presidente della Rai. E la stessa sorte tocca a Giovanni Floris, colpevole di condurre un talk-show "non allineato": "Ballarò inventa una finta escort", titola in apertura il quotidiano di famiglia, che manipola la notizia, attribuendo al programma di Raitre un'immagine fotografica pubblicata dal Daily Mail.

Le macchine del fango sono in moto, e "lavorano" a pieno regime. Si consumano nuove vendette contro lo scrittore Roberto Saviano. Si preannunciano nuove puntate sugli affari immobiliari di Gianfranco Fini. Si profila insomma una "seconda ondata" di discredito a mezzo stampa, contro chiunque non si esprima secondo il Pensiero Unico Berlusconiano. Chi è dentro è salvo, chi è fuori non ha scampo. Questo è il Pdl: un Popolo, nessuna Libertà.

(24 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #169 inserito:: Gennaio 28, 2011, 11:30:43 am »

IL COMMENTO

La notte della repubblica

di MASSIMO GIANNINI

Questa è la notte della Repubblica. La crisi del berlusconismo precipita il Paese nel "conflitto istituzionale permanente". Parlamento contro Procure. Presidente del Consiglio contro presidente della Camera. Palazzo Madama contro Montecitorio. Ministro degli Esteri contro terza carica dello Stato. Nessuna delle istituzioni repubblicane è ormai più al riparo.

In questa disperata guerra per la sopravvivenza dichiarata al resto del mondo, il Cavaliere è ormai pronto ad usare tutte le armi possibili. Bugie pubbliche e forzature politiche. Abusi di potere e dossier avvelenati. È la "strage delle regole". Tutto quello che avviene è ai margini o al di fuori del sistema delle norme codificate. Lo è lo spettacolo andato in onda alla Camera, dove la Giunta per le autorizzazioni a procedere ha deciso di rinviare a Milano gli atti dell'inchiesta su Ruby, stabilendo una singolare competenza: quella del Tribunale dei ministri che giudica nel "merito" delle accuse. Lo è lo spettacolo andato in onda al Senato, dove Franco Frattini si è trasformato per un quarto d'ora in un pubblico ministero, emettendo una sua singolare "sentenza": il governo ha la prova che inchioda Gianfranco Fini sulla famosa casa di Montecarlo.

La logica politica che c'è dietro queste mosse incrociate è chiarissima. Si tratta di stabilire una rocambolesca inversione di ruoli e di responsabilità, agli occhi di un'opinione pubblica sempre più "sgomenta", per usare
un termine condiviso da Giorgio Napolitano e Joseph Ratzinger. Non è il presidente del Consiglio che si deve dimettere per lo scandalo dei suoi "festini selvaggi" nella residenza di Arcore. È invece il presidente della Camera che si deve dimettere per lo scandalo della residenza monegasca svenduta sottobanco al cognato.
È una strategia collaudata: l'uso delle "armi di distrazione di massa", con le quali il premier e la sua "struttura delta" (fatta di manipolatori mediatici ed esecutori politici) cercano di destrutturare i fatti, confondere i piani, invertire le priorità. Sono pronti a tutto. Nel caso specifico, anche ad acquisire attraverso il ministero degli Esteri una presunta documentazione aggiuntiva proveniente dallo Stato offshore di Santa Lucia, che attesterebbe appunto l'effettiva titolarità dell'immobile di Montecarlo, di cui il vero proprietario sarebbe proprio Giancarlo Tulliani. Come e perché sono stati acquisiti i nuovi documenti? A che titolo la Farnesina li ha ottenuti, essendo aperta un'inchiesta giudiziaria della Procura di Roma ed essendo in questi casi prevista la "via normale" delle rogatorie?

Non c'è risposta a queste domande. Non sappiamo se abbia ragione l'avvocato di Fini, Giuseppe Consolo, che invece dice di avere la prova contraria. Non sappiamo se abbia ragione quell'esponente di Futuro e Libertà che ha denunciato Frattini per abuso d'ufficio. Non sappiamo se abbia ragione Italo Bocchino, che accusa Berlusconi di essere il mandante di questo ennesimo episodio di "dossieraggio". Sappiamo con certezza, e lo ripetiamo per l'ennesima volta, che il presidente della Camera avrebbe dovuto gestire in modo più chiaro questa vicenda, e che non potrebbe restare un minuto di più al suo posto là dove fosse effettivamente provata l'appartenenza di quella casa al fratello della sua compagna. Perché così gli impone l'etica pubblica di cui si dice portatore. E perché così ha promesso solennemente dal settembre 2010.

Ma sappiamo soprattutto un'altra cosa. In questo clima di guerra totale, il Paese non può reggere. Lo dice il Capo dello Stato: a chi gli ha parlato, in queste ore, Napolitano confessa la sua "grande preoccupazione" per questo "conflitto istituzionale permanente" che si è creato e che rischia di travolgere tutto. Proprio alla vigilia dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, alla quale il presidente della Repubblica parteciperà oggi in silenzio ma con "profonda inquietudine", vista l'offensiva contro la magistratura lanciata dal premier, dalla sua maggioranza e dai suoi giornali.

Il sistema istituzionale è al collasso. Il sistema politico è allo sfascio. Berlusconi è la causa di questa progressiva disgregazione democratica, che culminerà addirittura in una manifestazione organizzata dal Pdl per il prossimo 13 febbraio alla quale parteciperà il premier in persona. Un capo del governo che scende in piazza per protestare contro un altro potere dello Stato. Una cosa mai vista.
 Per questo, prima che lo faccia il presidente della Camera, è molto più urgente che si dimetta il presidente del Consiglio. Poi accada quel che deve. Compreso il voto anticipato, se non c'è altra soluzione. Al punto in cui siamo, forse, le elezioni non sono più una minaccia, ma una necessità.

(28 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #170 inserito:: Febbraio 04, 2011, 06:07:11 pm »

La Lega democristiana

di MASSIMO GIANNINI

"Federalismo o morte", grida da mesi Umberto Bossi, brandendo la spada di Alberto da Giussano. Ma adesso che il federalismo muore, il leader della Lega rincula, ripiega. E balbetta, come l'arcitaliano di Mino Maccari: "O Roma o Orte". Nel gorgo in cui sta affondando il Cavaliere, dunque, sembra risucchiato anche il Senatur. Non solo il Carroccio non rompe, dopo il "pareggio" in Parlamento sul decreto federalista. Ma prova a tirare a campare, al fianco di un premier sempre più disperato. E così, a sua volta, accetta il rischio di tirare le cuoia.

La giornata di ieri segna un altro passo verso il baratro. C'è un baratro nel quale precipitano le regole democratiche. Sulla drammatica scena del crepuscolo berlusconiano accade un'altra cosa mai vista. Un decreto, respinto da una Commissione bicamerale, viene riapprovato nella stessa formulazione dal Consiglio dei ministri. Il potere esecutivo, con un suo atto d'imperio, annulla il potere legislativo. Siamo all'ennesima "lesione" ordinamentale, voluta da un centrodestra che supplisce alla debolezza aritmetica con la scelleratezza politica. Davvero una "situazione senza precedenti", per usare le parole di Gianfranco Fini.
C'è un baratro che si avvicina per la maggioranza. Il "15 a 15" registrato nella "Bicameralina" è solo in apparenza un pareggio, ma in realtà è una sconfitta. È una sconfitta tecnica, perché quel testo, benché riscritto da Tremonti e Calderoli, non soddisfa né
le opposizioni né i sindaci. Dall'Imu alle addizionali Irpef, dalle tasse di scopo a quelle di soggiorno: la presunta "riforma federale" nasconde in realtà una stangata epocale. E nell'attesa messianica del secondo decreto, quello sul federalismo regionale, non si sa nulla del fondo di perequazione e dei costi standard delle prestazioni.

La sconfitta è anche politica. La maggioranza può anche considerare una rivincita il voto successivo dell'aula di Montecitorio sul rinvio alla procura di Milano degli atti relativi allo scandalo Ruby. Ma c'è poco da festeggiare. L'operazione di allargamento non ha prodotto risultati. Lo dice la matematica. Il 14 dicembre la fiducia al governo è passata con 314 voti. Il 19 gennaio la relazione di Alfano sulla giustizia è passata con 303 voti. Il 26 gennaio la mozione di sfiducia a Bondi è stata respinta con 314 voti. Ieri il no ai pm è passato con 315 voti. Nonostante la vergognosa compra-vendita tra lombardisti pentiti e futuristi delusi, la macchina da guerra Pdl-Lega non sfonda.
Con questi numeri non si governa. Si può superare per miracolo la prova di una fiducia, con un governo "militarizzato" e presente in aula con tutti i suoi effettivi. Ma basta un voto qualsiasi, per esempio sul decreto legge mille-proroghe presto all'esame di Montecitorio, e si perde. Si può galleggiare per qualche settimana o qualche mese. Ma con la certezza di andare a fondo, prima o poi. Il voto della Commissione bicamerale lo dimostra: la maggioranza forzaleghista non ha i numeri per far passare il decreto federalista. Se non al prezzo di un clamoroso colpo di mano, di un doloroso strappo ai principi della Costituzione e ai regolamenti parlamentari.

Ma c'è un baratro nel quale si sta ormai lasciando cadere soprattutto la Lega. Solo ieri notte Bossi usciva dal lungo vertice a Palazzo Grazioli rilanciando il suo grido di battaglia: se non passa il decreto sul federalismo si va a votare. È stato il "mantra" ripetuto ossessivamente, fin dal giorno della rottura di Futuro e Libertà. È stato il patto che ha legato le sorti del Senatur a quelle del Cavaliere: la partecipazione al governo in cambio dell'attuazione del federalismo. Non c'è il primo se non c'è il secondo: questo è il senso della strategia leghista di questi mesi. Ora questa strategia sembra sbiadita, confusa, tradita. Il federalismo non c'è, ma Bossi abbozza e dice "si va avanti".

In questo suo atteggiamento indulgente e "resistente" deve esserci sicuramente una profonda riconoscenza umana e personale nei confronti di Berlusconi. Ma persino la politica, alla fine, esige una sua coerenza. Il Carroccio sta pagando un costo sempre più alto, per puntellare un presidente del Consiglio sempre più debole. Lo certificano i sondaggi, che da tre settimane non fotografano più una Lega con il vento nelle vele. A parlare con i sindaci, ad ascoltare Radio Padania e a leggere la Padania, si percepisce uno smarrimento crescente. I militanti manifestano una forte insofferenza per gli scandali privati del Cavaliere. Ma avrebbero tollerato, di fronte alla contropartita pubblica del federalismo. Se adesso anche questa viene a mancare, al Carroccio non resta nulla da spartire in questa ennesima avventura a fianco del Sultano di Arcore.

Bossi, pur nel travaglio della malattia che lo colpito e fiaccato, non ha mai perso il profilo da combattente indomito e "rivoluzionario". Ha sempre incarnato il mito del capo di un movimento pre-politico, nato per il cambiamento e per l'affrancamento dal Palazzo. Da ieri quel profilo è intaccato, e quel mito violato. Il Senatur tratta e ritratta, subisce e patisce. Come un doroteo qualsiasi. Può accettare un simile snaturamento del suo partito, senza incassare neanche il dividendo pattuito e senza cominciare a guardare ad un orizzonte politico più ampio? Può sventolare ancora il suo logoro vessillo federalista, senza poterlo concretamente piantare in una Padania non più immaginaria, ma finalmente reale? Fino a che punto può seguirlo il suo "popolo", che sognava la terra promessa e si ritrova nella palude berlusconiana? Sono domande che un "animale politico" come lui non può eludere ancora a lungo. A meno che Bossi il Padano, per eterna fedeltà all'amico Silvio, non abbia deciso di "morire democristiano".

(04 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/02/04
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« Risposta #171 inserito:: Febbraio 11, 2011, 10:29:52 pm »

IL COMMENTO

La struttura Delta

di MASSIMO GIANNINI


Gli storici prendano nota. Ieri, per la prima volta, si è riunita in chiaro, alla luce del sole, la Struttura Delta.

Le "guardie armate" del presidente del Consiglio nella carta stampata e nella tv.

Giuliano Ferrara, direttore del Foglio, Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, e Claudio Brachino, direttore di Videonews-Mediaset. Convocati direttamente da Silvio Berlusconi, non più nella magione privata di Arcore, a Villa San Martino. Ma nella sede governativa di Roma, a Palazzo Grazioli. Per mettere a fuoco lo "spin" comunicazionale, con il quale il Cavaliere cercherà di riscrivere ancora una volta a suo vantaggio il "palinsesto" politico-mediatico dell'intera nazione. E per mettere a punto la controffensiva violenta, con la quale cercherà di distruggere la magistratura, la libera stampa, l'opposizione parlamentare e sociale.

Dunque, la drammatica torsione democratica del berlusconismo declinante ci consegna l'ennesima, incredibile "epifania". Politica e giornalismo piegati insieme, nello stesso tempo e nello stesso modo, per sovvertire codici normativi e aziendali. Per propiziare atti "sediziosi" e inquinare fatti incontrovertibili. La Struttura Delta, come questo giornale l'aveva "battezzata" nel novembre 2007 mutuandola da Joseph Conrad, esiste da anni. È stata una delle prime intuizioni del premier-tycoon, che invece di risolvere il suo enorme conflitto di interessi, l'ha ingigantito e sfruttato fino in fondo per mettere in moto la più micidiale
e pericolosa macchina di fabbricazione del consenso mai concepita in una normale democrazia europea. Capo del governo (perciò sovrano delle tre reti pubbliche Rai) e insieme padrone delle tre grandi reti private Mediaset, Berlusconi ha capito subito che ciò di cui aveva sommamente bisogno, per gestire il consenso, era servirsi del suo "inner circle" manageriale, pubblicitario e giornalistico, per dettare l'agenda al Paese. Creare una "squadra", cioè, nella quale la più grande agenzia newsmaker della nazione, cioè il governo stesso, potesse dettare "i titoli" della giornata all'intero network televisivo-informativo italiano. Per cancellare quelli dannosi, per nascondere quelli scomodi, per enfatizzare quelli utili alla propaganda "di regime". Questa vergognosa versione italiana del Grande Fratello orwelliano l'abbiamo vista all'opera quattro anni fa, all'epoca del cosiddetto scandalo Rai-Set. Attraverso un'inchiesta sul fallimento della Hdc di Luigi Crespi, la Guardia di Finanza scoperchiò la "rete" inquietante di connivenze e complicità tra manager, dirigenti e giornalisti del servizio pubblico e dell'impero privato del premier (da Agostino Saccà a Deborah Bergamini) grazie alle quali si arrivò al punto di occultare, nei tg della sera e della notte, i risultati negativi di Forza Italia alle elezioni del 2006.

Da allora la Struttura Delta ha continuato a lavorare. Sempre a pieno regime. Basta vedere il Tg1 o il Tg5, per non parlare del Tg4 e dell'infinita varietà di programmi che le reti "ammiraglie" del servizio globale Rai-Set trasmettono nelle ore più impensate del giorno (Mattino 5, La vita in diretta, Pomeriggio sul 2). Ed ha anche affinato i suoi strumenti, in una spirale sempre più cinica e violenta che ha trasformato la macchina del consenso in macchina del fango. Incrociando sempre più spesso le televisioni e i giornali. Basta vedere il linciaggio al quale si sono dedicati i mass-media "di famiglia", dal Giornale a Panorama, contro chiunque abbia criticato il Cavaliere: da Dino Boffo a Gianfranco Fini. Anche un mese fa, il 17 gennaio per la precisione, la Struttura Delta si era riunita, in pieno scandalo Ruby. Dopo il consueto pranzo del lunedì ad Arcore con l'inseparabile Fedele Confalonieri e i figli Piersilvio, Marina e Luigi, il premier aveva convocato per un caffè l'intera squadra dei suoi "spin": l'onnipresente Mauro Crippa, direttore generale dell'informazione a Mediaset e primus inter pares della Struttura, l'immancabile Alfonso Signorini, direttore di Chi, ancora Sallusti, e poi il direttore di Panorama Giorgio Mulè e il direttore delle relazioni esterne di Fininvest Franco Currò.

I risultati di quel vertice "privato" sono stati almeno tre. L'intervista di Ruby alla trasmissione Kalispera su Canale 5, nella quale la ragazza marocchina ritratta tutto ciò che aveva detto nelle intercettazioni e nelle comunicazioni rese ai pm di Milano. La discesa in campo delle "ministre" a difesa del Cavaliere: la Gelmini a Porta a Porta, la Carfagna a Matrix e la Santanché ad Annozero. La valanga di videomessaggi autoassolutori e intimidatori dello stesso premier alla tv o ai Promotori della Libertà.

Ora, nella fase più disperata per il presidente del Consiglio, c'è un ulteriore salto di qualità. La Struttura Delta si riunisce direttamente nella capitale, a Palazzo Grazioli. In una inaccettabile sovrapposizione di ruoli e di funzioni, il capo del governo convoca i suoi referenti e i suoi dipendenti, portando ancora una volta alla ribalta, ma stavolta in campo aperto, il velenosissimo conflitto di interessi che intossica politica e informazione. Insieme, il premier e il suo anomalo "think tank" elaborano le offensive politiche e organizzano le offensive mediatiche. Il Pdl non esiste più (ammesso che sia mai esistito). Il partito, come filtro della rappresentanza democratica, è definitivamente scavalcato e surrogato dalla Struttura Delta. La "squadra degli spin" diventa un vero e proprio "gabinetto di guerra". Dove i giornalisti, dopo aver indossato la "mimetica" a Palazzo Grazioli, tornano in redazione a scrivere editoriali ispirati e a dettare cronache addomesticate.

Anche in questo caso, i risultati si vedono. Sono due, per adesso. Il primo: Giuliano Ferrara intervista Berlusconi sul Foglio, lo fa urlare contro "il golpe morale", gli fa dire che "il popolo è il mio giudice ultimo", e che quelle di Milano sono "inchieste farsesche, degne della Ddr". Giusto la sera prima, all'improvviso, la Rai aveva deciso di cambiare il palinsesto, per trasmettere sulla Rete Due Le vite degli altri, il film in cui Von Donnersmarck racconta le tragedie umane prodotte dai metodi spionistici della Stasi, la polizia segreta della Germania comunista di Honecker. Qualcuno può pensare che sia stato solo un caso? Il secondo: ancora Ferrara irrompe alle otto al Tg1 di Augusto Minzolini, parla per sei minuti filati (un tempo televisivo infinito) attacca "il gruppo Espresso di De Benedetti e dei professoroni del Palasharp, che vogliono abbattere il governo con metodi extraparlamentari", e spara a zero contro "il puritanesimo brutale che vuole tagliare la testa al re".

Cos'altro faranno il Giornale di Sallusti e le News Mediaset di Brachino lo scopriremo solo oggi e nei prossimi giorni. Cos'altro ha fatto e farà ancora la Struttura Delta, al riparo dall'ufficialità e dalle coincidenze che possiamo ricostruire solo ex post, forse non lo scopriremo mai. Ma intanto il nuovo "palinsesto", politico e giornalistico, è scritto. Nel cuore ferito dell'immenso conflitto di interessi berlusconiano, il "gabinetto di guerra" ha deciso di combattere la battaglia decisiva, forse l'ultima. Gli "assaltatori" sono all'opera. Contro la verità. Contro la responsabilità. Contro la dignità. E poi c'è ancora chi dice che questa non è una vera "emergenza democratica".

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(11 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #172 inserito:: Febbraio 13, 2011, 02:46:24 pm »

Tremonti, l'uomo avvisato...

di MASSIMO GIANNINI

L'azione parallela della Struttura Delta berlusconiana si sviluppa su due fronti. C'è una prima linea: l'offensiva violenta e visibile contro i nemici esterni, dalla magistratura alla libera stampa. C'è una seconda linea: l'attacco concentrico e meno visibile contro i nemici interni, dai pidiellini dissidenti ai ministri renitenti. Tra questi ultimi brilla Giulio Tremonti. Le sue colpe: non aver sostenuto con il necessario entusiasmo la "scossa all'economia" varata dal governo, non aver partecipato con l'opportuna solerzia alla difesa del capo-animatore dei festini di Arcore. Da allora è nel mirino del "gabinetto di guerra". "Il Giornale" di Sallusti: "Cresce l'insofferenza verso il ministro Tremonti che troppo spesso rema contro". "Il Foglio" di Ferrara: "Ministro Tremonti, parliamoci chiaro: se lei non crede alla frustata lo dica all'Italia e se ne assuma l'onere". "Il Tempo" di Sechi: "Il ministro Tremonti fa le prove da premier". E' la battaglia finale, e la Struttura Delta non fa prigionieri. Né tra gli avversari, né tra gli alleati. Giulio è avvisato.

m.gianninirepubblica.it


(13 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da repubblica.it
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« Risposta #173 inserito:: Febbraio 13, 2011, 02:47:21 pm »

La clava di Ferrara

di MASSIMO GIANNINI

LA FASE del "berlusconismo da combattimento", concordata due giorni fa a Palazzo Grazioli dalla Struttura Delta, passa per la penna e la clava di Giuliano Ferrara. Non pago di aver lanciato il primo affondo al Tg1 di giovedì sera, con sei minuti netti di telecomizio pro-Cavaliere, ieri sera il direttore del "Foglio" ha piazzato il secondo colpo sul Tg5. Nuova offensiva contro il "golpe puritano" dei nemici del premier: pubblici ministeri, libera stampa, "culturame" da Palasharp. Stavolta più concisa, poco meno di tre minuti. Ma ben impacchettata: tra un'intervista alla Santanché che tuona contro "gli inciuci dei palazzi di ingiustizia" e un servizio sul sit-in dei 200 pidiellini che inveiscono contro la "magistratura rossa" (dal quale sono debitamente censurate le proteste dei passanti che gridano "vergognatevi" ai manifestanti).

È chiaro lo "spin" diramato al network informativo-televisivo: sostenere la manifestazione organizzata per oggi dallo stesso Ferrara contro la giacobina "Repubblica della virtù che vuole abbattere Berlusconi". Silenziare, in parallelo, la manifestazione a difesa della dignità delle donne, organizzata per domani in 200 piazze d'Italia. Nessun Tg ne parla. Come esige il "gabinetto di guerra": l'ordine è stato eseguito.

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(12 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #174 inserito:: Febbraio 16, 2011, 04:54:14 pm »

Il depistaggio fotografico

di MASSIMO GIANNINI

La Struttura Delta dosa con sapienza le due armi strategiche della sua propaganda. Hard-power e soft-power. Con il primo mette all'angolo il Quirinale. Con il secondo manipola l'immaginario collettivo. L'uso delle fotografie è essenziale allo scopo. Qui la filiera corre tra Alfonso Signorini (che veicola su Chi le immagini costruite "a discolpa" del Cavaliere, dal falso fidanzato di Noemi Letizia in poi) e Alessandro Sallusti (che compra le foto dell'amica di Noemi, Roberta Oronzo, sul capodanno 2008/2009 a Villa Certosa). Il Giornale le pubblica. Sabato Noemi e Roberta con il premier in un brindisi innocente. Domenica Roberta in jeans e maglione su un anonimo sofà a fiori rosa da mobilificio Rossetti. Lunedì istantanee di una banale tavolata (in sinergia con Pomeriggio 5, alias Claudio Brachino). Titolo: "I party del Cavaliere: ecco le foto che scandalizzano i guardoni". Ultimo "scoop": il dagherrotipo di un Vendola del '79 in un campo nudisti. Lo "spin" è: i festini selvaggi del premier non sono mai esistiti se non nella mente malata dei pm rossi, e comunque tutti hanno qualche scheletro nell'armadio. È la prima variante alla legge di Truman: se non puoi giustificare, mistifica.

(16 febbraio 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #175 inserito:: Febbraio 17, 2011, 12:30:57 pm »

Le bolle mediatiche


"Shock and awe". Come le teste di cuoio americane, le teste d'uovo berlusconiane si specializzano in operazioni-lampo che colpiscono l'attenzione pubblica, distogliendola da un tema o dirottandola su un altro. Ma al culmine del Rubygate, in tre casi la Struttura Delta ha mancato l'obiettivo. Primo caso: la misteriosa "fidanzata" di Berlusconi. Il 15 gennaio annuncio del premier ai Promotori delle Libertà, rilanciato dal network di famiglia Studio Aperto-Tg4: "Da quando mi sono separato ho avuto uno stabile rapporto d'affetto con una persona...". Per due giorni il toto-fidanzata impazza e oscura il bunga-bunga. Chi sarà la prescelta? Poi il tema si inabissa per palese "inesistenza del soggetto". Secondo caso: l'operazione "scossa all'economia", che deve rilanciare l'azione di governo. Dura un giorno, poi svanisce per "inconsistenza dell'oggetto". Terzo caso: l'allarme immigrati. Il Cavaliere fa un blitz a Lampedusa, per dimostrare che mentre i pm milanesi spiano nella sua camera da letto lui risolve l'emergenza umanitaria. Ma poi, per evitare domande sul processo, diserta persino la conferenza stampa. A forza di pompare, anche le bolle mediatiche scoppiano.

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(17 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #176 inserito:: Febbraio 20, 2011, 10:22:16 am »

Torna il "trattamento Mesiano"

di MASSIMO GIANNINI

Pare che gli addetti alla Struttura Delta lo chiamino il "trattamento Mesiano", lo sventurato giudice della sentenza che ha condannato Fininvest a pagare 750 milioni alla Cir per l'affare Mondadori, spiato dalle telecamere di "Mattino 5" e sbeffeggiato per i suoi "calzini celesti". Capolavoro di giornalismo costato una sospensione a Claudio Brachino, direttore delle News Mediaset. Ora ci risiamo. I "killer politici" del Cavaliere cercano di screditare i magistrati del Rubygate. Hanno cominciato con la Boccassini, poi con le tre toghe selezionate dal Tribunale di Milano per formare il collegio. Titoli dei Tg Rai-Set e dei giornali di famiglia: "Curiosità: tre donne sono state scelte per giudicare Berlusconi su una vicenda che riguarda altre donne". Come dire: la corporazione è "di genere", lo condannerà per forza. Ora i "guastatori della Libertà" alzano il tiro. Libero di ieri: "Andava in piazza contro Silvio: ora lo giudicherà. Imparziale?". Articolo corrosivo contro Orsola De Cristofaro, che con Carmen D'Elia e Giulia Turri dovrà emettere la sentenza. La sua "colpa": una foto che la ritrae con un cartello su cui è scritto "Costituzione della Repubblica italiana". E' solo l'inizio. Da qui al 6 aprile la macchina del fango ne produrrà a tonnellate.
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(20 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #177 inserito:: Febbraio 21, 2011, 10:44:30 am »

IL COMMENTO

Atti sediziosi

di MASSIMO GIANNINI


L'Italia precipita in una rovinosa "democrazia del conflitto". Come è evidente, si fronteggiano due forze. Da una parte c'è lo Stato, con le sue ragioni e le sue istituzioni. Il simbolo dello Stato, oggi più che mai, è Giorgio Napolitano. Dall'altra parte c'è l'Anti-Stato, con le sue distorsioni e le sue convulsioni. Il paradigma dell'Anti-Stato, ormai, è Silvio Berlusconi. Dall'esito di questa contesa dipenderà l'assetto futuro del nostro sistema politico e costituzionale. La giornata di ieri fotografa con drammatica evidenza questa contrapposizione irriducibile tra due modi diversi di vivere la cosa pubblica e di interpretare il proprio ruolo nella "polis". Il capo dello Stato, in un'intervista al settimanale tedesco Welt am Sonntag, tenta di ricucire il tessuto lacerato delle istituzioni.

Si fa interprete dell'esigenza di responsabilità che si richiede alla politica e del bisogno di normalità che chiede il Paese. Si fa ancora una volta custode della Costituzione. Non per conservarla staticamente, ma per farla agire dinamicamente nella naturale dialettica tra i poteri. Questo vuol dire Napolitano, quando parla dei processi del premier osservando che si svolgeranno "secondo giustizia": il nostro sistema giurisdizionale, incardinato coerentemente nel meccanismo della garanzia costituzionale, gli permetterà di difendersi davanti ai tribunali, di far valere le sue ragioni di fronte ai suoi giudici naturali. Si tratta solo di riconoscere la legittimità dell'ordinamento
giuridico e la validità dei suoi codici.

Si tratta solo di accettare l'irrinunciabilità di un principio che sta alla base della convivenza civile: la legge è uguale per tutti, tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. In altre parole, si tratta solo di riconoscere lo Stato di diritto, di difenderlo come una missione, e non di subirlo come una maledizione.

Invece è proprio questo che Berlusconi ha fatto e continua a fare. Il capo del governo, nel suo ormai rituale messaggio domenicale ai promotori della libertà, fa l'esatto opposto di quello che ha fatto e continua a fare Napolitano. Allarga lo strappo istituzionale, esaspera lo scontro tra i poteri, rilancia le "riforme della giustizia" a una sola dimensione: non quella dei cittadini, che chiedono un sistema giurisdizionale più equo, più rapido e più efficiente, ma quella del premier, che esige una magistratura umiliata, delegittimata e subordinata alla politica. Spaccare il Csm, separare le carriere, stravolgere i criteri delle selezioni dei giudici della Consulta, reintrodurre l'immunità parlamentare come mezzo per assicurarsi l'impunità politica, rilanciare la legge  -  bavaglio per negare ai pm l'uso di un prezioso strumento investigativo come le intercettazioni e per negare all'opinione pubblica il diritto di essere informata su ciò che accade negli scantinati del potere. Tutto questo non è nobile "garantismo liberale", ma truce avventurismo politico. Non è alto "riformismo costituzionale", ma bassa macelleria ordinamentale. "Atti insensati", quelli della Procura milanese? Piuttosto sono "atti sediziosi" quelli del premier. Ed è penoso, per non dire scandaloso, che su alcuni di questi atti trovi una sponda anche nel centrosinistra, che non sa più distinguere tra le leggi varate nell'interesse di una persona e quelle varate nell'interesse della collettività.

Con queste premesse, lo Stato di diritto non si difende né si migliora: va invece abbattuto e destrutturato. Questa è oggi la posta in gioco. Questa è la portata della guerra tra il Presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio. Una guerra asimmetrica tra un capo del governo che l'ha dichiarata e la combatte ogni giorno, e un capo dello Stato che non l'ha mai voluta e ora tenta di disinnescarla. Ma in questa guerra, di qui al 6 aprile, il Cavaliere trascinerà ogni cosa. Trascinerà il governo, trasfigurato in una trincea dove l'unico motto di generali e luogotenenti è "credere, obbedire, combattere".

Trascinerà il Parlamento, trasformato nel "tribunale del popolo" che dovrà opporsi a qualunque costo al tribunale di Milano. Trascinerà il Paese, che non ha bisogno di "rivoluzioni" populiste né di pulsioni autoritarie, ma urgente necessità di una strategia per tornare a crescere, produrre ricchezza e occupazione, a offrire opportunità alle donne e futuro ai giovani. Questa è e sarà la guerra delle prossime settimane. Proprio per questo, in un momento così difficile, dobbiamo essere grati a Napolitano. Senza il suo Presidente, l'Italia sarebbe un'altra Repubblica. "Monocratica", non più democratica.

m.gianninirepubblica.it

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« Risposta #178 inserito:: Febbraio 23, 2011, 05:29:39 pm »


Massimo GIANNINI

Obiettivo peones

"Se non sopporti il caldo, non stare in cucina". Era un vecchio consiglio di Truman, ripreso ossessivamente da Hillary Clinton durante la campagna per le primarie del 2008. Il senso è: il politico che non sa reggere l'urto delle campagne politico-mediatiche organizzate contro di lui dalle "macchine del fango" avversarie fa meglio a gettare la spugna. Gianfranco Fini non getterà la spugna, ovviamente. Ma è evidente che fa molta fatica a "sopportare il caldo". La Struttura Delta l'ha capito da tempo. Per questo, pur avendolo già sfiancato con l'assedio sulla casa di Montecarlo e poi sconfitto il 14 dicembre con il voto sulla fiducia al governo, Berlusconi e i suoi "assaltatori" continuano a bastonarlo senza sosta e senza pietà. Ma il presidente della Camera è un "falso obiettivo". Il massacro politico-mediatico in pieno corso non punta a distruggere lui e i suoi colonnelli, ma a terrorizzare i suoi peones. Al gabinetto di guerra interessa poco la conversione dei Ronchi o degli Urso. Interessa moltissimo, invece, l'acquisizione dei Siliquini e dei Rosso. Le "anime perse": con quelle si vince, alla lotteria della Camera.

m.giannini@repubblica. it

(22 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #179 inserito:: Febbraio 28, 2011, 03:31:53 pm »

Missione oltretevere


"Quante divisioni ha la Chiesa?". Nella Struttura Delta, tra cui non mancano gli ex comunisti riconvertiti al credo berlusconiano, si ricordano bene la domanda cruciale di Stalin. Per un governo con nessuna politica, scarsa etica e modesta aritmetica, il recupero del sostegno Vaticano, in questo momento, è fondamentale. L'operazione è scattata nel weekend, con due mosse inequivoche. La prima: l'intervento del premier al congresso dei cristiano-riformisti, in cui si auto-condona le nottate selvagge del bunga bunga e annuncia la controffensiva da ateo-devoto, tra "politiche per la famiglia da varare entro la fine della legislatura", diniego assoluto alle adozioni per gay e single e anatema biblico contro la scuola pubblica. La seconda: ampia intervista al cardinale Bagnasco, presidente della Cei, sul "Giornale" di famiglia, in cui si affrontano i temi del momento, dal Rubygate alle intercettazioni. Ma senza una sola domanda imbarazzante e una sola risposta urticante: puro ecumenismo ecclesiastico, universale e dunque vaghissimo. Stile Don Abbondio, dall'una e dall'altra parte. Non è detto che l'operazione riesca. Ma l'obiettivo è dichiarato. Come scrive lo stesso "Giornale", il Cavaliere "tende una mano alla Chiesa", con un "assist netto a Oltretevere". Partita difficilissima, nella settimana di chiusura indagini per Nicole Minetti, Emilio Fede e Lele Mora.

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