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« Risposta #120 inserito:: Aprile 30, 2010, 06:31:10 pm » |
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IL COMMENTO
Spiegare o dimettersi
di MASSIMO GIANNINI
Non è una buona notizia per la democrazia sapere che un ministro della Repubblica è finito nell'inchiesta sulla "cricca" del G8 all'Aquila. Per questo, da garantisti, ci auguriamo che il coinvolgimento di Claudio Scajola in quella brutta storia di corruzione e malaffare si risolva in una "bolla di sapone", come si è affrettato a scommettere il premier. Ma gli elementi a carico del ministro sembrano pesanti: secondo i pm, ci sono le prove testimoniali che Scajola avrebbe usato gli assegni circolari messi a disposizione da Anemone (non si sa a che titolo) per comprare un appartamento a due passi dal Colosseo.
Profili giudiziari a parte, c'è un obbligo di chiarezza al quale un servitore dello Stato non può sottrarsi. Se il ministro si ritiene vittima di "un'intimidazione", non può limitarsi a parlare di "attacco inspiegabile": ha il dovere di spiegare se la compravendita immobiliare che lo riguarda è vera o è falsa. Se è convinto che dietro ci sia un misterioso "disegno preordinato", non può limitarsi a evocare "oscuri manovratori": ha il dovere di spiegare ciò che sa di questo "complotto" e chi sono i "complottisti". Ma se invece non è in grado di fornire al Paese queste spiegazioni, Scajola ha invece un altro dovere: dimettersi. Si chiama etica della responsabilità, ed è l'essenza della ragion politica. m. gianninirepubblica. it
(30 aprile 2010) © Riproduzione riservata da repubblica.it
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« Risposta #121 inserito:: Maggio 06, 2010, 11:58:18 pm » |
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Il rischio dell'Europa Massimo Giannini A forza di evocarla e di usarla come metafora di questa crisi finanziaria, la vera tragedia greca si è infine compiuta. Tre morti negli scontri di piazza di ieri, tre vittime innocenti, impiegati di un istituto di credito assalito dai black bloc che protestavano contro l’ Europa che impone sacrifici, lacrime, sudore e sangue. È un destino fatale che l’attacco contro una banca, luogo simbolo della tecnocrazia finanziaria, sia avvenuta nell’agora di Atene, da sempre per l’ Occidente luogo simbolo della democrazia politica. È la rivolta dei popoli contro le élite, il difficile rapporto, o spesso l’ irriducibile conflitto, tra le decisioni di pochi e le opinioni di molti. La tragedia greca, da questo punto di vista, è molto di più di un problema di tenuta dell’Unione monetaria europea. Certo, il tema di come si convive in un consesso internazionale che, per condividere la stessa valuta, deve anche condividere le stesse politiche fiscali, rimane in tutta la sua portata. Così come resta in tutta la sua gravità il rischio che questa nuova "crisi periferica" si trasformi nel collasso di un sistema, e cioè che la bancarotta della Grecia trascini nell’ abisso, attraverso il temuto contagio di cui parla da tempo l’ economista Nouriel Roubini, Paesi come la Spagna, il Portogallo, l’ Italia e, in una prospettiva di medio termine, persino la Gran Bretagna. Sarebbe non solo la fine dell’ euro, ma la fine della stessa Europa come l’abbiamo conosciuta in mezzo secolo di storia. E sarebbe anche il probabile, nuovo crollo dell’ economia mondiale, poiché il default dei debiti sovrani e il crac di un sistema bancario come quello anglosassone avrebbe riflessi immediati, e devastanti, anche sull’ economia americana e su quella asiatica. La prova che il pericolo è alle porte sta in molti indizi che si affastellano, in queste ore convulse. Sta nelle reazioni pessime della Borsa giapponese e cinese alle notizie greche. Sta nella telefonata che Obama ha fatto alla Merkel a inizio settimana, per caldeggiare l’ impegno della Germania nel piano di aiuti alla Grecia. Sta nella lettera congiunta che la Cancelliera ha scritto alla Ue insieme a Sarkozy, per chiedere all'Unione di fare tutto ciò che è necessario "per salvare l’ euro": un segnale non solo di esplicita assunzione di responsabilità dell’ asse franco-tedesco, ma anche e soprattutto di implicito allarme sul possibile tracollo dell’ Unione monetaria. Ma sullo sfondo di queste fibrillazioni finanziarie e di queste consultazioni diplomatiche, nella drammatica temperie europea incarnata dal fuoco che uccide tre persone rinchiuse in una banca brucia ancora una volta, come già accadde alla vigilia della nascita dell’ euro, un problema più generale, e per molti versi più epocale: quello della sovranità dei governi e della legittimità delle democrazie. (06 maggio 2010) http://www.repubblica.it/rubriche/market-place/2010/05/06/news/la_tragedia_del_2010-3857486/
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« Risposta #122 inserito:: Maggio 07, 2010, 10:56:18 am » |
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Il rischio dell'Europa Massimo Giannini A forza di evocarla e di usarla come metafora di questa crisi finanziaria, la vera tragedia greca si è infine compiuta. Tre morti negli scontri di piazza di ieri, tre vittime innocenti, impiegati di un istituto di credito assalito dai black bloc che protestavano contro l’ Europa che impone sacrifici, lacrime, sudore e sangue. È un destino fatale che l’attacco contro una banca, luogo simbolo della tecnocrazia finanziaria, sia avvenuta nell’agora di Atene, da sempre per l’ Occidente luogo simbolo della democrazia politica. È la rivolta dei popoli contro le élite, il difficile rapporto, o spesso l’ irriducibile conflitto, tra le decisioni di pochi e le opinioni di molti. La tragedia greca, da questo punto di vista, è molto di più di un problema di tenuta dell’Unione monetaria europea. Certo, il tema di come si convive in un consesso internazionale che, per condividere la stessa valuta, deve anche condividere le stesse politiche fiscali, rimane in tutta la sua portata. Così come resta in tutta la sua gravità il rischio che questa nuova "crisi periferica" si trasformi nel collasso di un sistema, e cioè che la bancarotta della Grecia trascini nell’ abisso, attraverso il temuto contagio di cui parla da tempo l’ economista Nouriel Roubini, Paesi come la Spagna, il Portogallo, l’ Italia e, in una prospettiva di medio termine, persino la Gran Bretagna. Sarebbe non solo la fine dell’ euro, ma la fine della stessa Europa come l’abbiamo conosciuta in mezzo secolo di storia. E sarebbe anche il probabile, nuovo crollo dell’ economia mondiale, poiché il default dei debiti sovrani e il crac di un sistema bancario come quello anglosassone avrebbe riflessi immediati, e devastanti, anche sull’ economia americana e su quella asiatica. La prova che il pericolo è alle porte sta in molti indizi che si affastellano, in queste ore convulse. Sta nelle reazioni pessime della Borsa giapponese e cinese alle notizie greche. Sta nella telefonata che Obama ha fatto alla Merkel a inizio settimana, per caldeggiare l’ impegno della Germania nel piano di aiuti alla Grecia. Sta nella lettera congiunta che la Cancelliera ha scritto alla Ue insieme a Sarkozy, per chiedere all'Unione di fare tutto ciò che è necessario "per salvare l’ euro": un segnale non solo di esplicita assunzione di responsabilità dell’ asse franco-tedesco, ma anche e soprattutto di implicito allarme sul possibile tracollo dell’ Unione monetaria. Ma sullo sfondo di queste fibrillazioni finanziarie e di queste consultazioni diplomatiche, nella drammatica temperie europea incarnata dal fuoco che uccide tre persone rinchiuse in una banca brucia ancora una volta, come già accadde alla vigilia della nascita dell’ euro, un problema più generale, e per molti versi più epocale: quello della sovranità dei governi e della legittimità delle democrazie. (06 maggio 2010) L'indice della rubrica http://www.repubblica.it/rubriche/market-place/2010/05/06/news/la_tragedia_del_2010-3857486/
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« Risposta #123 inserito:: Maggio 27, 2010, 04:38:24 pm » |
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IL COMMENTO L'iniquità irresponsabile di MASSIMO GIANNINI "Più di così non si poteva fare", dice Berlusconi della manovra approvata dal governo "salvo intese", con una formula da vecchio pentapartito della Prima Repubblica. Almeno su questo il presidente del Consiglio ha ragione: 24 miliardi sono tanti, per un Paese che da una decina d'anni perde competitività e produttività e langue con un tasso di crescita dello 0,5%. Tuttavia meglio di così non solo si poteva, ma si doveva fare. Su questo il premier ha torto marcio. Non sono in discussione la necessità politica e l'urgenza economica di questa legge finanziaria fuori stagione, fatta di "sacrifici duri" e varata in corsa "per evitare che l'Italia faccia la fine della Grecia", secondo la definizione-shock usata tre giorni fa da Gianni Letta. Sono invece in discussione altri due aspetti, non meno essenziali: l'irresponsabilità ideologica e l'iniquità sociale. L'irresponsabilità ideologica è iscritta nel codice genetico del berlusconismo, come forma di negazione della realtà e di manipolazione della verità. Questa "manovra epocale", o "tornante della storia" secondo la prosa enfatica di Tremonti, è precipitata sul Paese in un improvviso clima di "emergenza nazionale". Per più di due anni il premier ha raccontato che la crisi non c'è mai stata, o che comunque era già finita. In meno di due settimane si scopre invece che rischiamo la bancarotta. Un drammatico cambio di fase. Per gli italiani è un trauma psicologico, per il governo un cortocircuito politico. L'unico modo per uscirne sarebbe stata una grande operazione di onestà, e dunque una forte assunzione di responsabilità. Berlusconi, in sostanza, avrebbe dovuto presentarsi in tv e dire: signore e signori, i fatti mi hanno dato torto, ho sbagliato la mia analisi sulla crisi, me ne scuso e vi chiedo di fare, tutti insieme, un grande sforzo per salvare il nostro Paese e la moneta unica. Questo sarebbe stato un "discorso sul bene comune", comprensibile e condivisibile. Esattamente quello che è mancato in queste ore, e che deve essersi perduto in questi giorni nell'aspro braccio di ferro tra il premier e il suo ministro del Tesoro. Ieri, in conferenza stampa, Berlusconi ha continuato a negare l'evidenza, segnando una "cesura" arbitraria tra la crisi finanziaria partita due anni fa in America con i mutui subprime, trasformatasi poi in crisi mondiale per le economie reali, e la crisi "speculativa" contro l'euro esplosa in queste ultime settimane. Ha scoperto oggi che "abbiamo un debito pubblico insostenibile per colpa dei governi della Sinistra" (dov'è stato lui dal '94 in poi, e perché dal 2001 al 2006 ha azzerato l'avanzo primario che Ciampi aveva faticosamente portato al 5% del Pil?). Ha scoperto oggi che "abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità", e per questo "dobbiamo ridurre la presenza dello Stato in economia". Una lettura auto-assolutoria, che finge di non vedere le connessioni di questo disastro globale, per occultare le omissioni del governo di fronte ad esso. Tremonti, al contrario, non ha mai negato la crisi. Non ha mai nascosto le difficoltà della fase, anche se non ha brillato per originalità delle soluzioni. Davanti all'attacco speculativo contro i debiti sovrani dell'eurozona, e di fronte al perdurare di una recessione ostinata, il ministro è stato coerente. Ha impostato una manovra "pesante", che riduce in due anni il deficit a colpi di taglio alla spesa pubblica. E l'ha affidata al premier, perché se ne assumesse la responsabilità di fronte al Paese. Ma è esattamente questo che il Cavaliere non può accettare. Che tocchi a lui l'ingrato compito di associare la sua immagine alla parola "sacrifici". Che tocchi a lui farsi "commissariare" non da Tremonti ma dalla verità, cioè dall'interpretazione che Tremonti dà della crisi. Che tocchi a lui, in definitiva, fare quello che fanno tutti i governanti normali nelle normali democrazie occidentali: spiegare ai cittadini cosa succede, e "rendere conto" delle scelte che si fanno. Tutto questo cozza contro l'ideologia berlusconiana, nutrita di suggestioni narrative e di moduli assertivi che rifiutano a priori il principio di realtà e dunque non contemplano, neanche a posteriori, l'etica della responsabilità. L'iniquità sociale di questa manovra discende dalla sua stessa irresponsabilità ideologica. È giusto tagliare la spesa pubblica corrente e improduttiva, che soprattutto i governi di centrodestra hanno fatto crescere in questi anni a ritmi superiori al 2% l'anno. Ma è evidente a tutti che mai come stavolta la stangata è squilibrata e "di classe". Pesa quasi per intero sulle spalle del pubblico impiego. Nessuno nega le sacche di inefficienza e i relativi "privilegi" che si annidano in questo settore: dall'impossibilità di essere licenziati o cassintegrati ai rinnovi contrattuali spesso superiori al tasso di inflazione programmata. Ma nessuno può negare che i livelli retributivi, nel settore pubblico, siano in assoluto già bassi e spesso bassissimi. Come si fa a chiedere il tributo più doloroso a quei 3 milioni e 600 mila dipendenti pubblici che guadagnano in media 1.200 euro al mese, senza chiedere nulla a chi ha redditi infinitamente superiori nel privato, nelle professioni, nelle imprese? E come si fa a non vedere che Germania, Frangia e Gran Bretagna hanno varato manovre ancora più severe, imponendo lacrime e sangue prima di tutto ai ceti più abbienti e alle banche? Ma anche qui, in fondo, c'è una spiegazione ideologica che giustifica la scelta. Si parte dall'assunto forzaleghista che vuole i dipendenti fannulloni per definizione. E dunque, implicitamente, il governo gli propone uno scambio immorale: io ti rinnovo la tua "sinecura", ma in cambio ti congelo gli stipendi per tre anni. E qui si annida l'estremo paradosso di questa manovra che si profila come una vera e propria controriforma. Con la batosta sul pubblico impiego e la scure sugli enti locali, Berlusconi azzera in un colpo solo le uniche due riforme di cui poteva fregiarsi in questo primo biennio di governo: la riforma del pubblico impiego di Brunetta e la riforma federalista di Bossi. Il decretone di ieri le distrugge entrambe, almeno fino alla fine della legislatura. Di buono, alla fine, resta la quantità dei tagli, non certo la qualità. Speriamo che basti a convincere i mercati che noi non siamo tra i "maiali" di Eurolandia. Ma di certo non basta a dire che il Paese "è in mani sicure". E meno che mai a pensare che "siamo tutti sulla stessa barca", come ha detto ieri il Cavaliere. In troppi, a partire dagli evasori fiscali che hanno scudato i capitali, non rischiano la pelle in mezzo alla tempesta perfetta. Se ne stanno sul molo, a godersi lo spettacolo. m.giannini@repubblica.it(27 maggio 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/05/27/news/commento_manovra-4363896/?ref=HREA-1
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« Risposta #124 inserito:: Maggio 29, 2010, 12:43:55 pm » |
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IL COLLOQUIO Ciampi: "La notte del '93 con la paura del golpe" Parla l'ex presidente della Repubblica: "Alle quattro di notte parlai con Scalfaro al Quirinale e gli dissi 'dobbiamo reagire'. Grasso dice cose giuste" di MASSIMO GIANNINI ROMA - "Non c'è democrazia senza verità. Questo è il tempo della verità. Chi c'è dietro le stragi del '92 e '93? Chi c'è dietro le bombe contro il mio governo di allora? Il Paese ha il diritto di saperlo, per evitare che quella stagione si ripeta...". Dopo la denuncia di Piero Grasso 1, dopo l'appello di Walter Veltroni 2, ora anche Carlo Azeglio Ciampi chiede al governo e al presidente del Consiglio di rompere il muro del silenzio, di chiarire in Parlamento cosa accadde tra lo Stato e la mafia in uno dei passaggi più oscuri della nostra Repubblica. L'ex presidente, a Santa Severa per un weekend di riposo, è rimasto molto colpito dalle parole del procuratore nazionale antimafia, amplificate dall'ex leader del Pd. E non si sottrae a una riflessione e, prima ancora, a un ricordo di quei terribili giorni di quasi vent'anni fa. "Proprio la scorsa settimana ho parlato a lungo con Veltroni, che è venuto a trovarmi, di quelle angosciose vicende. E ora mi ritrovo al 100 per cento nei contenuti dell'intervista che ha rilasciato a "Repubblica". Quelle domande inevase, quel bisogno di sapere e di capire, riflettono pienamente i miei pensieri. Tuttora noi non sappiamo nulla di quei tragici attentati. Chi armò la mano degli attentatori? Fu solo la mafia, o dietro Cosa Nostra si mossero anche pezzi deviati dell'apparato statale, anzi dell'anti-Stato annidato dentro e contro lo Stato, come dice Veltroni? E perché, soprattutto, partì questo attacco allo Stato? Tuttora io stesso non so capire... ". Il ricordo di Ciampi è vivissimo. E il presidente emerito, all'epoca dei fatti presidente del Consiglio di un esecutivo di emergenza, che prese in mano un Paese sull'orlo del collasso politico (dopo Tangentopoli) e finanziario (dopo la maxi-svalutazione della lira) non esita ad azzardare l'ipotesi più inquietante: l'Italia, in quel frangente, rischiò il colpo di Stato, anche se è ignoto il profilo di chi ordì quella trama. "Il mio governo fu contrassegnato dalle bombe. Ricordo come fosse adesso quel 27 luglio, avevo appena terminato una giornata durissima che si era conclusa positivamente con lo sblocco della vertenza degli autotrasportatori. Ero tutto contento, e me ne andavo a Santa Severa per qualche ora di riposo. Arrivai a tarda sera, e a mezzanotte mi informarono della bomba a Milano. Chiamai subito Palazzo Chigi, per parlare con Andrea Manzella che era il mio segretario generale. Mentre parlavamo al telefono, udimmo un boato fortissimo, in diretta: era l'esplosione della bomba di San Giorgio al Velabro. Andrea mi disse "Carlo, non capisco cosa sta succedendo...", ma non fece in tempo a finire, perché cadde la linea. Io richiamai subito, ma non ci fu verso: le comunicazioni erano misteriosamente interrotte. Non esito a dirlo, oggi: ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi... ". Resta da capire per mano di chi. Su questo Ciampi allarga le braccia. "Non so dare risposte. So che allora corsi come un pazzo in macchina, e mi precipitai a Roma. Arrivai a Palazzo Chigi all'una e un quarto di notte, convocai un Consiglio supremo di difesa alle 3, perché ero convinto che lo Stato dovesse dare subito una risposta forte, immediata, visibile. Alle 4 parlai con Scalfaro al Quirinale, e gli dissi "presidente, dobbiamo reagire". Alle 8 del mattino riunii il Consiglio dei ministri, e subito dopo partii per Milano. Il golpe non ci fu, grazie a dio. Ma certo, su quella notte, sui giorni che la precedettero e la seguirono, resta un velo di mistero che è giunto il momento di squarciare, una volta per tutte". La certezza che esponeva ieri Veltroni è la stessa che ripete Ciampi: non furono solo stragi di mafia, ed anzi, sulla base delle inchieste si dovrebbe smettere di definirle così. Furono stragi di un "anti-Stato", ancora tutto da scoprire. E come Veltroni anche Ciampi aggiunge un dubbio: perché a un certo punto, poco dopo la nascita del suo governo, le stragi cominciano? E perché, a un certo punto, dopo gli eccidi di Falcone e Borsellino, le stragi finiscono? Perché la mafia comincia a mettere le bombe? Perché la mafia smette di mettere le bombe? È lo scenario ipotizzato dal procuratore Grasso: gli attentati servirono forse a preparare il terreno alla nascita di una nuova "entità politica", che doveva irrompere sulla scena tra le macerie di Mani Pulite. Un "aggregato imprenditoriale e politico" che doveva conservare la situazione esistente. Quell'entità, quell'aggregato, secondo questo scenario, potrebbe essere Forza Italia. Nel momento in cui quel partito si prepara a nascere, e siamo al '94, Cosa Nostra interrompe la strategia stragista. E' uno scenario credibile? Ciampi non si avventura in supposizioni: "Non sta a me parlare di tutto questo. Parlano gli avvenimenti di quel periodo. Parlano i fatti di allora, che sono quelli richiamati da Grasso. Il procuratore antimafia dice la verità, e io condivido pienamente le sue parole". Per questo, in nome di quella verità troppo a lungo negata, l'ex capo dello Stato oggi rilancia l'appello: è sacrosanto che chi sa parli. Ed è sacrosanto, come chiede Veltroni, che "Berlusconi e il governo non tacciano", perché la lotta alla mafia non è questione di parte, "ma è il tema bipartisan per eccellenza". Si apra dunque una sessione parlamentare, dedicata a far luce su quegli avvenimenti. Perché il clima che si respira oggi, a tratti, sembra pericolosamente rievocare quello del '92-'93. Ciampi stesso ne parlerà, in un libro autobiografico scritto insieme ad Arrigo Levi, che uscirà per "il Mulino" tra pochi giorni. "Lì è tutto scritto, ciò che accadde e ciò che penso. Così come lo riportai, ora per ora, sulle mie agende dell'epoca... ". Deve restare memoria, di tutto questo. Ma insieme alla memoria deve venir fuori anche la verità. "Perché senza verità - conclude l'ex presidente della Repubblica - non c'è democrazia". (29 maggio 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/05/29/news/notte-golpe-4418306/?ref=HRER2-1
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« Risposta #125 inserito:: Maggio 31, 2010, 10:04:38 am » |
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IL COMMENTO Dall'emergenza al pasticcio di MASSIMO GIANNINI "L'ITALIA è in mani sicure", aveva garantito il presidente del Consiglio martedì scorso, presentando la "madre di tutte le manovre" che avrebbe dovuto salvare il Paese e metterlo al riparo da un gigantesco attacco della speculazione. È passata quasi una settimana, e il pasticcio kafkiano che da allora si sta consumando intorno a questa "Finanziaria d'emergenza" dimostra che l'Italia è in mani pericolose. Vandalismo istituzionale, dilettantismo politico, avventurismo comunicazionale. C'è tutto il peggio possibile, nel cortocircuito innescato dal governo con il pacchetto-farsa da 24 miliardi che doveva scongiurare il rischio "di finire come la Grecia". Tutto ciò che è accaduto e sta tuttora accadendo, tra il Quirinale, Palazzo Chigi e Via XX settembre, è un inedito assoluto e allucinante nella storia repubblicana. Non si era mai visto un decreto legge approvato "salvo intese" il martedì, che balla fino a venerdì tra misure che entrano nel testo la mattina e escono la sera, indiscrezioni su tagli di spesa che trovi scritte di giorno e scompaiono di notte: misure e tagli che incidono sulla carne viva di milioni di persone, perché riguardano i loro stipendi, le loro pensioni, le loro liquidazioni. Non si era mai visto un provvedimento "urgente" che viene inoltrato alla presidenza della Repubblica solo il sabato, accompagnato dall'ennesimo sbrego costituzionale inferto dal premier, che parla strumentalmente di un testo da lui non ancora firmato "in attesa del parere del Colle": anche l'ultimo degli studenti di giurisprudenza sa bene che i decreti legge arrivano con la firma obbligatoria del presidente del Consiglio al Capo dello Stato, chiamato in causa dalla Costituzione per esaminarli e controfirmarli. Non si era mai visto un articolato-monstre, ritenuto "vitale" per tranquillizzare i mercati, così ricco di forzature tecnico-giuridiche e di contraddizioni normativo-contenutistiche da costringere il presidente della Repubblica a prendersi l'intero weekend per formulare i suoi rilievi e le sue osservazioni: con il risultato paradossale che oggi, alla riapertura dei mercati, l'Italia si presenta senza la manovra in Gazzetta ufficiale, e dunque ancora esposta alle incognite di un possibile lunedì nero per la sua Borsa e per il suo debito sovrano. Questo masochistico autodafè non si può certo addebitare a Giorgio Napolitano. Il Capo dello Stato ha fatto solo il suo dovere. Il testo che gli è arrivato sul tavolo lo ha costretto a interventi di metodo e di merito, sulle materie più disparate che il decreto coinvolgeva e coinvolge: dal condono edilizio alle retribuzioni dei magistrati. Per non parlare del grottesco "taglio delle province", fantasma di un'opera buffa che il governo ha demagogicamente propagandato, ma poi non ha avuto la coerenza di mandare effettivamente in onda. Restavano in campo rilievi su altre due materie costituzionalmente sensibili: le risorse pubbliche disponibili per l'istruzione e la ricerca, e la difesa di enti culturali importanti per la conservazione della memoria storica di questa Repubblica. Oggi si capirà se il recepimento di questi rilievi da parte del governo è stato sufficiente o meno a soddisfare le modifiche richieste dal Quirinale. Le colpe, mai come in questa occasione, sono tutte interne al governo. Un governo che non ha saputo spiegare al Paese il perché di una manovra così improvvisa e pesante, varata in tre giorni, senza nessuna verifica preventiva sulle necessità politiche interne alla maggioranza e sulle compatibilità economiche interne al bilancio. Un governo che annaspa nel vuoto, precipitando nell'ormai palese frattura tra Giulio Tremonti da una parte e il resto dei ministri dall'altra, con un Berlusconi del tutto incapace di fare sintesi. A sua volta stinto e sbiadito in un caleidoscopio di immagini, dove appare di volta in volta ora come "commissario" del gabinetto di guerra, ora come "commissariato" dal superministro del Tesoro. Ormai non è più tempo di retroscena giornalistici, ipocritamente smentiti nelle conferenze stampa di regime. Ormai il conflitto è sulla scena, e i protagonisti lo combattono in campo aperto. Non più solo Berlusconi e Tremonti, ma persino il cardinalizio Letta e il quieto Bondi sono lì, a battagliare nel tutti contro tutti di queste ore. Il sottosegretario di Palazzo Chigi come unico referente nella trattativa con il Colle, dalla quale viene tagliato fuori proprio Tremonti. Il ministro della Cultura come inusuale capofila dell'ala forzista e finiana che non ne può più dello strapotere di quello che fu, fino a poche settimane fa, l'intoccabile "Giulietto dei miracoli". Siamo davvero ai limiti della legalità costituzionale, e ben oltre quelli della decenza politica. E in questo spettacolo inverecondo offerto non solo all'opinione pubblica nazionale, ma all'intera comunità internazionale, si dilapida anche l'unica "qualità" riconoscibile di questa manovra, cioè la sua apparente "quantità". Fino a martedì scorso avevamo il dubbio che i 24 miliardi previsti, per l'iniquità dei sacrifici, l'episodicità dei risparmi di spesa e l'aleatorietà dell'evasione recuperata, non bastassero a mettere l'Italia al sicuro. Ora ne abbiamo l'assoluta certezza. Purtroppo, davanti a questa vergogna la Commissione europea e gli operatori di mercato avranno buon gioco a non fidarsi di un governo tanto confuso e diviso. Parafrasando Mussolini, il Cavaliere si è lamentato perché "non ha potere". Con tutta evidenza, il problema dell'Italia è che invece il potere ce l'ha eccome, ma sa usarlo solo per interessi personali, mai per quelli nazionali. m.gianninirepubblica.it © Riproduzione riservata (31 maggio 2010) http://www.repubblica.it/economia/2010/05/31/news/commento_giannini-4453146/?ref=HRER1-1
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« Risposta #126 inserito:: Giugno 03, 2010, 04:28:42 pm » |
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ANALISI Evasione, processi e condoni la "favola" fiscale del premier di MASSIMO GIANNINI NELLA sua breve e "inappellabile" telefonata a Ballarò 1 dell'altro ieri, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha fornito agli italiani due importanti "notizie". La prima in risposta ad una osservazione effettivamente sollevata in studio da chi scrive. "È una menzogna che io abbia fornito qualunque forma di giustificazione morale ai fenomeni di evasione fiscale". La seconda replicando ad un'accusa che invece nessuno gli aveva mosso: "Non ho mai evaso le tasse, né io né le mie aziende". Rispetto a queste affermazioni, e affidandosi esclusivamente ai fatti oggettivi della cronaca di questi anni, è utile ripercorrere tutto ciò che è realmente accaduto. Senza giudizi. Senza commenti. Ma attingendo semplicemente alle parole pronunciate dal premier, ai processi nei quali è stato ed è tuttora coinvolto, e ai condoni varati dai governi che ha presieduto. LE PAROLE 1) Autunno del 2000: Berlusconi è il leader dell'opposizione. Il 15 ottobre è a Milano, e interviene alla festa di Alleanza Nazionale, partner di Forza Italia nella nascente Casa delle Libertà. Ai militanti dell'allora alleato di ferro Gianfranco Fini, il Cavaliere dice, testualmente: "Non ne può più neanche il mio dentista, che paga il 63% di tasse. Ma oltre il 50% è già una rapina... Non volete che non ci si ingegni? E' legittima difesa...". 2) Inverno 2004: Berlusconi è presidente del Consiglio, ha rivinto le elezioni per la seconda volta. In una conferenza stampa a Palazzo Chigi, risponde alla domanda di un cronista e dichiara, testualmente: "Le tasse sono giuste se arrivano al 33%, se vanno oltre il 50 allora è morale evaderle". 3) Autunno 2004: Berlusconi, sempre capo del governo, interviene alla cerimonia annuale della Guardia di Finanza e, dal palco, arringa così le Fiamme Gialle, impegnate nella lotta agli evasori: "Voi agite con grande equilibrio e rispetto dei cittadini, nei confronti di chi si vuole sottrarre a un obbligo che qualche volta si avverte come eccessivo. C'è una norma di diritto naturale che dice che se lo Stato ti chiede un terzo di quello che con tanta fatica hai guadagnato ti sembra una richiesta giusta e glielo dai in cambio dei servizi che lo Stato ti offre. Ma se lo Stato ti chiede di più, o molto di più, c'è una sopraffazione nei tuoi confronti: e allora ti ingegni per trovare sistemi elusivi che senti in sintonia con il tuo intimo sentimento di moralità, che non ti fanno sentire colpevole...". 4) Primavera 2008: Berlusconi è in piena campagna elettorale, dopo la caduta del governo Prodi. Il 2 aprile interviene all'assemblea annuale dell'Ance, l'Associazione nazionale dei costruttori. E afferma quanto segue: "Se lo Stato ti chiede un terzo di quanto guadagni, allora la tassazione ti appare una cosa giusta, ma se ti chiede il 50-60% ti sembra una cosa indebita e ti senti anche un po' giustificato a mettere in atto procedure di elusione e, a volte, anche di evasione. Noi abbiamo un'elusione fiscale record giustificata da aliquote troppo elevate...". 5) Autunno 2008: Berlusconi ha stravinto, per la terza volta, le elezioni. Il 4 ottobre, di nuovo in conferenza stampa a Palazzo Chigi (immortalato dalle telecamere dei tg delle tre reti Rai) sostiene: "Se io lavoro, faccio tanti sacrifici... Se lo Stato poi mi chiede il 33% di quello che ho guadagnato sento che è una richiesta corretta in cambio dei servizi che lo Stato mi da. Ma se mi chiede il 50% sento che è una richiesta scorretta e mi sento moralmente autorizzato ad evadere, per quanto posso, questa richiesta dello Stato...". I PROCESSI Insieme alle parole, ci sono gli atti che Berlusconi compie e ha compiuto in questi anni. Prima di tutto come privato cittadino e come imprenditore che guida un impero mediatico, industriale e finanziario. Un ruolo che lo ha esposto a numerosi processi, per comportamenti illeciti che configurano altrettante evasioni tributarie. Qui rilevano solo i principali procedimenti con ricadute fiscali, dunque, e non anche quelli per reati penali di altro genere (come ad esempio il processo per il Lodo Mondadori, per corruzione, o il processo Mills, per corruzione in atti giudiziari, anche questi per altro "risolti" grazie alle leggi ad personam varate nel frattempo dallo stesso governo Berlusconi, come il Lodo Alfano prima, il legittimo impedimento poi). 1) Tangenti alla Guardia di Finanza: Berlusconi è accusato di averne pagate per evitare controlli fiscali su quattro sue società, Mediolanum, Mondadori, Videotime e Telepiù. In primo grado viene condannato a 2 anni e 9 mesi. In appello i magistrati applicano le attenuanti generiche, e quindi scatta la prescrizione. Cioè l'imputato ha commesso il reato, ma per il giudice è scaduto il tempo utile alla condanna. 2) All Iberian 1: Berlusconi è accusato di aver pagato tangenti per 21 miliardi a Bettino Craxi. Viene condannato in primo grado a 2 anni e 4 mesi. In appello, ancora una volta, scatta la prescrizione. 3) All Iberian 2 e 3: in questi altri due filoni di questo processo Berlusconi è accusato di falso in bilancio, con costituzione di fondi neri per 1000 miliardi di vecchie lire, ed evasione delle relative imposte, attraverso quello che i periti tecnici della Kpmg e i pm di Milano definiscono il "Group B very discreet" della Fininvest, cioè il "presunto comparto estero riservato" della finanziaria del Cavaliere. Viene assolto perché "il reato non sussiste più": nel frattempo, alla fine del 2002, il suo governo ha approvato la legge che depenalizza il falso in bilancio e i reati societari. 4) Medusa Cinema: Berlusconi è accusato di illecito nell'acquisto della società cinematografica, per 10 miliardi non iscritti a bilancio. Condannato in primo grado a 1 anno e 4 mesi, viene assolto in appello, ancora una volta con la formula della prescrizione. Il reato c'è, ma i termini per la condanna sono scaduti. 5) Diritti televisivi Mediaset: Berlusconi è accusato dai pm di Milano per appropriazione indebita e frode fiscale per 13,3 milioni di euro. La procura ha chiesto il rinvio a giudizio, ma il processo è stato sospeso, prima per effetto del Lodo Alfano (dichiarato successivamente incostituzionale dalla Consulta), e ora per l'intervento della legge sul legittimo impedimento. I CONDONI C'è infine una sfera "pubblica", che riguarda le decisioni che il Cavaliere ha assunto come capo del governo, nella lotta contro gli evasori fiscali e nella "disciplina" di casi che, sotto questo profilo, hanno riguardato direttamente lui stesso o le sue aziende. 1) Nella primavera 1994 Berlusconi "scende in campo" e vince le sue prime elezioni. E' l'epifania della Seconda Repubblica. Per festeggiarla, il governo vara il suo primo condono fiscale: frutta ben 6,4 miliardi di euro. Forte di questo trionfo, lo stesso governo vara anche il suo primo condono edilizio, che porta nelle casse del fisco 2,5 miliardi. Seguiranno altre cinque sanatorie, nel corso delle successive legislature guidate dal Cavaliere: nel 2003 nuovo condono fiscale di Tremonti, per 19,3 miliardi, insieme il primo scudo fiscale per il rientro dei capitali all'estero da 2 miliardi, poi nel 2004 nuovo condono edilizio di Lunardi da 3,1 miliardi, e infine tra il 2009 e il 2010 l'ennesimo scudo fiscale, appena concluso, e con un rimpatrio di capitali previsto in oltre 100 miliardi di euro. L'infinita clemenza verso chi non paga le tasse, praticata in questi sedici anni, non è servita a stroncare il fenomeno dell'evasione, anzi l'ha alimentato. 2) Dei condoni hanno beneficiato milioni di italiani. Ma ha beneficiato anche il premier e il suo gruppo. Dopo la Finanziaria del '93 che introduce il secondo condono tombale, rispondendo ad un articolo di Repubblica che anticipava la sua intenzione di beneficiare della sanatoria, Berlusconi fa una promessa solenne durante la conferenza stampa di fine d'anno: "Vi assicuro che né io né le mie aziende usufruiremo del condono". Si scoprirà poi che Mediaset farà il condono per 197 milioni di tasse evase, versandone al fisco appena 35, e lo stesso farà il Cavaliere per i suoi redditi personali, risolvendo il suo contenzioso da 301 milioni di euro pagando all'Agenzia delle Entrate appena 1.800 euro. 3) Condono peri i coimputati: con decreto legge 143 del giugno 2003, presunta "interpretazione autentica" del condono di quell'anno, il governo infila tra i beneficiari anche coloro che "hanno concorso a commettere i reati", pur non avendo firmato dichiarazioni fraudolente. Ennesima formula ad personam: consente di salvare i 9 coimputati del premier nel processo per falso in bilancio. 4) Condono di Villa Certosa: Il tribunale di Tempio Pausania indaga da tempo sugli abusi edilizi commessi nella ristrutturazione della residenza sarda del premier. Con decreto del 6 maggio 2004 il governo attribuisce a Villa Certosa la qualifica di "sede alternativa di massima sicurezza per l'incolumità del presidente del Consiglio". Nel 2004, con la legge 208, il condono edilizio dell'anno precedente viene esteso anche alle cosiddette "zone protette". Villa Certosa, nel frattempo, lo è appunto diventata. La Idra, società che gestisce il patrimonio immobiliare del premier, presenta subito dieci richieste di condono, e chiude così il contenzioso con il fisco. Versamento finale nelle casse dell'Erario: 300 mila euro. E amici come prima. m.giannini@repubblica.it(03 giugno 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/06/03/news/favola_fiscale-4531285/?ref=HRER1-1
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« Risposta #127 inserito:: Giugno 08, 2010, 11:41:45 pm » |
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IL COMMENTO Un giorno di ordinaria eversione di MASSIMO GIANNINI È il colpo di coda del Caimano. In una mattinata di "ordinaria eversione", Silvio Berlusconi è tornato in guerra con il mondo. Nell'ufficio di presidenza del Pdl, trasformato per l'occorrenza nella "quarta camera parlamentare" (la terza essendo com'è noto il salotto televisivo di Bruno Vespa) il presidente del Consiglio ha dato fondo al suo peggior repertorio, sparando ad alzo zero contro tutto e contro tutti: istituzioni e mass-media, avversari dell'opposizione e alleati della maggioranza. Sulla legge-bavaglio per le intercettazioni ha lanciato il suo anatema: il testo che va all'esame del Senato, "ostacolato da toghe e giornalisti", è il punto di caduta finale per il centrodestra. Le modifiche apportate sono "definitive" (oltre che ancora una volta peggiorative), e alla Camera non saranno tollerati dissensi: dovrà approvarle così come sono. Strana visione non solo dei rapporti interni al suo partito (dove Fini pretende pari dignità e rispetto) ma anche del funzionamento del bicameralismo (dove il governo non può ipotecare ciò che farà ciascuno dei due rami del Parlamento sovrano). Sul servizio pubblico radiotelevisivo ha lanciato la sua "fatwa azzurra": a una Rai "così faziosa contro la maggioranza" non andrebbe rinnovato il contratto di servizio. Detto da un presidente del Consiglio non è male. Poi ci si stupisce, con falsa indignazione, se tanti italiani evadono il canone. Sugli scandali della Protezione Civile ha lanciato un consiglio: i tecnici non vadano più all'Aquila, dopo la "criminalizzazione" cui sono stati esposti dalle inchieste giudiziarie rischiano che "qualche mente fragile gli spari in testa". Anche questa, in bocca a un capo di governo, non è male. Poi si contesta, con pelosa ipocrisia, chi usa le parole come pallottole. L'ultimo affondo del Cavaliere, in pieno delirio di autocratico-populista, riguarda come sempre le fondamenta della democrazia secondo la dottrina berlusconiana: in Italia (è il suo mantra) la sovranità non è del governo, non è del popolo, ma è "in mano a Magistratura democratica e alla Consulta". Che dire? Non c'è più limite, né politico né psicologico, alla natura tecnicamente totalitaria e costituzionalmente rivoluzionaria di questo "potere". Questo premier incarna ormai l'anti-Stato, non più lo Stato. (08 giugno 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/06/08/news/un_giorno_di_ordinaria_eversione-4667593/?ref=HREA-1
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« Risposta #128 inserito:: Giugno 15, 2010, 11:30:26 pm » |
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L’articolo 41 e l’applauso alla "fuffa" MASSIMO GIANNINI Di troppe regole si può morire. Ma anche di troppa fuffa. Non viene in mente altro, a riflettere sull’ultima trovata del ministro dell’Economia. Nell’occhio del ciclone per una legge finanziaria che Bankitalia considera insufficiente (tanto da ipotizzare fin d’ora una manovrabis in autunno) Tremonti ha trovato la via di fuga: la riforma costituzionale dell’articolo 41. Questo articolo della Carta («ferrovecchio cattocomunista» secondo Berlusconi) prevede: «L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Come non cogliere la portata «sovietica» di una norma del genere? Infatti Tremonti la coglie. Dopo aver predicato l’avvento del «colbertismo» e aver annunciato il fallimento del «mercatismo», il ministro riscopre il fascino della «rivoluzione liberale» e punta a riscrivere l’articolo 41 con la penna di Milton Friedman, all’insegna del principio «è possibile tutto ciò che non è proibito». Niente paura. Siamo all’ennesima «arma di distrazione di massa». Un ddl di revisione costituzionale richiede almeno un anno e mezzo di iter parlamentare. Nell’attesa, come risolviamo i problemi di migliaia di aziende falcidiate dalla crisi? Come fronteggiamo il dramma della perdita di competitività? Come arginiamo la strage di posti di lavoro in pieno corso? Il governo non lo sa. E quindi inventa il solito diversivo. Basta consultare un giurista, per sapere che alla Consulta non esistono casi di «contenzioso costituzionale» causato dall’articolo 41, che dunque non ha mai limitato nulla, non ha mai conculcato nessuna libertà d’impresa, non ha mai soffocato nessun «animal spirit». Di fronte a tanta mistificazione la considerazione più amara non riguarda tanto il governo, che fa la solita propaganda. Piuttosto colpiscono il cinismo e l’opportunismo delle cosiddette elité (grandi imprese, grandi associazioni di categoria, grandi giornali): perché tanta solerzia gregaria, nell’applaudire la fuffa? m.giannini@repubblica .it http://www.repubblica.it/supplementi/af/2010/06/14/copertina/001fondente.html
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« Risposta #129 inserito:: Giugno 17, 2010, 06:25:25 pm » |
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IL COMMENTO La forza della verità di MASSIMO GIANNINI A VOLER interpretare i segni che promanano dal "corpo mistico del re" secondo i moderni canoni fisio-politici codificati dal berlusconismo, quella di ieri si può considerare una giornata di svolta. Oppresso dalla cappa di "tagli e bavagli" che il suo stesso governo ha imposto a se stesso e al Paese, il presidente del Consiglio è stato costretto suo malgrado ad annunciare una probabile marcia indietro 1 sui due fronti più esposti e rischiosi di questa fase della legislatura: la manovra economica e, soprattutto, il ddl sulle intercettazioni. Non deve ingannare l'ennesimo "falso ideologico" sollevato dal premier per giustificare l'ultima, e forse la più intollerabile delle leggi-vergogna: "Siamo tutti spiati", ha ripetuto come un disco rotto, replicando un calcolo volutamente artefatto: "I telefoni controllati sono 150mila: considerando 50 persone per ogni telefono, vengono fuori così 7 milioni e mezzo di persone che possono essere ascoltate. Questa non è vera democrazia...". Le rituali menzogne, spacciate come verità sul mercato della paura, ma palesemente smentite dai dati dello stesso ministero della Giustizia. In Italia i "bersagli intercettati" sono in realtà 132.384, laddove per "bersaglio" si intende un singolo che dispone in media di 5,3 utenze telefoniche (tra telefono fisso, cellulare personale, cellulare aziendale e utenze di parenti). Dunque, se si dividono i 132.384 "bersagli" per 5,3 utenze viene fuori che le persone effettivamente intercettate sono 26 mila, cioè lo 0,045% dell'intera popolazione nazionale. Altro che 7 milioni e mezzo. Ma stavolta quello che conta sottolineare non è tanto l'ennesima menzogna di Berlusconi. Stavolta, nel suo intervento davanti alla sempre plaudente assemblea della Confcommercio, c'è qualcosa di nuovo e di diverso, che merita di essere sottolineato. C'era un tono di vaga rassegnazione, nelle parole con le quali Berlusconi ha esposto il complicato scenario che si profila nell'iter della legge-bavaglio: "Noi abbiamo preparato il provvedimento in quattro mesi, ma ora si parla di metterlo in calendario per il mese di settembre, poi bisognerà vedere se il Capo dello Stato lo firmerà e poi quando uscirà ai pm della sinistra non piacerà e si appelleranno alla Consulta che, secondo quanto mi dicono, lo boccerà...". In questo "periodo ipotetico" non c'è solo la rappresentazione dei consueti svarioni di sintassi costituzionale: il Parlamento come un orpello inutile, la presidenza della Repubblica come un intralcio fastidioso, la magistratura e i giudici come nemici irriducibili. C'è anche il riconoscimento di un errore di grammatica politica: il centrodestra rischia di non reggere l'urto di un testo come quello sulle intercettazioni, contro il quale si concentrerà presto l'attenzione degli organi di garanzia della Repubblica, e nel frattempo si sta già concentrando un pericoloso fuoco incrociato: quello interno che cova dentro la maggioranza, e quello esterno che monta presso l'opinione pubblica. Dunque, meglio fare un passo indietro, e accogliere le richieste di modifica a un provvedimento che ormai persino gli organismi internazionali considerano una minaccia per le indagini giudiziarie e una lesione dei diritti dei cittadini. Le notizie fatte filtrare in serata da Palazzo Grazioli sembrano confermare questa disponibilità al confronto. Vedremo nelle prossime ore se si tratta di una ritirata strategica, o invece solo di una mossa tattica. Quando mostra di arretrare, spesso il Cavaliere prepara una controffensiva, magari su terreni e con arsenali diversi. Ma in questo caso il sentiero è per lui oggettivamente assai stretto. Sulla manovra da 25 miliardi c'è il nervo scoperto di Bossi: è difficile reggere il nervosismo della Lega, che vive con crescente disagio la crociata dei governatori, a partire proprio dal lombardo Formigoni, contro "i tagli agli enti locali che uccidono il federalismo": la gente, compresa quella del Nord, comincia a sospettare che sia vero, e questo spiega le aperture del Senatur alle correzioni richieste dalle regioni. Sulla legge-bavaglio la morsa intorno al premier è ancora più stretta. C'è la dottrina: è difficile non ascoltare gli allarmi sui vizi di legittimità sollevati da fior di costituzionalisti. Ci sono le istituzioni: è altrettanto difficile non immaginare che queste correnti di pensiero siano ignorate da Giorgio Napolitano (che sarà chiamato nelle prossime settimane a promulgare quel provvedimento) e dalla Consulta (che sarà chiamata nei mesi successivi a valutarne la costituzionalità). C'è Gianfranco Fini: è impossibile non vedere che la "corrente" del presidente della Camera, dentro il Pdl, si sta riorganizzando in vista del dibattito a Montecitorio e che, forte del ruolo istituzionale di Giulia Bongiorno, ha i numeri per impallinare quel testo almeno in Commissione giustizia, grazie anche all'opposizione (finalmente ferma e trasversale) sollevata dal Pd insieme a Udc e Idv. E poi c'è l'opinione pubblica. Il successo della campagna di questo giornale sui post-it, la straordinaria partecipazione della rete e del popolo viola, le iniziative di protesta annunciate dalla Federazione nazionale della stampa: la diffusa mobilitazione di queste settimane dimostra che quella contro la legge-bavaglio non è solo una battaglia per la legalità, che pone un serio problema di coerenza ad un centrodestra tutto chiacchiere e distintivo, capace solo di predicare "legge e ordine" salvo poi praticare la destrutturazione sistemica dei codici e della Costituzione. Ma conferma che questa è anche una battaglia per la libertà, che pone un problema ancora più gigantesco per la qualità della nostra democrazia, in cui il diritto dei giornali di informare e il diritto dei cittadini di essere informati non può essere disgiunto dal dovere di chi governa di "rendere conto" al popolo che non è chiamato solo a votare, ma anche a pensare. Ecco perché questa legge, così com'è stata concepita, non può passare. La democrazia è limite. E con questo provvedimento quel limite è drammaticamente valicato. Tanti italiani lo hanno capito. E sarebbero ancora di più se tutti i giornali combattessero senza riserve e senza furbizie questa battaglia. In un testo pubblicato sull'"Encyclopedia Americana" un secolo fa Joseph Pulitzer scriveva: "Un'opinione pubblica bene informata è la nostra corte suprema. Perché ad essa ci si può sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l'indifferenza popolare o gli errori del governo...". È la grande "lezione" di uno dei padri del giornalismo occidentale. C'è ancora tempo perché tutta la grande stampa, senza eccezioni, la spieghi anche a Silvio Berlusconi. m.giannini@repubblica.it(17 giugno 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/06/17/news/la_forza_della_verit-4910018/?ref=HREA-1
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« Risposta #130 inserito:: Luglio 01, 2010, 11:55:27 am » |
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COMMENTO L'indecenza istituzionale di MASSIMO GIANNINI I GIURISTI inglesi dell'800 sostenevano che ci sono solo due modi per governare una società: l'opinione pubblica e la spada. Con l'affondo sulla legge che limita le intercettazioni Silvio Berlusconi li sta pericolosamente sperimentando tutti e due. Impone il bavaglio ai mass-media, per evitare che i cittadini sappiano ciò che si muove dentro e intorno al potere politico. Dispone il blitz in Parlamento, per costringerlo a votare questa legge-vergogna prima della pausa estiva. Quanto accaduto alla Camera la dice lunga sullo stato di esaltazione e insieme di confusione che anima la maggioranza e il suo leader. C'è un presidente del Consiglio che alterna episodici momenti di ragionevolezza e drammatici sprazzi di dissennatezza. Ieri sono andati in scena i secondi: il premier ha voluto a tutti i costi che la conferenza dei capigruppo di Montecitorio calendarizzasse per il 29 luglio la discussione in aula del testo sulle intercettazioni. E ci è riuscito. Con il risultato, paradossale, che il dibattito sulla legge-bavaglio finirà per intrecciarsi a quello sulla manovra economica. Con buona pace degli appelli del presidente della Repubblica, che aveva invocato senso di responsabilità e aveva chiesto ai partiti di dare la priorità assoluta alla manovra, l'unico tema che sta realmente a cuore agli italiani, e di lasciar perdere le questioni che hanno come unico effetto quello di avvelenare i pozzi del confronto parlamentare e del discorso pubblico. Una mossa pericolosa, dunque. Benzina sul fuoco, alla vigilia della manifestazione contro la legge-bavaglio organizzata oggi in diverse piazze d'Italia. In questa mossa del premier c'è un profilo di indecenza istituzionale, già ampiamente dimostrata dalle continue provocazioni contro il Quirinale. E c'è un profilo di arroganza politica, già ripetutamente esercitata attraverso i continui attacchi contro i nemici interni della maggioranza e quelli esterni dell'opposizione. Fa bene il Pd, insieme a tutte le forze che si oppongono a questo centrodestra, ad annunciare un Vietnam parlamentare, di fronte all'ennesima forzatura voluta dal capo del governo. Ma stavolta, occorre dirlo, ha fatto male il presidente della Camera ad accettare il diktat dei capigruppo della maggioranza, salvo poi far filtrare a giochi fatti la sua presa di distanza. "Una scelta irragionevole", l'ha definita Gianfranco Fini. Ma se davvero la considerava tale, avrebbe potuto e dovuto evitarla, invece che avallarla. A livello personale Fini incassa un vantaggio: smarcandosi dal Cavaliere nella forma lucra il massimo della rendita mediatica, dandogliela vinta nella sostanza non paga alcun prezzo politico. Ma a livello più generale il calcolo è ben diverso. Il giochino è a somma zero: stavolta non c'è stata alcuna "riduzione del danno" (che il co-fondatore del Pdl dice spesso di perseguire, per arginare i disastri imputabili al fondatore). Stavolta, in questa provocatoria accelerazione puntualmente benedetta da Bossi in nome del sacro federalismo, c'è solo il "danno". E rischiamo di pagarlo tutti. C'è un profilo di tutela giurisdizionale delle indagini, irrinunciabili in qualunque Stato di diritto. Non c'è da aggiungere altro, rispetto a quanto hanno denunciato durante le audizioni in Commissione giustizia di Montecitorio non solo e non tanto dalle famigerate "toghe rosse" dell'Anm, quanto piuttosto dai magistrati in prima linea. Per esempio Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia: "Il disegno di legge, con le ultime modifiche, ha peggiorato la situazione per quanto riguarda la mafia e il terrorismo, con effetti devastanti sulle indagini... Le intercettazioni ambientali non si potranno più fare nei luoghi privati di dimora perché hanno bisogno, per essere autorizzate, della dimostrazione che in quel posto si sta commettendo un reato: agli inquirenti si chiede una 'prova diabolicà impossibile da fornire". Oppure Giovandomenico Lepore, procuratore capo di Napoli: "Le limitazioni alle intercettazioni danneggiano le indagini... Difficilmente, senza le intercettazioni, avremmo potuto capire come si svolgeva il traffico di droga che ci ha appena portato all'arresto di 28 persone nel quartiere San Giovanni a Teduccio". O ancora Rosario Cantelmo, procuratore aggiunto: "In 40 giorni di osservazione sono state documentate 870 azioni di spaccio. Tutto ciò non sarebbe stato possibile con la nuova legge". O infine Antonio Ingroia, procuratore antimafia a Palermo: "Le intercettazioni sono il principale strumento di indagine contro la criminalità mafiosa, economica e politica; oggi l'80% delle indagini si basa su questo strumento... Se il ddl passasse senza modifiche si tornerebbe indietro di 40 anni". C'è un profilo di tutela costituzionale dei diritti, insopprimibili per qualunque democrazia. Lo sosteniano da settimane, anche attraverso la campagna dei post-it: la legge-bavaglio nega ai cittadini il diritto di essere informati. E l'informazione, in questo testo inemendabile, è violata in senso attivo e passivo: la legge-bavaglio nega ai mass media il diritto di informare. In nome di un'idea malintesa della privacy, e con il pretesto della difesa della riservatezza, il centrodestra opera un clamoroso sbilanciamento tra i diritti costituzionali meritevoli di tutela. Lo hanno detto e scritto i più autorevoli giuristi italiani, da Gustavo Zagrebelski a Valerio Onida. Ora lo ripete anche il Garante per la privacy Francesco Pizzetti, nella sua relazione annuale al Parlamento: "Nel ddl sulle intercettazioni si sposta oggettivamente il punto di equilibrio tra libertà di stampa e tutela della riservatezza, tutto a favore della riservatezza, e questo può giustificare che da molte parti si affermi che, così facendo, si pone in pericolo la libertà di stampa". È esattamente quello che pensiamo, al di là di tutte le risibili distorsioni ermeneutiche in cui si sono cimentati i cortigiani del Pdl. Ed è confortante che a ribadirlo sia il presidente di un'Authority, proprio nel momento in cui Berlusconi e il suo "cardinal Mazzarino" (l'immarcescibile Gianni Letta) usano queste istituzioni amministrative indipendenti come "succursali" governative in cui spartire e moltiplicare poltrone, a beneficio della solita "cricca" dei grand commis di regime. Per tutte queste ragioni, la legge-bavaglio non può e non deve passare, nonostante i colpi di spada del presidente del Consiglio e i suoi dissennati appelli a scioperare contro i giornali. "Un giornalismo onesto e indipendente è la forza più possente che la civiltà moderna abbia sviluppato. Malgrado i suoi errori è indispensabile alla vita delle persone libere. Le frontiere del privilegio costituzionale della stampa sono tanto ampie quanto il pensiero umano...". Lo scrisse un secolo fa Alton Parker, giudice supremo della Corte d'Appello di New York. Un magistrato di enorme spessore, che contribuì a fare grande la democrazia americana. Una "toga" che Berlusconi, oggi, definirebbe senz'altro una "metastasi". (01 luglio 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/07/01/news/l_indecenza_istituzionale-5293885/?ref=HREA-1
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« Risposta #131 inserito:: Luglio 13, 2010, 10:06:19 am » |
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L'ANALISI Le metastasi del Potere di MASSIMO GIANNINI "La magistratura è un cancro da estirpare", sostiene da mesi il presidente del Consiglio, nella furia iconoclasta che lo spinge ad abbattere i simboli e le istituzioni repubblicane. Finge di non vedere la doppia metastasi che gli sta crescendo attorno, e che sta lentamente ma inesorabilmente divorando il suo governo. C'è una metastasi giudiziaria, che ormai mina alle fondamenta il sistema di potere che lui stesso ha costruito negli anni. L'iscrizione di Dell'Utri e Cosentino nel registro degli indagati, per associazione a delinquere e violazione della legge Anselmi sulle società segrete, è per ora soltanto un'ipotesi investigativa. Ma è più che sufficiente a completare un quadro agghiacciante del rapporto tra politica e malaffare nell'epoca berlusconiana. Le inchieste che si moltiplicano, da Milano a Roma, da Firenze a Napoli, da Perugia a Palermo, scoperchiano un verminaio che travolge a vario titolo gli uomini più "strategici" e più vicini al premier. Guido Bertolaso, ras della Protezione Civile, signore delle Emergenze e vicerè dei Grandi Eventi, finito nel tritacarne dell'inchiesta sul G8, che nel triangolo Balducci-Anemone-Fusi ha svelato un micidiale meccanismo di corruzione sistemica e di arricchimento personale. Claudio Scajola, feudatario ex democristiano e plenipotenziario del Nord-Ovest, dimesso da ministro per aver lucrato (a suo dire inconsapevolmente) un appartamento dalla stessa banda al lavoro tra La Maddalena e L'Aquila. Aldo Brancher, storico tenutario dei rapporti con la Lega, dimesso da ministro dopo aver tentato di approfittare della nomina per sottrarsi al processo che lo vede imputato per la vicenda Antonveneta-Bnl. Denis Verdini, potentissimo coordinatore del Pdl, invischiato in diversi filoni d'inchiesta: prima gli appalti del G8, adesso anche le cene organizzate con i compagni di merende per spartire gli affari, condizionare i giudici della Consulta chiamati a decidere sul lodo Alfano, fabbricare falsi dossier ai danni degli avversari dentro il Popolo delle Libertà. Nicola Cosentino, vicerè azzurro della Campania e accusato di concorso esterno in associazione camorristica, ora coinvolto anche nell'inchiesta sul killeraggio morale ai danni del presidente della Regione. Marcello dell'Utri, sovrano di Publitalia e delle Due Sicile, padre fondatore di Forza Italia e garante degli equilibri con Cosa Nostra (secondo la Corte d'Appello, sicuramente fino al 1993), a sua volta finito nell'inchiesta sull'eolico (insieme al governatore della Sardegna Ugo Cappellacci) in quanto ospite di casa Verdini per le cene con i magistrati alla Antonio Martone o i faccendieri alla Flavio Carboni. Ci sarà tempo per verificare la fondatezza delle accuse formulate nei confronti dell'inner circle berlusconiano. Ma una cosa è già chiara, fin da ora. Quella che sta venendo fuori dal complesso panorama indiziario è molto più che una banalissima "cricca", che si riuniva per pagare qualche mazzetta e condividere qualche affaruccio di sotto-governo. Quello che si delinea è un vero e proprio "sistema di potere" a fini privatistici, che chiama in causa non qualche sparuta mela marcia, non qualche episodico mariuolo. Ma piuttosto, verrebbe da dire, "tutti gli uomini del presidente". E proprio per questo, quello che si delinea è un vero e proprio "metodo di governo" della cosa pubblica, nel quale politica e affari si mescolano nella violazione sistematica della legge e del mercato. Una fabbrica che genera illecito, attraverso la distribuzione di tangenti e lo scambio di favori. E che conserva potere, attraverso il controllo delle candidature a livello nazionale e locale e il pilotaggio delle nomine dei capi degli uffici giudiziari. Una fabbrica che produce fango, attraverso i dossier falsi (meglio se a sfondo sessuale) commissionati per distruggere avversari interni ed esterni, com'è capitato a suo tempo al direttore di "Avvenire" Dino Boffo, e come capita adesso al governatore della Campania Stefano Caldoro. E man mano che emergono nuovi, inquietanti spezzoni di queste inchieste, si capisce anche il perché Berlusconi abbia bisogno di un provvedimento come quello sulle intercettazioni, con il quale può anche cedere su alcuni punti che riguardano la procedibilità delle indagini, ma non su quelli che riguardano il diritto di cronaca. La legge-bavaglio serve esattamente a questo: non far conoscere agli italiani le malefatte di una "casta" che, come sostengono a ragione alcuni pm, somiglia sempre di più a un'associazione a delinquere. Questa ragnatela di illegalità è sempre più diffusa, sempre più pervasiva. Non è incistata "nel" sistema. È "il" Sistema. E i suoi fili, con tutta evidenza, sono intrecciati in ciascuna delle varie indagini che le diverse procure stanno portando avanti. Il procuratore antimafia Pietro Grasso ha parlato di "favori tra reti criminali". Qualcuno ha evocato una nuova "Loggia P3", che agisce con pratiche non diverse, e altrettanto pericolose, della vecchia massoneria deviata di Licio Gelli. È una definizione convincente, al di là delle suggestioni giornalistiche. E comunque sufficiente a far pensare, a questo punto, che una "questione morale" esista davvero. E che interroghi direttamente il governo, e personalmente il presidente del Consiglio. Fino a quando può ignorare questa metastasi? Fino a quando può blindare e a difendere gli uomini che la incarnano? Fino a quando può illudersi che la cura sia l'ovvio passo indietro di un ministro impossibile come Brancher o quello di un modesto assessore regionale come Sica? Per questo la metastasi è ormai anche politica. Il Pdl è dilaniato da una faida violenta tra bande rivali. Il premier è accerchiato da ogni parte. Non solo Fini sulla giustizia e Tremonti sulla manovra. I Dell'Utri e i Cosentino, i Verdini e gli Scajola, gli si agitano intorno come spettri. Allegorie della sua ossessione giudiziaria, ma anche della sua concezione politica. In alto il Sovrano Assoluto, in basso il suo Popolo. In mezzo la sua Corte. Che ne mutua tutti i vizi, ne riproduce tutte le nefandezze. Così non può reggere. E non reggerà. m.giannini@repubblica.it(13 luglio 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/07/13/news/metastasi_potere-5548468/?ref=HRER1-1
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« Risposta #132 inserito:: Luglio 18, 2010, 10:56:42 am » |
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L'INTERVISTA Tremonti: "No a governi tecnici Ma c'è una questione morale" Intervista al ministro dell'Economia. "Grazie alla manovra l´Italia è allineata all´Europa". E la P3? "Una cassetta di mele marce. Nessuna alternativa a Berlusconi e nessun governo tecnico, l'Europa non approverebbe" di MASSIMO GIANNINI "Il governo Berlusconi è forte, e non esistono alternative credibili. Né governi tecnici, né larghe intese. Sono fuori dalla storia, e l'Europa non approverebbe". Giulio Tremonti non ha dubbi. A dispetto degli scandali della P3 e dei conflitti sulla manovra, vede un'Italia solida e coesa, e un governo in pieno "controllo", da qui alla fine della legislatura. Il ministro dell'Economia nega conflitti e dimissioni. "Mai minacciato nulla. Tutt'al più ho detto qualche volta "non firmo"". Difende il Cavaliere su tutta la linea. Dalla P3, "al massimo una cassetta di mele marce", alle intercettazioni, "tutt'al più una legge-bavaglino". E sbarra la strada a qualunque ipotesi di governo tecnico alla Draghi, o di larghe intese senza Berlusconi. "Governo tecnico? Governo di unità nazionale? Sono figure che sembrano stagionalmente incastrarsi nella forma di una geometria variabile che ricorda un vecchio caleidoscopio. Avrei preferito proseguire il discorso che abbiamo iniziato come discorso sulla "democrazia dei contemporanei"...". D'accordo, allora, partiamo pure dalla "democrazia dei contemporanei". Cosa intende dire? "La democrazia dei contemporanei è diversa da quella "classica", e questa a sua volta era diversa dalla democrazia della agorà. E pure sempre è necessaria, la democrazia. Ed è ancora senza alternative - la democrazia - pur dentro la intensissima "mutatio rerum" che viviamo e vediamo. Intensa nel presente come mai nel passato, dalla tecnologia alla geografia. La scienza muta l'esistenza. La "medicina", la "ars longa" sempre più estende il suo campo, non più solo sulla conoscenza del corpo umano, ma essa stessa ormai capace di ricrearlo per parti. L'iPad muta le facoltà mentali, crea nuovi palinsesti, produce in un istante qualcosa di simile a quello che per farsi ci ha messo tre secoli, nel passaggio dal libro a stampa alla luce elettrica. Per suo conto, Google vale e conta strategicamente ormai come e forse più di uno Stato G7. E poi è cambiata di colpo la geografia economica e politica. Di colpo, perché i venti anni che passano dalla caduta del muro di Berlino ad oggi sono un tempo minimo, un tempo non sviluppato sull'asse della lunga durata tipica delle altre rivoluzioni della storia". Dove porta questo ragionamento sul cambiamento della democrazia? "Se cambia la geografia, la politica non può restare uguale. La politica come è stata finora è stata costruita sulla base territoriale chiusa tipica dello Stato-nazione, su confini impermeabili che concentravano nello Stato il monopolio della forza. E la politica era la forma di esercizio e di controllo della forza. La stessa democrazia era rapporto tra rappresentanza e potere. Ora non è più così. L'asse si sta inclinando, la rappresentanza cresce, il potere decresce, eroso e diluito dallo spazio globale. E la crisi radicalizza questa asimmetria. La crisi genera domande crescenti d'intervento. I popoli chiedono interventi sempre più forti, a governi sempre più deboli". Giusto, basta guardare alla debolezza del governo Berlusconi... "Non è così. Il mio ragionamento vale per tutti i governi. La formula di soluzione e reazione politica non può essere più solo nazionale, ma internazionale. Ed è questo il senso politico della "poliarchia" disegnata nell'enciclica "Caritas in veritate". È proprio questo quello che si sta facendo in Europa in questi mesi, in questi giorni, costruendo sopra gli Stati una nuova "architettura politica"". Ministro, per favore, passiamo dalla filosofia alla cronaca di questi giorni. Parliamo delle difficoltà dell'Italia e del suo governo. Qui si parla di crisi, di elezioni anticipate, di governi di transizione... "In Italia la formula di soluzione non può essere quella del governo tecnico. Per due ragioni. Primo, perché non c'è una "melior pars" fatta di ottimati, di tecnici, di illuminati, capaci di governare la complessità. Li vedo, certo, ma non li vedo capaci di governare. Secondo, perché un governo di questo tipo, non basato sul voto popolare, non avrebbe chance di prendere posto al tavolo dell'Europa". Cioè? Lei sta dicendo che l'Europa avrebbe il potere di dire no a un governo tecnico in Italia? "È così. E non solo perché l'Europa è costruita sul canone della democrazia, ma soprattutto perché l'Europa, avviata a prendere la forma di un comune destino politico, presuppone e chiede comunque una base di stabilità e di forza. Questa derivante solo dalla politica e dalla democrazia. Tipico il caso della Grecia: la fiducia europea è stata indirizzata verso il governo greco legittimamente eletto. La negatività, verso un ruolo esclusivo del Fondo monetario internazionale, era basata sulla diffidenza verso una formula che sarebbe stata più debole, proprio perché solo tecnica. La tecnica può essere solo complementare alla politica, e non sostitutiva". Ma chi si potrebbe opporre, invece, a un governo politico di larghe intese, di cui parlano in molti, nel Pd e nell'Udc? "La casistica delle larghe intese si presenta solo in due scenari. Dopo elezioni che evidenziano la bilaterale insufficienza delle forze in campo, o per effetto di un trauma. Francamente, nel presente dell'Italia non vedo un trauma tanto forte da spingere verso questa ipotesi di soluzione. Non un trauma "economico", non un trauma "esterno", non un trauma "giudiziario"". Sull'economia, in realtà, il trauma lo abbiamo rischiato di brutto con l'attacco dei mercati, e forse continueremo a rischiarlo oggi e nei prossimi mesi. Non è così? "Il trauma economico è stato ipotizzato subito, appena dopo la costituzione di questo governo, a fronte della crisi che arrivava. L'ipotesi non si è verificata. Era un'ipotesi basata tanto su di una insufficiente e solo parziale analisi della realtà, quanto sulla sottovalutazione della forza del governo. 2008, 2009, 2010. Siamo ormai verso il terzo autunno, e puntualmente per ogni autunno si prevedeva e ora si prevede la crisi. Una crisi esterna, causata dallo scatenarsi della speculazione finanziaria sul nostro debito pubblico. Una crisi interna, con la rottura dell'ordine e della coesione sociale. In questi anni la sinistra ha puntato sulla paura, come se questa fosse un'ideologia congiunturale sostitutiva. Non è stato così, non è così, non sarà così". Ma è stato lei a dire che senza la manovra rischiamo la fine della Grecia... "Appunto, senza la manovra. In realtà nel 2008 siamo partiti con la legge finanziaria triennale e siamo andati avanti sulla stessa linea. I numeri dell'Italia sono ormai allineati nella norma e nella media europea. Avrebbe potuto essere diverso, e non è stato. E questo è stato certo per la forza propria e sottovalutata dell'Italia. Ma anche, si vorrà ammettere, per la visione e per la forza nell'azione di governo". Eppure, basta parlare con un po' di ambasciatori per sapere che i nostri partner occidentali temono per la tenuta politica del governo Berlusconi. Lo può negare? "Sarebbe questo il secondo trauma, quello "esterno". Una volta si diceva "tintinnare di sciabole". Ora, in un'età più pacifica, si parla di "voci di Cancelleria". Francamente non mi pare che si tratti di dati rilevanti. Per due ragioni. Perché la crisi postula la stabilità come valore superiore. E poi perché non pare che tanti altri governi siano in condizioni di forza superiore a quella dell'Italia. Per essere chiari, in giro per l'Europa non vedo governi tanto forti e tanto determinati e determinanti. Ma, all'opposto, tutti impegnati nella gestione delle proprie crisi interne. Gestione che, in giro per l'Europa, non mi sembra più forte della nostra, ma spesso anche contraddittoria, incerta e contestata. In realtà, siamo tutti impegnati in Europa nella costruzione di una architettura nuova di comune e superiore interesse. Il ruolo dell'Italia nello scenario europeo è forte, richiesto e reputato. Il ruolo di Silvio Berlusconi è forte. E, nel mio piccolo, per esempio martedì sono invitato in Germania a Friburgo per la "Lezione europea". E non come professore di università, ma come ministro della Repubblica italiana". Eppure la vostra maggioranza rischia ogni giorno l'implosione interna. Che mi dice delle inchieste, dei ministri che si dimettono, dello scandalo della P3? "Per scelta politica, tendo sempre ad analisi di sistema. È certo che non si tratta solo di una mela marcia. C'è qualcosa di più. Forse, e anzi senza forse, è venuta fuori una cassetta di mele marce. Ma l'albero non è marcio, e il frutteto non è marcio. La combinazione perversa è tra le condotte personali e la crisi generale. La crisi postula la salita, e non la discesa nella scala dell'etica, e se vuole anche dell'estetica". Quindi anche lei, come il premier, pensa che questi siano solo polveroni? "La politica deve sempre distinguere tra ciò che è "reato" e ciò che è "peccato", e non confondere l'uno con l'altro. Ci può essere reato senza peccato, come ci può essere peccato senza reato. I dieci comandamenti sono una cosa, i codici una cosa diversa. Un discorso politico serio deve e può essere avviato anche in casa nostra su questo campo. Anzi è già iniziato, ma proprio per questo non può essere generalizzato e banalizzato". Banalizzato? Qui ci sono pezzi di Stato e di governo che cercano di infiltrarsi e condizionare le decisioni della magistratura, in nome di "Cesare". Dove vede la banalità? "Per banalità intendo la "banalità del male". E anche per questo non credo che puntare sulla valanga delle intercettazioni renda un buon servizio all'etica politica". Le ultime intercettazioni ci hanno però permesso di svelare le trame intorno all'eolico, e alla nuova cupola ribattezzata appunto P3... "Le ultime intercettazioni costituiscono una lettura interessante. Ne emerge un bestiario fatto di faccendieri sfaccendati, di "poteri" impotenti, se si guarda i risultati, di reati più "tentati" che "consumati". Più si affolla la scena, più tutto si confonde. E la presunta "tragedia" si fa commedia. Questo non vuol dire che non ci sia una questione morale...". Meno male: riconosce che esiste una questione morale nel centrodestra? "Ma quella morale è una questione generale. Questo è un Paese in cui molti "governi" locali si sono clonati e derivati in galassie societarie "parallele". Spesso più grandi dei governi stessi. E non sempre sotto il controllo democratico e giudiziario. Leggasi la monografia della Corte dei Conti. Mezza Italia è in dissesto sanitario. E questo riduce drammaticamente la "cifra" della morale pubblica. Troppo spesso i fondi pubblici sono una pipeline verso gli affari. Oggi l'affare degli affari è quello dell'eolico, almeno questo non inventato da noi. Vastissime aree del Paese sono deturpate da pale eoliche sorte all'improvviso, in un territorio che nei secoli passati non ha mai avuto i mulini a vento. E forse ci sarà una ragione. È in tutto questo che vedo la grande questione morale, questo è l'albero storto che va raddrizzato. E per farlo non vedo alternative al federalismo fiscale. L'unica, l'ultima forma per riportare nella trasparenza e nell'efficienza la cosa comune". Nel frattempo, per nascondere tutto ai cittadini, il governo vara la legge-bavaglio. Lei è d'accordo anche con questo? "La traccia possibile di una discussione seria su di un tema serio, come quello della dialettica tra il diritto alla privacy e il diritto all'informazione, si è persa in un labirinto. E solo ora forse può essere ritrovata. Più che di bavaglio, pare che si trattasse di un "bavaglino". Si è troppo confuso, e non certo solo da parte nostra, fra i mezzi e i fini". Bavaglino, dice lei? E allora perché avete paralizzato per questo il Parlamento per ben due anni, a discutere di intercettazioni, invece di parlare dei problemi veri del paese? "Al Parlamento è bastato un mese per fare la "manovra". Un'azione effettiva, la prima fatta in Europa e qui dall'Italia. Altrove siamo ancora allo stadio dei disegni, dei documenti, dei propositi, delle reazioni di piazza. Da noi non è stato così. E la "manovra" non è stata solo finanza, ma anche politica. Per la prima volta è riduzione del perimetro dello Stato, con l'effettivo azzeramento di trenta enti pubblici, dei costi del governo e della politica". Ministro, a parte i tagli alle Regioni, nella manovra non c'è niente di strutturale... "Nella manovra è stata fatta la riforma delle pensioni più seria d'Europa in questi anni e pari data c'è stata Pomigliano, con il lavoro che non esce ma torna in Italia e nel Mezzogiorno. E forse queste due, pensioni e Pomigliano, sono due P più importanti della P3. Con rispetto parlando, e con orgoglio parlando, l'azione del governo contro la criminalità organizzata ha un'intensità e un'efficacia finora non conosciute. E forse anche questo va messo sul piatto della giustizia". Ma le Regioni? Perché i governatori protestano? Perché Formigoni dice che dovrà tagliare i servizi ai cittadini? "Qui vale la dialettica tesi, antitesi, sintesi. Il processo politico ha funzionato subito con i Comuni e le Province, e si sta chiudendo ora anche con le Regioni. Come Comuni e Province, così le Regioni hanno infine fatto propria la nostra ipotesi di discuterne all'interno del federalismo fiscale tanto municipale quanto regionale. E alla fine il bilancio mi sembra positivo. Nell'insieme la manovra è stata fatta su una vastissima base di consenso sociale". E la crescita? Anche su questo il piatto della manovra è miseramente vuoto. Può negarlo? "Come le ho detto, i numeri italiani sono allineati alla media europea. Nella manovra, oltre alla stabilità finanziaria, c'è comunque una prima "cifra" dello sviluppo. Dalle reti di impresa alla drastica riduzione della burocrazia. Più in generale nel tempo presente non esiste lo sviluppo in un Paese solo, non si fa lo sviluppo con la Gazzetta ufficiale, soprattutto avendo il terzo debito pubblico del mondo. Del resto la ripresa in atto è portata più che dalle politiche economiche, dal cambio sul dollaro. E tuttavia certo molto deve esser fatto ancora. Dalla "battaglia per il diritto", troppe regole sono infatti un costo e un limite allo sviluppo, per arrivare alla ricerca, per cui dovrebbe essere fatto un maxi fondo d'investimento pubblico, alla combinazione tra la riforma degli istituti tecnici, cui devono concorrere anche le imprese, ed il contratto di apprendistato". Bersani la invita da tempo ad andare in Parlamento, a discutere della crisi. Perché lei si rifiuta? "La sequenza non può essere prima chi e poi cosa, e cioè prima si sceglie chi governa e poi si decide cosa si fa. Questa sequenza riflette un eccesso di odio antropomorfo. Prima si deve discutere sul cosa". E dello scontro tra il premier e Fini cosa mi dice. Quello non è un pericolo, per la tenuta del Pdl? "Anche questo tema rientra nell'idea antropomorfa della politica, che non mi appartiene". Non può negare che l'altro scontro dentro la maggioranza riguarda lei e il presidente del Consiglio. È vero che venerdì scorso persino Gianni Letta l'ha rimproverata in Consiglio dei ministri? "Oggi ci abbiamo riso sopra. Vedo un eccesso di confusione tra "personale" e "politico". Certo, in politica conta anche il personale, ma su troppi "scontri" ho letto troppo folklore...". È vero o no che lei minaccia quasi ogni giorno le dimissioni? "Non ho mai minacciato le dimissioni, ma spesso ho detto "non firmo". E alla fine il voto è sempre arrivato, positivo e convinto. Tutto quello che ho fatto, e forse anche un po' più della politica economica, l'ho fatto convinto di fare comunque quello che mi sembrava bene per il mio Paese. E non avrei potuto farlo senza Berlusconi e Bossi, o contro Berlusconi e Bossi. E sarà così anche nel prossimo autunno e oltre". (18 luglio 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/07/18/news/tremonti_no_a_governi_tecnici-5654276/?ref=HREA-1
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« Risposta #133 inserito:: Luglio 21, 2010, 10:14:04 am » |
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IL COMMENTO Vince la libertà non la legalità di MASSIMO GIANNINI "QUESTA legge non può passare, e non passerà", aveva scritto "Repubblica" all'inizio della battaglia sulle intercettazioni telefoniche. Non era un ideologico "grido di battaglia" contro la legge-bavaglio voluta a tutti i costi da Silvio Berlusconi, che minaccia i diritti di libertà e i principi di legalità. Era invece una rischiosa ma convinta "scommessa" sulla forza della democrazia. La scommessa racchiudeva, da una parte, un atto di fiducia verso le istituzioni repubblicane, nonostante le continue aggressioni del presidente del Consiglio. Dall'altra, un investimento sull'opinione pubblica, nonostante le continue manipolazioni dell'agenzia Stefani berlusconiana. È ancora presto per trarre conclusioni definitive: l'iconografia del Caimano ci ricorda che proprio nei momenti più drammatici il colpo di coda è sempre possibile. Ma allo stato degli atti, la giornata di ieri dice che almeno una parte di quella scommessa è stata vinta. Per ora Berlusconi incassa una sconfitta durissima, dentro la sua maggioranza e di fronte al Paese. Il governo, suo malgrado, è costretto a far suoi gli emendamenti sul diritto di cronaca. Se la Camera li voterà e li approverà, i diritti di libertà saranno salvi. I giornali potranno continuare a fare il proprio dovere, cioè informare i cittadini su tutte le inchieste che svelano le trame del potere politico, economico e criminale. I cittadini potranno continuare ad esercitare un loro diritto, cioè essere informati di tutto ciò che le intercettazioni svelano sul malaffare della "casta". È una buona notizia. Sul piano della politica, conferma la tenuta dell'asse istituzionale tra il presidente della Repubblica e il presidente della Camera. Napolitano e Fini, in modi diversi e con ruoli diversi, sono riusciti a fermare il tentativo tecnicamente eversivo del premier di stravolgere un principio garantito dalla Costituzione all'articolo 21. Sul piano della democrazia, conferma che a volte anche il "berlusconismo da combattimento", quello più pericoloso perché tendenzialmente dispotico e irresponsabile, può essere fermato. La modifica alla legge proposta dalla presidente della commissione Giustizia, la finiana Giulia Bongiorno, è convincente dal punto di vista culturale e procedurale. Cade la norma liberticida che vietava ai giornali di pubblicare qualunque intercettazione fino alla richiesta di rinvio a giudizio o all'inizio dell'udienza preliminare. Al suo posto, l'emendamento prevede la cosiddetta "udienza-stralcio", con la quale le parti (difesa ed accusa) decidono insieme davanti al giudice (durante le indagini preliminari e prima del dibattimento) quali siano le intercettazioni "rilevanti" (dunque pubbliche e pubblicabili) e quelle irrilevanti (dunque da secretare o da distruggere). Una norma di assoluto buon senso. La stessa che aveva proposto su questo giornale Giuseppe D'Avanzo due anni fa, e che "Repubblica" da allora ha sempre rilanciato con forza, in editoriali, convegni e trasmissioni televisive. Scriveva D'Avanzo, nel suo commento intitolato "La via maestra per una riforma": "Occorre separare le conversazioni utili a formare la prova da quelle, non utili, relative alla vita privata degli indagati e delle persone estranee alle indagini, le cui conversazioni siano state raccolte per caso. Bisogna separare le prime dalle seconde dinanzi a un giudice alla presenza delle difese e, per impedire la divulgazione e la pubblicazione delle conversazioni non utili alle indagini, è necessario estendere a questa procedura il vincolo della segretezza, prevedendo sanzioni severe per i trasgressori...". L'articolo uscì l'11 giugno del 2008. Un'epoca "non sospetta", per così dire. Che dimostra quanto sia strumentale l'ideologia propagandistica usata da Berlusconi per spiegare la necessità e l'urgenza di questa legge-bavaglio: la presunta "tutela della privacy". E che dimostra quanto sia debole il pensiero di quegli intellettuali gregari che in queste settimane si sono affrettati a salire sul carro del premier, proprio in nome di un intangibile (e perciò insostenibile) "primato" della privacy. Di cui al premier (con tutta evidenza) non interessa nulla. E di cui "Repubblica", invece, si è fatta responsabilmente e concretamente carico da almeno due anni. Ma se con questo emendamento cade almeno il "bavaglio", questa legge non rinuncia affatto a colpire il "bersaglio" che riguarda l'agibilità delle intercettazioni da parte della magistratura. Questa parte della "scommessa" appare tuttora irrimediabilmente persa. Se questa legge sarà approvata, pur con tutte le modifiche apportate anche su questo versante dai volonterosi finiani, i principi di legalità ne usciranno gravemente lesionati. Non basta aver prolungato le "proroghe" alle intercettazioni di 15 giorni in 15 giorni, dopo i 75 categoricamente fissati come limite da questo dissennato provvedimento: per i pm questo sarà un ulteriore intralcio alle indagini, e non solo di natura burocratica. Non basta aver parzialmente corretto l'abominio della "prova diabolica" richiesta per poter procedere alle intercettazioni ambientali, o aver ripristinato la procedibilità innescata dalle intercettazioni sui cosiddetti "reati spia". Rimane l'impianto fortemente limitativo all'uso di questo prezioso strumento di investigazione e di raccolta delle prove, come confermano tutti i magistrati impegnati in prima linea persino nei reati contro le mafie, da Pietro Grasso ad Antonio Ingroia. Questa "danno", enorme per la sicurezza del Paese e incalcolabile per la difesa della legalità, è stato ridotto. Ma in misura tuttora intollerabile per uno Stato di diritto. E allora, cosa resta di questa pessima legge, se non l'insensata ma gravissima deformità che arreca al nostro sistema giuridico? Cosa resta se non l'innaturale ma profondissima torsione delle regole che sovrintendono alla prevenzione e alla persecuzione di tutte le forme di criminalità, organizzata e comune, politica ed economica? Questo sembra, tuttora, il prezzo da pagare alla "lucida follia" berlusconiana. Il premier, ieri, ha sostanzialmente dichiarato la "resa". Ha ammesso che questa legge, così emendata, non serve a niente: voleva impedire che "milioni di cittadini" venissero spiati, e "per colpa" delle modifiche imposte da Fini e ispirate da Napolitano non sarà così. "Gli italiani continueranno a non poter parlare al telefono", ha commentato il presidente del Consiglio, spacciando all'opinione pubblica l'ennesima menzogna. Ma aggiungendo una chiosa che non può non preoccupare chiunque abbia a cuore il destino di questo Paese: se l'operazione legge-bavaglio non gli è riuscita e non gli riuscirà come lui avrebbe voluto, la colpa è di "quell'architettura costituzionale italiana basata sull'equilibrio tra i diversi poteri, che impedisce l'ammodernamento dell'Italia". Non è solo la grottesca auto-assoluzione di un leader ormai sprofondato nel regno dell'irrealtà, che maschera la sua difficoltà e la sua incapacità con il logoro e inservibile mantra del "non mi lasciano governare". Sembra anche la guerresca minaccia di un uomo disperato, perciò pronto a rovesciare tutti i tavoli. E pronto ad attaccare un principio essenziale, forgiato in quattro secoli di storia occidentale, dai padri pellegrini del Mayflower nel 1620 ai padri fondatori della Repubblica nel 1948: la divisione e il bilanciamento dei poteri. Il cuore di tutte le costituzioni, l'essenza di tutte le democrazie. Questa, qui e nei prossimi mesi, rischia di essere la vera posta in gioco. È bene che gli italiani lo sappiano. m.giannini@repubblica.it(21 luglio 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/07/21/news/giannini_bavaglio-5719196/?ref=HRER1-1
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« Risposta #134 inserito:: Luglio 24, 2010, 05:44:44 pm » |
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FIAT Quel tavolo tardivo nella partita del Lingotto Il governo Berlusconi, dopo due anni di silenzio, si accorge del 'problema Fiat'. Ma ormai da mesi la metamorfosi dell'azienda avviene 'a scapito' dell'Italia e dei lavoratori italiani di MASSIMO GIANNINI Quel tavolo tardivo nella partita del Lingotto DOPO due anni di colpevole silenzio, il governo Berlusconi si è infine accorto che in Italia esiste un "problema Fiat". Il presidente del Consiglio l'ha scoperto a modo suo, affermando un principio banale e formulando un auspicio irreale. "In una libera economia e in un libero Stato, un gruppo industriale è libero di collocare la produzione dove meglio crede, ma mi auguro che questo non accada a scapito dell'Italia e degli addetti italiani ai quali la Fiat offre lavoro". La banalità è nella ripetizione di un magnifico mantra liberale, che in Italia ha purtroppo scarso diritto di cittadinanza, visto il modello spurio in cui si mescolano capitalismo di relazione e affarismo politico, familismo amorale e finta "economia sociale di mercato". L'irrealtà è nella sottovalutazione di un fatto già evidente a tutti: da mesi, ormai, la metamorfosi della Fiat avviene "a scapito" dell'Italia e dei lavoratori italiani. Una comprensione così tardiva di un fenomeno industriale e occupazionale tanto importante da la misura esatta dell'afasia politica di questo governo. E a negarla non basta la "convocazione" dell'azienda e dei sindacati, fissata dal ministro del Welfare mercoledì 28 luglio a Torino. È il solito "italian job", che fa chic e non impegna: quando hai un problema, basta aprire un "tavolo", e hai fatto la tua figura. Peccato che stavolta le cose non siano così facili. Per nessuno dei tre soggetti che vi si sederanno intorno. Il primo soggetto è la Fiat. Non sarà facile per l'azienda. La sua strada è segnata. Per i prossimi due anni ha in cantiere solo la Nuova Giulietta e il nuovo motore TwinAir. Perde quote di mercato in Europa (dal 9,1 all'8,2%) e in Italia (dal 33,5 al 31%). È inutile continuare ad illudersi, a parlare a sproposito di "italianità", o addirittura di "torinesità", rievocando i bei tempi di Valletta e dell'Avvocato. Quello era, semplicemente, un altro mondo. La nuova "Fiat auto" è un gruppo multinazionale (ormai scorporato dalla vecchia "Fiat dell'industria") nel cui destino c'è con ogni probabilità l'ingresso di nuovi grandi partner globali e la fusione con la Chrysler. Ed è altrettanto inutile continuare a fare appello a John Elkann: il via libera allo "spin off" è una resa della famiglia Agnelli, che rinuncia a giocare in proprio la partita dell'auto. A dispetto dei piani e delle promesse, l'Italia è un mercato, ma non necessariamente una produzione. Costa troppo, in tutti i sensi: manodopera, infrastrutture, fisco. E rende poco: numero di veicoli prodotti, utili per singola automobile, reti di vendita. In Italia la Fiat produce 650 mila vetture l'anno con 22 mila operai, in Polonia 600 mila con 6.100 operai, in Brasile 730 mila con 9.400 operai. Questi sono i numeri. E con questi numeri perché mai Sergio Marchionne, "l'Oracolo dell'auto" come lo definisce enfaticamente il "Financial Times", dovrebbe "morire" per Pomigliano o addirittura per Mirafiori? Preferisce andarsene a Kragujevac, e sfornare lì la nuova monovolume. E a chi prova a dargli torto, può opporre a sua volta qualche numero: su un investimento di un miliardo di euro, 650 milioni li metteranno il governo serbo e la Bei, con in più un'esenzione fiscale di dieci anni e un contributo di 10 mila euro per ogni nuovo assunto, la cui paga base sarà di circa 400 euro. Perché, a queste condizioni, non dovrebbe andare in Serbia? Per una difesa dell'"interesse nazionale"? Marchionne è svizzero-canadese, ormai vive più a Auburn Hills che al Lingotto: l'unica cosa che conta è il posizionamento del gruppo nella sfida globale. Oppure per una "responsabilità sociale dell'impresa"? Marchionne non è Adriano Olivetti: oggi l'unica cosa che conta, secondo il gergo della modernità, è "creare valore" per gli azionisti. Il secondo soggetto sono i sindacati. Non sarà facile non tanto per la Fiom, quanto piuttosto per la Cisl e la Uil, clamorosamente spiazzate dall'"editto serbo" dell'azienda. Bonanni e Angeletti si erano affrettati con solerzia politicamente gregaria a battezzare il "lodo Pomigliano" come un "accordo storico". Sul piatto dei 700 milioni di investimenti offerti dalla Fiat avevano sacrificato una quota non trascurabile di diritti reali dei lavoratori, nell'illusoria convinzione che quel "modello contrattuale" sarebbe stato unico e non ripetibile in nessun altro luogo di lavoro. Non hanno capito, o hanno finto di non capire, che Pomigliano è stata l'epifania di una nuova era delle relazioni industriali. E che una "eccezione", quando sono in gioco diritti costituzionali, non conferma la regola, la distrugge. Non hanno capito, o hanno finto di non capire, che tra le parti tutto si può negoziare, orari e salari, ma non i diritti, appunto, trasformati in "merce fungibile" e scambiabile con la sopravvivenza dell'azienda. Non hanno capito, o hanno finto di non capire, che nel mondo globale della competizione tra diseguali il modello da difendere è il "contratto sociale" sottoscritto dall'Occidente, e non il dumping sociale imposto dai Paesi emergenti. Ora balbettano, disorientati dagli annunci e dalle scelte dell'azienda, che legittimamente difende i suoi interessi, nella convinzione di "dettare la linea sulla cultura del lavoro", come titolava l'"Herald Tribune" di ieri. Il terzo soggetto è il governo. Il suo compito sarà ancora meno facile. Per affrontare insieme all'azienda e ai sindacati il "problema Fiat", con la ragionevole certezza di tirar fuori una soluzione, bisognerebbe avere qualcosa da mettere sul tavolo. In questo momento, come da due anni a questa parte, Berlusconi non ha nulla da offrire. Qui non si parla di incentivi e di rottamazioni, che sono solo il metadone somministrato a un malato assuefatto. Qui si parla di politiche industriali e fiscali. Si parla di investimenti sulla ricerca e sulla riqualificazione delle risorse umane. Si parla di reti di trasporto e di energia. Si parla di riforme contrattuali concertate e condivise. Si parla, in altri termini, di Sistema-Paese, cioè un tema sul quale questo governo non ha e non ha mai avuto nulla da dire né da proporre. Il massimo che Berlusconi ha "inventato" in questi anni, sulla Fiat, sono state le battute imbarazzanti su Gianni Agnelli a Melfi ("è un mio mito, tengo la sua fotografia sul comodino") e le spacconate umilianti con Fresco e Galateri ad Arcore ("Datela a me, saprei io come risanare la Fiat"). Il massimo che i suoi ministri hanno inventato in queste settimane, su Pomigliano, è stata la celebrazione ideologica e irresponsabile di un "trionfo misero", consumato attraverso il regolamento di conti con la Cgil. Senza nessuna visione dell'interesse generale. Senza nessun progetto sul declino industriale. C'è voluto il Capo dello Stato, per ricordare al premier che il ministero dello Sviluppo Economico è sede vacante da tre mesi, e la presidenza della Consob lo è da tre settimane. Quanto ci vorrà perché Berlusconi capisca che il futuro dell'industria dell'auto (come di tutto quel che resta della grande industria del Paese) è una enorme "questione nazionale"? Negli Stati Uniti dei destini di Gm, Ford e Chrysler si è occupato Obama in persona alla Casa Bianca. In Italia del destino della Fiat si occuperà Sacconi alla Regione Piemonte. Con tutto il rispetto, non è la stessa cosa. (24 luglio 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/economia/2010/07/24/news/quel_tavolo_tardivo_nella_partita_del_lingotto-5789533/?ref=HREC1-2
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