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Autore Discussione: E' come il 1929? Due partiti in campo  (Letto 2585 volte)
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« inserito:: Marzo 18, 2008, 03:32:14 pm »

CRISI A CONFRONTO

E' come il 1929? Due partiti in campo

Cassandre e ottimisti divisi dalla recessione

A ll'inizio del 1929 la Harvard Economic Society avvertì che arrivava la recessione; ma quando poi in estate tutto andava ancora bene, ammise: «Ci siamo sbagliati». Vanno dunque capiti gli economisti di oggi, attenti a non spargere fiducia a buon mercato. Eppure un problema più serio devono vederlo, se anche i più liberisti evocano ormai le nazionalizzazioni.

Allora, anche dopo i primi crolli dell'autunno '29, gli esperti di Cambridge continuarono a dire che la situazione non era grave come nel '20 e Wall Street non rischiava la liquidazione. «La Society lo ripeté finché non venne liquidata », concluse tempo dopo John Kenneth Galbraith. Oggi operatori ed economisti di varia ispirazione non hanno fretta di finire così nei libri di storia e pesano le loro parole. Vero, qualcuno che rischia c'è. Da mesi ad esempio Nouriel Roubini della New York University sostiene che la caduta dei prezzi immobiliari in America avrebbe indotto una contrazione dei consumi, poi una recessione, quindi l'esplodere delle sofferenze bancarie e una minaccia per l'intero sistema finanziario fondato sul debito. Oggi assiste alla polverizzazione di Bear Stearns, la banca che resisté al '29 senza tagli al personale né ai bonus, e commenta: «Sarà forse sorprendente per qualcun altro». Non per Alan Greenspan però, l'ex presidente della Federal Reserve che ora definisce la crisi finanziaria come «probabilmente la più lancinante dalla fine della seconda guerra mondiale». Vincent Reinhart, fino a pochi mesi fa capo della divisione Affari monetari della Fed, va anche più in là: «È la peggiore dagli anni '30 perché avviene al centro del sistema globale, coinvolge banche americane ed europee e le perdite potenziali sono di oltre mille miliardi di dollari».

Alcuni non sono d'accordo, per il metodo e non solo. Alberto Giovannini di Unifortune si limita a mettere l'intensità di questi mesi un gradino sopra le tempeste degli anni '90. Ma Stephen Cecchetti della Brandeis, ex vicepresidente della Fed di New York, accusa chi semina profezie che si autoavverano: si parla di paralisi della liquidità, le banche iniziano a diffidare le une delle altre, smettono di prestarsi denaro e diventano illiquide fino all'insolvenza. In fondo, martella Cecchetti, persino l'effetto-domino di fine anni '80 sulle casse di risparmio «creò più fallimenti di oggi». Almeno su un punto però apocalittici e realisti concordano: più passano i mesi, più la via l'uscita passa per un massiccio salvataggio pubblico delle banche o del settore immobiliare negli Stati Uniti. Ne è convinto persino un liberista accanito come Alberto Alesina di Harvard: «È la lezione del '29, evitare il contagio è fondamentale — dice —. I contribuenti americani dovranno finire per pagare una fetta di insolvenze e di mancata liquidità». Cecchetti crede tanto all'intervento pubblico che non esita a trovarne il simbolo: la Jp Morgan Chase che ha inglobato Bear Strears con i soldi della Fed, nota, «è la nostra Caisse des Dépots et des Consignations, quella che a Parigi intervenne su Crédit Lyonnais».

Per George W. Bush, partire liberista anti-tasse e arrivare francese sarebbe solo l'ultima beffa, amara per lui e ancor più per i contribuenti del ceto medio chiamati a pagare gli eccessi dei banchieri di Wall Street. Comprensibile dunque che il segretario al Tesoro Henry Paulson, di continuo visto alla Fed in questi giorni, esiti prima di piegarsi all'idea di nazionalizzare. «Ma più passano i mesi — avvertono gli ex Fed Cecchetti e Reinhart — più il conto del salvataggio pubblico salirà. E l'alternativa qual è?».

Federico Fubini
18 marzo 2008

da corriere.it
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