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Autore Discussione: BARBARA SPINELLI -  (Letto 119829 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Gennaio 04, 2012, 07:48:47 pm »

L'analisi

Il coraggio della verità

di BARBARA SPINELLI


Dire il vero: sulla gravità della crisi italiana, sulla nostra seconda cosa pubblica che è l'Europa, sui sacrifici, sul guastarsi dei partiti. Sembra essere una delle principali ambizioni di Monti, da quando è Presidente del Consiglio.

Basta questo, per smentire chi decreta  -  con l'aria di saperla lunga  -  che il Premier non è che un tecnico, ammesso a sostituire fugacemente il politico detronizzato. La deturpazione funesta delle parole, lo stratagemma d'illudere il popolo imbellendo la realtà e inventandosi, per decerebrarci, un'attualità del tutto sfasata rispetto a ciò che davvero è attuale, cioè urgente, emergente: per decenni ci eravamo assuefatti a questo, e abbiamo finito col chiamarlo "politica". È ora di restituire, a quest'ultima, il severo verbo vero che le si addice.

Ogni volta che Monti viene descritto come un tecnico, entrato per effrazione in un teatro non suo, c'è da avere i brividi. Vuol dire che i politici di ieri ritengono il Premier un impolitico, e il suo sapere scientifico qualcosa di superfluo, se non dannoso, nell'arte di governo. Che giudicano impolitica anche la vocazione a non nascondere quel che è doloroso, dunque profondamente attuale, nell'oggi che viviamo. Da poche settimane sentiamo parlare di Italia e Europa con accenti inediti (un primo assaggio, ma breve, si ebbe nell'ultimo governo Prodi). I cittadini per ora approvano, conoscono una sorta di sollievo.

Si sentono anche confortati, nel
loro rigetto cupo della politica? Può darsi, ma c'è un che di nefasto in questa visione duale: da una parte i politici, dall'altra un Premier che ha tutte le doti dello statista, che interiorizza al massimo la rappresentanza democratica, e tuttavia è percepito come tecnico, estraneo ai giochi nazionali. Essere impolitici in una democrazia smagliata ha le sue virtù: impolitico è chi non possiede le furbizie del professionista politico. Ma prima o poi le due figure vanno congiunte (già si congiungono nel Premier) per depurare la politica ed evitare che senza soluzione di continuità, senza memoria di quest'intermezzo, ci venga restituita domani la politica di ieri.

Le parole dette con franchezza, che Monti usa con metodo nelle conferenze stampa, hanno una lunga storia nella democrazia. Ne discussero i filosofi dell'antichità greca, e diedero al dire-tutto il nome di parresia: un vocabolo che torna negli Atti degli apostoli (Pietro e Giovanni rischiano la morte, pur di testimoniare il vero e la libera coscienza del cristiano). Chi parlava senza blandire o mimetizzarsi era chiamato parresiasta. Senza parresia, scrive Foucault, "siamo sottomessi alla follia e all'idiozia dei padroni": la pòlis ha bisogno di verità, per esistere e salvarsi.

Monti è all'altezza di tale compito? Per come tratta i giornalisti, per come li considera messaggeri dei cittadini  -  quasi il coro di antiche tragedie  -  si direbbe di sì. Non tutti i suoi ministri sono parresiasti: l'apprendimento del parlare-vero è lento, sempre scabroso. Si perdono privilegi, ci si espone alle critiche dei sofisti (gli economisti). Nella democrazia ateniese, secondo Socrate e Demostene, si rischiava la vita. Ha parlato-vero il ministro Fornero, quando tremò, il 4 dicembre in sala stampa, nell'annunciare i sacrifici: non perché volesse celarli, ma perché tremando li confermava penosamente veri.

Anche in Europa il Premier è parresiasta, come nessun collega dell'Unione: ai suoi pari come alla stampa, fa capire che c'è emergenza per tutti, che questa è l'attualità dentro cui i leader non guardano. In due occasioni ha osato bandire le deferenze  -  che già condannava da mesi. Prima è accaduto a Strasburgo, nel vertice del 24 novembre con la Merkel e Sarkozy, quando ha ricordato i peccati di chi oggi vitupera i dilapidatori del Sud: "Una buona parte della perduta credibilità del Patto di stabilità è stata dovuta al fatto che, quando Germania e Francia nel 2003 entrarono in conflitto col patto, i due governi dell'epoca, francese e tedesco, con la complicità del governo italiano che presiedeva il consiglio Ecofin (il governo Berlusconi, ndr), sono passati sopra queste deviazioni. Credo sia stato un grosso errore". Non solo: ha ricordato che fu proprio lui, commissario a Bruxelles, a battersi perché la Commissione denunciasse il Consiglio dei ministri di fronte alla Corte di giustizia, e a ottenerlo.

La seconda occasione è stata la conferenza stampa di fine anno. Aprendo un dialogo con Tobias Piller, corrispondente a Roma della Frankfurter allgemeine Zeitung, il Premier ha fatto una piccola lezione sui tempi lunghi e corti in politica, biasimando l'incapacità tedesca di ritrovare la veduta lunga del passato.
Ci vuole coraggio per firmare le proprie parole, parlando-vero. Chi lo possiede non ha la vita facile, deve esser cauto se non vuol ricadere nel parlar-falso. Alcuni barcollano, tra chi sta accanto a Monti. Per esempio il potente ministro Passera (responsabile dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture, dei Trasporti). Nei giorni scorsi è inciampato malamente, su un caso rievocato dalla stampa: segno che la parresia latita nei partiti, ma un po' anche nel governo.

Il caso è la mancata vendita di Alitalia e il suo presunto salvataggio: è una delle grandi menzogne dell'era Berlusconi, e su questa pietra Passera ha incespicato. Criticato da Milena Gabanelli e Giovanna Boursier (Corriere della Sera, 30-12) ha replicato: "L'operazione Nuova Alitalia fu del tutto trasparente e rispettosa delle regole, comprese quelle della concorrenza. Con capitali privati si sono salvati almeno 15 mila posti di lavoro ed è stato drasticamente ridotto l'onere che lo Stato avrebbe dovuto sostenere se fosse avvenuto l'inevitabile fallimento dell'intera vecchia Alitalia".

Ricordare è forse difficile per Passera, ma Monti certo sa come andarono le cose. È vero che l'operazione Fenice salvò posti di lavoro e ridusse, per lo Stato, i costi di una bancarotta. Ma il fallimento non era affatto inevitabile. Il governo Prodi aveva stretto un accordo con Air France, che fu sabotato  -  complici i sindacati  -  dall'alleanza fra Berlusconi e l'odierno ministro dello Sviluppo (allora amministratore delegato di Banca Intesa). Formalmente è vero che furono rispettate le regole della concorrenza. Ma solo perché il governo Berlusconi modificò con un decreto ad hoc le norme antitrust relative alla tratta Milano-Roma, consentendo a Alitalia-Air One di ottenere il monopolio su tale rotta.

Le cifre parlano chiaro, e un governo che dice il vero non può occultarle. Il piano francese prevedeva 2.120 licenziamenti. Nuova Alitalia, assorbendo la fallimentare Air One di cui Banca Intesa era creditrice, ne licenziò 7.000. L'integrazione con Air France sarebbe stata ben più benefica: minori costi per lo Stato (per i contribuenti), minori costi per azionisti e obbligazionisti Alitalia, nessun cambiamento "in corsa" delle regole per favorire cordate italiane, inserimento di Alitalia in una promettente rete internazionale.

In tempi di crisi, la parola del parresiasta si accosta a quella profetica, o del saggio. I tempi s'allungano, il futuro lontano è incorporato come compito nel presente, la scadenza elettorale non è il cannello d'imbuto che inchioda i governanti alla veduta corta ma è un uscire all'aperto di cittadini bene informati.

Milena Gabanelli e Giovanna Boursier hanno chiesto a Passera di liberarsi dei suoi ingombri. Ma alla domanda viene da aggiungere: guardi al Presidente del Consiglio, signor Ministro, al suo linguaggio. Esca non solo dai conflitti d'interesse, ma dalle tante bugie dette ai cittadini: la bugia su Alitalia l'hanno pagata gli italiani, come contribuenti e lavoratori. La pòlis ha bisogno di verità, sugli sbagli di ieri. La pòlis ha bisogno di verità, sugli sbagli di ieri. Un ministro del governo Prodi parlò-vero, all'inizio del 2008, quando disse che avevano "ripreso sopravvento gli impulsi di autodistruzione presenti nella società italiana e nella classe politica", e criticò proprio l'offensiva pregiudiziale di Passera contro l'accordo Air France. Passera è un tecnico, non meno di Monti. Non basta esser tecnici per liberarci della malapolitica che ci ha portati nella fossa.
 

(04 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/04/news/coraggio_verit-27564844/?ref=HREA-1
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« Risposta #166 inserito:: Gennaio 07, 2012, 10:16:26 pm »

L'analisi

Il coraggio della verità

di BARBARA SPINELLI


Dire il vero: sulla gravità della crisi italiana, sulla nostra seconda cosa pubblica che è l'Europa, sui sacrifici, sul guastarsi dei partiti. Sembra essere una delle principali ambizioni di Monti, da quando è Presidente del Consiglio.

Basta questo, per smentire chi decreta  -  con l'aria di saperla lunga  -  che il Premier non è che un tecnico, ammesso a sostituire fugacemente il politico detronizzato. La deturpazione funesta delle parole, lo stratagemma d'illudere il popolo imbellendo la realtà e inventandosi, per decerebrarci, un'attualità del tutto sfasata rispetto a ciò che davvero è attuale, cioè urgente, emergente: per decenni ci eravamo assuefatti a questo, e abbiamo finito col chiamarlo "politica". È ora di restituire, a quest'ultima, il severo verbo vero che le si addice.

Ogni volta che Monti viene descritto come un tecnico, entrato per effrazione in un teatro non suo, c'è da avere i brividi. Vuol dire che i politici di ieri ritengono il Premier un impolitico, e il suo sapere scientifico qualcosa di superfluo, se non dannoso, nell'arte di governo. Che giudicano impolitica anche la vocazione a non nascondere quel che è doloroso, dunque profondamente attuale, nell'oggi che viviamo. Da poche settimane sentiamo parlare di Italia e Europa con accenti inediti (un primo assaggio, ma breve, si ebbe nell'ultimo governo Prodi). I cittadini per ora approvano, conoscono una sorta di sollievo.

Si sentono anche confortati, nel
loro rigetto cupo della politica? Può darsi, ma c'è un che di nefasto in questa visione duale: da una parte i politici, dall'altra un Premier che ha tutte le doti dello statista, che interiorizza al massimo la rappresentanza democratica, e tuttavia è percepito come tecnico, estraneo ai giochi nazionali. Essere impolitici in una democrazia smagliata ha le sue virtù: impolitico è chi non possiede le furbizie del professionista politico. Ma prima o poi le due figure vanno congiunte (già si congiungono nel Premier) per depurare la politica ed evitare che senza soluzione di continuità, senza memoria di quest'intermezzo, ci venga restituita domani la politica di ieri.

Le parole dette con franchezza, che Monti usa con metodo nelle conferenze stampa, hanno una lunga storia nella democrazia. Ne discussero i filosofi dell'antichità greca, e diedero al dire-tutto il nome di parresia: un vocabolo che torna negli Atti degli apostoli (Pietro e Giovanni rischiano la morte, pur di testimoniare il vero e la libera coscienza del cristiano). Chi parlava senza blandire o mimetizzarsi era chiamato parresiasta. Senza parresia, scrive Foucault, "siamo sottomessi alla follia e all'idiozia dei padroni": la pòlis ha bisogno di verità, per esistere e salvarsi.

Monti è all'altezza di tale compito? Per come tratta i giornalisti, per come li considera messaggeri dei cittadini  -  quasi il coro di antiche tragedie  -  si direbbe di sì. Non tutti i suoi ministri sono parresiasti: l'apprendimento del parlare-vero è lento, sempre scabroso. Si perdono privilegi, ci si espone alle critiche dei sofisti (gli economisti). Nella democrazia ateniese, secondo Socrate e Demostene, si rischiava la vita. Ha parlato-vero il ministro Fornero, quando tremò, il 4 dicembre in sala stampa, nell'annunciare i sacrifici: non perché volesse celarli, ma perché tremando li confermava penosamente veri.

Anche in Europa il Premier è parresiasta, come nessun collega dell'Unione: ai suoi pari come alla stampa, fa capire che c'è emergenza per tutti, che questa è l'attualità dentro cui i leader non guardano. In due occasioni ha osato bandire le deferenze  -  che già condannava da mesi. Prima è accaduto a Strasburgo, nel vertice del 24 novembre con la Merkel e Sarkozy, quando ha ricordato i peccati di chi oggi vitupera i dilapidatori del Sud: "Una buona parte della perduta credibilità del Patto di stabilità è stata dovuta al fatto che, quando Germania e Francia nel 2003 entrarono in conflitto col patto, i due governi dell'epoca, francese e tedesco, con la complicità del governo italiano che presiedeva il consiglio Ecofin (il governo Berlusconi, ndr), sono passati sopra queste deviazioni. Credo sia stato un grosso errore". Non solo: ha ricordato che fu proprio lui, commissario a Bruxelles, a battersi perché la Commissione denunciasse il Consiglio dei ministri di fronte alla Corte di giustizia, e a ottenerlo.

La seconda occasione è stata la conferenza stampa di fine anno. Aprendo un dialogo con Tobias Piller, corrispondente a Roma della Frankfurter allgemeine Zeitung, il Premier ha fatto una piccola lezione sui tempi lunghi e corti in politica, biasimando l'incapacità tedesca di ritrovare la veduta lunga del passato.
Ci vuole coraggio per firmare le proprie parole, parlando-vero. Chi lo possiede non ha la vita facile, deve esser cauto se non vuol ricadere nel parlar-falso. Alcuni barcollano, tra chi sta accanto a Monti. Per esempio il potente ministro Passera (responsabile dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture, dei Trasporti). Nei giorni scorsi è inciampato malamente, su un caso rievocato dalla stampa: segno che la parresia latita nei partiti, ma un po' anche nel governo.

Il caso è la mancata vendita di Alitalia e il suo presunto salvataggio: è una delle grandi menzogne dell'era Berlusconi, e su questa pietra Passera ha incespicato. Criticato da Milena Gabanelli e Giovanna Boursier (Corriere della Sera, 30-12) ha replicato: "L'operazione Nuova Alitalia fu del tutto trasparente e rispettosa delle regole, comprese quelle della concorrenza. Con capitali privati si sono salvati almeno 15 mila posti di lavoro ed è stato drasticamente ridotto l'onere che lo Stato avrebbe dovuto sostenere se fosse avvenuto l'inevitabile fallimento dell'intera vecchia Alitalia".

Ricordare è forse difficile per Passera, ma Monti certo sa come andarono le cose. È vero che l'operazione Fenice salvò posti di lavoro e ridusse, per lo Stato, i costi di una bancarotta. Ma il fallimento non era affatto inevitabile. Il governo Prodi aveva stretto un accordo con Air France, che fu sabotato  -  complici i sindacati  -  dall'alleanza fra Berlusconi e l'odierno ministro dello Sviluppo (allora amministratore delegato di Banca Intesa). Formalmente è vero che furono rispettate le regole della concorrenza. Ma solo perché il governo Berlusconi modificò con un decreto ad hoc le norme antitrust relative alla tratta Milano-Roma, consentendo a Alitalia-Air One di ottenere il monopolio su tale rotta.

Le cifre parlano chiaro, e un governo che dice il vero non può occultarle. Il piano francese prevedeva 2.120 licenziamenti. Nuova Alitalia, assorbendo la fallimentare Air One di cui Banca Intesa era creditrice, ne licenziò 7.000. L'integrazione con Air France sarebbe stata ben più benefica: minori costi per lo Stato (per i contribuenti), minori costi per azionisti e obbligazionisti Alitalia, nessun cambiamento "in corsa" delle regole per favorire cordate italiane, inserimento di Alitalia in una promettente rete internazionale.

In tempi di crisi, la parola del parresiasta si accosta a quella profetica, o del saggio. I tempi s'allungano, il futuro lontano è incorporato come compito nel presente, la scadenza elettorale non è il cannello d'imbuto che inchioda i governanti alla veduta corta ma è un uscire all'aperto di cittadini bene informati.

Milena Gabanelli e Giovanna Boursier hanno chiesto a Passera di liberarsi dei suoi ingombri. Ma alla domanda viene da aggiungere: guardi al Presidente del Consiglio, signor Ministro, al suo linguaggio. Esca non solo dai conflitti d'interesse, ma dalle tante bugie dette ai cittadini: la bugia su Alitalia l'hanno pagata gli italiani, come contribuenti e lavoratori. La pòlis ha bisogno di verità, sugli sbagli di ieri. La pòlis ha bisogno di verità, sugli sbagli di ieri. Un ministro del governo Prodi parlò-vero, all'inizio del 2008, quando disse che avevano "ripreso sopravvento gli impulsi di autodistruzione presenti nella società italiana e nella classe politica", e criticò proprio l'offensiva pregiudiziale di Passera contro l'accordo Air France. Passera è un tecnico, non meno di Monti. Non basta esser tecnici per liberarci della malapolitica che ci ha portati nella fossa.
 

(04 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #167 inserito:: Gennaio 11, 2012, 11:45:35 am »

COMMENTO

Come dare dignità al nostro futuro

di BARBARA SPINELLI


DA QUANDO siamo rinchiusi come morti viventi nella recessione, è soprattutto sulle sciagure passate che riflettiamo, illuminati da economisti e raramente purtroppo da storici. È un rammemorare prezioso, perché delle depressioni di ieri apprendiamo i tempi lunghi, gli errori, gli esiti politici fatali, specie nella prima metà del secolo scorso. Anche sulle grandi riprese tuttavia conviene meditare: sulle rivoluzioni economiche che hanno aumentato e diffuso il benessere. In particolare, vale la pena ripensare la scintilla da cui partì la Rivoluzione industriale del XVIII secolo. È allora infatti che l'Europa comincia a crescere a raggiera, con impeto. Anche se costellata di iniziali fatiche, ingiustizie, ricordiamo quella rivoluzione come un'epoca d'oro, e forse proprio per questo l'evochiamo di rado. Dai tempi di Dante lo sappiamo: "Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria, e ciò sa 'l tuo dottore".

Il perché di quella scintilla, i fattori che la resero possibile, il nuovo vocabolario che ne scaturì, concernente in special modo la questione sociale: tutti questi elementi possono aiutarci a capire non solo la genesi di una crescita accelerata, ma a vedere nella crisi odierna una sfida, una trasformazione possibile. Se la ricchezza sta spostandosi dall'ovest all'est del mondo, se l'Occidente paga questo dislocamento con una Grande Contrazione (non solo del prodotto interno, anche di diritti accumulati negli anni del benessere)
vuol dire che siamo davanti a un incrocio simile dei sentieri.

Che urge in chi analizza il presente  -  i politici e anche gli economisti, intrappolati spesso nei loro modelli matematici  -  una prospettiva più lunga, un'attitudine a alzare l'occhio perché veda l'orizzonte, oltre che il proprio naso. La memoria storica e delle passioni umane sarà lievito di tanta impresa.

Chi voglia avventurarsi su questo sentiero apprenderà molte cose dall'ultimo libro di Deirdre McCloskey, storica ed economista all'Università dell'Illinois di Chicago (Bourgeois Dignity: Why Economics Can't Explain the Modern World, 2011). Come dice il titolo, la Rivoluzione Industriale  -  il Grande Fatto, lo chiama l'autrice  -  non è dovuta a fattori solo economici: le garanzie date ai diritti di proprietà, la scienza in espansione, la drastica riduzione dei costi dei trasporti, utile al commercio. I fattori tecnici sono cruciali, ma la scintilla decisiva non fu tecnica: fu una conversione di atteggiamenti verso le passioni della borghesia, e di due classi in prima linea, i commercianti e gli industriali delle manifatture. Fu perché venne loro data una dignità sociale mai posseduta, che la produzione industriale ricevette quella formidabile spinta. La rivoluzione francese aveva fatto della borghesia un protagonista politico, non ancora morale.

La ricchezza non era più un imbarazzo per il commerciante e l'industriale  -  l'Olanda del '600 fu precursore, basta vedere i dipinti del suo Secolo d'oro  -  e conquistarsela con le proprie mani cessò di essere un'attività non onorata. La rivoluzione della dignità borghese comincia in Nord Europa (McCloskey parla di "rendimento della dignità", dignity return), e quest'onore reso a manifatturieri e bottegai spinse a produrre e scommettere sul futuro. Se parliamo di rivoluzione, è perché in concomitanza declina  -  fino a svanire  -  il rendimento economico di classi non borghesi (le corporazioni di allora) che fin qui erano le sole a essere nobilitate moralmente: i guerrieri, gli aristocratici che vivevano di rendita, il clero.

Il problema, oggi, è sapere quali siano le classi, le attività, le passioni che devono ottenere dignità, affinché un nuovo Grande Fatto possa non solo prodursi ma radicarsi, contando sugli espedienti tecnici ma anche (come faceva Adam Smith) sullo studio delle passioni morali. Porsi questa domanda significa non solo dare spazio e voce a persone e occupazioni non sufficientemente onorate, ma decidere quale crescita vogliamo, diversa da quella iniziata con la Rivoluzione Industriale.

All'Europa, conviene investire nel suo nuovo e nel suo futuro, non in industrie migranti verso Asia o Sud America. L'industria dell'auto probabilmente tramonterà, da noi. Si parla in proposito di crescita sostenibile, ma questo sostenibile va raccontato, spiegato: se "lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni" (Rapporto Brundtland, 1987, Commissione Mondiale sull'Ambiente e lo Sviluppo) l'Unione deve scegliere produzioni che domani saranno d'avanguardia: energie alternative, trasporti cittadini comuni più che individuali, conoscenza, e in genere quello che viene detto "capitale umano" e più semplicemente possiamo chiamare persona umana. Deve investire prioritariamente su istruzione, ricerca, cultura, convivialità cittadina.

Per una svolta così importante, gli Stati europei non bastano: sono i superstiti stanchi della vecchia rivoluzione. Troppo enorme è lo sforzo che stanno facendo per mettere a posto i propri conti, e neanche sanno bene se servirà. Il nuovo Grande Fatto, solo l'Unione può generarlo, e per questo il dogma tedesco che predilige la "casa (nazionale) in ordine" ha un respiro così corto. Ma per riuscire, l'Europa va rivoluzionata. Per investire nel nuovo ha bisogno di poter spendere, dunque di un bilancio più forte. Per contare deve saper decidere senza che il liberum veto di Stati fatiscenti la blocchi.

Quali sono oggi le persone e le classi cui va restituita dignità, e una cittadinanza vera? Gli immigrati, senza i quali finanziare il Welfare è impossibile. I precari, che non riescono a mettere a frutto l'istruzione ricevuta e tribolano come apolidi in patria. I professori e ricercatori, che erano una classe nobile nell'800 (non dimentichiamo che in Francia, dopo la scuola obbligatoria e la separazione Stato-Chiesa, Charles Péguy li chiamò gli ussari neri della Repubblica) e sono oggi poco stimati, vessati, demotivati.

In sostanza, è al futuro che occorre dare dignità, preparandolo ora. Lo stesso dramma dei debiti sovrani muta di natura, in quest'ottica. In un saggio uscito sul suo blog, un giovane studioso di bolle finanziarie dell'università di Michigan, Noah Smith, ragiona così: il debito di uno Stato, di per sé non malvagio, lo diventa se lo scarichiamo sulle generazioni future per poter consumare adesso quel che desideriamo (http://noahpinionblog.blogspot.com). Quel che Smith propone è di grande interesse: "Nel mondo reale (non nei modelli matematici) la questione essenziale non è il debito, ma la scelta fra due ordini temporali (intertemporal choice). Importante non è quanto debito accumuliamo, ma se vogliamo spostare il consumo dal futuro al presente, anziché (come dovremmo, potremmo) dal presente al futuro".

Tutto dipende da come spendono i governi, e dagli investimenti che possibilmente insieme, in Europa, privilegeranno: spenderanno per consumare più oggi, o più domani? Lasciare che i consumi si spostino dal futuro al presente (dunque pesare sulle generazioni a venire) significa ridurre gli investimenti e consumare oggi. È il percorso contrario che va imboccato: investendo sulle produzioni utili nel futuro, consumabili in modi nuovi da figli e nipoti.

Anche questa è rivoluzione della dignità. È onorare chi viene, e non ha ancora voce né rappresentanza. È meno remunerativo nell'immediato, non porta voti ai partiti che vivono solo per il breve termine (cioè per i mercati) e ignorano il nuovo spazio pubblico che è l'Europa; ma nel lungo periodo apre speranze. È giudicare quello che abbiamo e facciamo  -  terra, clima, politica  -  alla luce delle parole di Alce Nero, il capo Sioux: "La terra non l'ereditiamo dai nostri padri, ma l'abbiamo in prestito dai nostri figli".

(11 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/11/news/dignit_futuro-27904603/?ref=HREA-1
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« Risposta #168 inserito:: Gennaio 25, 2012, 10:19:11 am »

IL COMMENTO

La linea d'ombra del comando

di BARBARA SPINELLI

CI VIENE spesso dalle esperienze di mare, perché il mare ha baratri imprevisti e quindi ferree leggi, la sapienza del comando. Quest'arte ruvida, che in democrazia è sempre guardata con un po' di diffidenza, quasi fosse arte legale ma non del tutto legittima. C'è diffidenza perché l'immaginario democratico è colmo di miraggi: là dove governa il popolo ognuno è idealmente padrone di sé, e fantastica di poter fare a meno del comando. Nella migliore delle ipotesi parliamo di responsabilità, che del comando è la logica conseguenza, in qualche modo l'ornamento. Ma la responsabilità è obbligo di ciascuno, governanti e governati. Il comandoha un ingrediente in più, un occhio in più: indispensabile. Ancora una volta dal mare, dunque, ci giunge in questi giorni un esempio di cosa sia questo mestiere che impaura ed è al contempo profondamente anelato: il mestiere di guidare gli uomini nelle situazioni-limite, quando tutto, salvezza o disastro, dipende da chi è al comando, sempre che qualcuno ci sia. L'esempio lo conosciamo ormai: ce l'ha dato Gregorio De Falco, capo della sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno. Nella notte del 13 gennaio fu lui a intimare, al comandante Schettino, di tornare subito a bordo anziché cincischiare frasi sull'inaudita trasgressione appena commessa: l'abbandono del posto di comando sulla nave, prima del salvataggio di passeggeri e equipaggio. Un peccato imperdonabile in mare.

Difficile dimenticare il tono di quell'ingiunzione a rispettare le regole: incaponito, incorruttibile. Una voce analoga s'era udita a Capodanno, inattesa, quando le Guardie di finanza diedero la caccia agli evasori fiscali di Cortina, ricordando che la legge non solo esiste ma può essere applicata, per castigare chi vitupera lo Stato esattore e al tempo stesso ne profitta - le parole sono di Mario Monti - "mettendo le mani nelle tasche degli italiani onesti, che pagano le tasse". È come se da tempi immemorabili non avessimo ascoltato voci simili. Come se la chiamata che intima, stronca imperiosamente egoismi, tergiversazioni, fosse la cosa che più ci manca. Manca d'altronde non solo da noi ma anche fuori, in Europa, dove un marasma senza precedenti incancrenisce perché è assente, ai vertici dell'Unione, l'occhio in più che dia l'ordine di trasformare il coordinamento dei singoli soccorsi in salvataggio di tutti.

Ma in Italia la questione è incandescente, perché sono in tanti a reagire alla nuova severità dello Stato con la fuga o lo scompiglio. Non che sia mancata, per anni, la voce dei padroni. Ma non era intimazione, la loro: era intimidazione, al tempo stesso strillata e sterile. Abbiamo udito l'urlo di chi s'indigna e l'urlo di chi dall'alto dei propri scranni insulta, lancia ukase, grida menzogne per difendere gli interessi propri o dei propri clan. Per oltre un decennio abbiamo vissuto in mezzo a indistinte cacofonie: e vediamo in questi giorni, con le rivolte antistataliste che straripano, la potenza accumulata dalla cultura dell'urlo. L'intimazione stentorea di autorità emblematiche come il comandante di Livorno o le Guardie di finanza è di natura differente, ci sorprende come ladro di notte, come bisturi che ricuce ma resta pur sempre lama che offende. Abbiamo visto in de Falco un eroe ma non è un eroe. Il suo modo d'essere dovrebbe essere la normalità: è contro un muro di norme indiscusse che dovrebbero sbattere i battelli ebbri senza comando né legge che metaforicamente ci rappresentano. Che impazzano addosso alle coste per fare inchini a amici complici in irresponsabilità, e impunemente s'avvolgono nella propria incuria come in un manto.

Chi ha letto Joseph Conrad sa le grandezze e i segreti fardelli del comando. Quasi tutti i suoi romanzi ruotano attorno a questa vocazione, che mette alla prova e decide chi sei, se vali oppure no. Anche qui, niente di eroico. Ecco il protagonista di Tifone: "Il capitano MacWhirr, del piroscafo Nan-Shan, aveva, per quanto concerne l'aspetto esteriore, una fisionomia che rispecchiava fedelmente l'animo suo: non presentava alcuna distinta caratteristica di fermezza o di stupidità; non aveva caratteristiche pronunciate d'alcun tipo; era soltanto comune, insensibile e imperturbabile".

Il comando non è solo imperio della legge, rule of law. C'è un elemento aggiuntivo, che nasce dal carisma (la gravitas degli antichi latini) che il comandante possiede o non possiede. In democrazia è dura arte anche per questo, perché la gravitas ha qualcosa di aristocratico, di insensibile: la schiviamo, se possibile. Invece ce n'è bisogno, perché sempre possiamo incrociare una crisi, un'emergenza, ed è qui che servono le forze congiunte del comando, dell'imperio della legge e del carisma. Torniamo ancora a Conrad, quando narra la nostra Linea d'ombra: d'un colpo scorgiamo innanzi a noi "una linea d'ombra che ci avverte che la regione della prima giovinezza, anch'essa, la dobbiamo lasciare addietro". Il protagonista del racconto affronta a quel punto la massima prova esistenziale: l'esercizio del comando. Alcuni soccombono: è il caso di Lord Jim, che tutta la vita pagherà il prezzo - in dolore, rimpianto, vita d'angoscia - del peccato originale commesso quando abbandonò la nave. La linea d'ombra, in Italia, è come se non la scorgessimo mai. C'è qualcosa di ostinatamente minorenne, nel nostro rapporto con l'autorità, la legge, lo Stato.

Stentiamo a capire una cosa, dell'ordine dato in nome del bene pubblico: il comando è quello che ci protegge dall'esplosione dell'urlo scomposto, dal caos propizio allo Stato d'eccezione. Fu con l'urlo che Hitler s'affacciò al mondo: la democrazia di Weimar non era stata capace di comando. Kurt Tucholsky, scrittore veggente, descrisse fin dal '31 quel che nel futuro dittatore più spaventava: "Non l'uomo in sé, che non esiste. Ma il rumore, che egli scatena". Stentiamo a capire soprattutto in Italia, perché siamo da poco una nazione e ogni comune, ogni corporazione, usa urlare più che dirigere. Fellini descrisse questa cacofonia anarcoide - era il '79, dilagava il terrorismo - nell'apologo Prova d'Orchestra. Il tema cruciale era il comando: in che condizioni è esercitato, come degenera in urlo, e perché degenera.

L'Italia benpensante accolse il film con enorme diffidenza, sospettò nell'autore buie propensioni fascistoidi. Fellini le aveva messo davanti uno specchio, perché contemplasse i suoi vizi, e gli italiani voltarono la faccia sdegnati. Il film non perse mai da noi un odore di zolfo che altrove non ebbe. "Tutto è prova d'orchestra", disse il regista. E sulla pellicola capimmo perché la prova falliva: ogni violinista, flautista, clarinettista, pensava agli affari suoi, alcuni addirittura erano armati e ciascuno aveva a fianco un sindacalista tutore.

Qualcosa di simile accade a Monti, assalito da proteste quando si sforza di ammansire l'ego di corporazioni, lobby, clan semimafiosi (le grandi mafie suppongo siano in attesa: non ancora toccate, fanno quadrato attorno ai propri referenti, ne cercano di nuovi, sfruttano alla meglio i malcontenti di chi si sente ferito dal bisturi). Nonostante questo clima di sbandamento il Premier resta popolare, nell'Italia smarrita e infine conscia della crisi. Lo aiutano le virtù del comando: la gravitas, il rispetto meticoloso delle istituzioni, l'autorevolezza che accresce l'autorità dandole sostanza. Lo aiuta la vocazione a tenere i conti, e a chieder conto. Non dimentichiamo la fine del film di Fellini: il direttore d'orchestra che non ha saputo comandare esplode in urla scomposte, mescolando vocaboli italiani e parole d'ordine naziste. "Estrema pazienza e estrema cura", questo il comando secondo Conrad: oltrepassata la linea d'ombra, sempre possiamo mancare la prova, sottrarci al dovere di portare la nave sana e salva in porto. Ecco perché la via di Monti è così stretta.

(25 gennaio 2012) © Riproduzione riservata
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« Risposta #169 inserito:: Febbraio 06, 2012, 08:50:28 am »

Perché i vecchi ci fanno paura

di Barbara Spinelli, da Repubblica, 1 febbraio 2012

Le ultime statistiche Istat sull'invecchiamento degli italiani erano prevedibili, ma vale la pena soffermarsi su di esse e pensarle sino in fondo. Non di rado i numeri sono una gabbia, e non è vero che "parlano da soli": siamo noi a farli parlare. Nel 2030, dicono, i vecchi saranno il doppio dei bambini. Non molto diverse sono le statistiche sugli immigrati: loro aumenteranno, gli italiani diminuiranno.

Tutto questo accadrà non in un domani lontano, ma fra poco. Sarà una crisi di civiltà, annunciano i giornali: una mutazione antropologica che non avremo voluto, ma che dovremo patire e chissà come ne usciremo. La mutazione fin d'ora la viviamo come disagio della civiltà, ma non a causa di questi numeri: a causa delle parole che usiamo per interpretarli, commentarli. Sono parole che salgono in noi come una nebbia, e tutte sono intrise di spavento, smarrimento: come fossimo una civiltà in preda a incursioni selvagge.

Nell'ultimo ventennio si è parlato dell'imbarbarimento dei nostri costumi, ma forse la barbarie l'abbiamo dentro. Forse i barbari siamo noi, a meno di non preparare il futuro con maggiore cura delle parole, innanzitutto, e con politiche di prudenza e giustizia che non si facciano irretire da cifre, da percentuali, dalle insidie che sempre son racchiuse nelle statistiche, specie demografiche. A meno di non fronteggiare e guardare in modo diverso la crisi, l'economia di scarsità che impone, e come ci siamo arrivati.

Ancora una volta tendiamo a pensare la crisi in maniera rivoluzionaria, concentrando forze e sguardi su uno soltanto dei nodi da sciogliere: una razza, una classe, un'età da tutelare a scapito di altre (ci aiuta nella disumanizzazione semplificatrice la parola "fascia": non siamo persone, ma strati).

Le rivoluzioni sono state più volte questo, e spesso son seguite dal Terrore. Conservatrici o progressiste, hanno sete di capri espiatori. La categoria su cui s'addensa oggi l'attenzione di governi e economisti è quella dei giovani, non c'è discorso o proclama che non evochi la loro condizione di sacrificati sull'altare d'un paese che invecchiando si disfa. I politici ne hanno la bocca piena, e non stupisce perché l'ingiustizia davvero va raddrizzata.

Ma non dimentichiamo che Stalin e Hitler inneggiavano ai giovani, e alla panacea del muscolo, dello sport. Kundera lo ricorda con maestria quando descrive la "lirica totalitaria della giovinezza", che diventa culto. Concentrarsi esclusivamente sui giovani vuol dire dare all'esistenza umana una sola identità e un solo tempo, non vedere in essa una collana fatta di molte fluide identità, tempi di vita, e nodi.

Forse è venuto il momento di ricostruire il tragitto che ci ha condotti a parlare in un certo modo, da decenni, dei vecchi che ci stanno accanto: di capire come mai, quasi senza accorgercene, adottiamo nei loro confronti gli stessi vocaboli usati - in Italia con speciale disinvoltura - per gli immigrati, cittadini europei compresi. Da tempo siamo come ammaliati dal loro numero che sale: la loro longevità ci sbigottisce, assume le fattezze di biblica piaga.

Accade di frequente, quando cominciamo a diffidare di una popolazione e la mente s'abitua a segregarla. In genere ricorriamo a metafore marine: i grandi vecchi in sovrannumero irromperanno come un'ondata, ci sommergeranno. A ottant'anni hanno davanti a sé più anni di vita? Dalle penne, inavvertitamente, escono strani aggettivi: "macabre" sono le statistiche che ne danno notizia. E usurpatrici le attività remunerate che tolgono ai giovani (anche questo è un argomento mutuato dall'eloquio leghista o del Fronte nazionale francese sugli immigrati). Accorta, il ministro Fornero dice: "Il lavoro non è una quantità fissa. È qualcosa che può crescere, può esser distribuito meglio". Si potrebbe dire anche degli anni di vita, del complesso corpo d'una società.

Forse è qui il maleficio di un invecchiare che intimidito si nasconde, si rifugia in svariati trucchi pur di fermare il tempo. Finché l'anziano appare giovane c'è salvezza. Meglio: finché è cliente, consumatore. L'unico modo di non veder spezzata l'appartenenza alla comunità è di non sottrarsi alle esigenze del mercato: d'impersonare un'inalterata domanda, correlata all'offerta.

Ogni volta che annunciamo che l'Italia sarà (è già) un paese di vecchi, manipoliamo il tempo, lo congeliamo, e questa è la vera crisi di civiltà, che imputiamo all'invasore esterno e poi automaticamente a paria interni, non dissimili dalle caste indiane: gli oppressi dovettero attendere Gandhi per sapersi cittadini. Paria in sanscrito significa spezzare. La collana si spezza a causa dello straniero, dell'immigrante nato in Italia, del malato, del povero. Infine dei grandi vecchi.

Se non corriamo ai ripari - Croce direbbe: "se non invigilo me stesso, e procuro di correggermi" - non potremo scansare la minaccia: a forza di considerare gli anziani un flagello, verrà il tempo (magari già inizia) in cui converrà sbarazzarsene. Costano troppo alla comunità, con tutti i farmaci che prendono, gli arnesi di cui necessitano. E chi pagherà se i giovani continuano a vivere vite precarie, impossibilitati anche numericamente a versar contributi per la spesa sanitaria di cui l'alta vecchiaia abbisogna?

A ciò s'aggiunga che questo avviene in un'epoca storica che disdegna lo Stato. Lo vuole smilzo, non esattore, inclusivo sì ma molto selettivo: quasi non avesse insegnato nulla la crisi del mercato senza briglie, incapace di invigilare spontaneamente se stesso, esplosa nel 2007. Per questo è ingiusto e anche miope, il no di Beppe Grillo alla cittadinanza per gli immigrati nati in Italia: affermare che il problema oggi è altro - per esempio, arrivare alla fine del mese - è pensare il brevissimo termine, non vedere lo spezzarsi dell'intera collana di civiltà, considerarla una "quantità fissa", fatalmente scarsa.

È scabroso parlare di queste cose, perché le utopie maltusiane - i freni brutali all'aumento di popolazione in assenza di guerre, carestie, epidemie - rischiano di realizzarsi. Descriverle è già un po' accettarle. Chi ha letto il racconto di Buzzati sull'eliminazione dei vecchi, nel Viaggio agli inferni del secolo (1966) ricorderà il malessere che procura: l'immaginaria città parallela - una sotterranea seconda Milano - può pian piano inverarsi, se non mutiamo le parole e gli atti che ne scaturiscono. Nella città nascosta (vi si accede varcando una porticina "che apre all'inferno"), ogni primavera si celebra un rito eccentrico, agghiacciante, detto "grande festa della pulizia".

La festa si chiama Entrümpelung, che in tedesco è repulisti generale di roba vecchia. Nel giorno della Entrümpelung "le famiglie hanno il diritto anzi il dovere di eliminare i pesi inutili. Perciò i vecchi vengono sbattuti fuori con le immondizie e i ferrivecchi". Nei mucchi d'immondezza, accanto a lampade passate di moda, antichi sci, vasi slabbrati, libri che nessuno ha letto, stinte bandiere nazionali, pitali, sacchi di patate marce, segatura, ci sono sacchi che ancora si muovono un poco, "per interni svogliati contorcimenti".

Contengono i vecchi. Un'abitante della città parallela dice: "Cosa vuole che sia? Uno di quelli. Un vecchio. Era ora, no?" Erculei inservienti comunali gettano la gentile zia Tussi dalla finestra. I nipoti non fiatano. Difficile non pensare al vecchio ebreo in sedia a rotelle scaraventato giù sul selciato, nel Pianista di Polanski.

La prima reazione è di dire: "Da noi non così!" (sono le parole di Gesù sui potenti del tempo). Ne siamo davvero sicuri? I numeri, quando ci figuriamo che parlino da soli togliendoci responsabilità, possono essere una maledizione. Rilke lo sapeva bene quando ingiungeva: "Alle risorse esauste, alle altre informi e mute della piena natura, alle somme indicibili, te stesso aggiungi, nel giubilo, e annienta il numero".

(1 febbraio 2012)

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« Risposta #170 inserito:: Febbraio 21, 2012, 12:23:55 pm »

Un piano Marshall intra-europeo

di Barbara Spinelli, da Repubblica, 15 febbraio 2012

Sembrano passati cinquant'anni e invece ne sono passati solo cinque, da quando i capi d'Europa, riuniti a Berlino per commemorare i Trattati di Roma, firmarono una dichiarazione in cui è scritto che «noi, cittadini dell'Unione siamo, per la nostra felicità, uniti».
E ancora: «L'unificazione europea ci ha permesso di raggiungere pace e benessere... È stata fondamento di condivisione e superamento di contrasti... Aspiriamo al benessere e alla sicurezza, alla tolleranza e alla partecipazione, alla giustizia e alla solidarietà... L'Unione si fonda sulla parità, sull'unione solidale... sul giusto equilibrio di interessi tra Stati membri».

Era bello, pensare positivo e non prevedere nulla. È la stoffa di cui è fatta la crisi odierna. Ben altro campeggia davanti ai nostri occhi, con Atene che s'incendia e precipita nella punizione dell'impoverimento: non la felicità ma il sospetto reciproco, il bruto squilibrio d'interessi, l'intolleranza che dilaga in Italia, Ungheria, Danimarca, Olanda. E in Grecia non la pace ma la guerra civile, che non turba L'Europa ma è pur sempre ritorno della guerra, dei suoi vocabolari minatori. Nel difendere un'ennesima contrazione dei redditi, il premier Papademos ha brandito l'arma della paura, non della speranza: «Una bancarotta disordinata provocherebbe caos e esplosioni sociali. Lo Stato sarebbe incapace di pagare salari, pensioni, ospedali, scuole. L'importazione di beni basilari come medicine, petrolio, macchinari sarebbe problematica». Parafrasando Joyce: ecco Europa, un incubo dal quale non sappiamo svegliarci.

Potrebbero andare in altro modo le cose, se i responsabili europei riconoscessero che il male non è l'inadempienza ellenica. Se capissero, come scrive l'economista greco Yanis Varoufakis, che malata è l'eurozona, con o senza Atene. Certo Atene è stata «un paziente recalcitrante»: ma è stata usata per velare il vizio d'origine, che è il modo in cui l'eurozona «ha aggravato gli squilibri, non ha assorbito il collasso finanziario del 2008».

In Grecia e altrove la Germania è descritta come cerbero, istupidito dai propri trionfi: quasi avesse dimenticato la disastrosa politica di riparazione che le inflissero i vincitori dopo il '14-18. La sofferenza sociale dei tedeschi fu tale, che s'aggrapparono a Hitler. C'è del vero in quest'analisi – difesa nel '19 da Keynes – ma le menti tedesche sono più complesse e incorporano anche il ricordo del '45.
Il '45 seppellì l'era delle punizioni e aprì quella della fiducia, della cooperazione, creando Bretton Woods e l'Europa unita.

Angela Merkel deve essersi accorta che qualcosa sta andando molto storto se il 7 febbraio, in un incontro con gli studenti, ha confessato, in sostanza, che senza rifare l'Europa via d'uscita non c'è e il tesoro di fiducia svanisce. Non ha menzionato gli Stati uniti d'Europa, ma il suo progetto ha gli elementi tutti di una Federazione. L'Unione – ha detto – deve cambiar pelle. Gli Stati per primi dovranno farlo, e decidersi a un abbandono ben più vasto di sovranità: anche se per ciascuno, Berlino compresa, la scelta è «molto difficile». Così come difficili, ma non più rinviabili, sono l'abolizione del diritto di veto e l'estensione del voto a maggioranza. La Commissione di Bruxelles dovrà trasformarsi in autentico governo, con i nuovi poteri delegati, e «rispondere a un forte Parlamento europeo».

Ridimensionato, il Consiglio dei ministri sarebbe «una seconda Camera legislativa» – simile al Senato americano – e massima autorità diverrebbe la Corte di giustizia: «Vivremo meglio insieme se saremo pronti a trasferire le nostre competenze, per gradi, all'Europa». Che altro si prospetta, se non quegli Stati Uniti che Monti aveva escluso, nell'intervista alla Welt dell'11 gennaio? E come parlare di una Germania despota d'Europa, se vuol abbandonare le prevaricazioni del liberum veto?

Non solo. Senza esplicitamente nominarlo, il Cancelliere ha ricordato che Kohl vide subito i pericoli di una moneta senza Stato: «Oggi tocca creare l'unione politica che non fu fatta quando venne introdotto l'euro», senza curarsi delle «molte dispute» che torneranno a galla. Ci sono dispute più istruttive delle favole sulla felicità, perché non menzognere. Kohl, allora, chiese l'unione politica e la difesa comune: Mitterrand rispose no.

Può darsi che la Merkel parli al vento, un po' per volubilità un po' perché tutti tacciono. Comunque l'ostacolo oggi non è Berlino. Come ai tempi di Maastricht, chi blocca è la Francia, di destra e sinistra. È accaduto tante volte: nel '54 per la Comunità di difesa, nel 2005 per la Costituzione Ue. Tanto più essenziale sarà l'appoggio di Monti a questo timido, ma cocciuto ritorno del federalismo tedesco.

Creare un'Europa davvero sovranazionale non è un diversivo istituzionale. Già Monnet diceva che le istituzioni, più durevoli dei governi, sono indispensabili all'azione. Oggi lo sono più che mai, perché solo prevalendo sui veti nazionali l'Europa potrà fare quel che Berlino ancora respinge: affiancare alla cultura della stabilità, che pure è prezioso insegnamento tedesco, una sorta di piano Marshall intra-europeo, incentrato sulla crescita. Il patimento greco lo esige.

Ma lo esige ciascuno di noi, assieme ai greci. La loro sciagura infatti non è solo l'indisciplina: è un accanimento terapeutico che diventa unica strategia europea, indifferente all'ira e alle speranze dei popoli. I dati ellenici, terribili, sono così riassunti da Philomila Tsoukala, di origine greca, professore a Washington: l'aggiustamento fiscale è già avvenuto (6 punti di Pil in meno di un anno, in piena recessione). Salari e pensioni sono già ai minimi, e le entrate aumentano ma colpendo i salariati, non gli evasori. Centinaia di migliaia di piccole imprese sono naufragate, la disoccupazione giovanile è salita al 48%, una persona su tre è a rischio di povertà. I senzatetto sono 20.000 nel centro di Atene. «La pauperizzazione delle classi medie è tale, che aumenta il numero di chi non teme più il default, non avendo nulla da perdere». A ciò si aggiungano losche pressioni esercitate ultimamente su Atene, perché in cambio di aiuto comprasse armi tedesche e francesi. È vero, la sovranità è oggi fittizia. Ma non può risolversi nel ricatto dei forti, e nell'umiliazione dei declassati.

È il motivo per cui l'Europa deve farsi, con istituzioni rinnovate, promotrice di crescita. E ai cittadini va detta la verità: se siamo immersi in una guerra del debito (in Europa, Usa, Giappone) è perché i paesi in ascesa (Asia, America Latina) non sopportano più un Occidente che domina il mondo indebitandosi. Alla loro sfida urge rispondere con conti in ordine, ma anche con uno sviluppo diverso, senza il quale la concorrenza asiatica ci schiaccerà. È lo sviluppo cui pensava Jacques Delors, con il suo Piano del '93. Napolitano l'ha riproposto, venerdì a Helsinki: «Abbiamo bisogno di decisioni e iniziative comuni per la produttività e la competitività».

L'Europa può farlo, se oltre agli eurobond introdurrà una tassa sull'energia che emette biossido di carbonio (carbon tax), una tassa sulle transazioni finanziarie, un'Iva europea: purché i proventi vadano all'Unione, non agli Stati. È stato calcolato che i nuovi investimenti comuni – in energie alternative, ricerca, educazione, trasporti – genererebbero milioni di occupati e risparmi formidabili di spesa.

Divenire Stati Uniti d'Europa significa non copiare l'America, ma imparare da essa. Lo ricorda l'economista Marco Leonardi sul sito La Voce: subito dopo la guerre di indipendenza, e prima di avere una sola Banca centrale e un'unica moneta, il ministro del Tesoro Alexander Hamilton prese la decisione cruciale: l'assunzione dei debiti dei singoli stati da parte del governo nazionale.

Di un Hamilton ha bisogno l'Europa, che sommi più persone spavalde. Il loro contributo può essere grande e l'impresa vale la pena: perché solo nella pena riconosciamo l'inconsistenza, i costi, la catastrofe delle finte sovranità nazionali.

(15 febbraio 2012)

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« Risposta #171 inserito:: Febbraio 22, 2012, 11:47:32 am »

IL COMMENTO

La tentazione del muro

di BARBARA SPINELLI

CON MOLTA, troppa facilità ci stiamo abituando a dire che la bancarotta greca non sarebbe poi la catastrofe paventata da anni. Il male, incurabile, basterebbe allontanarlo, asportando Atene dall'Eurozona come si fa con un'appendicectomia. Quel che conta è evitare il contagio, e non a caso il Fondo salva Stati si chiama d'un tratto Firewall, muro parafuoco che serve a proteggere i sistemi informatici dalle intrusioni: che salverà chi è ancora dentro (l'Italia, per esempio) da chi, nell'ignominia, sta cadendo fuori.

Come la linea Maginot che i francesi eressero per proteggersi dagli assalti tedeschi negli anni '20-'30, Firewall evoca gli universi chiusi della clinica e della guerra: il miraggio d'un muro inviolabile rassicura, anche se sappiamo bene come finì il fortilizio francese. Cadde d'un colpo. Lo storico Marc Bloch parlò di strana disfatta perché il tracollo era avvenuto negli animi, prima che lungo la Maginot: "nelle retroguardie della società civile e politica", prima che al fronte.
In realtà nessuno ci crede, al chimerico Firewall che abita le fantasie e fiacca la ragione. Altrimenti l'Unione non avrebbe deciso, ieri, un ennesimo importante prestito alla Grecia. Altrimenti non ci sarebbe chi pensa, allarmato, a una nuova architettura dell'Unione: più federale, dotata di un governo europeo cui gli Stati delegheranno sovranità crescenti. Ci stanno pensando Berlino e forse Roma, anche se Monti ha appena firmato una lettera
con Cameron e altri europei in cui non si parla affatto di nuova Unione, ma di completare il mercato unico. Così le cose procedono lente, e il problema cruciale (le risorse di cui disporrà l'Unione, per un possente piano di investimenti) nessuno l'affronta. In parte la lentezza è dovuta a corti calcoli prudenziali: ogni leader ha le sue elezioni. In parte si vuol vedere l'esito del dramma ellenico, e qui comincia la parte più torbida della storia europea che si sta facendo.

Ci sono momenti in cui sembra che i governi forti aspettino la bancarotta greca, per costruire l'Unione che dicono di volere. È la tesi dell'economista Usa Kenneth Rogoff, intervistato da Spiegel: una volta espulsa Atene, gli Stati Uniti d'Europa si faranno prima del previsto, grazie alla crisi. C'è, nell'aria, odore di capri espiatori. Ma è proprio vero che l'autodafé della Grecia genererebbe la nuova Unione? E quale Europa nascerebbe, se svanirà la pressione della crisi greca? Per ora, una cosa pare certa: Atene è in tumulto, e a forza di piani a breve termine mina l'eurozona e l'idea stessa di un'Europa solidale nelle sciagure. Difficile che quest'ultima si costituisca in federazione, se il primo atto consisterà nel gettare a mare i Paesi che non ce la fanno. L'operazione Firewall non è indolore per la Grecia, ma neppure per l'Europa.

È quello che hanno scritto sull'Economist Mario Blejer e Guillermo Ortiz, ex banchieri centrali dell'Argentina e del Messico, in un appello in cui si ricorda agli europei il costo della bancarotta di Buenos Aires nel 2002, e la diversità tra quel fallimento e quello temuto in Grecia. L'Argentina conobbe in effetti sei anni di crescita dopo la svalutazione del peso e lo sganciamento dal dollaro, ma nel mondo non c'era la recessione odierna, il risanamento fu distribuito lungo una decina d'anni, e il peso esisteva ancora. Invece la dracma non c'è più, e ricrearla sarebbe un salasso terribile (i debiti greci sono in euro: come ripagarli con dracme svalutate?). Infine, aggiungono i banchieri centrali, s'è persa memoria della veduta breve del Fondo Monetario, e di un tracollo che fu "straziante" per gli argentini. La loro bancarotta era obbligata mentre non lo è per la Grecia, che è pur sempre nell'Unione: "Chi propone l'uscita di Atene dall'eurozona sottovaluta le conseguenze devastanti che avrebbe. L'esperienza argentina dovrebbe servire non come esempio, ma come deterrente contro ogni idea di fuoriuscita".

Un avvertimento simile viene in questi giorni da Lorenzo Bini Smaghi. Sul sito del Financial Times, il 16 febbraio, l'ex membro dell'esecutivo Bce fa capire, senza dirlo chiaramente, che così come l'Europa oggi è fatta, così come fa sgocciolare le sue imperfette misure, il male non sarà curato. Esiziale, comunque, è la falsa sicurezza che si ostenta di fronte a un possibile fallimento, simile a quella esibita ottusamente nel 2008 quando fallì la società Lehman Brothers: "Il contagio finanziario opera in modi inaspettati, specie dopo gravi traumi come il fallimento d'una grande istituzione finanziaria o d'un Paese".

Il trauma colpirebbe la Grecia, ma anche le istituzioni europee: esse dimostrerebbero infatti una strutturale "incapacità di risolvere i problemi". Di qui la convinzione che il modello Fondo Monetario sia migliore: la sua assistenza è egualmente condizionale, ma almeno è prevedibile e prolungata. Non così l'Europa, che tiene Atene sotto la minaccia di continuo fallimento: una minaccia che "sfinisce il sostegno politico di cui (la disciplina richiesta) ha bisogno, e alimenta l'instabilità sui mercati finanziari". Forse è tardi per cambiar metodo, ma "se si vuol evitare un disastro non è mai troppo tardi".

Il piano europeo non può essere solo tecnico, mi dice Bini Smaghi: "Cosa succederà della Grecia se c'è un default? Una crisi sociale e politica nel cuore dell'Europa, con la democrazia di quel Paese a rischio. Il fallimento non sarebbe solo tecnico ma anche politico, perché se c'è la povertà e un regime autoritario il fallimento dell'Europa diventerebbe ovvio. Quale modello potrebbe rappresentare l'Europa agli occhi del mondo se uno dei suoi membri torna indietro nella storia?".
Ma com'è fatta esattamente l'Europa, per stare così male? È l'economia che vacilla, o sono malate le sue classi politiche, la sua cultura? Tutte e tre le cose in realtà barcollano, e l'Europa che uscirà da questa prova sarà forte o degenererà a seconda del modo in cui i tre mali insieme - economia, cultura, politica - saranno curati.

Culturalmente, stiamo ricadendo indietro di novant'anni, nei rapporti fra europei. Ad ascoltare i cittadini, tornano in mente le chiusure nazionali degli anni '20-'30, più che la ripresa cosmopolitica del '45. Sta mettendo radici un risentimento, tra Stati europei, colmo di aggressività. Le prime pagine dei giornali greci, da mesi, dipingono i governanti tedeschi come nazisti. Intanto Atene riesuma le riparazioni belliche che Berlino deve ancora pagare all'Europa occupata da Hitler. Dimenticata è la tappa del '45, quando si ridiede fiducia alla nazione tedesca e ci si accinse a unire l'Europa. Quella fiducia aveva un preciso significato, anche finanziario: la Germania non doveva più risarcire nella sua totalità le distruzioni naziste. La politica delle riparazioni, che era stata la sua maledizione nel primo dopoguerra e l'aveva gettata nella dittatura, non doveva più esistere (Israele costituì un caso a parte).

Proprio questo si rimette in discussione, ed è la ragione per cui assistiamo a un formidabile arretramento. Quel che si fece nel '45 verso la Germania, per motivi strategici e perché era mutata la cultura politica, non si è in grado di farlo con la Grecia. Gli errori commessi da Atene non sono crimini, e tuttavia urge espiare oltre che pagare. Son guardate con fastidio perfino le sue elezioni. La politica di riparazioni che le si infligge è feroce, crea ira, risentimento. E questo perché? Evidentemente non si vedono motivi strategici perché la Grecia resti in Europa: manca ogni visione del mondo, e la cultura non è più quella del '45-'50.

La regressione ha effetti rovinosi sulla politica. Come può nascere l'Europa federale, se vince una cultura che ha poco a vedere con quello che gli europei appresero da due guerre? La scelta di un Presidente come Joachim Gauck, in Germania, è una buona notizia, perché la popolazione tedesca ha contribuito a questo clima di sospetti, anche se non sempre immotivati (perché assistere Paesi del Sud prigionieri volontari di una corruzione che a Nord si combatte?). L'Europa ha bisogno di popolazioni illuminate, non di capri espiatori, e Gauck che usa parlar-vero potrà aiutare. L'Europa ha bisogno di una crescita diversa, comune, non di anni e anni di recessione, di odi interni, di sospensioni della democrazia. Altrimenti la sua disfatta sarà di nuovo strana: nata nelle retroguardie civili, prima che nell'armata schierata lungo i muri anti-contagio.

(22 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #172 inserito:: Febbraio 26, 2012, 06:15:15 pm »

Europa, la tentazione del muro

di Barbara Spinelli, da Repubblica, 22 febbraio 2012


Con molta, troppa facilità ci stiamo abituando a dire che la bancarotta greca non sarebbe poi la catastrofe paventata da anni. Il male, incurabile, basterebbe allontanarlo, asportando Atene dall'Eurozona come si fa con un'appendicectomia. Quel che conta è evitare il contagio, e non a caso il Fondo salva Stati si chiama d'un tratto Firewall, muro parafuoco che serve a proteggere i sistemi informatici dalle intrusioni: che salverà chi è ancora dentro (l'Italia, per esempio) da chi, nell'ignominia, sta cadendo fuori.

Come la linea Maginot che i francesi eressero per proteggersi dagli assalti tedeschi negli anni '20-'30, Firewall evoca gli universi chiusi della clinica e della guerra: il miraggio d'un muro inviolabile rassicura, anche se sappiamo bene come finì il fortilizio francese. Cadde d'un colpo. Lo storico Marc Bloch parlò di strana disfatta perché il tracollo era avvenuto negli animi, prima che lungo la Maginot: "nelle retroguardie della società civile e politica", prima che al fronte.

In realtà nessuno ci crede, al chimerico Firewall che abita le fantasie e fiacca la ragione. Altrimenti l'Unione non avrebbe deciso, ieri, un ennesimo importante prestito alla Grecia. Altrimenti non ci sarebbe chi pensa, allarmato, a una nuova architettura dell'Unione: più federale, dotata di un governo europeo cui gli Stati delegheranno sovranità crescenti. Ci stanno pensando Berlino e forse Roma, anche se Monti ha appena firmato una lettera con Cameron e altri europei in cui non si parla affatto di nuova Unione, ma di completare il mercato unico. Così le cose procedono lente, e il problema cruciale (le risorse di cui disporrà l'Unione, per un possente piano di investimenti) nessuno l'affronta. In parte la lentezza è dovuta a corti calcoli prudenziali: ogni leader ha le sue elezioni. In parte si vuol vedere l'esito del dramma ellenico, e qui comincia la parte più torbida della storia europea che si sta facendo.

Ci sono momenti in cui sembra che i governi forti aspettino la bancarotta greca, per costruire l'Unione che dicono di volere. È la tesi dell'economista Usa Kenneth Rogoff, intervistato da Spiegel: una volta espulsa Atene, gli Stati Uniti d'Europa si faranno prima del previsto, grazie alla crisi. C'è, nell'aria, odore di capri espiatori. Ma è proprio vero che l'autodafé della Grecia genererebbe la nuova Unione? E quale Europa nascerebbe, se svanirà la pressione della crisi greca? Per ora, una cosa pare certa: Atene è in tumulto, e a forza di piani a breve termine mina l'eurozona e l'idea stessa di un'Europa solidale nelle sciagure. Difficile che quest'ultima si costituisca in federazione, se il primo atto consisterà nel gettare a mare i Paesi che non ce la fanno. L'operazione Firewall non è indolore per la Grecia, ma neppure per l'Europa.

È quello che hanno scritto sull'Economist Mario Blejer e Guillermo Ortiz, ex banchieri centrali dell'Argentina e del Messico, in un appello in cui si ricorda agli europei il costo della bancarotta di Buenos Aires nel 2002, e la diversità tra quel fallimento e quello temuto in Grecia. L'Argentina conobbe in effetti sei anni di crescita dopo la svalutazione del peso e lo sganciamento dal dollaro, ma nel mondo non c'era la recessione odierna, il risanamento fu distribuito lungo una decina d'anni, e il peso esisteva ancora. Invece la dracma non c'è più, e ricrearla sarebbe un salasso terribile (i debiti greci sono in euro: come ripagarli con dracme svalutate?). Infine, aggiungono i banchieri centrali, s'è persa memoria della veduta breve del Fondo Monetario, e di un tracollo che fu "straziante" per gli argentini. La loro bancarotta era obbligata mentre non lo è per la Grecia, che è pur sempre nell'Unione: "Chi propone l'uscita di Atene dall'eurozona sottovaluta le conseguenze devastanti che avrebbe. L'esperienza argentina dovrebbe servire non come esempio, ma come deterrente contro ogni idea di fuoriuscita".

Un avvertimento simile viene in questi giorni da Lorenzo Bini Smaghi. Sul sito del Financial Times, il 16 febbraio, l'ex membro dell'esecutivo Bce fa capire, senza dirlo chiaramente, che così come l'Europa oggi è fatta, così come fa sgocciolare le sue imperfette misure, il male non sarà curato. Esiziale, comunque, è la falsa sicurezza che si ostenta di fronte a un possibile fallimento, simile a quella esibita ottusamente nel 2008 quando fallì la società Lehman Brothers: "Il contagio finanziario opera in modi inaspettati, specie dopo gravi traumi come il fallimento d'una grande istituzione finanziaria o d'un Paese".

Il trauma colpirebbe la Grecia, ma anche le istituzioni europee: esse dimostrerebbero infatti una strutturale "incapacità di risolvere i problemi". Di qui la convinzione che il modello Fondo Monetario sia migliore: la sua assistenza è egualmente condizionale, ma almeno è prevedibile e prolungata. Non così l'Europa, che tiene Atene sotto la minaccia di continuo fallimento: una minaccia che "sfinisce il sostegno politico di cui (la disciplina richiesta) ha bisogno, e alimenta l'instabilità sui mercati finanziari". Forse è tardi per cambiar metodo, ma "se si vuol evitare un disastro non è mai troppo tardi".

Il piano europeo non può essere solo tecnico, mi dice Bini Smaghi: "Cosa succederà della Grecia se c'è un default? Una crisi sociale e politica nel cuore dell'Europa, con la democrazia di quel Paese a rischio. Il fallimento non sarebbe solo tecnico ma anche politico, perché se c'è la povertà e un regime autoritario il fallimento dell'Europa diventerebbe ovvio. Quale modello potrebbe rappresentare l'Europa agli occhi del mondo se uno dei suoi membri torna indietro nella storia?".
Ma com'è fatta esattamente l'Europa, per stare così male? È l'economia che vacilla, o sono malate le sue classi politiche, la sua cultura? Tutte e tre le cose in realtà barcollano, e l'Europa che uscirà da questa prova sarà forte o degenererà a seconda del modo in cui i tre mali insieme - economia, cultura, politica - saranno curati.

Culturalmente, stiamo ricadendo indietro di novant'anni, nei rapporti fra europei. Ad ascoltare i cittadini, tornano in mente le chiusure nazionali degli anni '20-'30, più che la ripresa cosmopolitica del '45. Sta mettendo radici un risentimento, tra Stati europei, colmo di aggressività. Le prime pagine dei giornali greci, da mesi, dipingono i governanti tedeschi come nazisti. Intanto Atene riesuma le riparazioni belliche che Berlino deve ancora pagare all'Europa occupata da Hitler. Dimenticata è la tappa del '45, quando si ridiede fiducia alla nazione tedesca e ci si accinse a unire l'Europa. Quella fiducia aveva un preciso significato, anche finanziario: la Germania non doveva più risarcire nella sua totalità le distruzioni naziste. La politica delle riparazioni, che era stata la sua maledizione nel primo dopoguerra e l'aveva gettata nella dittatura, non doveva più esistere (Israele costituì un caso a parte).

Proprio questo si rimette in discussione, ed è la ragione per cui assistiamo a un formidabile arretramento. Quel che si fece nel '45 verso la Germania, per motivi strategici e perché era mutata la cultura politica, non si è in grado di farlo con la Grecia. Gli errori commessi da Atene non sono crimini, e tuttavia urge espiare oltre che pagare. Son guardate con fastidio perfino le sue elezioni. La politica di riparazioni che le si infligge è feroce, crea ira, risentimento. E questo perché? Evidentemente non si vedono motivi strategici perché la Grecia resti in Europa: manca ogni visione del mondo, e la cultura non è più quella del '45-'50.

La regressione ha effetti rovinosi sulla politica. Come può nascere l'Europa federale, se vince una cultura che ha poco a vedere con quello che gli europei appresero da due guerre? La scelta di un Presidente come Joachim Gauck, in Germania, è una buona notizia, perché la popolazione tedesca ha contribuito a questo clima di sospetti, anche se non sempre immotivati (perché assistere Paesi del Sud prigionieri volontari di una corruzione che a Nord si combatte?). L'Europa ha bisogno di popolazioni illuminate, non di capri espiatori, e Gauck che usa parlar-vero potrà aiutare. L'Europa ha bisogno di una crescita diversa, comune, non di anni e anni di recessione, di odi interni, di sospensioni della democrazia. Altrimenti la sua disfatta sarà di nuovo strana: nata nelle retroguardie civili, prima che nell'armata schierata lungo i muri anti-contagio.

(22 febbraio 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/europa-la-tentazione-del-muro/
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« Risposta #173 inserito:: Febbraio 29, 2012, 10:03:46 am »

LE IDEE

Il welfare da salvare

di BARBARA SPINELLI

PARLANDO dell'austerità che si impone a Atene, e delle riforme strutturali necessarie al ritorno della crescita, il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi è ricorso a un'immagine forte. In un'intervista al Wall Street Journal, il 23 febbraio, ha detto che quel che si profila in Grecia è un Nuovo Mondo. L'immagine è forte, e singolare, perché di Nuovi Mondi nessuno osa più molto parlare: tanti ne sono stati promessi, e le cose non sono andate bene.

Generalmente quando si annunciano Nuovi Mondi se ne seppelliscono di vecchi, o perché falliti o perché malgovernati. Goethe, ad esempio, era convinto che la Rivoluzione francese non avrebbe spazzato via i monarchi come "vecchie scope", se questi fossero stati veri monarchi. Lo stesso si può dire oggi dell'Europa, che versa in condizioni ancora peggiori di quei re: la corona non l'ha persa; non l'ha mai pienamente avuta. Non esiste un impero europeo che governi il caos. Non esistono partiti europeisti che si battano contro l'impotente potenza dei nazionalismi, letale per l'Unione. Proviamo dunque a vederlo e pensarlo, il Nuovo Mondo proposto non solo a Atene ma a tutti noi.

È un mondo che abolirà il vecchio regime, e ci libererà dei sepolcri imbiancati dentro cui giacciono divinità ancora onorate, ma ormai finite: "All'esterno paiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume", di ipocrisia e iniquità. Tra questi sepolcri viene additato il Welfare: cioè
quel sistema di protezione universale dai rischi della malattia, del lavoro, della vecchiaia, conosciuto in Europa dopo il '45. "Lo Stato sociale è morto", annuncia il governatore della Bce, perché perde senso se non copre tutti i cittadini e se il lavoro resta duale: da una parte i giovani costretti alla flessibilità, dall'altra i protetti con salari basati sull'anzianità e non sulla produttività.

Naturalmente c'è del vero, nella denuncia del sepolcro-idolo. Lo Stato sociale fallisce, a partire dal momento in cui non mantiene più la parola. Ma perché dire che come promessa è morto, gone? Perché nessun accenno al fatto che, essendo un patrimonio essenziale dell'Europa, va riorganizzato, ma non ucciso? Possibile che debba emergere da un certificato di decesso il mirabile nuovo mondo che vedremo dopo austerità e liberalizzazioni? Il brave new world di Huxley - ricordiamocelo - è una distopia, un'utopia tutta negativa.

In realtà sono decenni che lo Stato sociale è sotto attacco, quasi fosse un lusso ormai insano. Più fondamentalmente è sotto attacco lo Stato: considerato esso stesso un rischio, da politici ed economisti abituati a nutrirsi di dottrine antistataliste. Su quel che accadrà di qui al Nuovo Mondo non ci si sofferma. Parole come povertà, penuria, declino demografico scompaiono, sostituite dal pulito, clinico eufemismo: "Ci sarà una contrazione".

Torna in auge perfino la famosa certezza esibita dalla Thatcher: "Non c'è alternativa". Anche quest'affermazione è leggermente stupefacente, perché l'univoca ideologia inglese e americana degli anni '80 è finita infelicemente. Il mercato-padrone, che da solo si equilibra, s'è infranto nel 2007-2008. Oppure no?

Quel che conta è sapere cosa muore, e cosa si mette nel vuoto che resta. Muore quel che gli europei appresero nella crisi degli anni '30, e in due guerre. La prima cosa che scoprirono fu l'unione europea, il No alle rovinose sovranità assolute degli Stati-nazione. La seconda fu il Welfare, il No alla povertà che aveva colpito le genti negli anni '30, gettandole nelle dittature e nelle guerre. Si tratta di due polizze d'assicurazione, offerte ai popoli per far fronte ai sinistri del passato, e tra esse c'è un nesso. Basti ricordare che il principale ideatore del Welfare, William Beveridge, fu anche militante dell'Europa federale.

Come si tiene insieme una società? Come si scongiurano le guerre, civili o tra Stati? La duplice risposta europea (Unione e Welfare) fu data per evitare che la questione della povertà divenisse di nuovo mortifera. Lo Stato sociale che Beveridge propose nel 1942 su richiesta di Churchill fu voluto all'inizio da un liberale e un conservatore. Toccò al Premier laburista Attlee, nel dopoguerra, metterlo in pratica. Come disse Churchill, l'aspirazione era di "proteggere l'individuo dalla culla alla tomba".

Secondo Michel Foucault, il Welfare nasce come patto di guerra. Alle persone "che avevano attraversato una crisi economica e sociale gravissima", i governanti dissero in sostanza: "Ora vi chiediamo di farvi uccidere, ma vi promettiamo che, una volta fatto questo, conserverete il posto di lavoro sino alla fine dei vostri giorni" (Foucault, Nascita della biopolitica). Cinque erano i "giganti" che Beveridge riteneva nemici della Ricostruzione postbellica: Bisogno, Malattia, Ignoranza, Squallore, Ozio. Tutti insieme andavano abbattuti.

Quali sono i giganti contro cui oggi combattiamo, per ricostruirci? A sentire chi ci governa non sono quelli evocati da Beveridge. Non sono il disgregarsi della convivenza civile, la miseria, il crollo della democrazia. Sono la non-attuazione dell'austerità, l'"immediata reazione negativa" dei mercati. Perfino il voto democratico si tramuta in rischio, e infatti si diffida delle elezioni greche di aprile, e forse anche delle italiane. L'unico gigante che impaura è l'ozio, la pigrizia figlia del Welfare. L'essere umano non è guardato con apprensione: è guatato con sospetto, e sul sospetto non si edificano polizze né patti.

Per la verità anche Foucault denunciò la "coppia infernale sicurezza sociale-dipendenza", negli anni '80. Di fronte a una "domanda infinita", s'ergeva (e andava riconosciuta) la finitudine del Welfare. La sua finitudine, i suoi limiti: non la sua morte. Nato come contrappeso a processi economici selvaggi, come correttivo degli effetti distruttori del mercato sulla società, era assurdo gettarlo via. Altrimenti crescita e benessere dipendevano solo da concorrenza e privatizzazioni: un'ennesima utopia, lo si era visto negli anni '30-40. La crisi di oggi ci riporta a quegli anni di presa di coscienza sull'orlo del disastro.

È il patto di guerra che stavolta manca, in Europa. È la memoria di quel che escogitarono uomini come Keynes, Beveridge, Roosevelt. È significativo che mentre l'Europa dimentica, l'America tenti - assai timidamente con Obama - di resuscitare Roosevelt e il New Deal.

Ci sono momenti nella vicenda europea dei debiti sovrani in cui si ha l'impressione, netta, che sulla pelle dei greci si stia compiendo un esperimento neo-liberista, una sorta di regolamento dei conti con Keynes, Beveridge, Roosevelt. Si vuol capire sin dove regge un paese, se impoverito e sfrondato di Stato sociale.

È la tesi di Michael Hudson, economista dell'Università di Missouri a Kansas City: "La crisi greca è usata come esperimento di laboratorio, per vedere fino a che punto la finanza può spingere verso il basso i salari e privatizzare il settore pubblico. È come nutrire sempre meno un cavallo per vedere se sarà più efficiente, fino a quando le gambe gli si piegano e muore".

Con decenni di ritardo, molti economisti e politici sembrano riesumare l'illusione del 1989, quando Francis Fukuyama dichiarò finita la Storia. I patti sociali del dopoguerra non servono, ora che è naufragato lo stimolo che fu il comunismo. Quel che prevale è una sorta di spirito anti-conciliare: allo stesso modo in cui la Chiesa disattende sovente la sua stessa dottrina sociale (meno in Europa, più in America), gli Stati affossano la giustizia sociale offerta in pegno nel buio della guerra.

Pensano di poter fare l'Europa così, sognando di sospendere lo Stato sociale e l'agorà democratica con le sue sempre possibili alternative. Non riusciranno, perché un'Europa siffatta è costruzione vana, dietro la quale non ci sono più comunità di uomini, ma cavalli dalle gambe spezzate.

(29 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/29/news/salvare_welfare-30676091/?ref=HREC1-1
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« Risposta #174 inserito:: Marzo 21, 2012, 04:58:30 pm »

IL COMMENTO

Il male oscuro dell'Europa

di BARBARA SPINELLI


TUTTI ci stiamo trasformando, senza quasi accorgercene, in tecnici della crisi che traversiamo: strani bipedi in mutazione, sensibili a ogni curva economica tranne che alle curve dell'animo e del crimine. L'occhio è fisso sullo spread, scruta maniacalmente titoli di Stato e Bund, guata parametri trasgrediti e discipline finanziarie da restaurare al più presto. Fino a quando, un nefasto mattino, qualcosa di enorme ci fa sobbalzare sotto le coperte del letto e ci apre gli occhi: un male oscuro, che è secrezione della crisi non meno delle cifre di bilancio ma che incide sulla carne viva, spargendo sangue umano. La carneficina alla scuola ebraica di Tolosa è questo sparo nel deserto, che ci sveglia d'un colpo e ci immette in una nuova realtà, più vasta e più notturna.

Come in una gigantesca metamorfosi, siamo tramutati in animali umani costretti a vedere quello che da mesi, da anni, coltiviamo nel nostro seno senza curarcene. Il naufragio del sogno europeo, emblema di riconciliazione dopo secoli di guerre, e di vittoria sulle violenze di cui Europa è stata capace, partorisce mostri. Non stupisce che il mostro colpisca ancora una volta l'ebreo, capro espiatorio per eccellenza, modello di tutti i capri e di tutti i diversi che assillano le menti quando son catturate da allucinazioni di terrene apocalissi.

In tedesco usano la parola Amok (in indonesiano significa "uccisione-linciaggio in un impulso d'ira incontrollata"), e tale è stato l'attacco di lunedì alla scuola di Tolosa. Uno squilibrato, ma abbastanza freddo da uccidere serialmente, ammazza in 15 minuti il maestro Jonathan Sandler, due suoi figli di 4 e 5 anni (Gabriel e Arieh), una bambina di 7, Myriam. Chi cade preda dell'amok è imprevedibile e socialmente reietto, ma se ha potuto concepire il crimine (e spesso parlarne sul web) vuol dire che per lungo tempo non si è badato al pericolo, che l'ambiente da cui viene era privo di difese immunitarie. I massacri nelle scuole sono considerati episodi tipici del comportamento amok. Nella cultura malese l'assalto amok evoca lo stato di guerra, ma l'omicida seriale interiorizza la guerra.
La spedizione militare è condotta da individui che vivono nel nascosto, ed escono allo scoperto in una sorta di raptus.

Non dimentichiamo che il nazismo quando prese il sopravvento aveva caratteristiche affini, e assecondava la furia amok: "Marcia senza approdo, barcollamento senza ebbrezza, fede senza Dio", così lo scrittore socialdemocratico Konrad Heiden descriveva, nel 1936, la caduta di milioni di tedeschi nel nazismo e nell'"era dell'irresponsabilità". È nelle furie di quei tempi che hanno radice i contemporanei massacri palingenetici, e anche lo spavento stupefatto che scatenano. Non era stato detto, a proposito delle fobie annientatrici: "Mai più?". Invece tornano, perché un tabù infranto lo è per secoli ancora. Il piccolo racconto di Zweig (Amok è il titolo) racconta proprio questo: l'esplosione in mezzo a bonacce apparenti di una "follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana... un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessun'altra intossicazione alcolica". Un torbido passato ha fatto del medico protagonista un mutante: nella solitudine si sente "come un ragno nella sua tela, immobile da mesi". Amok è scritto nei primi anni Venti: un'epoca non meno vacillante della nostra. Già prima del '14-18, Thomas Mann vedeva l'Europa sommersa da "nervosità estrema".

"L'amok è così  -  spiega Zweig nel racconto -  all'improvviso balza in piedi, afferra il pugnale e corre in strada... Chi gli si para davanti, essere umano o animale, viene trafitto dal suo kris (pugnale, in malese, ndr), e l'orgia di sangue non fa che eccitarlo maggiormente... Mentre corre, ha la schiuma alle labbra e urla come un forsennato... ma continua a correre e correre, senza guardare né a destra né a sinistra, corre e basta. L'ossesso corre senza sentire... finché non lo ammazzano a fucilate come un cane rabbioso, oppure crolla da solo, sbavando". Ci furono opere profetiche, negli anni '20-'30: i film Metropolis e Dottor Mabuse di Fritz Lang, o il racconto di Zweig. Dove sono oggi opere che abbiano quell'orrida e precisa visione del presente?
Se fosse un caso isolato non ne parleremmo come di un fatto di cultura, colmo di presagi. Ma non è un evento isolato, solo criminale. Quest'odio del diverso (dell'ebreo o del musulmano o del Rom: tre figure di capro espiatorio) pervade da tempo l'Europa, mescolando storia criminale e storia politica. E ogni volta è una fucilata subitanea, che interrompe finte normalità. Fu così anche quando nella composta Norvegia scoppiò la demenza assassina del trentaduenne Behring Breivik, il 22 luglio 2011. L'attentato che compì a Oslo fece 8 morti.
Il secondo, nell'isola Utoya, uccise 69 ragazzi.

Fenomeni simili, non immediatamente mortiferi, esistono anche in politica e mimeticamente vengono imitati. Nell'America degli odii razziali, in prima linea: l'odio suscitato da Obama meteco tendiamo a sottovalutarlo, a scordarcene. Ma l'Europa è terreno non meno fertile per queste idrofobie umane, peggiori d'ogni intossicazione alcolica. Colpisce la loro banalizzazione, più ancora del delitto quando erompe. In Italia abbiamo la Lega, e banalizzati sono i suoi mai sconfessati incitamenti ai linciaggi. Nel dicembre 2007, il consigliere leghista Giorgio Bettio invita a "usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto fatto a un nostro cittadino".
Lo anticipa nel novembre 2003 il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni, che menzionando un gruppo di clandestini sfrattati prorompe: "Peccato. Il forno crematorio di Santa Bona è chiuso". Il gioco di Renzo Bossi (vince chi spara su più barche d'immigrati) è stato tolto dal web ma senza autocritiche.

Com'è potuto succedere che gli italiani divenissero indifferenti a esternazioni di questa natura? Com'è possibile che l'Europa stessa guardi a quel che accade in Ungheria alzando appena le sopracciglia? Eppure il premier Viktor Orbán, trionfalmente eletto nell'aprile 2010, non potrebbe esser più chiaro di così. Il suo sogno è di creare un'isola prospera separata dal turbinio del mondo: una specie di autarchia nordcoreana. A questo scopo ha pervertito la costituzione, le leggi elettorali, l'alternanza democratica, scagliandosi al contempo contro l'etnicamente diverso. A questo scopo persegue una politica irredentista verso la diaspora ungherese in Europa. Il sacrificio di due terzi del territorio nazionale, imposto al Paese vinto dal trattato di Trianon del 1920, è definito "la più grande tragedia dell'Ungheria moderna". Ben più tragica dello sterminio di 400.000 ebrei e zigani nel 1944. Il vero scandalo dei tempi presenti è la punizione inflitta alla democrazia greca, e la non-punizione dell'Ungheria di Orbán. I parametri economici violati e gli spread troppo alti pesano infinitamente più dell'odio razzista, della banalizzazione del male che s'estende in Europa, della democrazia distrutta.

In due articoli sul Corriere della Sera, il 7 e 12 marzo, lo storico Ernesto Galli della Loggia ha difeso lo Stato-nazione oggi derubato di sovranità: lo descrive come "unico contenitore della democrazia", poiché senza di lui non c'è autogoverno dei popoli. È una verità molto discutibile, quantomeno. Lo Stato nazione è contenitore di ben altro, nella storia. Ha prodotto le moderne democrazie ma anche mali indicibili: nazionalismi, fobie verso le impurità etnico-religiose, guerre. Ha sprigionato odii razziali, che negli imperi europei (l'austro-ungarico, l'ottomano) non avevano spazio essendo questi ultimi fondati sulla mescolanza di etnie e lingue. La Shoah è figlia del trionfo dello Stato-nazione sugli imperi. Vale la pena ricordarlo, nell'ora in cui un fatto criminoso isolato, ma emblematico, forse ci risveglia un po'.

(21 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/21/news/male_oscuro_europa-31926808/?ref=HRER3-1
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« Risposta #175 inserito:: Marzo 28, 2012, 03:25:16 pm »

LE IDEE

L'errore del bruco

di BARBARA SPINELLI


C'È QUALCOSA che zoppica molto, nel giudizio che il Premier dà dell'Italia, della sua preparazione ad accettare le volontà del governo. Sostiene Mario Monti che "se il Paese non è pronto" lui se ne va, non sta aggrappato alla poltrona come i vecchi politici. Ma lo vede, il Paese? E sullo sfondo vede davvero l'Europa, come promette, o percepisce solo l'austerità sollecitata in agosto dall'Unione?

In realtà l'Italia sarebbe più che pronta, se solo le si dicesse la direzione in cui si va, l'Europa diversa che si vuol costruire, la democrazia da rifondare a casa ma anche fuori: lì dove si sta decidendo, ben poco democraticamente, la mutazione delle nostre economie, delle nostre tutele sociali, del lavoro.

È qui che manca prontezza: nei governi, non nei Paesi. Che manca il riformismo autentico: quello che non cambia le cose con rivoluzioni, ma le cambia pur sempre. La modifica dell'articolo 18 e altre misure d'austerità hanno senso se inserite in una mutazione al tempo stesso economica, democratica, geopolitica. Se non son parte di un New Deal nazionale ed europeo, secernono solo recessione, regressione, e quei chicchi di furore che secondo Steinbeck marchiarono la Depressione negli anni '30.

Al Premier vorrei domandare: è per un New Deal che sta a Palazzo Chigi, o per certificare che la crisi economico-democratica è gestibile da platoniche, oligarchiche Repubbliche di esperti-filosofi che la sanno più lunga? Una risposta a simili interrogativi
ci preparerebbe un po'. Non basta dire: noi abbiamo filosofie sui giovani e il futuro che nessuno possiede.

Urge quel che chiedono da tempo i federalisti; quel che il 10 marzo hanno invocato tanti cittadini e movimenti europei, in un appello (firmato anche da Jacques Delors) uscito in Italia e Germania: un'Europa politica, un'assemblea costituente che ne faciliti la metamorfosi. Incuriosisce che l'assemblea costituente attragga anche oppositori di sinistra (ne ha parlato Sabina Guzzanti, in Uno Due Tre Stella).

È segno che ovunque c'è oggi sete di un'agorà europea: di uno spazio di discussione-deliberazione su quel che deve divenire l'Unione, se non vuol degenerare in matrigna sorvegliante dei conti. È una sete ignota ai partiti, al governo, ai sindacati. La Cgil ad esempio non ha firmato l'appello federalista, ritenendolo troppo favorevole al Patto fiscale. Non vede che anche il fiscal compact è doppio: ha senso se è il gradino di una scala, è stasi in assenza di scala.

Nella stessa trappola può cadere Bersani, se condivide queste cecità. Senza un'Europa politica e democratica, che non si limiti a coordinare recessioni nazionali ma fabbrichi essa stessa crescita, il Pd è in un imbuto micidiale: come sabbia scivolosa, le sue forze si esauriranno. Per un partito vicino ai deboli e ai poveri, questi sono tempi bui. Gli mancano le parole, per dire quel che tocca comunque vivere, con o senza articolo 18: il taglio dei redditi, l'insicurezza del lavoro.

Per decenni i progressisti hanno parlato di riformismo senza approfondirlo, e ora la parola tocca ripensarla, non farla coincidere solo con austerità, ineguaglianza. "Nessun nemico a sinistra", era l'antico motto. Oggi a sinistra s'affollano partiti, movimenti, e puoi denunciare l'antipolitica ma gli elettori non se ne curano, delusi come sono. Tuttavia, proprio la trasmissione di Sabina Guzzanti conferma che c'è, tra i delusi, un residuo di speranza, una sete che si può dissetare, se si vuole. Una domanda che implora più Europa. Che nella corruzione di tutti i partiti fiuta la temibile morte della politica.

Il vero problema è che manca terribilmente l'aria, nelle stanze dove si riscrive il Welfare europeo (non sempre male d'altronde: nel piano Fornero ci sono molti progressi per i precari). Le stanze sono piccole, strette, e l'essenziale resta dietro la porta. L'essenziale è l'Europa: l'ossigeno che può venire da essa, se la trasformiamo in unione politica che governi quel che gli Stati non governano più. La dottrina tedesca che ingiunge "l'ordine in casa" prima di tentare forme politiche transnazionali è conficcata nelle menti: anche in quella di Monti. La crisi mostra l'inconsistenza degli Stati nazione, e nel nuovo mondo  -  già sovranazionale economicamente, ma non politicamente e democraticamente  -  le sinistre storiche sono in un vicolo cieco.

Dicono alcuni che la democrazia svanisce, nel presente squasso. Secondo Ernesto Galli della Loggia, solo lo Stato nazione può essere democratico: fuori di esso non esisterebbe un demos ma "individui sparpagliati, che semplicemente 'si conoscono'" (Corriere 12-3). Rotto il contenitore nazionale, la democrazia apocalitticamente muore. Dimentica, l'autore, che lo Stato nazione (a differenza degli imperi) ha creato democrazia ma anche nazionalismi, guerre, annientamenti di tutto ciò che il demos (popolo) riteneva impuro.

Il Partito democratico, ma anche lo strano governo dei Saggi, sembra dar ragione a questa tesi, per nulla controcorrente. È la tesi dominante invece  -  ha la forza dello status quo  -  ed è anche la più facile, perché inventare un diverso ordinamento europeo implica ingegno, fantasia, forti trasferimenti di sovranità, trasgressione di conformismi, e una mente cosmopolitica che le sinistre storiche professano sempre, osservano di rado.

Le torsioni del Pd, e dei socialisti in Francia, confermano l'infermità di partiti chiusi nelle case nazionali, che l'Unione la sognano soltanto. Quando esigono "più Europa" (al vertice parigino tra sinistre francesi, tedesche, italiane) non osano neppure parlare di governo federale: pudibondi, prediligono la vacua parola governance.
Solo attraverso un governo europeo eletto e controllato dai deputati europei, ritroveremo la sovranità che gli Stati hanno delegato non perché rinunciatari, ma perché non la possiedono più.

Solo in Europa possiamo fare quello che nazionalmente è infattibile: salvare il Welfare, dotare il potere sovranazionale di risorse per un'altra crescita, più competitiva e anche parsimoniosa perché fatta in comune. Concentrata su energie alternative, ricerca, istruzione, trasporti comuni che superino l'automobile individuale.

Il Pd ha più patemi delle destre, abituate a custodire i fittizi troni nazionali delegando le sovranità perdute a incontrollate lobby finanziarie (un'abitudine contratta nei rapporti con la Chiesa). Le sinistre hanno una visione più laica e ambiziosa della politica, e il loro disinteresse per l'Europa federale è inane: non ci sarà vero progresso, senza vera democrazia europea. Nei vertici di maggioranza con Monti di Europa politica non si parla: come se non fosse la prima emergenza, l'ossigeno che ci evita l'asfissia. Monti ritiene che "non c'è bisogno" di Stati Uniti d'Europa. I suoi ministri raccomandano, svogliati, "piccoli passi".

Come ricordano alcuni deputati, in un'interrogazione alla Camera presentata dal prodiano Sandro Gozzi, non è questa la linea fissata dal Parlamento. La mozione del 25 gennaio esige che il governo acceleri, in parallelo con Patto fiscale, un "processo costituente verso un'unione politica dei popoli europei", metta "al centro della riflessione politica europea le politiche dello sviluppo e della crescita", proponga il ricorso a eurobond e project bond come "strumenti innovativi di finanziamento allo sviluppo". Non s'intravvede prontezza governativa, in materia.

Ulrich Beck ha dato un nome all'indolenza dei politici nazionali. La chiama l'"errore del bruco". L'umanità-bruco vive la condizione della crisalide, "ma lamenta la propria scomparsa perché non presagisce la farfalla che sta per diventare". Non è la prima volta che accade, secondo lo scrittore Burkhard Müller che per primo ha usato la metafora del bruco (Süddeutsche Zeitung, 1-8-08). Nell'800 stava per finire la legna: nessuno presagiva il carbone fossile. Oggi accade lo stesso col petrolio, e anche con gli Stati nazione. Si aspetta che l'alternativa si materializzi da sola, mentre bisogna tirarla fuori dal pigro ventre del presente. Decenni di lavoro di movimenti cittadini hanno consentito ai tedeschi di uscire dal nucleare, ricorda Habermas. Anni di negoziati hanno prodotto un diritto del lavoro che non ha spaccato e umiliato i sindacati come da noi.

La sinistra può farcela. Purché lavori alla nascita della farfalla europea, e smetta le comode certezze di chi, apocalitticamente vivendo da bruco, ritiene morta le democrazia, una volta perduto il contenitore che fu lo Stato nazione.
 

(28 marzo 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #176 inserito:: Aprile 18, 2012, 11:10:57 pm »

COMMENTO

La perdita dell'olfatto

di BARBARA SPINELLI


QUANDO il fascismo stava per finire, nel novembre 1944, un giornalista americano che conosceva bene l'Italia, Herbert Matthews, scrisse un articolo molto scomodo, sul mensile Mercurio diretto da Alba De Céspedes. S'intitolava "Non lo avete ucciso", e ci ritraeva, noi italiani e i nostri nuovi politici, incapaci di uccidere la bestia da cui in massa eravamo stati sedotti. Una vera epurazione era impossibile, soprattutto delle menti, dei costumi.

Troppo vasti i consensi dati al tiranno, i trasformismi dell'ultima ora. Matthews racconta un episodio significativo di quegli anni. Quando il governo militare alleato volle epurare l'Università di Roma, una delegazione del Comitato di liberazione nazionale (Cln) chiese che la riorganizzazione fosse compiuta da due membri di ciascun partito: "In altre parole, una politica di partito doveva essere introdotta nel dominio dell'alta cultura: il che, mi sembra, è fascismo bello e buono". Il giornalista conclude che la lotta al fascismo doveva durare tutta la vita: "È un mostro col capo d'idra, dai molti aspetti, ma con un unico corpo. Non crediate di averlo ucciso".

L'idra è tra noi, anche oggi. Nasce allo stesso modo, è il frutto amaro e terribile di mali che tendono a ripetersi eguali a se stessi e non vengono curati: come se non si volesse curarli, come se si preferisse sempre di nuovo nasconderli, lasciarli imputridire, poi dimenticarli. È uno dei lati più scuri dell'Italia, questo barcollare imbambolato lungo un baratro, dentro il quale non si guarda perché guardarlo significa conoscere e capire quel che racchiude: la politica che non vuol rigenerarsi; i partiti che non apprendono dai propri errori e si trasformano in cerchie chiuse, a null'altro interessate se non alla perpetuazione del proprio potere; la carenza spaventosa di una classe dirigente meno irresponsabile, meno immemore di quel che è accaduto in Italia in più di mezzo secolo.

E tuttavia distinguere si può, si deve: altrimenti prepariamoci alle esequie della politica. Ci sono uomini e partiti che si sono opposti e s'oppongono alla degenerazione, e ce ne sono che coscientemente hanno scommesso sul degrado. C'è la Costituzione, che protegge la politica e chi ne ha vocazione: compresi i partiti, che al caos oppongono l'organizzazione. Il molle non è equiparabile al colluso con la mafia, il mediocre non è un criminale. La politica è oggi invisa, ma a lei spetta ricominciare la Storia. I movimenti antipolitici denunciano una malattia che senz'altro corrode dal di dentro la democrazia, ma non hanno la forza e neanche il desiderio di governare. Chi voglia governare non può che rinobilitarla, la politica.

Se questo non avviene, se i partiti si limitano a denunciare l'antipolitica, avranno mancato per indolenza e autoconservazione l'appuntamento con la verità. Non avranno compreso in tempo l'essenziale: sono le loro malattie a suscitare i pifferai-taumaturghi (l'ultimo è stato Berlusconi). Il paese rischia di morire di demagogia, dice Bersani, ma questa morte è un remake: vale la pena rifletterci sopra. Guardiamola allora, questa politica sempre tentata dai remake. Non è solo questione di corruzione finanziaria, o del denaro pubblico dato perché i partiti non siano prede di lobby e che tuttavia è solo in piccola parte speso per opere indispensabili (il resto andrebbe restituito ai cittadini: questo è depurarsi). La corruzione è più antica, ha radici nelle menti e in memorie striminzite. Matthews denuncia lottizzazioni partitiche già nel '44. Un'altra cosa che smaschera è il ruolo della mafia nella Liberazione. Anche quest'idra è tra noi.

È lunga, la lista dei mali via via occultati, e spesso scordati. L'Anti-Stato che presto cominciò a crearsi accanto a quello ufficiale, e divenne il marchio comune a tante eversioni: mafiose, brigatiste, della politica quando si fa sommersa. Un Anti-Stato raramente ammesso, combattuto debolmente. E le stragi, a Portella della Ginestra nel '47 e a partire dal '69: restate impunite, anonime. L'ultima infamia risale alla sentenza sull'eccidio di Brescia del '74, sabato scorso: tutti assolti. È un conforto che Monti abbia deciso che spetta allo Stato e non alle vittime pagare 38 anni di inchieste e processi: l'ammissione di responsabilità gli fa onore. Poi la P2: una "trasversale sacca di resistenza alla democrazia", secondo Tina Anselmi. Berlusconi, tessera 1816 della Loggia, entrò in politica per attuare il controllo dell'informazione e della magistratura previsto nel Piano di Rinascita democratica di Gelli. Le mazzette a politici e giornalisti si chiamano, nel Piano, "sollecitazioni".

È corruzione anche la sordità a quel che i cittadini invocano da decenni, nei referendum. Nel '91 votarono contro una legge elettorale che consentiva ai partiti di piazzare nelle liste i propri preferiti. Nel '93 chiesero l'abbandono del sistema proporzionale, che in Italia aveva dilatato la partitocrazia. Il 90.3 per cento votò nel '93 contro il finanziamento pubblico dei partiti. I referendum sono stati sprezzati, con sfacciataggine. Il finanziamento è ripreso sostituendo il vocabolo: ora si dice rimborso. Da noi si cambia così: migliorando i sinonimi, non le leggi e i costumi.

Ma soprattutto, sono spesso svilite le battaglie dell'Italia migliore (antimafia, anticorruzione). Bisogna cadere ammazzati come Ambrosoli, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, per non finire nel niente. Le commemorazioni stesse sono subdole forme di oblio. Si celebra Ambrosoli, non la sua lotta contro Sindona, mafia, P2. Disse di lui Andreotti, legato a Sindona: "È una persona che se l'andava cercando". Fu ascoltato in silenzio, e non possiamo stupirci se l'ex democristiano Scajola, nel 2002, dirà parole quasi identiche su Marco Biagi, reo d'aver chiesto la scorta prima d'essere ucciso: "Era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza". Ci sono cose che, una volta dette, ti tolgono il diritto di rappresentare l'Italia.

Viene infine la dimenticanza pura, che dissolve come in un acido persone italiane eccelse. Tina Anselmi è un esempio. Gli italiani sanno qualcosa della straordinaria donna che guidò la commissione parlamentare sulla P2? È come fosse già morta, ed è commovente che alcuni amici la ricordino. Tra essi Anna Vinci, autrice di un libro di Chiarelettere sulla P2. Con Giuseppe Amari, la scrittrice ha appena pubblicato Le notti della democrazia, in cui la tenacia di Tina è paragonata a quella di Aung San Suu Kyi. Altro esempio: Federico Caffè, fautore solitario di un'economia alternativa ai trionfi liberisti, di rado nominato. Un mattino, il 15-4-87, si tolse di mezzo, scomparve come il fisico Majorana nel '38. Anosognosia è la condizione di chi soffre un male ma ne nega l'esistenza: è la patologia delle nostre teste senza memoria.

La letteratura è spesso più precisa dei cronisti. Nel numero citato di Mercurio è evocato il racconto che Moravia scrisse nel '44: L'Epidemia. Una malattia strana affligge il villaggio: gli abitanti cominciano a puzzare orribilmente, ma in assenza di cura l'odorato si corrompe e il puzzo vien presentato come profumo. Quindici anni dopo, Ionesco proporrà lo stesso apologo nei Rinoceronti. La malattia svanisce non perché sanata, ma perché negata: "Possiamo additare una particolarità di quella nazione come un effetto indubbio della pandemia: gli individui di quella nazione, tutti senza distinzione, mancano di olfatto". Non fanno più "differenza tra le immondizie e il resto".

Ecco cosa urge: ritrovare l'olfatto, anche se "è davvero un vantaggio" vivere senza. Altrimenti dovremo ammettere che preferiamo la melma e i pifferai che secerne, alla "bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità". Il profumo che Borsellino si augurò e ci augurò il 23 giugno '92, a Palermo, pochi giorni prima d'essere assassinato.

(18 aprile 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #177 inserito:: Maggio 01, 2012, 12:06:31 pm »

Il new deal d’Europa


di Barbara Spinelli, da Repubblica, 25 aprile 2012


L'Europa è talmente malmessa, che non può permettersi alla guida degli Stati uomini senza nuovi progetti sull'Unione, che proseguano con avaro nazionalismo i falsi movimenti di salvataggi inesistenti. Ha bisogno di pensare in grande il doppio sconquasso che l'assedia: la crisi che minaccia l'euro, e la crisi di rappresentanza politica che minaccia la democrazia. Questo il messaggio che domenica è venuto dal primo turno delle presidenziali francesi.
Il rigetto di Sarkozy, il successo della xenofobia antieuropea di Marine Le Pen, confermano che esiste ormai un tragico divario, non solo in Francia, fra la gestione contabile dei debiti pubblici e le passioni democratiche dei cittadini.

È finita l'epoca in cui l'economia determinava ogni cosa. È l'economia, stupido! disse nel '92 uno stratega di Clinton, sicuro che Bush padre non avrebbe vinto con i suoi discorsi sul dopo-guerra fredda. Per vent'anni le menti sono state prigioniere di quel motto fatale, cattivando gran parte delle sinistre europee, ed ecco che fa irruzione una questione che credevamo chiusa, morta: la questione sociale. Sarkozy è sorpassato al primo turno da Hollande e dal Fronte Blu-Marina di Pen per aver ignorato questa novità, pur visibile da tempo. Dalla Francia profonda gli giunge l'annuncio: È il sociale, stupido!

È il sociale come nel 1933-37, quando Roosevelt avviò il New Deal, in reazione alla Grande Depressione del '29, e non solo predispose ingenti piani di investimento ma corresse anche la democrazia americana: a fatica impose le sue proposte, avversato sia dalla Corte suprema, sia da singoli Stati che ritenevano violate le loro prerogative ed eccessivo l'intervento dello Stato federale. Lo stesso sta accadendo da noi. Pensare in grande, oggi, significa pensare europeo, non limitarsi a escogitare ombrelli temporanei che riparino dalle bancarotte gli Stati periferici. Alla Grande Contrazione dei redditi e dei diritti, e alla disperazione sociale che dilaga, si può rispondere solo con un New Deal, un Nuovo Patto che sia federale e sovra-statale come quello di Roosevelt.

François Hollande non ha forse la stoffa di Roosevelt (chi ha la stoffa di un grande, prima di provare?) e l'Europa federale ancora non c'è. Durante tutta la crisi Sarkozy ha impedito questo sviluppo, vantandosi d'aver riportato l'Europa nelle capitali, lontano da Bruxelles. Ma se Hollande la spuntasse, al secondo turno, qualcosa potrebbe cominciare a muoversi. Se le parole che ha detto pesano, l'immobile pigrizia di Merkel e Sarkozy un poco s'incrinerebbe. Non dimentichiamo che tanti Europei lo chiedono: i socialdemocratici e liberali tedeschi (che hanno appena iscritto la Federazione nel programma del partito), il Consiglio degli esperti economici in Germania, i governi polacco e spagnolo, e uomini come Cohn Bendit, Verhofstadt, infine Delors, secondo cui l'odierna politica «uccide l'Europa». Lo chiede anche Mario Monti.

La tesi di Hollande è che il Patto di bilancio franco-tedesco, approvato il 2 marzo da 25 Stati dell'Unione, è una tappa necessaria («Io accetto la disciplina», ha detto ai socialisti europei, in marzo a Parigi) ma fallimentare se non affiancata da una politica europea di investimenti e occupazione. Delors aggiunge: se non abbinata a un'Europa più federale e a un diverso modello di sviluppo.

L'iniziale idea di rinegoziare il Patto di bilancio è stata abbandonata, e la battaglia di Hollande ha ora altri obiettivi: non più la trasformazione dei debiti sovrani in debito comune, ma il potere dato alle istituzioni sovranazionali europee «di finanziare nuovi progetti di sviluppo». Il candidato chiede inoltre che nel Fiscal compact sia introdotta una clausola, perché i fondi per le regioni povere siano meglio usati e la Banca europea degli investimenti diventi più attiva.

Il Fondo salva-stati (Firewall, muro antincendio) è criticato con forza. L'ha criticato anche Robert Zoellick, Presidente uscente della Banca Mondiale, il 16 aprile in un articolo sul Financial Times: «L'agitazione sul Firewall distrae dalla questione fondamentale: che può fare l'Unione per aiutare Italia e Spagna ad attuare le riforme senza perdere il consenso politico? Invece d'azzuffarsi sul muro antincendio, gli Europei dovrebbero aggiungere almeno una frazione – circa 10 miliardi di euro – al capitale della Banca europea degli investimenti».

La vittoria di Hollande potrebbe mitigare le rigidità della Merkel, far da contrappeso a un dominio continentale di Berlino al contempo prepotente e abulico, che mai è stato sottoposto a vere sfide da Sarkozy, affamato di appoggi alle elezioni. Chi presagisce la fine dell'asse franco-tedesco con Hollande all'Eliseo non ha memoria nel cervello: Parigi e Berlino sono un tandem, per necessità.

Resta che il grosso dello sforzo toccherà alla Francia, più che mai. È qui che ci si aggrappa più accanitamente alla sovranità assoluta degli Stati. Per mezzo secolo Parigi ha fatto e disfatto l'Unione ben più capricciosamente della Germania. Il federalismo, antica vocazione tedesca, è inviso in Francia. Hollande denuncia il rigore senza crescita, non il tabù della sovranità nazionale. Delors è un'eccezione alla regola.

Il non-detto in Europa è che la crisi non è una buia manovra speculativa. Nasce da una dislocazione planetaria dell'economia. La verità taciuta dai governi è che la crescita di ieri da noi non tornerà: che converrà dipendere meno da vecchie industrie, non più competitive in Asia e America latina, e puntare su energie rinnovabili, ecologia, ricerca.
Un'altra verità occultata è l'organizzazione della ripresa. È per risparmiare soldi che il Nuovo Patto deve partire dall'Unione, non dagli Stati. Come ha detto Alfonso Iozzo, ex presidente della Cassa Depositi e Prestiti e federalista europeo, in una riunione romana di EuropEos a marzo: agli Stati incombe l'obbligo del rigore, «all'Europa lo sviluppo con un New Deal». I primi infatti «non possono più sostenere piani nazionalmente troppo costosi». Dice Passera che non possiamo aspettarci ideone dai governi. Ma di ideone c'è bisogno disperato - lo attesta il trionfo dei nazionalismi xenofobi europei - e il New Deal è una di esse.

Si dirà che mancano i soldi. Ma l'Europa può trovarli, accrescendo il proprio bilancio. Secondo i federalisti, l'aumento delle comuni risorse deve passare dall'1 per cento del prodotto interno lordo al 2. E deve poter essere usata la tassa sulle transazioni finanziarie, oggi solo annunciata, per sostenere i lavoratori colpiti dalla globalizzazione e i giovani esclusi dal lavoro.

L'Europa di Merkel e Sarkozy non ha sanato ma aggravato nell'Unione la sofferenza economica e democratica, accentuando populismi e chiusure nazionaliste. Perfino il trattato di Schengen è messo in causa, spiega Monica Frassoni, deputata europea dei Verdi, sul sito Linkiesta.it: è recente un appello inviato dai ministri dell'Interno di Francia e Germania al Presidente del Consiglio dei Ministri europeo, perché vengano reintrodotti i controlli alle frontiere nazionali contro i migranti illegali. Sarkozy spera di strappare voti a Marine Le Pen. Domenica abbiamo visto che l'originale, almeno per ora, è preferito alla copia.

Può darsi che manchino oggi leader come Roosevelt. Ma la constatazione s'è fatta stantia. Importante è smettere di dire che l'Europa funziona così com'è: che basta – l'ha detto Monti in gennaio alla Welt - la sussidiarietà (se i nodi non sono sciolti nazionalmente si passa al livello sovranazionale o regionale). La sussidiarietà è un metodo, che si usa ad hoc. Non è l'istituzione che dura nel tempo e «pensa tutto il giorno all‘Europa», invocata da Delors. Altrimenti l'Europa sarà la bella statua di Baudelaire: sogno di pietra troneggiante nell'azzurro, nemica di ogni movimento che scomponga le linee. «E mai piange, mai ride».

(26 aprile 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-new-deal-deuropa/
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« Risposta #178 inserito:: Maggio 09, 2012, 03:17:06 pm »

   
LE IDEE

Chi ha paura delle elezioni

di BARBARA SPINELLI
 

TUTTI ricordiamo le parole che Roosevelt pronunciò il 4 marzo 1933, appena eletto. La crisi che s'accingeva a fronteggiare era simile alla nostra, e disse: "La sola cosa che dobbiamo temere è la paura stessa: l'indicibile, irragionevole, ingiustificato terrore che paralizza gli sforzi necessari per convertire una ritirata in avanzata". Dopo le elezioni in Francia, Italia, Grecia, potremmo applicare la frase ai timori suscitati in molte capitali dai verdetti delle urne.

"La sola cosa che l'Europa deve temere, oggi, è la paura che i tribunali elettorali suscitano nei governanti, nei partiti classici, in chiunque difenda lo status quo pensando che ogni sentiero che si biforca e tenta il nuovo sia una temibile devianza".

È con grande sospetto infatti che si guarda al nuovo Presidente socialista, e non solo quando in gioco è l'economia. Anche la sua politica estera è temuta: la volontà di uscire fin da quest'anno dall'Afghanistan, il rifiuto opposto nel 2009 quando Sarkozy decise di rientrare nel comando militare integrato della Nato. Ma il mutamento che maggiormente indispone e terrorizza è il rinegoziato del patto fiscale (fiscal compact) approvato a marzo da 25 Stati dell'Unione. È qui il nodo più difficile da sciogliere.

I capi d'Europa non troveranno salvezza che in simili mutamenti, ma cocciutamente rifiutano quel che li può salvare, considerandolo dinamite. Si sentono destabilizzati nelle loro certezze, e poco importa se
son certezze empiricamente confutate, se la Merkel dovrà retrocedere comunque, perché senza socialdemocratici il fiscal compact non passerà in Parlamento. Giungono sino a dire che la formidabile spinta a cambiare politica è antipolitica, o conservatrice.

In Grecia il partito d'estrema sinistra (Syriza, Coalizione radicale della sinistra) è divenuto il secondo partito, superando i socialisti del vecchio Pasok, e il suo leader, Alexis Tsipras, sta tentando di formare un governo. Anche lui è tacciato di antipolitica, eppure è un europeista che profetizza il precipizio nella povertà e nel risentimento degli anni '30, se Angela Merkel non capirà la speranza racchiusa nella rabbie popolari. "L'Europa ha disperatamente bisogno di un New Deal stile Roosevelt": non è disfattismo quello di Tsipras, ma ardente appello a un'Unione più forte.

Di questa paura del nuovo converrà liberarsi, in Europa e America, perché anch'essa è terrore irragionevole, non già volontà di ripensare gli errori ma, come la chiamava Tommaso d'Aquino, chiusa non-volontà, nolitio perfecta. Non è un magnifico status quo quello che Hollande vuol rimettere in questione, non è una stabilità radiosa, che avrebbe dato chissà quali buoni frutti. Le urne dicono questo: il bisogno di Europa, di una politica che salvi il continente dal naufragio della disperazione sociale e di una guerra di tutti contro tutti. Il continuo accenno alla Grecia come spauracchio - e capro espiatorio - agitato dai nostri governi a ogni piè sospinto, non è altro che ritorno al vecchio bellicoso equilibrio di potenze nazionali, tra Stati egemoni e Stati protettorati.

Hollande ha in mente non solo l'economia, ma anche l'inerte mutismo europeo su pace e guerra. In Afghanistan la guerra iniziata dall'Occidente sta finendo in catastrofe, come ha spiegato con efficacia il generale Fabio Mini sul Corriere della sera: "È una guerra che stiamo combattendo con onore al fianco degli americani fingendo di non vedere che l'hanno già perduta. Sono stati sconfitti sul campo di battaglia nel 2003, quando dovettero coinvolgere la Nato per l'incapacità di gestire la violenza dei talebani e la corruzione del governo che avevano instaurato. Sono sconfitti ogni giorno sul campo dell'etica militare per l'incapacità di gestire l'eccesso di potenza, la frustrazione e i comportamenti degli squilibrati".

Lo stesso vale per la Nato: strumento che dopo la guerra fredda ha subito modifiche radicali, imposte da Washington e mai seriamente discusse tra europei. Da alleanza difensiva puramente militare, la Nato è divenuta un organo eminentemente politico, che esporta democrazia senza riuscirci, secernendo caos e Stati deboli, dipendenti o riottosi. Non stupisce dunque il fastidio manifestato da Hollande verso la scelta che ha coinvolto Parigi in un comando militare dominato dalla declinante potenza Usa. È bene che un Paese europeo di prima importanza chieda di fermarsi, e si interroghi sul punto cui siamo arrivati: che critichi lo status quo mentale che è dietro le guerre occidentali e dietro alleanze surrettiziamente snaturate. L'Unione, la Nato, i nostri rapporti col nuovo mondo multipolare: la mutazione già è avvenuta; sono la politica e l'Europa a esser sordo-mute, non all'altezza.

Queste battaglie di politica estera, così come le battaglie per un'Europa che sappia resistere alle forze disgregatrici dei mercati, dovranno tuttavia partire da un'unione di forze, da istituzioni comuni che durino più dei governi e diano sicurezza ai cittadini tutti. Che non si limitino più a eseguire gli ordini degli Stati più forti, e di un'ortodossia che non tollera pensieri eretici. Per questo Hollande non va lasciato solo, alle prese con le paure che suscita a Berlino o nelle accademie. Sul tema pace-guerra, come sulle discipline di rigore, occorre che gli Europei si radunino e definiscano senza paura i loro interessi, e le lezioni che vogliono trarre dai voti dei giorni scorsi.

Cosa dicono in ultima istanza le urne, oltre al rifiuto dell'austerità? Dicono che un numero crescente di elettori, a destra e sinistra, cede al richiamo del nazionalismo, della xenofobia, dell'antipolitica perché, pur conoscendo i disastri del richiamo, non vede formarsi uno spazio pubblico, un'agorà europea, in cui vien disegnato un nuovo ordine mondiale. Perché vedono candidati spesso corrotti, oppure governanti ingabbiati in dottrine economiche calamitose e in un ordine mondiale obsoleto, somma caotica di vizi e impotenze nazionali. Non vedono un'Europa ambiziosa, che proponga un modello di pace mondiale e non sia il Leviatano di Hobbes: potere sganciato dalle leggi civili, in assenza del quale (questa la sua propaganda) la vita è destinata a esser "solitaria, povera, incattivita, brutale, e corta". Grillo in Italia non è insensibile a questi richiami, anche se tanti suoi candidati e amministratori non credo siano d'accordo.

La sera della vittoria, alla Bastiglia, Hollande ha annunciato che la Francia vuol divenire un modello in Europa. Ma il grande salto qualitativo lo compirà il giorno in cui, negoziando con i partner, comincerà a esigere che l'Europa in quanto tale divenga modello. Quando dirà: tornerete ad avere fiducia nell'Unione creata nel dopoguerra, perché le abbiamo dato una voce unica e un governo federale dotato di risorse sufficienti a rilanciare l'economia al posto degli Stati costretti al rigore.

La volontà di ripensare la questione pace-guerra ha senso solo se partirà dall'Unione, non da un Paese isolato. L'idea di Kohl, quando nacque l'euro, va ripresa, continuata. La Germania sacrificò il marco sovrano, sperando nell'Europa politica e nella difesa comune. Il no di Mitterrand scatenò nei tedeschi diffidenze che perdurano. Quella stortura va corretta. Non dimentichiamolo: il federalismo europeo è ben più inviso a Parigi che a Berlino.
Lo stesso si dica per le politiche, che non possiamo più delegare agli Usa, verso paesi arabi, Palestina, Russia. Occorre che l'Europa decida se vuol divenire potenza. Una potenza che non getti fuoribordo Atene, trattando i deboli come perdenti in guerra. La fierezza d'esser europei cresce solo così: risuscitando il modello sociale, l'ambizione politica degli inizi. Facendo di tutto perché i presenti tumulti popolari non siano un'occasione di regresso, ma si convertano in ripresa e ricominciamento.

(09 maggio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #179 inserito:: Maggio 16, 2012, 05:00:35 pm »

IL COMMENTO

La preghiera di Aiace

di BARBARA SPINELLI

CI ABITUIAMO talmente presto ai luoghi comuni che non ne vediamo più le perversità, e li ripetiamo macchinalmente quasi fossero verità inconfutabili: la loro funzione, del resto, è di metterti in riga. Il pericolo di divenire come la Grecia, per esempio: è una parola d'ordine ormai, e ci trasforma tutti in storditi spettatori di un rito penitenziale, dove s'uccide il capro per il bene collettivo. Il diverso, il difforme, non ha spazio nella nostra pòlis, e se le nuove elezioni che sono state convocate non produrranno la maggioranza voluta dai partner, il destino ellenico è segnato.

Lo sguardo di chi pronuncia la terribile minaccia azzittisce ogni obiezione, divide il mondo fra Noi e Loro. Quante volte abbiamo sentito i governanti insinuare, tenebrosi: "Non vorrai, vero?, far la fine della Grecia"? La copertina del settimanale Spiegel condensa il rito castigatore in un'immagine, ed ecco il Partenone sgretolarsi, ecco Atene invitata a scomparire dalla nostra vista invece di divenire nostro comune problema, da risolvere insieme come accade nelle vere pòlis.

L'espulsione dall'eurozona non è ammessa dai Trattati ma può essere surrettiziamente intimata, facilitata. In realtà Atene già è caduta nella zona crepuscolare della non-Europa, già è lupo mannaro usato per spaventare i bambini. Chi ha visto la serie Twilight zone conosce l'incipit: "C'è una quinta dimensione oltre a quelle che l'uomo già conosce. È senza limiti come l'infinito e senza tempo come l'eternità. È la regione intermedia tra la luce e l'oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l'oscuro baratro dell'ignoto e le vette luminose del sapere". Lì sta la Grecia: lontana dalle vette luminose dell'eurozona, usata come clava contro altri.

L'editorialista di Kathimerini, Alexis Papahelas, ha detto prima delle elezioni: "Ci trasformeranno in capro espiatorio. Angela Merkel potrebbe punire la Grecia per meglio convincere il suo popolo ad aiutare paesi come Italia o Spagna". Il tracollo greco è "un'opportunità d'oro" per Berlino e la Bundesbank, secondo l'economista Yanis Varoufakis: nell'incontro di oggi tra la Merkel e Hollande, l'insolvenza delle Periferie europee (Grecia, e domani Spagna, Italia) "sarà usata per imporre a Parigi le idee tedesche su come debba funzionare il mondo". Agitare lo spauracchio ellenico è tanto più indispensabile, dopo la disfatta democristiana in Nord Reno-Westfalia e il trionfo di socialdemocratici e Verdi, pericolosamente vicini a Hollande. La speranza è che Berlino intuisca che la sua non è leadership, ma paura di cambiare paradigmi.

Può darsi che la secessione greca sia inevitabile, come recita l'articolo di fede, ma che almeno sia fatta luce sui motivi reali: se c'è ineluttabilità non è perché il salvataggio sia troppo costoso, ma perché la democrazia è entrata in conflitto con le strategie che hanno preteso di salvare il paese. Nel voto del 6 maggio, la maggioranza ha rigettato la medicina dell'austerità che il Paese sta ingerendo da due anni, senza alcun successo ma anzi precipitando in una recessione funesta per la democrazia: una recessione che ricorda Weimar, con golpe militari all'orizzonte. Costretti a rivotare in mancanza di accordo fra partiti, gli elettori dilateranno il rifiuto e daranno ancora più voti alla sinistra radicale, il Syriza di Alexis Tsipras. Anche qui, i luoghi comuni proliferano: Syriza è forza maligna, contraria all'austerità e all'Unione, e Tsipras è dipinto come l'antieuropeista per eccellenza.

La realtà è ben diversa, per chi voglia vederla alla luce. Tsipras non vuole uscire dall'Euro, né dall'Unione. Chiede un'altra Europa, esattamente come Hollande. Sa che l'80 per cento dei greci vuol restare nella moneta unica, ma non così: non con politici nazionali ed europei che li hanno impoveriti ignorando le vere radici del male: la corruzione dei partiti dominanti, lo Stato e il servizio pubblico servi della politica, i ricchi risparmiati. Tsipras è la risposta a questi mali  -  l'Italia li conosce  -  e tuttavia nessuno vuol scottarsi interloquendo con lui. Neanche Hollande ha voluto incontrare il leader di Syriza, accorso a Parigi subito dopo il voto. E avete mai sentito le sinistre europee, che la solidarietà dicono d'averla nel sangue, solidarizzare con George Papandreou quando sostenne che solo europeizzando la crisi greca si sarebbe trovata la soluzione? Chi prese sul serio le parole che disse in dicembre ai Verdi tedeschi, dopo le dimissioni da Primo ministro? "Quello di cui abbiamo bisogno è di comunitarizzare il nostro debito, e anche i nostri investimenti: introducendo una tassa europea sulle transazioni finanziarie, e sulle energie che emettono biossido di carbonio. E abbiamo bisogno di eurobond per stimolare investimenti comuni". L'idea che espose resta ancor oggi la via aurea per uscire dalla crisi: "Agli Stati nazionali il rigore, all'Europa le necessarie politiche di crescita".

La parole di Papandreou, ascoltate solo dai Verdi, caddero nel vuoto: quasi fosse vergognoso oggi ascoltare un Greco. Quasi fosse senza conseguenze, l'ebete disinvoltura con cui vien tramutato in reietto il Paese dove la democrazia fu inaugurata, e le sue tragiche degenerazioni spietatamente analizzate. Sono le degenerazioni odierne: l'oligarchia, il regno dei mercati che è la plutocrazia, la libertà quando sprezza legge e giustizia. Naturalmente le filiazioni dall'antichità son sempre bastarde. Anche la nostra filiazione da Roma lo è. Ma se avessimo un po' di memoria capiremmo meglio l'animo greco. Capiremmo lo scrittore Nikos Dimou, quando nei suoi aforismi parla della sfortuna di esser greco: "Il popolo greco sente il peso terribile della propria eredità. Ha capito il livello sovrumano di perfezione cui son giunte le parole e le forme degli antichi. Questo ci schiaccia: più siamo fieri dei nostri antenati (senza conoscerli) più siamo inquieti per noi stessi". Ecco cos'è, il Greco: "un momento strano, insensato, tragico nella storia dell'umanità". Chi sproloquia di radici cristiane d'Europa dimentica le radici greche, e l'entusiasmo con cui Atene, finita la dittatura dei colonnelli nel 1974, fu accolta in Europa come paese simbolicamente cruciale.

Il non-detto dei nostri governanti è che la cacciata di Atene non sarà solo il frutto d'un suo fallimento. Sarà un fallimento d'Europa, una brutta storia di volontaria impotenza. Sarà interpretato comunque così. Non abbiamo saputo combinare le necessità economiche con quelle della democrazia. Non siamo stati capaci, radunando intelligenze e risorse, di sormontare la prima esemplare rovina dei vecchi Stati nazione. L'Europa non ha fatto blocco come fece il ministro del Tesoro Hamilton dopo la guerra d'indipendenza americana, quando decretò che il governo centrale avrebbe assunto i debiti dei singoli Stati, unendoli in una Federazione forte. Non ha fatto della Grecia un caso europeo. Non ha visto il nesso tra crisi dell'economia, della democrazia, delle nazioni, della politica. Per anni ha corteggiato un establishment greco corrotto (lo stesso ha fatto con Berlusconi), e ora è tutta stupefatta davanti a un popolo che rigetta i responsabili del disastro.

Le difficoltà greche sono state affrontate con quello che ci distrugge: con il ritorno alle finte sovranità assolute degli Stati nazione. È un modo per cadere tutti assieme fuori dall'Europa immaginata nel dopoguerra. Ci farà male, questa divaricazione creatasi fra Unione e democrazia, fra Noi e Loro. La loro morte sarebbe un po' la nostra, ma è un morire cui manca il conosci te stesso che Atene ci ha insegnato. Non è la morte greca che Aiace Telamonio invoca nell'Iliade: "Una nebbia nera ci avvolge tutti, uomini e cavalli. Libera i figli degli Achei da questo buio, padre Zeus, rendi agli occhi il vedere, e se li vuoi spenti, spegnili nella luce almeno".

(16 maggio 2012) © Riproduzione riservata

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