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Autore Discussione: BARBARA SPINELLI -  (Letto 119988 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Ottobre 03, 2010, 05:02:15 pm »

3/10/2010
 
La forza degli sconfitti
 
BARBARA SPINELLI
 
Non molti mesi fa, quando Angela Merkel fu catturata da calcoli politici talmente piccoli e brevi da perdere di vista l’interesse del proprio stesso Paese al salvataggio europeo della Grecia, il filosofo Jürgen Habermas scrisse un articolo importante sulla Zeit, il 20 maggio, in cui la mise in guardia da una paura comune a tanti europei: «Il timore delle armi di distruzione di massa che sono i tabloid popolari non vi fa vedere le armi di distruzione di massa dei mercati finanziari».

È una paura introversa, nazionalista, che rischia soprattutto di vanificare quello che per mezzo secolo è stato in Germania il principale punto di forza, appreso secondo il filosofo grazie all’Olocausto: un’attitudine popolare diffusa a mutare mentalità, ad assumersene le «fatiche infinite», a riconoscere che esistono necessità che generano nuove libertà. La Repubblica Federale nacque con queste qualità. Edificò con Parigi l’Europa, forte delle istituzioni federali che perfezionò in patria e che facilitarono un pensiero post-nazionale.
Si accinse all’immane impresa dell’unificazione, di cui oggi celebra il decimo anniversario, e che ebbe costi altissimi: in 10 anni, più di 1.500 miliardi di euro. Come scrive Bernd Ulrich sulla Zeit del 30 settembre, l’unificazione smosse anche le sicumere della vecchia Repubblica di Bonn, immettendo in essa «16 milioni di punti interrogativi».

Questo adattamento tedesco alla sovranità ridotta (a una «costellazione postnazionale», dice Habermas) ha vissuto ripetute stasi, ma ora sta rivenendo in superficie, potente. Spinto dagli eventi, e dalla consapevolezza che Berlino con le sole proprie virtù non si salva né in Europa né nel mondo, il governo tedesco ha scelto ancora una volta l’Europa: non solo ha consentito al salvataggio della Grecia, ma con tenacia vuole adesso che l’Unione si dia nuove regole per affrontare crisi future. Come scrive Beda Romano, sono le stesse antiche virtù - costanza, tenacia, pazienza - che oggi spiegano l’inattesa ripresa dell’economia tedesca, il realismo ineguagliato dei sindacati, infine la scelta di «impegnarsi in prima fila per il futuro dell’Europa» chiedendo norme più severe e federali per frenare i deficit pubblici (Il Sole - 24 Ore, 1-10-10).

Di qui l’appoggio tedesco alla riforma, proposta il 29 settembre dall’esecutivo europeo, del Patto di stabilità: una riforma che toglie agli Stati il potere di bloccare le sanzioni con una maggioranza di due terzi, creando una disciplina automatica gestita dall’Unione, trasformata di fatto in governo economico. Ancora una volta dunque la Germania è pronta a mutare, e a dare un’impronta europea alla propria leadership economica: purché tuttavia gli alleati colgano l’occasione, scorgendo in essa un’occasione non tedesca ma di tutti.

La storia dimostra che tale condizione è essenziale, perché la paziente costanza tedesca non è affatto continuativa. La preferenza per una costellazione postnazionale si è attenuata quando il Paese, riunificandosi, ha riacquisito parte della sovranità. La sua scommessa europea si è fatta più scettica, egoista: lo slancio di Adenauer e Brandt, di Schmidt e Kohl, si è appannato.
Ma è un appannamento non dovuto solo al computo di tornaconti nazionali male intesi: il computo di chi vede nell’Europa un «interesse esterno», estraneo a quello interno. La regressione tedesca si manifesta ogni qual volta gli alleati (Parigi in primis) si mostrano prigionieri della chimera della sovranità, e si convincono che il suo limite sia un’opzione anziché un fatto.

Quando Kohl trattò con Mitterrand l’unità tedesca offrì la rinuncia al marco in cambio di un’unione politica europea, e non l’ottenne. Non l’ottenne né da Parigi né dagli Stati dell’Est, appena usciti dall’incubo della sovranità limitata teorizzata da Brezhnev nel ’68. Seguirono anni in cui egemone dell’Unione divenne Blair. Oggi non è più così, ma gli animi rimangono riottosi: altre proposte di Berlino sono state respinte, durante la crisi greca, a cominciare dal Fondo monetario europeo e dalla revisione dei trattati.

Resta che la crisi ha messo fine allo stallo europeo, nonostante i cavalieri inesistenti delle sovranità nazionali e le loro armi distruttive. Gli stessi veleni delle dispute tedesche sulla Grecia (i tabloid che invitavano a non pagare per i peccaminosi; la certezza che l’autarchica disciplina fosse un bastevole scudo) hanno prodotto, omeopaticamente, quello di cui l’Europa ha più bisogno: una grande contesa sulla natura dell’Unione.

D’un tratto negli Stati, e specialmente in Germania, si è iniziato a parlare delle condotte degli alleati come di condotte di concittadini di un’unica pòlis. Nello stesso momento in cui si riconosceva che malato non era l’euro ma i singoli deficit pubblici, economie e bilanci cominciavano a esser dibattuti come affare interno europeo.

La necessità della globalizzazione apriva nuovi spazi di libertà, inventiva. Sulla Frankfurter Allgemeine, Klaus-Dieter Frankenberger scrisse, il 26 agosto: «La crisi dell’euro, che è in realtà crisi dei debiti pubblici, può infine riesumare quel che restò incompiuto o fallì alla nascita dell’euro: l’unione politica». Secondo il grande storico Heinrich August Winkler, il neo-nazionalismo tedesco può grazie a tale crisi esser superato: «Nel giro d’una notte, essa risvegliò negli europei la coscienza che nel frattempo era nata qualcosa come una politica interna europea». Quando l’età pensionabile, i salari degli statali, le linee sindacali, la disciplina di bilancio, il debito pubblico d’un singolo diventano oggetti di disputa in altri Stati dell’Unione, quel che si crea è, anche se all’inizio distorto, spazio pubblico europeo: «Al progetto Europa, la crisi offre l’occasione insperata: esso deve esser di nuovo legittimato; non può più essere un progetto di élite» (Frankfurter Allgemeine, 13-8-10).

La Germania ha un vantaggio rispetto a altri europei. Ha una storia maledetta: non mascherabile, falsificabile, come nella Francia postbellica di De Gaulle, nell’Italia delle amnesie, nella Grecia succube per decenni del potere militare Usa. La sconfitta le ha insegnato a vedere le sciagure delle sovranità nazionali totali. Anche la sconfitta dello Stato comunista l’ha aiutata, perché i tedeschi dell’Est sono entrati nell’Ovest tedesco iniettandovi una predisposizione ai mutamenti mentali, ai sacrifici dello status quo, che i connazionali ricchi stavano smarrendo.

Naturalmente, la tentazione di regredire esiste: nello stesso momento in cui apre all’Europa, ad esempio, Berlino torna a chiedere per se stessa (e non per l’Unione) un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Lo stesso Joschka Fischer fu incostante, come ministro degli Esteri: nel famoso discorso all’Università Humboldt, il 12 maggio 2000 a Berlino, propose una Costituzione europea prima dell’allargamento. Poi fece marcia indietro, sulla scia dell’11 settembre, preferendo a istituzioni più forti un allargamento alla Turchia che desse all’Unione dimensioni geografiche più grandi. I criteri di Copenhagen, che impongono ai Paesi candidati non solo disciplina economica ma sovranità delegate e un riconoscimento della superiore autorità dell’Unione - ricorda Winkler - si persero per strada. È il motivo per cui l’allargamento ha funzionato male, e rischia di degenerare se il rafforzamento delle istituzioni non torna a esser prioritario.

Se a un certo punto scemano costanza e tenacia, è perché la crisi è una lama a doppio taglio: può produrre presa di coscienza ma anche nuove illusioni, e l’infausta passione dell’impazienza descritta da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito: «L’impazienza esige l’impossibile, cioè il raggiungimento del fine ma senza i mezzi». Nell’Unione, l’impazienza ti fa credere che basta invocare l’Europa, senza darle i mezzi per esistere.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7907&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #121 inserito:: Ottobre 10, 2010, 09:38:26 am »

10/10/2010

Il giornalismo davanti a un incrocio

BARBARA SPINELLI

Se apocalisse significa letteralmente ritiro del velo che copre le cose, quella che viviamo in Italia è l’apocalisse del giornalismo: è giornalismo denudato, svelato. È giornalismo che si trova davanti a un incrocio: se si fa forte, rinasce e ritrova lettori; se si compiace del proprio ruolo di golem della politica, perde i lettori per il semplice motivo che non ha mai pensato a loro. Diciamo subito che il male oltrepassa la piccola storia del Giornale di Sallusti e Feltri, nonostante la piccola storia sia tutt’altro che irrilevante: se la redazione è stata perquisita come fosse un covo di banditi, è perché da tempo il quotidiano si conduce in modo tale da suscitare sospetti, apprensione.

I suoi vertici orchestrano campagne di distruzione che colpiscono uno dopo l’altro chiunque osi criticare i proprietari della testata (la famiglia Berlusconi, il cui capo è premier): prima vennero le calunnie contro Veronica Lario, poi contro Dino Boffo direttore dell’Avvenire, poi per mesi contro Fini, adesso contro il presidente della Confindustria Emma Marcegaglia. Il male oltrepassa questa catena di operazioni belliche perché tutti i giornali scritti sono oggi al bivio.

La crisi è mondiale, i lettori si disaffezionano e invecchiano, i giovani cercano notizie su altre fonti: blog, giornali online. Philip Meyer, professore di giornalismo all’Università della Carolina del Nord, sostiene che l’ultimo quotidiano cartaceo uscirà nel 2040.

Viviamo dunque gli ultimi giorni della stampa scritta e vale la pena meditarli in un Paese, l’Italia, che li vive così male. Per questo le aggressioni a Fini e alla Marcegaglia sono decisive, vanno studiate come casi esemplari. Si dirà che è storia antica, che da sempre il giornalismo sfiora il sensazionalismo. Alla fine dell’800, chi scriveva senza verificare le fonti veniva chiamato yellow journalist, e i primi giornalisti-liquidatori innamorati del proprio potere politico furono Joseph Pulitzer e William Hearst (Citizen Kane nel film di Orson Welles).

Perché giornalismo giallo? Perché un vignettista di Pulitzer aveva dato questo nome - yellow kid - al protagonista dei propri fumetti. Ma quelli erano gli inizi del grande giornalismo, fatto anche di preziose inchieste. Perfino il compassato Economist apprezzava la cosiddetta furia mediatica. Negli Anni 50, il direttore Geoffrey Crowther prescrisse ai redattori il motto seguente: «Semplifica, e poi esagera» (simplify, then exaggerate).

Ora tuttavia non siamo agli inizi ma alla fine di una grande avventura. Per ogni giornale stampato è apocalisse, e a ogni giornalista tocca esaminarsi allo specchio e interrogarsi sulla professione che ha scelto, sul perché intende continuare, su quel che vuol difendere e in primis: su chi sono gli interlocutori che cerca, cui sarà fedele. Nel declino gli animi tendono a agitarsi ancora più scompostamente, e questo spiega lo squasso morale di tante testate (e tante teste) legate al magnate dei media che è Berlusconi. Se quest’ultimo volesse davvero governare normalmente, come pretende, dovrebbe interiorizzare le norme che intelaiano la democrazia e non solo rinunciare agli scudi che lo immunizzano dai processi ma ai tanti, troppi mezzi di comunicazione che possiede. Lo dovrebbe per rispetto della carica che ricopre. Aiuterebbe l’informazione a rinascere, a uscire meglio dalla crisi che comunque traversa.

Chi scrive queste righe, si è sforzato di avere come sola bussola i lettori: non sempre con successo, ma sempre tentando una risposta alle loro domande. Ritengo che il lettore influenzi il giornalista più di quanto il giornalista influenzi il pubblico: in ogni conversazione, l’ascoltatore ha una funzione non meno maieutica di chi parla. Per un professionista che ami investigare sulla verità dei fatti, questo legame con chi lo legge prevale su ogni altro legame, con politici o colleghi. Una tavola rotonda fra giornalisti, senza lettori, ha qualcosa di osceno.
Tanto più sono colpita dalla condotta di esponenti del nostro mestiere che sembrano appartenere alle bande mafiose dei romanzi di Chandler. Nella loro distruttività usano la parola, i dossier o le foto alla stregua di pistole. Minacciano, prima ancora di mettersi davanti al computer.

Soprattutto, gridano alla libertà di stampa assediata, quando il velo cade e li svela. Hanno ragione quando difendono il diritto alle inchieste più trasgressive, e sempre può capitare l’errore: chi non sbaglia mai non è un reporter. Quel che non si può fare, è telefonare alla persona su cui s’indaga e intimidirla, promettendo di non agire in cambio di qualcosa. In tal caso non è inchiesta ma ricatto, seguito semmai da vendetta. È qui che entriamo nel romanzo criminale, nella logica non dell’articolo ma del pizzino. Il giornalista Lonnie Morgan dice a Marlowe, nel Lungo Addio: «Per come la penso io, bloccare le indagini su un omicidio con una telefonata e bloccarle stendendo il testimone è solo questione di metodo. La civiltà storce il naso in entrambi i casi».

Conviene ascoltare e riascoltare le parole pronunciate dai vertici del Giornale, perché inaudita è la violenza che emanano. Sentiamo quel che il vicedirettore Porro dice al telefono, pochi minuti dopo aver spedito un minatorio sms, a Rinaldo Arpisella, portavoce della Marcegaglia: «Ora ci divertiamo, per venti giorni romperemo il c... alla Marcegaglia come pochi al mondo. Abbiamo spostato i segugi da Montecarlo a Mantova». Perché? «Perché non sembra berlusconiana,... e non ci ha mai filati». Porro s’è presentato tempo fa in tv come «volto umano» del quotidiano (la «belva umana» è secondo lui Sallusti). Il presidente della Confindustria, come Boffo o Fini, ha criticato il premier: questo peccato mortale, non altri ritenuti veniali, indigna i giornalisti-vendicatori.

Il turpiloquio non è perseguibile: alla cornetta si dicono tante cose. Quel che è scandaloso viene dopo la telefonata. Spaventata dai malavitosi avvertimenti, la Marcegaglia telefona a Confalonieri, presidente di Mediaset e consigliere d’amministrazione del Giornale. Confalonieri telefona a Feltri, direttore editoriale. Si ottiene un accordo. Si parlerà della Marcegaglia, ma con cura: pubblicando magari articoli, fin qui ignorati, di altri giornali. È così che il giornalista si tramuta in smistatore di pizzini, e demolitore della propria professione.

Quello del giornalista è un bel mestiere con brutte abitudini, e tale doppiezza gli sta accanto sempre. È qui che l’occhio del lettore aiuta a star diritti, a non farsi usare: è il lettore il suo sovrano, anche se la maggior parte dei giornali dipende purtroppo, in Italia, da industriali e non da editori. Berlusconi ha reso più che mai evidente un vizio ben antico. Così come lui carezza la sovranità del popolo senza rispettarlo, così rischiamo di fare noi con i lettori. Rispettarli è l’unica via per lottare contro la nostra fine, e le opportunità non mancano: è il resoconto veritiero, è smascherare le falsità. È servire la persona che ancora acquista giornali. Ci vuole qualcuno che trattenga l’apocalisse, cioè l’avvento dell’anomia, dell’illegalità generalizzata: un katéchon, come nella seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi (2,6-7).

Il giornalista che aspira a «trattenere» lo squasso è in costante stato di Lungo Addio, come il private eye di Chandler. Il suo è un addio alle manipolazioni, alle congetture infondate, alla politica da cui è usato, ai tempi del Palazzo, a tutto ciò che lo allontana da tanti lettori che perdono interesse nei giornali scritti, troppo costosi per esser liberi. Chi vive nella coscienza d’un commiato sempre incombente sa che c’è un solo modo di congedarsi dalle male educazioni del mestiere: solo se il Lungo Addio, come per Philip Marlowe, ignora le bombe a orologeria ed è «triste, solitario e finale».

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7937&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #122 inserito:: Novembre 17, 2010, 09:08:33 am »

IL COMMENTO

L'italia del sottosuolo

di BARBARA SPINELLI


Sono settimane ormai che l'annuncio è nell'aria: il governo Berlusconi sta finendo, anzi è già finito. Il suo regno, la sua epoca, sono morti. È sempre lì sul palcoscenico, come nelle opere liriche dove le regine ci mettono un sacco di tempo a fare quel che cantano, ma il sipario dovrà pur cadere. Anche i giornali stranieri assistono al funerale, nei modi con cui da sempre osservano l'Italia: il feeling, scrive l'Economist, la sensazione, è che la commedia sia finita. Burlesquoni è un brutto scherzo di ieri.

In realtà c'è poco da ridere, e il ventennio che abbiamo alle spalle è infinitamente più serio. Non siamo all'epilogo dei Pagliacci, e non basta un feeling per spodestare chi è sul trono non grazie a sentimenti ma a una macchina di guerra ben oleata. Per uscire dalla storia lunga che abbiamo vissuto  -  non 16 anni, ma un quarto di secolo che ha visto poteri nati antipolitici assumere poi il comando  -  bisogna, di questo potere, averne capito la forza, la stoffa, gli ingredienti. Non è un clown che si congeda, né l'antropologia dell'uomo solitario aiuta a capire. I misteri di un'opera sono nell'opera, non nell'autore, Proust lo sapeva: "Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che manifestiamo nelle nostre abitudini, nella società, nei nostri vizi". Sicché è l'opera che va guardata in faccia, per liberarsene senza rompersi ancora una volta le ossa.
Chi vagheggia governi tecnici o elezioni subito, a sinistra, parla di regime ma ne sottovaluta le risorse, la penetrazione dei cervelli.

Un regime fondato sull'antipolitica - o meglio sulla sostituzione della politica con poteri estranei o ostili alla politica, anche malavitosi - può esser superato solo da chi è stato detronizzato. Nessun tecnico potrà resuscitare le istituzioni offese. Può farlo solo la politica, e solo se essa si dà del tempo prima del voto. Capire il regime vuol dire liberare quello che esso ha calpestato, e quindi non solo mutare la legge elettorale. Non è quest'ultima a rendere anomala l'Italia: se così fosse, basterebbe un gesto breve, secco. Quel che l'ha resa anomala è l'ascesa irresistibile di un uomo che fa politica come magnate mediatico. Berlusconi ha conquistato e retto il potere non malgrado il conflitto d'interessi, ma grazie ad esso. Il conflitto non è sabbia ma olio del suo ingranaggio, droga del suo carisma. La porcata più vera, anche se tabuizzata, è qui. La privatizzazione della politica e dei suoi simboli (non si governa più a Palazzo Chigi ma nel privato di Palazzo Grazioli) è divenuta la caratteristica dell'Italia.

Proviamo allora a esaminare i passati decenni, oltre l'avventura iniziata nel '94. L'avventura è il risultato di un'opera vasta, finanziata torbidamente e cominciata con l'idea di una nuova pòlis, un'altra civiltà. Un progetto - è Confalonieri a dirlo - che "ha contribuito a cambiare il clima grigio e penitenziale degli anni '70, ed è stato un elemento di liberazione. Ha portato più America e più consumi, più allegria e meno bigottismo". Più America, consumi, allegria: la civiltà-modello per l'Italia divenne Milano2, una gated community abitata da consumatori ansiosi di proteggersi dal brutto mondo esterno, di sentirsi più liberi che cittadini. E al suo centro una televisione a circuito chiuso, che intrattenendo distrae, occulta, manipola: nel '74 si chiama Milano-2, diverrà l'impero Mediaset. Quando andrà al potere, il Cavaliere controllerà tutte le reti: le personali e le pubbliche.
Tutto questo non è senza conseguenze: cadendo, il Premier non lascia dietro di sé una società sbriciolata. Il paese in briciole è stato da principio sua forza, sua linfa. Non si tratta di profittare di subitanei sbriciolamenti, ma di far capire agli italiani che su questo sfaldamento Berlusconi ha edificato la sua politica. Che su questo ha costruito: sul maciullamento delle menti, non sull'individualismo. Su un'Italia che somiglia all'Uomo del sottosuolo di Dostojevski: un'Italia che rifiuta di vedere la realtà; che "segue i propri capricci prendendoli per interessi"; che giudica intollerabile che 2+2 faccia 4. Un'Italia che "vive un freddo e disperato stato di mezza disperazione e mezza fede, contenta di rintanarsi nel sottosuolo". Un'Italia arrabbiata contro chiunque vorrebbe illuminarla (la stampa, o Marchionne, o i magistrati) così come l'America arrabbiata del Tea Party il cui ossessivo bersaglio è la stampa indipendente.

Correggendo solo la legge elettorale si banalizza la patologia. Altre misure s'impongono, che permettano agli italiani di comprendere quanto sono stati intossicati. Esse riguardano il controllo di Berlusconi sull'informazione e il conflitto d'interessi. La profonda diffidenza verso una società bene informata (per Kant è l'essenza dei Lumi) caratterizza il suo regime. "Non leggete i giornali!" - "Non guardate certi programmi Tv!": ripete. Gli italiani devono restare nel sottosuolo, eternamente incattiviti. Altro che allegria. È sulla loro parte oscura, triste, che scommette. Qualsiasi governo che non si proponga di portar luce, di riequilibrare il mercato dell'informazione, fallirà.

Per questo è importante un governo di alleanza costituzionale che raggiusti le istituzioni prima del voto, e un ruolo prioritario è riservato non solo a Fini ma alle opposizioni. Fini farà cadere il Premier ma l'intransigenza sul conflitto d'interessi spetta alla sinistra, nonostante gli ostacoli esistenti nel suo stesso seno. Del regime, infatti, il Pd non è incolpevole. Fu lui a consolidarlo con un patto preciso: la conquista di suoi spazi nella Rai, in cambio del potere mediatico del Cavaliere. Tutti hanno rovinato la tv, pur sapendo che il 69,3 per cento degli italiani decide come votare guardandola (dati Censis).

A partire dal momento in cui fu data a Berlusconi l'assicurazione che l'impero non sarebbe stato toccato, si è rinunciato a considerare anomali la sua ascesa, il conflitto d'interessi. E i responsabili sono tanti, a sinistra, cominciando da D'Alema quando assicurò, visitando Mediaset nel '96: "Non ci sarà nessun Day After, avremo la serenità per trovare intese. Mediaset è un patrimonio di tutta l'Italia". La verità l'ha detta Luciano Violante, il giorno che si discusse la legge Frattini sul conflitto d'interessi alla Camera, il 28-2-02: "L'on. Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena  -  non adesso, nel '94 quando ci fu il cambio di governo  -  che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l'on. Letta... Voi ci avete accusato nonostante non avessimo fatto la legge sul conflitto d'interessi e dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni... Durante i governi di centrosinistra il fatturato Mediaset è aumentato di 25 volte!". Il programma dell'Ulivo promise di eliminare conflitto e duopolio tv, nel '96. Non successe nulla. Nel luglio '96, la legge Maccanico ignorò la sentenza della Consulta (Fininvest deve scendere da tre a due tv). Lo stesso dicasi per l'indipendenza Rai. È il centrosinistra che blocca, nell'ultimo governo Prodi, i piani che la sganciano dal potere partitico. A luglio Bersani ha presentato un disegno di legge che chiede alla politica di "fare un passo indietro". Non è detto che nel Pd tutti lo sostengano. Una BBC italiana è invisa a tanti.

Se davvero si vuol uscire dall'anomalia, è all'idea di Sylos Labini che urge tornare: all'ineleggibilità di chi è titolare di una concessione pubblica, secondo la legge del 30 marzo '57. D'altronde non fu Sylos a dire che l'ineleggibilità è la sola soluzione. Il primo fu Confalonieri, il 25-6-2000 in un'intervista a Curzio Maltese sulla Repubblica. Sostiene Confalonieri che l'Italia, non essendo l'Inghilterra della Magna Charta, non può permettersi di applicare le proprie leggi. Forse perché il paese è sprezzato molto. Forse perché c'è chi lo ritiene incapace di uscire dal sottosuolo, dopo una generazione.

(17 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/17/news/spinelli_crisi-9191608/
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« Risposta #123 inserito:: Novembre 25, 2010, 12:24:45 am »

IL COMMENTO

L'osceno normalizzato

di BARBARA SPINELLI


Ci fu un tempo, non lontano, in cui era vero scandalo, per un politico, dare a un uomo di mafia il bacio della complicità. Il solo sospetto frenò l'ascesa al Quirinale di Andreotti, riabilitato poi dal ceto politico ma non necessariamente dagli italiani né dalla magistratura, che estinse per prescrizione il reato di concorso in associazione mafiosa ma ne certificò la sussistenza fino al 1980.
Quel sospetto brucia, dopo anni, e anche se non è provato ha aperto uno spiraglio sulla verità di un lungo sodalizio con la Cupola.
Chi legga oggi le motivazioni della condanna in secondo grado di Dell'Utri avrà una strana impressione: lo scandalo è divenuto normalità, il tremendo s'è fatto banale e scuote poco gli animi.

Nella villa di Arcore e negli uffici di Edilnord che Berlusconi  -  futuro Premier  -  aveva a Milano, entravano e uscivano con massima disinvoltura Stefano Bontate, Gaetano Cinà, Mimmo Teresi, Vittorio Mangano, mafiosi di primo piano: per quasi vent'anni, almeno fino al '92. Dell'Utri, suo braccio destro, era non solo il garante di tutti costoro ma il luogotenente-ambasciatore. Fu nell'incontro a Milano della primavera '74 che venne deciso di mandare ad Arcore Mangano: che dovremmo smettere di chiamare stalliere perché fu il custode mafioso e il ricattatore del Cavaliere. Quest'ultimo lo sapeva, se è vero che fu Bontate in persona, nel vertice milanese, a promettergli il distaccamento a Arcore d'un "uomo di garanzia".

La sentenza attesta che Berlusconi era legato a quel mondo parallelo, oscuro: ogni anno versava 50 milioni di lire, fatti pervenire a Bontate (nell'87 Riina chiederà il doppio). A questo pizzo s'aggiunga il "regalo" a Riina (5 milioni) per "aggiustare la situazione delle antenne televisive" in Sicilia. Fu Dell'Utri, ancor oggi senatore di cui nessuno chiede l'allontanamento, a consigliare nel 1993 la discesa in politica. Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, dirà che altrimenti il Cavaliere sarebbe "finito sotto i ponti o in galera per mafia" (la Repubblica, 25-6-2000). Il 10 febbraio 2010 Dell'Utri, in un'intervista a Beatrice Borromeo sul Fatto, spiega: "A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera".

C'è dell'osceno in questo mondo parallelo, che non è nuovo ma oggi non è più relegato fuori scena, per prudenza o gusto. Oggi, il bacio lo si dà in Parlamento, come Alessandra Mussolini che bacia Cosentino indagato per camorra. Dacci oggi il nostro osceno quotidiano.
Questo il paternoster che regna - nella Mafia le preghiere contano, spiega il teologo Augusto Cavadi - presso il Premier: vittima di ricatti, uomo non libero, incapace di liberarsi di personaggi loschi come Dell'Utri o il coordinatore Pdl in Campania Cosentino. Ai tempi di Andreotti non ci sarebbe stato un autorevole commentatore che afferma, come Giuliano Ferrara nel 2002 su Micromega: "Il punto fondamentale non è che tu devi essere capace di ricattare, è che tu devi essere ricattabile (...) Per fare politica devi stare dentro un sistema che ti accetta perché sei disponibile a fare fronte, a essere compartecipe di un meccanismo comunitario e associativo attraverso cui si selezionano le classi dirigenti. (...) Il giudice che decide il livello e la soglia di tollerabilità di questi comportamenti è il corpo elettorale".

Il corpo elettorale non ha autonoma dignità, ma è sprezzato nel momento stesso in cui lo si esalta: è usato, umiliato, tramutato in palo di politici infettati dalla mafia. Gli stranieri che si stupiscono degli italiani più che di Berlusconi trascurano spesso l'influenza che tutto ciò ha avuto sui cervelli: quanto pensiero prigioniero, ma anche quanta insicurezza e vergogna di fondo possa nascere da questo sprezzo metodico, esibito.

Ai tempi di Andreotti non conoscemmo la perversione odierna: vali se ti pagano. La mazzetta ti dà valore, potere, prestigio.
Non sei nessuno se non ti ricattano. L'1 agosto 1998, Montanelli scrisse sul Corriere una lettera a Franco Modigliani, premio Nobel dell'economia: "Dopo tanti secoli che la pratichiamo, sotto il magistero di nostra Santa Madre Chiesa, ineguagliabile maestra d'indulgenze, perdoni e condoni, noi italiani siamo riusciti a corrompere anche la corruzione e a stabilire con essa il rapporto di pacifica convivenza che alcuni popoli africani hanno stabilito con la sifilide, ormai diventata nel loro sangue un'afflizioncella di ordine genetico senza più gravi controindicazioni".

In realtà le controindicazioni ci sono: gli italiani intuiscono i danni non solo etici dell'illegalità. Da settimane Berlusconi agita lo spettro di una guerra civile se lo spodestano: guerra che nella crisi attuale - fa capire - potrebbe degenerare in collasso greco.
È l'atomica che il Cavaliere brandisce contro Napolitano, Fini, Casini, il Pd, i media. I mercati diventano arma: "Se non vi adeguate ve li scateno contro". Sono lo spauracchio che ieri fu il terrorismo: un dispositivo della politica della paura. Poco importa se l'ordigno infine non funzionerà: l'atomica dissuade intimidendo, non agendo. Il mistero è la condiscendenza degli italiani, i consensi ancora dati a Berlusconi. Ma è anche un mistero la loro ansia di cambiare, di esser diversi. Il loro giudizio è netto: affondano il Pdl come il Pd. Premiano i piccoli ribelli: Italia dei Valori, Futuro e Libertà. Se interrogati, applaudirebbero probabilmente le due donne - Veronica Lario, Mara Carfagna - che hanno denunciato il "ciarpame senza pudore" del Cavaliere, e le "guerre per bande" orchestrate da Cosentino.
Se interrogati, immagino approverebbero Saviano, indifferenti all'astio che suscita per il solo fatto che impersona un'Italia che ama molto le persone oneste, l'antimafia di Don Ciotti, il parlar vero.

Questa normalizzazione dell'osceno è la vita che viviamo, nella quale politica e occulto sono separati in casa e non è chiaro, quale sia il mondo reale e quale l'apparente. Chi ha visto Essi Vivono, il film di John Carpenter, può immaginare tale condizione anfibia. La doppia vita italiana non nasce con Berlusconi, e uscirne vuol dire ammettere che destra e sinistra hanno più volte accettato patti mafiosi.
C'è molto da chiarire, a distanza di anni, su quel che avvenne dopo l'assassinio di Falcone e Borsellino. In particolare, sulla decisione che il ministro della giustizia Conso prese nel novembre '92 - condividendo le opinioni del ministro dell'Interno Mancino e del capo della polizia Parisi - di abolire il carcere duro (41bis) a 140 mafiosi, con la scusa che esisteva nella Mafia una corrente anti-stragi favorevole a trattative. Congetturare è azzardato, ma si può supporre che da allora viviamo all'ombra di un patto.

Il patto non è obbligatoriamente formale. L'universo parallelo ha le sue opache prudenze, ma esiste e contamina la sinistra. In Sicilia, anch'essa sembra costretta a muoversi nel perimetro dell'osceno. Osceno è l'accordo con la giunta Lombardo, presidente della Regione, indagato per "concorso esterno in associazione mafiosa". Osceno e tragico, perché avviene nella ricerca di un voto di sfiducia a Berlusconi.

Non si può non avere un linguaggio inequivocabile, sulla legalità. Non ci si può comportare impunemente come quando gli americani s'intesero con la Mafia per liberare l'Italia. L'accordo, scrive il magistrato Ingroia, fu liberatore ma ebbe l'effetto di rendere "antifascisti i mafiosi, assicurando loro un duraturo potere d'influenza". Non è chiaro quel che occorra fare, ma qualcosa bisogna dire, promettere.
Non qualcosa "di sinistra", ma di ben più essenziale: l'era in cui la Mafia infiltrava la politica finirà, la legalità sarà la nuova cultura italiana.

Fino a che non dirà questo il Pd è votato a fallire. Proclamerà di essere riformista, con "vocazione maggioritaria", ma l'essenza la mancherà. Non sarà il parlare onesto che i cittadini in fondo amano. Si tratta di salvare non l'anima, ma l'Italia da un lungo torbido. Sarebbe la sua seconda liberazione, dopo il '45 e la Costituzione.

Sennò avrà avuto ragione Herbert Matthew, il giornalista Usa che nel novembre '44, sul mensile Mercurio, scrisse parole indimenticabili sul fascismo: "È un mostro col capo d'idra. Non crediate d'averlo ucciso".

(24 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #124 inserito:: Dicembre 01, 2010, 06:12:41 pm »

L'ANALISI

Chi ha paura della glasnost

di BARBARA SPINELLI


SOLO chi ha un'idea cupa dell'informazione indipendente, e paventa persecuzioni non appena se la trova davanti, e per di più nulla sa della rivoluzione in corso nell'universo dei blog, può parlare, come il ministro Frattini, di un 11 settembre della diplomazia scatenato da WikiLeaks contro il mondo bello, composto e civile nel quale siamo supposti vivere. Solo chi fantastica planetarie offensive contro le notizie che da tempo circolano senza confini può credere che al caos comunicativo si debba rispondere, come negli attentati del 2001, con una bellicosa e "compatta alleanza: senza commentare, senza retrocedere sul metodo della diplomazia, senza lasciarsi andare a crisi di sfiducia".

WikiLeaks non è una cellula terrorista e il suo fondatore, Julian Assange, è magari indagato per violenza privata ma comunque non è un uomo che  -  la fine osservazione è del ministro  -  "vuol distruggere il mondo". Alla mutazione mediatica nata prima di lui non si replica con un globale schieramento, per "continuare a far vivere un metodo della diplomazia" che ha fatto disastri.

Mettere insieme in una battaglia contro Internet Roma e Mosca, Berlino e Kabul prefigura il Brave New World di Huxley, fatto di gente china e sedata dalla droga, il "soma" che rilassandoti uccide ogni critica. Più che un'utopia: una distopia.

Il mostro tanto temuto è la glasnost che d'un tratto irrompe in una zona politica non solo opaca ma sommamente inefficace: la
diplomazia, il più chiuso dei recinti, dove il segreto, non sempre immotivatamente, è re. La glasnost è una corrente sotterranea potente, non un breve tumulto come fu Al Qaeda, e l'unica cosa da dire è: la politica ancora non sa fronteggiarla, organizzandosi in modo da disgiungere il segreto indispensabile dal superfluo. Se quello necessario viene alla luce è sua colpa, non di WikiLeaks. In realtà i 250.000 cabli non sono affatto top secret. Sono consultabili da ben 3 milioni di funzionari americani, e disponibili in siti interni al ministero della difesa Usa (Siprnet). Nella globale ragnatela Internet le fughe di notizie (i leaks) sono inevitabili. Scrive Simon Jenkins, sul Guardian: "Un segreto elettronico è una contraddizione in termini".

Nei paesi democratici, dove l'informazione indipendente esiste, il diplomatico è alle prese con una trasparenza non di rado ostacolata come in Italia, ma tangibile. Non è cancellata dalle ghignanti foto di gruppo dei vertici internazionali, che s'accampano monotoni su giornali e tv. Gli ambasciatori a Roma o Parigi raccontano quel che leggono nei giornali più liberi, che apprendono dai blog, che ascoltano da chi non nasconde il vero.

Si dice: "Ce n'è per tutti", nei dispacci. Per il Cancelliere tedesco, il regno britannico, l'Eliseo, oltre che per Roma. Nulla di più falso. Se la Merkel appare "refrattaria al rischio e poco creativa", Berlusconi "suscita a Washington sfiducia profonda": è "vanitoso, stanco da troppi festini, incapace come moderno leader europeo". Inoltre "sembra il portavoce di Putin in Europa". Un abisso separa i due leader. Resta che nelle democrazie le rivelazioni non sono fulmini che squarciano cieli tersi, neanche da noi. I diplomatici Usa comunicano quello che da 16 anni gli italiani hanno sotto gli occhi, sempre che non se li bendino per vivere in bolle illusorie e ingurgitare "soma televisivo". Sanno dei festini in dimore private spacciate per pubbliche. Sanno che Berlusconi coltiva con Putin rapporti personali torbidi, lucrosi, di cui non rende conto né all'Europa né al popolo che pure tanto s'affanna a definire sovrano. Non c'è bisogno di WikiLeaks per conoscere la pasta di cui son fatti i governanti, per capire lo scredito internazionale che non da oggi li colpisce, per allontanarli dal potere che democraticamente hanno occupato, e poco democraticamente esercitato.

Non così lì dove non c'è democrazia e nelle aree di crisi, nonostante le verità siano in larga parte note anche qui, a chi voglia davvero sapere. Non c'è praticamente notizia che i blog non dicano da anni (Tom Dispatch, Antiwar. com, Commondreams, Counterpunch, e in Italia, nel 2005-2010, Contropagina di Franco Continolo).

L'altra cosa che va detta è che gli ambasciatori che divulgano informative non sono sempre di qualità eccellente, e forse anche questo, in America, crea imbarazzo. Nelle aree critiche  -  Italia compresa, dove gli equilibri democratici vacillano  -  non hanno idee meticolosamente maturate, né si azzardano in analitici suggerimenti e prognosi. Fotografano l'esistente, sono figli essi stessi di Internet, tagliano e incollano schegge di verità senza osare approfondimenti. Nulla hanno in comune, ad esempio, con l'immensa ricerca in cui si sobbarcò George Kennan nel '44-46, lavorando per la missione Usa a Mosca. Il "lungo telegramma", che inviò nel febbraio '46 al Segretario di Stato James Bynes, descrive la natura oscura del sistema sovietico: le sue forze, le fragilità, il suo nevrotico bisogno di un mondo ostile. Ne scaturì l'articolo scritto nel luglio '47 su Foreign Affairs, firmato X: fondamento di una politica (il containment) che per decenni pervase la guerra fredda senza infiammarla.

Nulla di analogo nei dispacci odierni, ma messaggi raccogliticci, frammentari, pericolosi infine per le fonti, nei paesi a rischio. Non la forza americana è esposta alla luce, ma la sua inconsistenza. Non un impero nudo, ma una finzione d'impero che addirittura usa i propri diplomatici  -  colmo di insipienza e mala educazione da parte di Hillary Clinton  -  come spie all'Onu. L'occhio Usa non scruta il lontano ma l'oggi, sposando non pochi luoghi comuni locali. La glasnost online sbugiarda questo modo di scrutare, e non è male che avvenga. Fa vedere l'impotenza, l'approssimazione, l'inefficacia americana. Inefficacia pur sempre limitata, perché i dispacci non paiono contaminati dai conformismi di tanti commentatori italiani: difficile trovare accenni, nei cabli, alla "rivoluzione liberale" o all'epifanico ruolo di Berlusconi nelle crisi mondiali.

Il vero scandalo è lo spavento che tutto questo suscita, lo sbigottimento davanti a notizie spesso banali, solo a tratti rivelatrici (è il caso, forse, del nesso stretto Nord Corea-Iran), l'imperizia Usa nel tutelare confidenze e confidenti. Ora si vorrebbe fare come se nulla fosse, "tener viva la diplomazia" così com'è: ottusamente arcana, lontana dallo sguardo dei cittadini. Ma quale diplomazia? Nel caso italiano una diplomazia chiamata commerciale dal governo perché essenzialmente fa affari, e all'estero riscuote in realtà "sfiducia profonda".

Dicono che Berlusconi si sia fatto una gran risata, non appena letti i dispacci. Forse ha capito più cose di Frattini, perché lui la diplomazia classica l'ha già distrutta. E non solo la diplomazia ma l'informazione indipendente, e in Europa la solidarietà energetica. Forse ride delle banalità diffuse da WikiLeaks. Forse intuisce che se si parlerà molto di festini, poco si parlerà di conflitto d'interessi, controllo dei media, mafia. È il limite di Assange, enorme: avrà minato la fiducia nella diplomazia Usa, senza dare informazioni autenticamente nuove (la più calzante parodia del cosiddetto 11 settembre di Assange l'ho trovata su un sito di cinefili 1).

Resta la sfida alla stampa: sfida al tempo stesso ominosa e straordinariamente promettente. È vero: nel medio-lungo periodo crescerà il numero di chi si informerà su Internet, più che sui giornali cartacei. Ma da quest'avventura la stampa esce come attore principe, insostituibile: messa di fronte ai 250 milioni di parole sparse come polvere sugli schermi WikiLeaks, è lei a fare la selezione, a stabilire gerarchie, a rendere intelligibile quello che altrimenti resta inintelligibile caos, ad assumersi responsabilità civili contattando le autorità politiche e nascondendo il nome di fonti esposte dai leaks a massimi rischi. Alla rivoluzione mediatica ci si prepara combinando quel che è flusso (Internet) e quel che argina il flusso dandogli ordine (i giornali scritti). L'unica cosa che non si può fare è ignorare la sfida, negare la rivoluzione, opporle sante alleanze conservatrici del vecchio.

Immagino che non fu diversa l'alleanza anti-Gutenberg quando nel XV secolo apparve la stampa, e anche allora vi fu chi, con le parole di quei tempi, parlò di un 11 settembre contro gli establishment: politici e culturali, delle chiese e degli imperi.
 

(01 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #125 inserito:: Dicembre 08, 2010, 12:30:24 pm »

Gioventù bruciata

di BARBARA SPINELLI


Ha ragione Mario Adinolfi a ricordare che è cosa insultante oltre che menzognera, parlare di giovani senza futuro o d'una sola generazione depredata. Un trentasettenne precario non è più giovane, e il fatto che gli tocchi pregare per essere riconosciuto (questa l'etimologia di precario) è lo scandalo che vien mascherato chiamandolo giovane. Una catena di generazioni fatica a preparare prima l'età matura, poi l'anziana. I nati dopo il '70 sono la metà degli italiani: 28 milioni 150.000, non più solo figli ma padri che della vita attiva non conoscono che contratti brevi o niente contratti. Che s'imbarcano in lavori low cost o addirittura gratuiti, come denunciato da Michele Boldrin, professore di economia alla Washington University di St Louis (Il Fatto, 11 novembre).

Lavorare gratis è una pratica in espansione, per chi non ha forze e soldi per fuggire all'estero. È una regressione, nei rapporti sociali e nel riconoscimento reciproco fra l'Italia che ha un posto e l'Italia che ha semplici attività, menzionata di rado. I giovani fanno questa scelta volontariamente, consapevoli d'essere immersi nella Necessità: dare il proprio tempo senza salario li rende visibili, consente di "accumulare punti". Alla fine del tunnel, chissà, il riconoscimento verrà e avrà gli occhi di un lavoro decentemente pagato. Lo sfruttamento s'è fatto banale: è un'usanza dettata dal principe (un bando dell'autorità). È la morale del tempo presente.

Se questa è la realtà, si può capire come la riforma Gelmini sia solo una miccia  -  così Ilvo Diamanti, lunedì su Repubblica  -  che ha acceso risentimenti acuti, non limitati all'istruzione che pure è "crocevia nella vita" d'ognuno. Analoghe micce anti-riforme si moltiplicano, a occidente, ma cruciali non sono le riforme, così come per Heidegger l'essenza della tecnica non è la tecnica ma quel che essa disvela, provoca. Nella rivolta dei giovani francesi la pensione è un pretesto: essi sanno che il paese invecchia, che i soldi dello Stato sociale non bastano. Se protestano con tanto accanimento è perché qualcos'altro è in gioco: il disagio, più radicale, riguarda l'esistere stesso; il perché e il come si vive l'oggi e si pensa, tremando e temendo, il futuro.

In tutti i paesi industrializzati il futuro è programmato penosamente. Adinolfi lo spiega bene nella rivista Week, iniziata il 25 novembre. Basandosi su ricerche dell'Istat e del Center for Research on Pensions and Welfare Policies (Torino), Adinolfi fornisce cifre cupe sulla metà d'Italia che vive il precariato. Al momento, chi va in pensione o sta andandoci è sicuro di ottenere circa il 95 per cento della media dei compensi degli ultimi anni.
Non così il precario nato dopo il '70: la percentuale crolla dal 95 al 36. Fra 20 anni, quando andrà in pensione, riceverà  -  se avrà lavorato 32 anni su 40  -  340 euro al mese. Duro in tali condizioni fabbricare futuro, generare figli che non potremo sostenere e non ci sosterranno, impoveriti anch'essi.

I rivoltosi vedono questo, guardandosi allo specchio: uno scenario che mette spavento. Che ti porta a dire, visto che a nulla è servito il titolo di studio: non resta che farmi menare dalla polizia. Esibisco la mia bile nera, come gli eroi di Moby Dick che è uno dei miei libri-vessillo. Non mi resta, come in Gioventù Bruciata di Nicholas Ray, che il chicken run. Il chicken run è la gara mortale che James Dean ingaggia coi compagni: vince chi guida l'auto sino all'orlo del burrone, tentando di saltar fuori in extremis. Chi fugge la prova è un pollo, un vile. È significativo che a costoro si neghi oggi perfino il diritto a morire, quando sei attaccato a un tubo senz'averlo deciso.

Il chicken run che impregna il tumulto è argomento tabù. Se ne ragiona molto sul Web  -  l'agora di queste generazioni  -  ma poco sui giornali. C'è una complicità tacita, che impedisce alla verità d'esser disvelata. Non ne parlano gli imprenditori, che del lavoro precario o gratuito profittano; e neanche i sindacati, tutori dei pensionati. Nella Cgil, il 53 per cento degli iscritti aderisce al Sindacato dei pensionati italiani (Spi). Se la crisi dice qualcosa  -  sulla crescita che nei paesi sviluppati s'abbasserà stabilmente, sul clima da proteggere, sullo Stato impoverito  -  questo qualcosa dovrà implicare nuove distribuzioni fiscali, e anche una mutazione di linguaggio. Riformismo, accordi bipartisan: sono vocaboli inani, se usati solo per dissimulare tagli. Tutti hanno rovinato l'istruzione, il patto bipartisan già esiste (da Luigi Berlinguer a Mussi, Moratti, Gelmini). L'accordo non va cercato tra partiti ma tra l'Italia che è nello Stato sociale e quella che ne cascherà fuori. Non di patti bipartisan c'è bisogno, ma di dirigenti (politici, imprenditori, sindacati, accademici) che queste cose le guardino in faccia.

Anche il popolo del disagio ha sue responsabilità. È un punto su cui Boldrin insiste crudamente: "Cosa volete fare, ragazzi e ragazze? A favore di cosa siete scesi in piazza, oltre che contro il ddl Gelmini? Perché è questa, non altra, la questione che dovete avere il coraggio d'affrontare". Il risentimento è comprensibile, ma il tema del merito sollevato dalla riforma resta. E che significa rottamare un ceto politico, se non invocare palingenetiche facce giovani? Perché difendere lo status quo universitario, finito in marasma? È come desiderare la crescita squilibrata che nel 2007 causò la crisi economica nel mondo.

Si disserta spesso in Italia della sindrome Peter Pan, che ti reclude nei focolari paterni o materni: secondo l'Istat, il 68 per cento vive coi genitori sino a 35 anni. Lo stesso succede in paesi cattolici dove la famiglia sostituisce il Welfare: Spagna, Irlanda. Ma la vista psicologica è corta, occulta le cause strutturali. Scrive Vincent Venus, direttore del Giovani Federalisti Europei a Berlino, che questa è una generazione diversa: ricorda gli anni '40. Non una conflagrazione militare le ha aperto gli occhi; ma la crisi del lavoro, del pianeta, dell'economia, è un'esperienza interiore di guerra: "È una sfida, quella odierna, che i nostri genitori hanno ignorato. Il compito è talmente vasto che somiglia a quello della generazione postbellica. Unica differenza: non si tratta solo di ricostruire la società, in Europa, ma di mantenere in vita il Welfare". Pur rispettando i conti, oggi esistono cose da preservare: la solidarietà sociale, il lavoro, il pianeta. La distruzione non è più creativa.

Fu così anche nel 1942, quando il Welfare prese la forma di un piano comune di lotta al bisogno: il piano di William Beveridge. "È proprio adesso, con la guerra che tende a eliminare ogni genere di limitazioni e differenze, che si presenta l'occasione. (...) Un periodo rivoluzionario nella storia del mondo è il momento più opportuno per fare cambiamenti radicali invece di semplici rattoppi" (Beveridge, La libertà solidale, Donzelli 2010).

Molti si domandano come mai il malcontento non sia esploso prima di Berlusconi, visti gli errori della sinistra. Domanda sensata, ma vista parziale. Lo spirito dei tempi modellato da Berlusconi e dalle sue Tv ha dilatato al contempo i risentimenti dei dannati e lo sprezzo dei salvati, sostituendo lo Stato sociale con la compassione o l'ignoranza. Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, ha detto in Tv: "Se un uomo a 37 anni non può pagarsi il mutuo è colpa sua: vuol dire che è un fallito". Nemmeno gli avversari del '68 usavano aggettivi simili.

Negli italiani è stata svegliata nell'ultimo decennio, e nutrita, ingigantita, la parte peggiore. È come quando, nel febbraio 1932, il socialdemocratico Kurt Schumacher denunciò l'attacco di Goebbels ai socialdemocratici-partito dei disertori: "Tutta la propaganda nazionalsocialista è un costante appello alla brutta canaglia interiore (Schweinehund) che abita ciascun uomo".
 

(08 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #126 inserito:: Dicembre 15, 2010, 05:24:07 pm »

L'ANALISI

Il profeta delle illusioni

di BARBARA SPINELLI


C'E' CHI DIRA' che l'iniziativa di sfiduciare Berlusconi era votata a fallire: non solo formalmente ma nella sostanza. Perché non esisteva una maggioranza alternativa, perché né Fini né Casini hanno avuto la prudenza di perseguire un obiettivo limpido, e hanno tremato davanti a una parola: ribaltone. Parola che solo per la propaganda berlusconiana è un peccato che grida vendetta al cospetto della Costituzione. Hanno interiorizzato l'accusa di tradimento, e non se la sono sentita di dar vita, guardando lontano, a un'alleanza parlamentare diversa. Hanno ignorato l'articolo 67 della Costituzione, che pure parla chiaro: a partire dal momento in cui è eletto, ogni deputato è libero da vincoli di mandato e rappresenta l'insieme degli italiani. Non manca chi già celebra i funerali per Fini, convinto che la sua scommessa sia naufragata e che al dissidente non resti che rincantucciarsi e pentirsi.

 Per chi vede le cose in questo modo Berlusconi ha certo vinto, anche se per 3 voti alla Camera e spettacolarmente indebolito. Il Premier ha avuto acume, nel comprendere che la sfiducia era una distruzione mal cucita, un tumulto più che una rivoluzione, simile al tumulto scoppiato ieri nelle strade di Roma. Neppure lontanamente gli oppositori si sono avvicinati alla sfiducia costruttiva della Costituzione tedesca, che impone a chi abbatte il Premier di presentarne subito un altro.

 A ciò si aggiunga la disinvoltura con cui il capo del governo ha infranto l'etica pubblica, esasperando lo sporco
spettacolo del mercato dei voti. Il mese in più concesso da Napolitano, lui l'ha usato ricorrendo a  compravendite che prefigurano reati, mentre le opposizioni l'hanno sprecato senza neanche denunciare i reati (se si esclude Di Pietro). Eugenio Scalfari ha dovuto spiegare con laconica precisione, domenica, quel che dovrebbe esser ovvio e non lo è: non è la stessa cosa cambiar campo per convinzione o opportunismo, e cambiarlo perché ti assicurano stipendi fasulli, mutui pagati, poltrone.

Ma forse le cose non stanno così, e la vittoria del Cavaliere è  in larga misura apparente. Non solo ha una maggioranza esile, ma è ora alle prese con due partiti di destra (Udc e Fli) che ufficialmente militano nell'opposizione. Il colpo finale è mancato ma la crisi continua, come un torrente che ogni tanto s'insabbia ma non cessa di scorrere. Quel che c'è, dietro l'apparenza, è la difficile ma visibile caduta del berlusconismo: caduta gestita da uomini che nel '94 lo magnificarono, lo legittimarono. È un Termidoro, attuato come nella Francia rivoluzionaria quando furono i vecchi amici di Robespierre a preparare il parricidio. Non solo le rivoluzioni terminano spesso così ma anche i regimi autoritari: in Italia, la fine di Mussolini fu decretata prima da Dino Grandi, gerarca fascista, poi dal maresciallo Badoglio, che il 25 luglio 1943 fu incaricato dal re di formare un governo tecnico pur essendo stato membro del partito fascista, responsabile dell'uso di gas nella guerra d'Etiopia, firmatario del Manifesto della Razza nel '38.

Un'uscita dal berlusconismo organizzata dal centro-destra non è necessariamente una maledizione, e comunque non è il tracollo di Fini. Domenica il presidente della Camera ha detto a Lucia Annunziata che dopo il voto di fiducia passerà all'opposizione: se le parole non sono vento, la sua battaglia non è finita. Sta per cominciare, per lui e per chiunque a destra voglia emanciparsi dall'anomalia di un boss televisivo divenuto boss politico, ancor oggi sospettato di oscuri investimenti in paradisi fiscali delle Antille. Il successo non è garantito e se si andrà alle elezioni, Berlusconi può perfino arrestare il proprio declino e candidarsi al Colle.

 Non è garantita neppure la condotta del Vaticano, che ha pesato non poco in questi giorni, facendo capire che la sua preferenza va a un patto Berlusconi-Casini che isoli Fini, ritenuto troppo laico. A Berlusconi, che manipola i timori della Chiesa e promette addirittura di creare un Partito popolare italiano, Casini ha risposto seccamente, alla Camera: "La Chiesa si serve per convinzione, non per usi strumentali".

 Resta che il futuro di una destra civile, laica o confessionale, si sta preparando ora.

È il motivo per cui non è malsano che la battaglia avvenga in un primo tempo dentro la destra. Sono evitati anni di inciuci, che rischiano di logorare la sinistra e non ricostruirebbero l'Italia, la legalità, le istituzioni. Il Pd sarebbe polverizzato, se la successione di Berlusconi fosse finta. Un governo stile Comitato di liberazione nazionale (Cln) sarebbe stato l'ideale, ma tutti avrebbero dovuto interiorizzarlo e l'interiorizzazione non c'è stata. Anche tra il '43 e il '44 fu lento il cammino che dai due governi Badoglio condusse prima al riconoscimento del Cln, poi al governo Bonomi, poi nel '46 all'elezione dell'assemblea che avrebbe scritto la Costituzione.

Oggi non abbiamo alle spalle una guerra perduta, e questo complica le cose. Abbiamo di fronte una guerra d'altro genere  -  il rischio di uno Stato in bancarotta - e ne capiremo i pericoli solo se ci cadrà addosso. L'impreparazione del governo a un crollo economico e a pesanti misure di rigore diverrebbe palese. Anche la natura dei due regimi è diversa: esplicitamente dittatoriale quello di Mussolini, più insidiosamente autoritario quello di Berlusconi. Il suo potere d'insidia non è diminuito, soprattutto quando nuota nel mare delle campagne elettorali o quando mina le istituzioni. Subito dopo la fiducia, ieri, ha anticipato un giudizio di Napolitano ("Il Quirinale vuole un governo solido") come se al Colle ci fosse già lui e non chi parla per conto proprio.

L'opposizione del Pd è a questo punto decisiva, se non allenta la propria tensione e non considera una disfatta la battaglia condotta per un governo vasto di responsabilità istituzionale. Anche se incerte, le due destre d'opposizione sanno che senza la sinistra non saranno in grado di compiere svolte cruciali. Un Termidoro fatto a destra è un vantaggio in ogni circostanza. Se il governo dovesse estendersi a Casini e Fini e riporterà l'equilibrio istituzionale che essi chiedono, la sinistra potrà dire di aver partecipato, con la sua pressione, alla restaurazione della legalità repubblicana. Il giorno del voto, potrà ricordare di aver agito non per ottenere poltrone, ma nell'interesse del Paese. Se la destra antiberlusconiana non si emanciperà, se inghiottirà nuove leggi ad personam, la sinistra potrà dire di aver avuto, sin dall'inizio, ragione. Con la sua costanza, avrà contribuito alla fine al berlusconismo. Potrà influenzare anche la natura, più o meno laica, della destra futura. Potrà prendere le nuove destre d'opposizione alla lettera ed esigere riforme della Rai, pluralismo dell'informazione, autonomia della magistratura, lotta all'evasione fiscale, leggi definitive sul conflitto d'interessi. Per questo il duello parlamentare di questi giorni è stato tutt'altro che ridicolo o provinciale.

I partiti di oggi non hanno la tenacia dei padri costituenti: proprio perché il passaggio è meno epocale, i compiti sono più ardui. Ma non sono diversi, se si pensa allo stato di rovina delle istituzioni. L'unico pericolo è cadere nello scoramento. È farsi ammaliare ancora una volta dal pernicioso pensiero positivo di Berlusconi. Quando le civiltà si cullano in simili illusioni ottimistiche la loro fine è prossima. Lo sapeva Machiavelli, quando scriveva che con i tiranni occorre scegliere: bisogna "o vezzeggiarli o spegnerli; perché si vendicano delle leggieri offese, ma delle gravi non possono". Lo sapeva Isaia, quando diceva dei figli bugiardi che si cullano nell'ozio: "Sono pronti a dire ai veggenti: 'Non abbiate visionì e ai profeti: 'Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni'".

 Il profeta d'illusioni ha vinto solo un turno, nella storia che stiamo vivendo.
 

(15 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #127 inserito:: Gennaio 19, 2011, 12:16:47 pm »

IL COMMENTO

Il sermone della decenza

di BARBARA SPINELLI

Dovrebbe esser ormai chiaro a tutti, anche a chi vorrebbe parlar d'altro e tapparsi le orecchie, anche a chi non vede l'enormità della vergogna che colpisce una delle massime cariche dello Stato, che una cosa è ormai del tutto improponibile: che il presidente del Consiglio resti dov'è senza neppure presentarsi al Tribunale, e che addirittura pretenda di candidarsi in future elezioni come premier. Molti lo pensano da tempo, da quando per evitare condanne il capo di Fininvest considerò la politica come un sotterfugio.

Non un piano nobile dove si sale ma uno scantinato in cui si "scende", si traffica, ci si acquatta meglio. La stessa ascesa al Colle resta, nei suoi sogni, una discesa in sotterranei sempre più inviolabili. Molti sono convinti che i suoi rapporti con la malavita, la stretta complicità con chi in due gradi di giudizio è stato condannato per concorso in associazione mafiosa (Dell'Utri), il contatto con un uomo  -  Mangano  -  che si faceva chiamare stalliere ed era il ricattatore distaccato da Cosa Nostra a Arcore  -  erano già motivi sufficienti per precludergli un luogo, il comando politico, che si suppone occupato da chi ha avuto una vita rispettosa della legge.

Ma adesso l'impegno a fermare quest'uomo infinitamente ricattabile perché incapace di controllare la sua sessualità deve esser esplicitamente preso dai responsabili politici tutti, dalla classe dirigente in senso lato, e non solo detto a mezza voce. È una specie di sermone
che deve essere pronunciato, solenne come i giuramenti che costellano la vita dei popoli. Un sermone che non deleghi per l'ennesima volta il giudizio morale e civile alla magistratura. Che pur rispettando la presunzione d'innocenza, certifichi l'esistenza di un ceto politico determinato a considerare l'evidenza dello scandalo e a trarne le conseguenze prima ancora che i tribunali si pronuncino. Ci sono reati complessi da districare, per i giudici. Questo non vieta, anzi impone alla politica di delimitare in piena autonomia la dignità o non dignità dei potenti.

Non è più solo questione del conflitto di interessi, che grazie alla legge del 1957 avrebbe sin dall'inizio potuto vietare l'accesso a responsabilità politiche di un titolare di pubbliche concessioni (specie televisive). Chi è sospettato d'aver pagato prostitute o ragazze minorenni, d'aver indotto  -  sfruttando il proprio potere  -  un pubblico ufficiale a fare cose illecite, chi è talmente impaurito dall'arresto di Ruby dal presentarla in questura come nipote di Mubarak, chi ha avuto rapporti con mafiosi e corrotto testimoni o giudici, deve trovare chiuse le porte della politica, anche se i Tribunali ancora tacciono o se vi son state prescrizioni. Attorno a lui deve essere eretto una sorta di alto muro, che impersoni la legge, la riluttanza interiore d'un popolo a farsi rappresentare da un individuo dal losco passato e dal losco presente. Tra Berlusconi e la politica questo muro non è stato mai eretto, nemmeno dall'opposizione quando governava. Se non ora, quando?

È così da millenni, nella nostra civiltà: una società ha anticorpi che espellono le cellule malate, o non li ha e decade. L'ostracismo fu un prodotto della democrazia ateniese, nel VI secolo a. C. Eraclito scrive: "Combattere a difesa della legge è necessario, per il popolo, proprio come a difesa delle mura". Berlusconi non avrebbe dovuto divenire premier, e non perché si disprezzi il popolo che lo ha eletto: non avrebbe dovuto neanche potersi candidare. Comunque, oggi, non può restare o tornare in luoghi del comando che hanno una loro sacralità: non può, se la coerenza non è una quisquilia, nemmeno presentarsi come patrono del proprio successore. Non è un monarca che va in pensione.

Gli italiani più restii a vedere lo sanno, altrimenti non avrebbero acclamato in simultanea, da 16 anni, Berlusconi e tre capi dello Stato. È segno che in un angolo della coscienza, sognano quel decalogo che nelle parole di Thomas Mann "altro non è che la quintessenza dell'umana decenza": il non rubare, il non pronunciare il nome di Dio invano, il non dire il falso, il non sbandierare valori senza rispettarli, il non adulterare ciò che è chiaro e puro confondendolo con il torbido e l'impuro. È come se i padri costituenti avessero presentito tutto questo, vietando plebisciti di capi di governo o di Stato: come se condividessero la diffidenza di Piero Calamandrei per l'inclinazione italiana alla "putrefazione morale, all'indifferenza, alla sistematica vigliaccheria".

La responsabilità del sermone è dunque per intero nelle mani dei parlamentari, liberi per legge da vincolo di mandato. Così come è in mano ai contro-poteri che costituzionalmente limitano il dominio d'uno solo (parlamento, magistratura, stampa). Contro-poteri su cui la sovranità popolare non ha il primato, se è vero che essa viene "esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione" (art 1).

Già una volta, nella "chiamata di correo" di Craxi, i politici caddero nel baratro, degradando se stessi. Fu il buco nero di Tangentopoli, e spiega come mai ancora abitiamo un girone dantesco fatto di menzogna e omertosi sortilegi. Il buco nero sono le parole di Craxi in Parlamento, il 3 luglio '92: "Nessun partito è in grado di scagliare la prima pietra. (...) Ciò che bisogna dire, e che tutti del resto sanno, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale.(...) Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia (...) criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest'aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi, i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro".

Difficile dimenticare il silenzio che seguì: nessun deputato si alzò, e ancor oggi la nostra storia stenta a non essere storia criminale. Ancor oggi si vorrebbe sapere perché i deputati che si ritenevano onesti rimasero appiccicati alla poltrona. Craxi pagò appropriatamente, perché le sentenze erano passate in giudicato e la legge è legge, ma pagò per molti: anche per Berlusconi, che con il suo aiuto costruì il proprio apparato di persuasione televisiva e profittò del crollo della Prima Repubblica sostituendola con un suo privato giro di corrotti e corruttori.

I deputati rischiano di restar seduti anche oggi, come allora: per schiavitù volontaria, o peggio. Il sermone oggi necessario deve essere un impegno a che simili ignominie non si ripetano. Proprio perché il conflitto d'interessi è sorpassato, e siamo di fronte a un conflitto fra decenza e oscenità, fra servizio dello Stato e servizio dei propri comodi, fra libertinaggio innocente e libertinaggio commisto a reati. Da molto tempo, c'è chi ha smesso di parlare di Palazzo Chigi: preferisce parlare di palazzo Grazioli come sede dell'esecutivo, e fa bene. Che si salvi, almeno, l'aura associata ai luoghi italiani del potere.

Domenica scorsa, Berlusconi ha fatto dichiarazioni singolari, oltre che ridicole. Definendo gravissima, inaccettabile, illegale, l'intromissione dei magistrati nella vita degli italiani ha detto: "Perché quello che i cittadini di una libera democrazia fanno nelle mura domestiche riguarda solo loro. Questo è un principio valido per tutti, e deve valere per tutti. Anche per me". L'uguaglianza fra cittadini equivale per lui alla libertà di fare quel che si vuole, in casa: anche un reato, magari. Non riguarda certo l'uguaglianza di fronte alla legge. L'antinomia stride, e offende. Siamo ben lontani dall'ingiunzione di Eraclito, se tutto diventa lecito nelle mura domestiche, e non appena succede qualcosa di criminoso l'uguaglianza cessa d'un colpo, e comincia l'età dei porci di Orwell, in cui tutti sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.

(19 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #128 inserito:: Febbraio 16, 2011, 04:53:15 pm »

L'ANALISI

La fattoria degli italiani

di BARBARA SPINELLI


DICE il presidente del Consiglio che un golpe morale è in atto contro di lui, e che a cospirare sono le procure, i giornali, le donne che domenica hanno manifestato contro un premier giudicato indegno della carica che ricopre.

Dice ancora, anticipando quella che sarà la sua strategia difensiva: "Io sono un uomo separato e sono libero di fare quel che voglio a casa mia. Vogliono farmi dimettere e basta". Sventola la bandiera della libertà, grida al lupo indicando il Tribunale di Milano che ieri l'ha rinviato a giudizio con rito immediato per concussione e prostituzione minorile, ma in questo suo sventolare c'è qualcosa che non va. Pur occupando il potere, non cessa di presentarsi come uomo privato, nella cui vita nessuno può interferire. S'identifica addirittura col piccolo mugnaio di Federico II, che ai soprusi del despota replicò: "C'è pur sempre un giudice a Berlino". Al tempo stesso, nella qualità di uomo pubblico, accampa diritti a un'impunità che nessun cittadino o mugnaio possiede.

Difficile sottrarsi al dubbio che si mimetizzi nella folla, diventandone il megafono, per meglio centralizzare un comando che non tollera contropoteri. Nella Fattoria degli Italiani cui anela, tutti sono eguali ma ce n'è uno, lui, più uguale degli altri. Tutti devono rispondere dei propri atti davanti alla legge ma non lui né la sua cerchia, che vive nella crepuscolare terra di nessuno dove pubblico e privato si confondono. Quando vuol nascondersi si rifugia nel privato, reclamandone l'inviolabilità. Quando passa al contrattacco cinge la corona e decreta: il mio corpo coincide con il re e non si tocca. Non si tocca neppure quello della mia corte, che condivide i miei privilegi finché mi resta fedele. Tutto sta a muoversi di continuo da una casella all'altra. Giolitti diceva di Mussolini: "Il fascismo è come una trottola, se si ferma cade".

Non è questo, d'altronde, il motivo per cui volle scendere in politica, fra il '92 e il '94, come si scende in uno scantinato per sfuggire il giudizio della pòlis? Non è, la sua, un'ininterrotta battaglia contro l'obbligatorietà dell'azione penale, sancita dalla Costituzione nell'articolo 112? Le parole che Fedele Confalonieri disse nel 2000 a Repubblica ("La verità è che se non fosse entrato in politica, se non avesse fondato Forza Italia, noi oggi saremmo sotto un ponte o in galera con l'accusa di mafia") lui non le ha mai smentite. Il presidente di Mediaset aggiunse anni dopo su La Stampa: "Trattare non gli piace. Gli riesce difficile prendere atto che la democrazia pone dei freni. Le leggi ad personam le fa per proteggersi. Se non fai la legge ad personam vai dentro". Confalonieri non parla solo del capo ma della sua cerchia ("Noi saremmo in galera"). Ambedue sono unti dalle urne.

È da questi scantinati che sgorgano le parole fatali escogitate anche oggi per confondere le menti: la democrazia concepita come libertà di ciascuno (Premier compreso) di fare quel che desidera; l'accusa di moralismo rivolta a chi respinge tali idee; l'allergia a ogni freno che fermi l'arbitrio del capo. Questa commedia degli errori (il privato è pubblico, il pubblico è privato, sono io a decidere cos'è morale, democratico, lecito) ha la forza dell'inafferrabilità perché continuamente gioca con le funzioni, le definizioni, piegandole a proprio piacimento. Non c'è parola detta nello spazio pubblico che non venga subito trasformata in flatus vocis, in nominalistica emissione di suono che si sperde fra altri suoni sino a divenire inaudibile scheggia di un dibattito dove ogni fumo pesa tranne la non fumosa verità dei fatti, e dei reati.

È quel che accade da anni, ogni volta che vengon poste questioni concrete che riguardano la separazione fra Stato-Chiesa, o la domanda di giustizia uguale per tutti, o l'etica richiesta a chi esercita funzioni pubbliche e non è quindi la copia esatta del comune cittadino, avendo secondo la Costituzione speciali doveri di "disciplina e onore" (art. 54). È qui che s'alza la nebbia: trasformando il concreto in astratto, sottomettendo ogni questione alle preferenze di chi, detenendo il potere politico e quello dell'informazione, decide dove finisce l'arbitrio, dove inizia la legge. A questo serve lo storpiamento di vocaboli come morale, laicità, giustizia. Serve a uccidere la laicità, soprannominata laicista. A soffocare la giustizia, detta giustizialismo se applicata con rigore. La morale è il freno più infame, e per svalutarla riceve il timbro di moralismo. Se potesse, Berlusconi si scaglierebbe contro il Decalogo, chiamandolo decalogismo. Già è accaduto. Hitler già se la prese con "il Dio del Sinai e i suoi insopportabili Non devi". Non c'è tabù che non sia esecrato dai poteri assoluti.

A questo deturpamento delle parole si dà il nome di liberalismo, con disinvoltura. Un liberalismo talmente sfrondato che neppure il tronco sopravvive: ridotto al diritto di fare quel che piace, senza ingerenze; impoverito da un laisser faire che già tanti mali ha fatto all'economia di mercato. Un liberalismo che s'inventa una storia breve, invece della lunga che ha sotto i piedi, e nulla sa del pensiero repubblicano da cui discende, secondo il quale sovrano, anche in democrazia, non è il popolo con le sue effimere passioni ma la legge che dura.

A queste condizioni la pòlis è ordinata: che sia abitata da cittadini partecipi perché bene informati, che non faccia degenerare la libertà in sopraffazione dei forti sui deboli. Che tutti si assoggettino alla legge e riconoscano l'utilità pubblica delle virtù private. Per pensatori liberali come Locke, Tocqueville, John Stuart Mill, non c'è libertà, se l'autorità suprema non è la legge. La nostra Costituzione dice la stessa cosa. Il popolo è sovrano, nell'articolo 1, ma nell'articolo 54 "tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi".

Quando Berlusconi decreta che la sua condizione di indagato è decisa solo dalle urne dice qualcosa di affatto indigesto per i liberali, perché la sovranità popolare senza separazione dei poteri e sottomissione alla legge di ciascuno (popolo, governi, chiese) è la volontà della maggioranza, e di poteri che pretendendo rappresentare un tutto diventano paralleli, rivali dello Stato. Tocqueville li riteneva letali, in democrazia: "Esiste una sorta di libertà corrotta, il cui uso è comune agli animali e all'uomo, e che consiste nel fare tutto quel che piace. Questa libertà è nemica di ogni autorità: sopporta con impazienza ogni regola. Con essa, diventiamo inferiori a noi stessi, nemici della verità e della pace". Sono anni che discutiamo di questo in Italia: se la legge abbia ancora un significato, se la morale pubblica sia una bussola o una contingenza. È ora di deciderlo e chiudere la discussione.

Il bersaglio di chi si ribella a simili vincoli è la morale (per i poteri ecclesiastici è la laicità), descritta come sovversiva, giacobina. Ma anche qui l'equivoco è palese: nello stesso momento in cui si atteggiano a anticonformisti minoritari, i ribelli si riscoprono giacobini tutori di valori morali non negoziabili, e con tutta la forza della maggioranza negano al singolo la libertà di morire naturalmente, non attaccato alle macchine. Tanto più grave il silenzio della Chiesa sull'etica pubblica. In fondo questa dovrebbe essere l'occasione di far vedere che il suo spazio nella pòlis non è paragonabile a quello di cricche e cose nostre. Se vuol rinascere, la Chiesa non può non rompere con Berlusconi, a meno di non divenire anch'essa potere sfrenato e parallelo. L'appello di Bagnasco a "più trasparenza" è tardivo e inadeguato.

Ezio Mauro ha giustamente difeso la breve vita del partito d'azione, soprattutto torinese. È vero, c'era un forte afflato morale nell'azionismo: forse si spense per questo, lasciandoci tuttavia in eredità il pensare onesto di Norberto Bobbio, Vittorio Foa. Senza gli azionisti non avremmo la Costituzione che abbiamo, la sua benefica laicità, la sua versatilità. Chi li bolla come moralisti teme come la peste che rinasca un'alleanza fra sinistra e liberali, in difesa dell'etica pubblica. Il mondo cui aspira l'antimoralista è la Fattoria degli Animali, dove non la legge comanda ma un unico capo, circondato da cerchie di bravi che a nessuno rispondono se non a lui.   

(16 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #129 inserito:: Marzo 02, 2011, 03:06:15 pm »

L'ANALISI

L'agorà araba

di BARBARA SPINELLI

Strane e nuove cose stanno accadendo nei paesi arabi. Strane e nuove anche per quel che dicono di noi, democrazie assestate ma incapaci di ricordare come nacquero, di chiedersi se ancora sono all'altezza delle promesse d'origine. Tutti i paesi europei sono sconvolti dai turbini nordafricani, ma è in Italia che lo sgomento s'accoppia a quest'inettitudine, radicale, di interrogare se stessi. È come se ci fossimo abituati, lungo gli anni, a pensare la democrazia in maniera monistica: come se il dominio, anche da noi, fosse di uno solo. Come se una fosse la fonte della sovranità: il popolo elettore. Una la legge: quella del capo. Una l'opinione, anche quando essa coincide con il parere di una parte soltanto (la maggioranza) della collettività. Monismo e pensiero unico cadono a pezzi oltre il Mediterraneo, ma da noi hanno messo radici e vantano trionfi.

Tocqueville spiega bene, nei libri sulla Rivoluzione francese, le insidie delle prese della Bastiglia. Il Re fu sostituito da un potere solitario, illimitato, più efficace della Corona. Quello del Popolo, uno e indivisibile. Un solo valore venne eretto a valore supremo, non negoziabile: quello della Ragione. L'Uno è il fulcro del pensiero monistico, e surrettiziamente ci addestra a pensare contro la democrazia. Fino a due non riusciamo a contare. La stabilità è l'idolo cui sacrifichiamo le primordiali aspirazioni democratiche. Forse è il motivo per cui i governanti europei, e gli italiani in sommo grado, faticano a capire i paesi arabi o l'Iran. Stentano a osservarli,
a parlarne: non ne hanno il vocabolario, pur essendo i padri dei dizionari democratici disseppelliti oltre il Mediterraneo anche per noi.

Cantileniamo il ritornello della primavera dei popoli, e non sappiamo più quel che accade, quando un popolo s'appropria del proprio destino. Quel che urge costruire, una volta distrutto il trono. Eppure basta guardare: non si riducono a questo, per ora, le rivoluzioni arabe. Non è un Popolo che si solleva, monolitico grumo di passioni che conquista il potere. Quel che vediamo sono le molteplici aspirazioni, il proliferare e differenziarsi di progetti, il bisogno  - inaugurale in democrazia -  di un regime regolato in modo da favorire tale differenziazione. Non il dominio del popolo è la meta ma la possibilità della disputa, la concordia nutrita di discordia.

Due sono le caratteristiche delle rivoluzioni arabe, che possono finir male o bene ma sono comunque esperienze della democrazia ai suoi albori. In primo luogo la scoperta dell'altro, del diverso, non più sotto forma del nemico che si odia o cui ci si assoggetta: dunque la scoperta di sé, di quel che io posso fare per sortire dal marasma. È significativo che la prima scintilla delle rivolte sia stata il suicidio del tunisino Mohamed Bouazizi, giovane venditore ambulante, il 4 gennaio. Il gesto ha annullato d'un colpo anni di suicidi-omicidi terroristi, e per la prima volta l'arabo insorge cominciando da sé. La seconda caratteristica è la scoperta di quanto sia prezioso, perché ci sia democrazia, lo spazio pubblico dove le varie idee s'incrociano, s'oppongono, sfociano in delibera. Nella Grecia antica si chiamava agorà: la piazza dove i privati s'incontrano, diventano cittadini che accudiscono la cosa pubblica oltre che la propria famiglia. Dove democraticamente decidono. Si decide votando a maggioranza, ma l'esistenza dell'agorà è il preambolo che dà spazio, dignità, legittimità al diverso.

Chi ha seguito su internet i tumulti arabi avrà visto le discussioni sterminate attorno a ogni articolo, appello. In assenza di un'agorà ufficiale (di una res publica), gli arabi scelgono internet e cellulari per parlarsi l'un l'altro come mai prima d'ora, per manifestare contro gli autocrati da cui erano manipolati, non governati. Il primo atto della democrazia è uscire di casa, contrariamente a quel che dice Berlusconi secondo cui la famiglia privata ti insegna tutto, e fuori s'aggirano scuri professori della scuola di Stato che inculcano nozioni devianti. Ha scritto Robert Malley sul Washington Post che Al-Jazeera è divenuta un attore politico di primo piano "perché riflette e articola il sentimento popolare. È diventata il nuovo Nasser. Il leader del mondo arabo è una rete televisiva".

Ma internet e Tv sono gli strumenti, non la stoffa delle democrazie nascenti. Altrimenti potremmo dire che anche da noi le Tv commerciali sono state levatrici di democrazia. Quel che le reti sociali arabe suscitano è la pluralità di opinioni e notizie, non l'emergere dell'etere privatizzato italiano; non la Tv a circuito chiuso di Milano 2 che s'estende alla nazione ed è emblema del quartiere sbarrato che gli americani chiamano gated community. Al-Jazeera e social network arabi abbattono i recinti, aprono finestre. Le aprono a quel che le nostre democrazie inventarono, quando nacquero anch'esse nel tumulto: la pluralità di idee, la separazione dei poteri, la convinzione che il potere tende a estendersi, se altri poteri non lo fermano e controbilanciano. Le apre infine alla laicità, tappa essenziale delle democrazie d'occidente. Naturalmente è possibile che i Fratelli musulmani, più organizzati dei manifestanti, abbiano il sopravvento. Ma gli ingredienti iniziali delle rivolte non sono in genere confessionali. Può darsi che le cerchie autocratiche si limitino a spostar pedine. Ma gli insorgenti, come si vede in Tunisia, sgamano presto e non tollerano gattopardi che fingono cambiamenti. Un esempio significativo è il documento pubblicato il 24 gennaio sul sito del giornale Yawm al-Sâbì ("Il settimo giorno"): un manifesto in 22 punti in cui si chiede la separazione tra religione e Stato, la dignità delle donne, il diritto di ogni cittadino (comprese donne, cristiani) di accedere alle massime cariche, tra cui la Presidenza. Il documento è firmato da una ventina di teologi e imam egiziani, ed è stato ripreso prima da Asia News e poi da più di 12.400 siti arabi. Ne parla da giorni Samir Khalil Samir, gesuita egiziano e professore in Libano e al Pontificio Istituto Orientale di Roma. Secondo Samir, i firmatari del proclama non sono soli: "Questo desiderio di operare una distinzione tra religione e Stato è un sentimento comune. La religione è una cosa buona in sé e non vogliamo ostacolarla, purché rimanga nel suo ambito, come una cosa piuttosto privata, che non entra nelle leggi dello Stato. Invece i diritti umani, questi sì! (...) E se la legge religiosa va contro i diritti umani, allora preferiamo i diritti umani anziché la sharia" (www. zenit. org). In Italia parole simili sono eresia, perché tutt'altro è lo spettacolo cui assistiamo: una regressione della laicità, della separazione dei poteri, della democrazia. Non stupisce che Berlusconi abbia difeso in principio i dittatori, temendo di disturbarli: non è la storia araba, ma la storia delle nostre democrazie che non arriva a interiorizzare. Metà del mondo entra in contatto con la democrazia, con le tesi di Montesquieu sul potere frenato da altri poteri, ma lui è fermo, a presidio dell'Uno e l'Indivisibile, in polemica costante con ogni potere di controllo (magistratura, Consulta, Quirinale). Mai come in queste settimane il suo esperimento è apparso superato: espressione di una democrazia impigrita, chiusa. Anche la sua idea di televisione non è agorà, inclusione del diverso. È un'opinione sola che grida dallo schermo della "scatola tonta" e ha l'impudicizia di presentarsi come Radio Londra armata contro tiranni. Non siamo certo gli unici ad arrancare dietro la primavera araba senza sapere perché arranchiamo: dimentichi dei patti coi tiranni, dei profughi respinti ai nostri confini e consegnati ai campi di concentramento libici, dell'Arabia tramutata in terra d'affari. Il ministro degli Esteri francese Michéle Alliot-Marie ha reagito all'inizio come Frattini, Berlusconi. Ma in Francia son bastati due mesi, e domenica il ministro ha dovuto dimettersi, spinto dal suo stesso partito.

Il discorso sui valori, caro al Premier quando inveisce contro la scuola pubblica, o contro l'adozione da parte di single o gay, o contro il diritto del morente a decidere se farsi o non farsi tenere in vita, è frutto di questo monismo non democratico. È una visione gradita alla Chiesa, che può ottenere potere (non in omaggio ai Vangeli ma a una sacralizzazione della stabilità degna del Grande Inquisitore) spartendolo alla maniera dell'Islam radicale: agli imam le moschee, i soldi, la signoria sulle anime; agli autocrati l'imperio politico inconfutato. L'orizzonte è quello dell'agorà negata: che trasforma l'inquilino della comunità protetta non in cittadino, ma in consumatore appeso alla scatola tonta, incapace di uscire e scoprire la Città.

(02 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #130 inserito:: Marzo 16, 2011, 06:10:36 pm »

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Il dovere della paura

di BARBARA SPINELLI

Ci sono momenti così, nella storia degli uomini: dove si reagisce con l'emozione oltre che con la razionalità, perché l'emozione sveglia, incita a stare all'erta. Già in Eschilo, la passione e il patire sono fonti d'apprendimento. È il caso del Giappone da quando, venerdì, lo tsunami s'è aggiunto al terremoto e non solo ha spazzato case, vite, villaggi, ma ha causato l'esplosione di quattro reattori nucleari a Fukushima.

All'orrore spuntato dal sottosuolo e dal mare s'aggiunge ora una pioggia radioattiva che spinge chi abita presso le centrali a fuggire o barricarsi in casa. Ci sono momenti in cui si apre una fessura nel mondo, e non solo in quello fisico ma in quello mentale, sicché occorre ricorrere ai più diversi espedienti: all'intelligenza razionale, alla discussione pubblica, ma anche alla paura, questa passione giudicata troppo triste per servire da rimedio.

Non a caso, quando sollecita la responsabilità per il futuro della terra, il filosofo Hans Jonas parla di paura euristica: non la paura che paralizza l'azione o è usata dai dittatori, ma quella che cerca di capire, di scoprire (questo significa euristica). Che è generatrice di curiosità, prevede il male con apprensione, fa domande, sprona a rettificare quanto pensato e fatto sinora. Jonas evoca addirittura il dovere della paura: "Diventa necessario il "fiuto" di un'euristica della paura che non si limiti a scoprire e raffigurare il nuovo oggetto, ma renda noto il particolare interesse etico che ne risulta" (Il principio di responsabilità, Einaudi '90).

Alla luce del principio di responsabilità appaiono completamente inani i governi - come l'italiano, il francese - che screditano questa paura, e in tal modo negano la gravità del momento e l'urgenza di correggere i piani nucleari. Obama e Angela Merkel dicono ben altro: "Non si può fare come se nulla fosse". Non così il ministro dell'energia Eric Besson, o il ministro per lo sviluppo economico Paolo Romani. Per Besson nulla cambia, neanche le centrali invecchiate come quelle giapponesi: nella conferenza stampa di sabato ha evitato il termine "catastrofe", preferendo il meno allarmante "incidente grave". Stesso atteggiamento in Romani, che ha invitato l'altro ieri a "non farsi prendere dalla paura", senza sapere di che parlava. Non sono i soli: anche i governanti giapponesi hanno a lungo minimizzato, prendendo per buone le assicurazioni dei gestori delle centrali (Tepco, Tokyo Electric Power Corporation). La stessa Tepco che più volte è stata indagata (specie nel 2002-3) per il non rispetto delle norme anti-sismiche.

Apocalisse è vocabolo che s'espande come un virus, dall'inizio del cataclisma. Ma apocalisse è altra cosa, ha legami con la religione: è rivelazione di un piano divino, è l'omega che si ricongiunge all'alfa, è il cerchio terrestre che chiudendosi si schiude all'oltrevita. I colpiti sono innocenti, ma per qualche motivo Dio vuole che la storia terrestre s'esaurisca così, stroncando il libero arbitrio d'ognuno. Per questo conviene dismettere questa parola molto scabrosa, che sigilla gli occhi a quel che accade qui, ora; in terra, in mare. Eventi simili non sono la fine del mondo, pur preludendo forse a essa. Sono piuttosto la fine di un mondo: di certezze, di assiomi cocciutamente coltivati.

In Giappone, per vie misteriose, suscitano ricordi funesti, che hanno radici profondissime nella sua cultura recente. Il collasso delle centrali nucleari rimanda al trauma mai sopito di Hiroshima e Nagasaki, quando Washington diede a Tokyo questa lezione di inaudita violenza. La terra che ti squassa, la solitudine dell'uomo in tanto scompiglio, la natura maligna, la morte nucleare che incombe: nelle teste nipponiche è incubo magari dissimulato ma è sempre lì, in agguato. Lo dicono i volti che ci fissano in queste ore: impietriti, più che impassibili. Lo vediamo nei corpi che d'un tratto s'immobilizzano, come morissero in piedi.

Non è vero che i giapponesi hanno paure più calme, controllate delle nostre. Il loro urlo non è quello di Munch ma è pur sempre urlo. Sappiamo dalla Bibbia quanto possa esser afono l'agnello, e il grido del Giappone è colmo di interrogativi atterriti: perché le autorità hanno permesso che centrali vecchie quarant'anni sopravvivessero? Perché non hanno previsto che anche dal mare poteva venire il mostro? Perché sono così evasive? Perché proprio Tokyo, che ha già vissuto la sventura e se la porta dentro come assillo, s'è fidata della tecnologia, non è corsa in tempo ai ripari?

Ci sono grandi disastri che hanno quest'effetto: di sconvolgere non solo le vite ma vasti castelli di teorie filosofiche ritenute sicure. L'Europa ha conosciuto ore analoghe: accadde nel terremoto di Lisbona, l'1 novembre 1755, e tutte le teorie si scardinarono. Anche quella fu fenditura d'un mondo: fondato sull'euforia tecnologica, sull'ottimismo, religioso o no. La modernità iniziava, e già inciampava. Ventidue anni prima, Alexander Pope aveva scritto un poema intitolato Saggio sull'Uomo. Il verso ricorrente era: "What ever is, is right": tutto quel che esiste è bene. Ma ecco che si apre la crepa di Lisbona, sulla liscia pelle del pensare positivo. Voltaire, Kleist, Kant sono turbati e scoprono che non è più possibile consolarsi con Pope e le teodicee di Leibniz. Non è più possibile dire a se stessi, come Pangloss nel Candide di Voltaire: avanziamo "nel migliore dei mondi possibili".

Cadde anche l'illusione, cara alle chiese, sul dolore salvifico: non esiste una felix culpa, ma un male che ti prende di sorpresa, ingiusto. In presenza del disastro o del crimine sono più opportuni la sapienza di Kleist, le ricerche di Kant sulle origini dei terremoti (Kant è il primo a scoprire la "rabbia del mare"), lo sguardo di Voltaire: "Elementi, animali, umani, tutto è in guerra. Occorre confessarlo: il male è sulla terra". Ansioso di conforto, Rousseau scrisse incongruenze, in una lettera a Voltaire del 1756: "Non sempre una morte prematura è un male reale (...). Di tanti uomini schiacciati sotto le rovine di Lisbona, parecchi senza dubbio hanno evitato disgrazie più grandi, e (...) non è detto che uno solo di quegli sventurati abbia sofferto più che se, seguendo il corso naturale delle cose, avesse dovuto attendere in lunghe angosce la morte che lo ha colto invece di sorpresa". Ma anch'egli pone domande che solo l'emozione accende: non è stata edificata male Lisbona, con le sue case alte 6-7 piani? Non è l'uomo il colpevole, più della natura? Candide soffre il terremoto e conclude: "Bisogna coltivare (meglio) il proprio giardino", dunque la terra, perché questo tocca all'uomo. All'uomo descritto da Kant dopo il 1755: "legno storto", "mai più grande dell'uomo".

Il Giappone non ha alle spalle i settecenteschi ottimismi europei. Dopo Hiroshima si è risollevato con non poche rimozioni, ma con traumi indelebili. Cinema e letteratura narrano questi traumi, e una paura niente affatto calma. Su queste ramificazioni del pessimismo s'è rovesciato lo tsunami, e Jonas aiuta più di Voltaire. I giapponesi sapevano già che "il male è sulla terra", e quel che può soccorrerli è la paura che scoperchia, che scopre. La stessa paura che affiora da decenni, sotto forma di fantasmi, nel suo cinema, nella sua letteratura. In questi giorni guardi la tv, e sembra di vedere la città su cui s'abbatte l'indicibile cataclisma raccontato nel film Kairo, di Kiyoshi Kurosawa: strade e autobus vuoti, fughe verso il nulla, e in cielo, a distanza ravvicinata, un immenso aereo-avvoltoio (nell'Apocalisse griderebbe: "guai! guai!") che vola verso lo schianto.

Rivedere Kairo fa capire lo squasso mentale nipponico e anche il nostro. Il Giappone ha dietro di sé un'epoca che è stata chiamata Decennio perduto, fra il 1991 e il 2000, e s'è poi prolungata in Decenni perduti. Il film di Kurosawa risale a quegli anni (2001) e non è cinema dell'orrore ma - all'ombra dello tsunami - visione iperrealistica. Kairo vuol dire circuito: ma è un cerchio senza alfa e omega. Il fenomeno narrato da Kurosawa è quello di intere generazioni che si barricano in casa fino a divenire ombre davanti ai computer (le statistiche parlano di almeno un milione di drop-out). Il fenomeno si chiama Hikikomori: è un ritrarsi, confinarsi nella solitudine. Nasce da insicurezze esasperate dalla crisi, dal futuro amputato. Sulle pareti delle case, nel film, si stagliano informi ombre color carbone. Gridano "Aiutami!", nel momento in cui i giovani morenti lasciano in eredità quest'effigie di sé.

È la silhouette annerita dell'uomo accanto alla scala che apparve impressa su un muro di Hiroshima nel '45. L'incubo si stende sull'uomo, spaventandolo incessantemente. Viene da lontano, va lontano. Solo spaventandoci unisce il passato al presente; e ci tiene svegli, forse.

(16 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #131 inserito:: Marzo 23, 2011, 11:37:10 am »

IL COMMENTO

Il crimine dell'indifferenza

di BARBARA SPINELLI

NON è mai cosa semplice giustificare una guerra, per chi è mandato al fronte ma anche per chi ha l'incarico di iniziarla, di deciderne i fini e la fine. Non è facile neanche per chi, sui giornali, cerca di dire la verità della guerra, le sue insidie. La più grande tentazione è di rifugiarsi nei luoghi comuni, nelle frasi fatte, nelle menzogne. Frasi del tipo: nessuna guerra è buona; nessun politico ragionevole s'impantana in paesi lontani; nessuna guerra, infine, va chiamata guerra. Il governo italiano è specialista di quest'ultima menzogna: la più ipocrita. Né si limita a mentire: un presidente del Consiglio che si dice "addolorato per Gheddafi" senza sentir dolore per le sue vittime non sa la storia che fa, né perché la fa.

A questi luoghi comuni sono affezionati sia gli avversari incondizionati delle guerre, sia i governi che le guerre le fanno senza pensarle, o pensandone i moventi (petrolio e gas libici) senza dirli. I luoghi comuni sempre rispondono al primo istinto, più facile. Memorabile fu quel che disse il premier Chamberlain, nel '38, quando Hitler volle prendersi la Cecoslovacchia: "Un paese lontano, dei cui popoli non sappiamo nulla". Sono frasi che circolano, immemori, da secoli. Perché combattere per Bengasi? Siamo usciti dal colonialismo dimenticando che la tattica di Mussolini in Libia (far terra bruciata) è imitata da Gheddafi nel suo Paese. Frasi simili possono esser dette solo da chi immagina che il proprio interesse (personale,
nazionale) sia disgiunto dal mondo. Non c'è solo la banalità del male. Esiste anche la banalità dell'indifferenza a quel che succede fuori casa. Lo scrittore Hermann Broch parlò, agli esordi del nazismo, di crimine dell'indifferenza.

L'Onu nacque per arginare questo crimine, nel dopo guerra. La Carta delle Nazioni unite garantisce la sovranità degli Stati, nel capitolo 1,7, ma nello stesso paragrafo stabilisce che il principio di non ingerenza "non pregiudica l'applicazione di misure coercitive a norma del capitolo 7": capitolo che chiede al Consiglio di sicurezza di accertare "l'esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione", e gli consente (se l'aggressore non è dissuaso) di "intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite" (articoli 39 e 42 del capitolo 7).

Le Nazioni Unite hanno commesso innumerevoli errori in passato, ma i peccati maggiori sono stati di omissione, non di interventismo: basti pensare al genocidio in Ruanda, cui Kofi Annan, allora responsabile delle operazioni militari Onu, restò indifferente nel '94. Nonostante ciò l'Onu è l'unico organismo multinazionale che possediamo, la sola risposta ai luoghi comuni di cui il nazionalismo è impregnato. La sua Carta non è diversa dalle Costituzioni pluraliste dei paesi usciti dal nazifascismo come l'Italia e la Germania. Non è lontana, pur mancando di autorevolezza sovranazionale, dallo spirito dell'Unione europea: l'assoluta sovranità non è inviolabile, se gli Stati deragliano. D'altronde l'Onu ha imparato qualcosa dal Ruanda. Nel 2005, su iniziativa dello stesso Kofi Annan, ha approvato il principio della "Responsabilità di proteggere" le popolazioni minacciate dai propri regimi (Responsibility to Protect, detto anche RtoP), anche se è imperativa l'approvazione del Consiglio di sicurezza. È il principio invocato in questi giorni a proposito della Libia.

A partire dal momento in cui questa responsabilità viene codificata, lo spazio delle ipocrisie si restringe e più intensamente ancora le ragioni della guerra vanno meditate: specie nei Paesi arabi, dove spesso dominano tribù anziché Stati moderni. Anche questo è difficile: dai tempi di Samuel Johnson sappiamo che "la prima vittima delle guerre è la verità", e quest'antica saggezza va riscoperta. Se l'Italia "non è in guerra", cosa fanno i nostri caccia nei cieli libici? Pattugliano per far scena, senza difendersi se attaccati, addolorati anch'essi per Gheddafi? È questo, ministro Frattini, quel che dice agli aviatori? Frattini riterrà la domanda incongrua, e lo si può capire. È lo stesso ministro che il 17 gennaio, in un'intervista al Corriere, definì Gheddafi un modello di democrazia per il mondo arabo: un mese dopo la Libia esplodeva. Come mai la maggioranza non l'ha estromesso dal governo, come i gollisti hanno fatto col ministro degli esteri Michéle Alliot-Marie?

Ma forse c'è un motivo, per cui le parole vane si moltiplicano. In parte nascono da vecchi riflessi, impermeabili all'esperienza. In parte sono frutto di una confusione mentale profonda: l'Onu è di continuo invocata, ma quando agisce e l'America di Obama sceglie la via multilaterale molti perdono la bussola. In parte è l'Onu, prigioniera dei protagonismi nazionali, a evitare parole chiare. Di qui le tante ambiguità della risoluzione sulla Libia: un testo che vuol accontentare tutti e in realtà non sa quello che vuole, né quello che non vuole. Perfino sulla questione cruciale regna il buio: non si vuol spodestare Gheddafi, e però non pochi chiedono proprio questo. Il primo a tentennare è Obama: stavolta non vuole cambi di regime alla Bush, ma il risultato è che ciascuno nell'amministrazione dice la sua come in un giardino d'infanzia. Il 18 marzo il Presidente annuncia che "il cambiamento nella regione non sarà e non può esser imposto dagli Usa né da alcuna potenza straniera: in ultima istanza, sono i popoli del mondo arabo a doverlo compiere". Tre giorni dopo, il 21 marzo in Cile, ripete che la missione è proteggere i civili ma aggiunge: "La politica degli Stati Uniti ritiene necessario che Gheddafi se ne vada: tale politica sarà sostenuta da mezzi aggiuntivi". Ben altro aveva detto domenica il capo di stato maggiore Michael Mullen: l'obiettivo è di "limitare o eliminare le capacità del dittatore di uccidere il proprio popolo e di sostenere lo sforzo umanitario", non di provocare un cambio di regime. Per lui, Gheddafi può anche restare al potere.

Non è l'unica ambiguità: gli interventisti proclamano di non volere occupazioni né attacchi terrestri, ma nutrono parecchi dubbi in proposito. Anche perché con la sola aviazione e gli spazi aerei interdetti si ottiene poco, o peggio ancora: in Bosnia-Erzegovina, la no-fly zone fra il '93 e il '95 non impedì il massacro di 8000-10000 musulmani bosniaci a Srebrenica, città sotto tutela dell'Onu.

Non meno equivoco è il ritardo con cui l'Onu interviene. Il divieto di sorvolo poteva essere imposto prima, quando Gheddafi non aveva ancora riconquistato città e creato una spartizione di fatto della Libia. Uno dei difetti dei cieli interdetti è la scelta dei tempi. Le no-fly zone in Iraq (1991-2002) furono istituite dopo che a Nord l'orrore era già avvenuto (3.000-4.000 villaggi curdi distrutti da Saddam con armi chimiche, nell'88, più di 1 milione di morti), e nel Sud il divieto restò inascoltato.

L'Europa non solo è inesistente, ma pericolosa nella sua frantumazione: la scommessa fatta da Obama sulla sua autonomia è fallita, e non per sua colpa. Uno dei motivi per cui Lega araba è incollerita pur volendo l'intervento è la fretta di Sarkozy, che ha fatto partire i propri aerei senza mai consultare gli arabi. Non basta qualche aereo del Qatar per riempire il vuoto, abissale, di politica. Sarkozy interventista pensa ai suoi casi elettorali non meno della Merkel anti-interventista: di qui il litigio sulla guida o non guida della Nato. Quanto all'Italia, vale la pena ricordare quel che scriveva oltre un secolo fa lo scrittore Carlo Dossi, consigliere di Crispi: "La politica internazionale attuale dell'Italia non è che politica di rimorchio. L'Italia governativa non ha più propria opinione, né ardisce mai d'iniziare un affare o un'impresa, anche se vantaggiosa. Essa si accosta sempre al parere altrui. E neppure osa aderirvi schiettamente. Piglia busse, tace e ubbidisce".

Ancora non sappiamo se il mondo arabo sia scosso da tumulti, da clan rivoltosi, o da rivoluzioni che edificano nuovi Stati. Una cosa però già la sappiamo: una vera discussione sulla democrazia è in corso, e a questa discussione gli occidentali non partecipano, per ignoranza o disprezzo. La settimana scorsa, la Bbc ha diffuso un dibattito organizzato dalla Fondazione Qatar (il Doha Debate) in cui una platea di giovani arabi discuteva dell'Egitto. La maggioranza ha votato una mozione in cui si chiede di non indire subito le elezioni, perché la democrazia "non si esaurisce nelle urne": è fatta di infrastrutture democratiche, di costituzioni garanti delle minoranze, di separazione dei poteri. Ha detto Marwa Sharafeldine, attivista democratica egiziana: "La democrazia fast-food può solo creare indigestioni". Non lascia spazio che ai ricchi, agli organizzati come i fondamentalisti islamici.

Pensando all'Italia, ho avuto l'impressione che anche noi avremmo bisogno di partecipare a questa conversazione mondiale, cominciata in ben sedici Paesi arabi. Forse impareremmo qualcosa sulle nostre democrazie fast-food: dove regnano i clan, le cerchie di amici, e i capipopolo che si sentono in tale fusione col popolo da ritenersi, come Gheddafi, politicamente immortali.

 

(23 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #132 inserito:: Aprile 06, 2011, 03:54:11 pm »

IL COMMENTO

Operazione banalità

di BARBARA SPINELLI


OGGI si apre a Milano il processo Ruby, e qualcosa di strano sta accadendo, nonostante l'ora sia grave e parecchio miserabile. Un presidente del Consiglio è incriminato per aver abusato del proprio potere, costringendo la questura a rilasciare una ladruncola che gli stava a cuore e non esitando a spacciarla per la nipote di Mubarak. Pende anche l'accusa di favoreggiamento di prostituzione minorile, perché Karima El Mahroug (Ruby) frequentava festini a Arcore, prima della maggiore età. E li frequentava assieme a ragazze che si prostituivano in cambio di soldi, gioielli, appartamenti, carriere. Le prove sono tali che è stato scelto il rito abbreviato. Un dramma insomma, per un uomo che addirittura anela al Quirinale: e tale resta anche se la Consulta approvasse il parere espresso dalla maggioranza dei deputati, secondo cui il premier non è giudicabile da tribunali ordinari. Un'esperienza non invidiabile, quantomeno, e chiunque si sarebbe aspettato dall'imputato, in ore così cupe, un atteggiamento adatto alla circostanza: i latini lo chiamavano gravitas, virtù di chi governa (lo è ancora, nell'articolo 54 della Costituzione). Da sempre, la calamità personale è la verifica dell'attitudine al comando.

Ma nel mondo di Silvio Berlusconi non è così. Se solo proviamo a penetrarlo, vedremo che è un mondo parallelo, in tutto somigliante all'allestimento, al casting, al linguaggio delle televisioni commerciali. La realtà sfuma in irrealtà e viceversa, i protagonisti non parlano
ma recitano copioni preconfezionati, il pubblico plaudente è esibito come popolo, qualche comparsa emette fandonie. Questo è il premier, specie in questi giorni: una comparsa buffonesca, che sghignazza su quel che fra poco, anzi oggi, sta per accadergli. L'Italia intera è un suo villaggio Potemkin, fatto di cartapesta colorata per occultare detriti e rovine.

Nel villaggio lui è re, e ride ininterrottamente, di tutti e anche di sé. Il sipario del processo sta per alzarsi ed eccolo che il 2 aprile racconta una delle sue lunghe barzellette. Il pubblico batte le mani, e quest'euforia non è il capitolo meno sinistro del copione. Se Karima ha un nomignolo possiamo darlo anche all'autore della sceneggiatura: chiamiamolo Ubu Re, perché come nel dramma di Alfred Jarry prende il potere per "mangiare più salsicce, comprarsi ombrelli, far soldi"; perché promuove i corrotti, elargisce denaro perché glielo consiglia Mamma Ubu, annienta i nobili e soprattutto i magistrati, condannati a vivere delle multe comminate e dei beni dei condannati a morte.

Le barzellette sul caso Ruby mancano furiosamente di sottigliezza, non di furbizia. Sono pornografia allo stato puro, e la pornografia, si sa, cancella l'oggetto del desiderio facendolo vedere così da vicino che pare troppo vero per esser vero. Succede sempre, con l'osceno: quel che ammalia è il reale in eccesso, è l'iper-realtà (la parte del corpo è ingrandita come da una lente). "L'unico vero fantasma della pornografia non è il sesso ma è la realtà stessa, assorbita in qualcosa che non è reale, ma iper-reale", scrive Baudrillard sulla seduzione. Berlusconi non nasconde nulla di quel che fa ma anzi ne dilata i dettagli, li rende derisori, li evoca anche nei momenti in cui uno magari penserebbe ad altro. Di continuo siamo trascinati nel suo set-universo parallelo dove il reale si dissolve e l'assedio svanisce: perché se è derisorio lui quanto più lo saranno magistrati e giornalisti!

Ha un suo sogno ridicolo e non sottile, l'uomo Berlusconi, ma c'è del metodo e anche una cinica conoscenza delle cose, nel suo architettare villaggi finti: c'è la rappresentazione di una gioventù scombussolata da lavori senza futuro, e di un'Italia ridanciana, indifferente alle leggi perché dalle leggi non protetta. Un'Italia con la quale Ubu s'identifica, e che s'identifica con Ubu. Basta divenire padrone delle parole e delle leggi, per storcere gli eventi e capovolgerli. Risultato: quello di oggi non è un processo per concussione e minorenni prostituite. È un monumentale processo al desiderio, alla simpatia, alla leggerezza, alle risate. L'ironia, la più eccelsa delle arti, è usata come arma micidiale che sminuzza i fatti e li rende irriconoscibili. Niente mi minaccia, se ci rido sopra. Niente m'insidia, se come Napoleone m'impossesso dei sogni di soldati ed elettori. È il sotterfugio offerto sin dall'inizio dalle sue tv, tramite le quali conquistò le menti e l'etere. Lui ri-crea un mondo ma frantumato, e nel frammento vivi bene perché non vedi il tutto, non connetti i fatti tra loro sicché li scordi presto. Robin Lakoff, denunciando i nuovi demagoghi delle destre americane, parla di agenda dell'ignoranza.

Chi non dimentica il tutto, il contesto, è lui, il capo che sui falsi paesaggi ha idee ben chiare. Deve essere un paesaggio di emergenza e caos perenni, dove chi comanda si traveste da vittima, dove il potere continuamente deve essere espugnato, mai esercitato. Il Parlamento merita castighi, perché il leader sia solo davanti al popolo (davvero il premier ha sgradito gli insulti di La Russa al presidente della Camera?). Magistratura e Consulta hanno fame di potere politico, e vanno evirate. La Costituzione è un laccio. La politica non è manovrare, ma rimestare e smistare possibili ricatti. Gheddafi era così: ostile alle istituzioni rappresentative, incarnando il popolo si pretendeva inamovibile. Formalmente non governava lui ma i Congressi popolari. Lui, dietro le quinte, era Papà Ubu.

Resta la stranezza, il mistero. Perché tanto ridacchiare, alla vigilia del processo Ruby e di altri procedimenti? Quale spettacolo sta mandando in onda, di cui noi non siamo che ignoranti comparse? Quali leggi e stratagemmi inventerà Ubu perché ogni processo si spenga? L'obiettivo è la negazione del reale, ma c'è un più di violenza, c'è una tattica bellica preventiva presa in prestito dallo Spirito dei Tempi. Tutto è annuncio preventivo, prima che il reale si avveri, ne abbiamo conferma proprio in questi giorni nella guerra di Libia: anche qui viviamo eventi senza conoscerli, che paiono escrescenze delle tv commerciali. Ci sono stati certamente massacri, da parte di Gheddafi. Ma quanti e dove? I cronisti dicono che ci sono stati, ma non visti perché mancavano le telecamere. La tv commerciale fa legge, prima ancora che le cose avvengano: "Lo dice la televisione", e performativamente il fatto esiste. In un blog intitolato Una Storia Noiosa 1 leggo: "Il fact finding/checking viene sostituito da immagini che non esistono, ma che se esistessero testimonierebbero indubitabilmente la realtà di questi fatti, di cui peraltro il giornalista non è testimone diretto. Vertiginoso. Nasce il genere del "reportage preventivo". Non so dire se siamo al funerale dell'immagine o al suo trionfo: l'immagine può permettersi di non esistere fisicamente, tanto tutti diamo per buono che rappresenterebbe fedelmente quella che già sappiamo essere la realtà".

Nel mondo di Berlusconi, la guerra al reale si fa preventiva. Più precisamente, e in conformità al personaggio: si fa apotropaica (apotropaico è il gesto che allontana e annulla un'influenza maligna: per esempio, toccar ferro). Apotropaico è il modo in cui ha difeso, il 10 marzo, la riforma della giustizia: se si fosse fatta nel '92-93, Tangentopoli sarebbe proseguita indisturbata, non ci sarebbero state Mani Pulite né "l'invasione da parte della magistratura della politica e l'annullamento di un'intera classe dirigente".

Una risata vi seppellirà. Lo promette Berlusconi, forse dimenticando che furono gli anarchici dell'800 e la sinistra estrema nel '900 a coniare lo slogan. Fortuna che abbiamo Lao Tzu, che da 2.500 anni dice, della via saggia e giusta: "Quando un dotto di prim'ordine sente parlare della via, la segue rispettosamente. Quando un dotto di mezza levatura sente parlare della via, ora la mantiene ora la perde. Quando un dotto d'infimo ordine sente parlare della via, si fa una grande risata".
 

(06 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #133 inserito:: Aprile 08, 2011, 06:52:27 pm »

IL COMMENTO

Lampedusa e la sovranità del panico

Da settimane in Italia si guarda a quel che accade in Libia e alla situazione a Lampedusa.

Ma la visuale è ristretta: il mondo è in mutazione e l'isola è divenuta l'emblema della nostra condizione di vittime

di BARBARA SPINELLI


SONO settimane che in Italia si guarda a quel che accade in Libia e alla guerra che stiamo conducendo attraverso un'unica lente: nient'altro è per noi visibile se non quello che potremmo patire noi, se i fuggitivi arabi e africani continueranno a imbarcarsi verso le nostre coste. Non si discute che di Lampedusa assediata, di città italiane più o meno restie all'accoglienza. Per la verità non si parla di rifugiati ma di invasori, come se la vera guerra fosse contro di noi.

Il trauma è nostro monopolio, il mondo è un altrove che impaura e minaccia: da un momento all'altro, il favore di cui gode l'operazione in Libia potrebbe precipitare. Sembriamo molto lucidi e pratici, ma questo restringersi della visuale ci rende completamente ciechi: l'altrove mediterraneo resta altrove, solo la nostra quiete di nazione arroccata e aggredita ci interessa. Già alcuni parlano di tsunami, ed ecco paesi e persone degradati ad acqua che irrompe.

Non ci interessa quel che fa Gheddafi (vagamente parliamo di massacri, in parte avvenuti in parte potenziali). Non ci interessano neanche gli insorti, le loro intenzioni. Il mondo è in mutazione ma noi siamo lì, chiusi in un recinto fatto di ignoranza volontaria: come se esistesse, oltre alla guerra preventiva, un non-voler sapere preventivo. Credevamo di aver spostato le nostre frontiere più in là, lungo le coste libiche, ben felici che a gestire l'immigrazione fosse il colonnello coi suoi Lager, invece nulla da fare. Il muro libico crolla e i detriti son
tutti a Lampedusa e la maggioranza stessa degenera in detrito: con Bossi che offre come soluzione lo slogan "föra di ball", con il Consiglio dei ministri che salta, con Berlusconi che di persona andrà nell'isola campeggiando - ancora una volta - come re taumaturgo.

Lampedusa è divenuta l'emblema della nostra condizione di vittime, il grido che lanciamo all'universo. Dice il governo che oggi arriveranno 4 navi per 10.000 posti, ma per tanti giorni non abbiamo visto che l'isolotto sommerso da grumi informi a malapena identificati con persone. Il fermo immagine sull'isola - il fotogramma che sospende il tempo creando stasi, ristagno - è l'arma di un governo che scientemente arresta la pellicola su questo dramma abbacinante. Lampedusa è agnello sacrificale, ha scritto su Repubblica Eugenio Scalfari. Tutte le colpe s'addensano nell'icona espiatoria, e non stupisce il vocabolario sacrificale che l'accompagna: esodo biblico, inferno, apocalisse. Sguainare la parola apocalisse è profittevole al capo politico, che pare più forte. Diventa il kathekon del mondo: trattiene i poveri mortali dal disastro. Così Lampedusa si tramuta in podio politico: Marine Le Pen, leader del Fronte Nazionale, già ci è andata, il 14 marzo, ben cosciente che l'Italia è oggi laboratorio delle destre estreme.

Giustamente il cardinale Martini mette in guardia contro l'uso dello spauracchio apocalittico: non ha detto, Gesù, che "fatti terrificanti" verranno ma "nemmeno un capello del vostro capo perirà"? La paura è comprensibile ma va affrontata, secondo Martini, con quattro virtù: resistenza, calma, serietà, dignità. È proprio quello che manca in Italia. Che manca, nonostante l'attività della Caritas, anche alla Chiesa: con gli innumerevoli alloggi che possiede, non pare sia decisa a offrirli per i fuggiaschi, stipati in condizioni non vivibili, privati ora anche di cibo. Chiara Saraceno ha spiegato bene il paradosso, domenica su Repubblica: questi alloggi, trasformati in alberghi, godono di sconti fiscali perché destinati "esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali". Perché non sono messi subito a disposizione?

Quando non c'è serietà le bugie dilagano, le immagini s'adeguano. Si adeguano nel caso della guerra libica, che non essendo chiamata guerra non può nemmeno esser pensata a fondo, con conoscenza di causa. Si adeguano nel descrivere l'Unione europea, su cui piovono accuse talvolta giuste ma nella sostanza menzognere, da parte di governanti che di tutto son capaci tranne di pedagogia delle crisi. Se non c'è una politica europea sull'emigrazione, è perché gli Stati vogliono mantenere per sé competenze che non sanno esercitare. È contro il proprio panico sovrano che dovrebbero inveire, non contro Bruxelles: contro l'ideologia del fare da sé, del "ghe pensi mi", che angustia l'Italia da quasi cent'anni. In teoria dovrebbe valere il principio di sussidiarietà (l'Unione decide sulle questioni di sua competenza che gli Stati non sanno risolvere), ma si esita ad applicarlo. Quanto all'immigrazione, il trattato di Lisbona prevede che l'Unione decida all'unanimità tra governi, senza la codecisione del Parlamento europeo, con l'eccezione di alcune materie in cui il trattato stesso prevede la procedura legislativa ordinaria: solo in queste materie (non sono le più importanti) si decide a maggioranza qualificata e dunque si agisce.

Ma la menzogna decisiva riguarda quel che l'Italia pensa di sé. Alla radice della cecità, c'è l'illusione di essere una nazione che ancora può scegliere tra essere multietnica o no. Che non deve nemmeno chiedersi se stia divenendo xenofoba. In realtà sono 30 anni che siamo un paese d'immigrazione, con punte massime negli ultimi dieci, e quando Berlusconi nel 2009 disse che "non saremo un paese multietnico", mentiva per evitare il ruolo di pedagogo delle crisi. Per negare che la convivenza col diverso si apprende faticosamente ma la si deve apprendere: attraverso una cultura della legalità, dello Stato, del rispetto. Il politico-pedagogo non finge patrie omogenee che rimpatriano alla svelta bestiame umano, ma governa una civiltà multietnica che da tempo non è più un'opzione ma un fatto.

Per capire il nostro vero stato di salute conviene leggere il rapporto, assai allarmato, che Human Rights Watch 1 ha pubblicato il 21 marzo sull'espandersi del razzismo in Italia. Condotta fra il dicembre 2009 e il dicembre 2010, l'inchiesta raccoglie una mole di testimonianze e mette in luce cose che sappiamo, ma dimentichiamo. Raramente il crimine razzista è denunciato come tale, nonostante la legge Mancino del '93 (articolo 3) lo consideri un'aggravante nei reati: la disposizione non è però inserita nel Codice penale. Raramente sono applicate leggi europee e internazionali per noi vincolanti. Infine, né polizia né magistratura sono formate per affrontare reati simili, e numerosissimi casi vengono archiviati, specie quando le violenze sono commesse da forze dell'ordine.

È la retorica che vince sui fatti, scrive ancora il rapporto, e la colpa è dei politici come dei media. Dei politici, che per primi "stigmatizzano le persone con stereotipi". Dei media, "a causa della monopolizzazione dell'editoria radio-televisiva esercitata da Berlusconi". Il rapporto non risparmia la sinistra, spesso tentata di equiparare immigrati e criminali.
Continuamente i politici chiedono che immigrati o fuggitivi si integrino nella nostra cultura, ma è ipocrisia. Primo perché ai fuggiaschi non vengono dati gli strumenti per interiorizzare la nostra civiltà, i suoi diritti e doveri. Secondo perché gli italiani stessi - mal informati, mal governati - ignorano la civiltà sbandierata. Basti un esempio. Il migrante privo di documento che è vittima di un reato può richiedere il rilascio di un permesso temporaneo, e rimanere nel paese per la durata del processo. L'autorizzazione è concessa per periodi rinnovabili di tre mesi, e revocata a processo finito se il caso è archiviato. Ma la regola di solito è ignorata, con effetti gravi: il reato non è denunciato per paura, la fiducia del migrante nello Stato frana, le mafie diventano rifugi.

Se questa è la cultura politica imperante non sorprende che la nostra politica estera sia così debole, anche in Libia. Non dimentichiamo che gli aiuti pubblici allo sviluppo, in Italia, sono crollati. Ristabiliti dal governo Prodi, da due anni scendono sempre più. In uno studio per l'Istituto affari internazionali, Iacopo Viciani fornisce dati probanti: nel bilancio di previsione per il 2011, la cooperazione allo sviluppo è tra le spese più decurtate, riducendo al minimo il peso italiano nel mondo. Gli stanziamenti per la cooperazione raggiungeranno nel 2011 il livello più basso, con una riduzione del 61% rispetto al minimo del '97. Si dirà che ciascuno taglia, in Europa. È falso: Londra, Stoccolma e Parigi aumentano gli aiuti malgrado la crisi.

Inutile andare a una guerra quando si conta così poco nella scelta delle sue già confuse finalità. I governi italiani non sono gli unici ad aver negoziato con Gheddafi, ma il patto stretto da Berlusconi ha qualcosa di scellerato. È grazie a esso che dal 2009 sono stati rimpatriati centinaia di africani giunti in Libia per arrivare in Europa. Senza distinguere tra profughi e migranti, i fuggitivi sono stati respinti in Libia ben sapendo cosa li aspettava: autentici campi di concentramento, dove regnavano tortura, stupri, fame.

Forse è il motivo per cui fatichiamo, non solo in Italia, ad analizzare questa guerra libica così opaca. A vedere le insidie di un movimento di insorti che non ha esitato, pare, a uccidere prigionieri africani sospettati di lavorare per Gheddafi. Molti libici fuggiranno anche dai successori del colonnello: dai ribelli che stiamo aiutando perché abbattano il Rais. Forse siamo semplicemente alla ricerca di nuovi carcerieri per gli immigrati che respingeremo.

(30 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #134 inserito:: Aprile 12, 2011, 06:39:05 pm »

IL COMMENTO

Il tempo dei profeti

di BARBARA SPINELLI


Il Presidente Napolitano, che quando parla d'Europa usa veder lontano e ha sguardo profetico, ha fatto capire nel giorni scorsi quel che più le manca, oggi: il senso dell'emergenza, quando una crisi vasta s'abbatte su di essa non occasionalmente ma durevolmente; l'incapacità di cogliere queste occasioni per fare passi avanti nell'Unione anziché perdersi in "ritorsioni, dispetti, divisioni, separazioni". Son settimane che ci si sta disperdendo così, attorno all'arrivo in Italia di immigrati dal Sud del Mediterraneo. Numericamente l'afflusso è ben minore di quello conosciuto dagli europei nelle guerre balcaniche, ma i tempi sono cambiati. Lo sconquasso economico li ha resi più fragili, impauriti, rancorosi verso le istituzioni comunitarie e le sue leggi. Durante il conflitto in Kosovo la Germania accolse oltre 500mila profughi, e nessuno accusò l'Europa o si sentì solo come si sente Roma. Nessuno disse, come Berlusconi sabato a Lampedusa: "Se non fosse possibile arrivare a una visione comune, meglio dividersi". O come Maroni, ieri dopo il vertice europeo dei ministri dell'Interno che ha isolato l'Italia: "Mi chiedo se ha senso rimanere nell'Unione: meglio soli che male accompagnati". La sordità alle parole di Napolitano è totale.

La democrazia stessa, che contraddistingue gli Stati europei e spinge i governi a preoccuparsi più dell'applauso immediato che della politica più saggia, si trasforma da farmaco in veleno. Di qui la sensazione che l'Unione non sia
all'altezza: che viva le onde migratorie come emergenza temporanea, non come profonda mutazione. Governi e classi dirigenti sono schiavi del consenso democratico anziché esserne padroni e pedagoghi con visioni lunghe. Non a caso abbiamo parlato di spirito profetico a proposito di Napolitano. È la schiavitù del consenso a secernere dispetti, rancori, furberie. Tra le furberie che ci hanno isolato c'è la protezione temporanea eccezionale che il nostro governo ha concesso a 23.000 immigrati. La protezione è prevista dal Trattato di Schengen, ma solo per profughi scampati a guerre e persecuzioni: non vale per i tunisini, come ci hanno ricordato ieri la Commissione e gli Stati alleati. Non è violando le regole che l'Italia suscita solidarietà. Può solo acutizzare le diffidenze: un altro veleno che mina l'Unione.

Per questo vale la pena soffermarsi sul significato, in politica, dello spirito profetico. Vuol dire guardare a distanza, intuire le future insidie del presente, ma innanzitutto comporta un'operazione verità: è dire le cose come stanno, non come ce le raccontiamo e le raccontiamo per turlupinare, istupidire, e inacidire gli elettori. Di questo non è capace Berlusconi ma neanche gli altri Stati e le istituzioni europee: i primi perché sempre alle prese con scadenze elettorali, le seconde perché intimidite dalle resistenze nazionali. La lentezza con cui si risponde alle rivoluzioni arabe non è la causa ma l'effetto di questi mali.

La prima verità non detta è quasi banale, e concerne l'intervento in Libia e il nostro voler pesare sui presenti sconvolgimenti arabi e musulmani. Condotta con l'intento di apparire attivi, la guerra sta confermando il contrario: una grande immobilità e vuoto di idee. È un attivarsi magari sensato all'inizio, ma che mai ha calcolato le conseguenze (compresa un'eventuale vittoria di Gheddafi) sui paesi arabi-africani e sui nostri. Fra le conseguenze c'è l'esodo di popoli. Un esodo da assumere, se davvero vogliamo esserci in quel che lì si sta facendo. Invece siamo entrati in guerra senza pensarci, né prepararci.

La seconda verità, non meno cruciale, riguarda l'Europa e i suoi Stati. L'occultamento è in questo caso massiccio, ed è il motivo per cui il capro espiatorio della crisi migratoria non è l'Italia come gridano i nostri ministri ma  -  se non si inizia a parlar chiaro  -  l'Unione stessa. L'evidenza negata è che da quando vige il Trattato di Lisbona, molte cose sono cambiate nell'Unione. Le politiche di immigrazione erano in gran parte nazionali, prima del Trattato. Ora sono di competenza comunitaria, e la sovranità è passata all'Unione in quanto tale. Questo anche se agli Stati vengono lasciati, ambiguamente, ampli spazi di manovra, in particolare sul "volume degli ingressi da paesi terzi".

Risultato: l'Unione, anche perché guidata a Bruxelles da un Presidente debole, prono agli Stati, non sa che fare della propria sovranità. Non ha una politica verso i paesi arabi, di cooperazione e sviluppo. Tuttora non ha norme chiare sull'asilo, sull'integrazione dei migranti, né possiede il corpo comune di polizia di frontiera che aveva promesso. Ma soprattutto, non ha le risorse per tale politica perché gli Stati gliele negano, riducendo la sovranità delegata a una fodera senza spada. Per questo alcuni spiriti preveggenti (l'ex ministro socialista Vauzelle, il presidente del consiglio italiano del Movimento europeo Virgilio Dastoli) propongono una cooperazione euro-araba gestita da un'Autorità stile Ceca (la prima Comunità del carbone e dell'acciaio). Come allora viviamo una Grande Trasformazione, e Monnet resta un lume: "Gli uomini sono necessari al cambiamento, le istituzioni servono a farlo vivere".

Se il Trattato di Lisbona significasse qualcosa, non dovrebbero essere Berlusconi e Frattini a negoziare con Tunisia o Egitto, con Lega araba o Unione africana. Dovrebbero essere il commissario all'immigrazione Cecilia Malmström e il rappresentante della politica estera Catherine Ashton. Resta che per negoziare ci vogliono progetti, iniziative: e questi mancano perché mancano risorse comuni. La condotta dei governi europei è schizoide, e tanto più menzognera: gli Stati hanno avuto la preveggenza di delegare all'Europa una parte consistente di sovranità, su immigrazione e altre politiche, ma fanno finta di non averlo fatto, e ora accusano l'Europa come se gli attori del Mediterraneo fossero ancora Stati-nazione autosufficienti.
La terza operazione-verità, fondamentale, ha come oggetto l'immigrazione e il multiculturalismo. È forse il terreno dove il mentire è più diffuso, tra i governanti, essendo legato alla questione della democrazia, del consenso, della mancata pedagogia, degli annunci diseducativi. Risale all'ottobre scorso la dichiarazione di Angela Merkel, secondo cui il multiculturalismo ha fatto fallimento. Poco dopo, il 5 febbraio in una conferenza a Monaco sulla sicurezza, il premier britannico Cameron ha decretato la sconfitta di trent'anni di dottrina multiculturale. Il fatto è che il multiculturalismo non è una dottrina, un'opinione. È un mero dato di fatto: in nazioni da tempo multietniche come Francia Inghilterra o Germania, e adesso anche in Italia e nei paesi scandinavi. L'operazione verità non consiste nel proclamare fallito il multiculturalismo: se un dato di fatto esiste, fallisce solo se se estirpi o assimili forzatamente i diversi. Se fossero veritieri, i governi dovrebbero dire: il multiculturalismo c'è già, solo che noi  -  Stati sovrani per finta  -  non abbiamo saputo né sappiamo governarlo.

Dire la verità sull'immigrazione è essenziale per l'Europa perché solo in tal modo essa può osare e fare piani sul futuro. Urge cominciare a dire quanti immigrati saranno necessari nei prossimi 20 anni, e quali risorse dovranno esser mobilitate: sia per mitigare gli arrivi cooperando con i paesi africani o arabi, sia edificando politiche di inclusione per gli immigrati economici e per i profughi (la frontiera spesso è labile: la povertà inflitta è una forma di guerra).

Tutto questo costerà soldi, immaginazione, pensiero durevole. Comporterà, non per ultimo, un ripensamento della democrazia. Ci sono cose che non si possono fare perché maturano nei tempi lunghi e l'elettorato capisce solo i risultati immediati, spiega l'economista Raghuram Rajan in un articolo magistrale sulle crisi del debito (Project Syndacate, 9 aprile 2011). Il bisogno di immigrati che avremo fra qualche decennio in un'Europa che invecchia è, paradossalmente, quello che dà forza ai nazional-populisti: in Italia, Francia, Belgio, Olanda, Ungheria, Svezia, Finlandia. Il dilemma delle democrazie è questo, oggi. Esso costringe governanti e governati a fare quel che non vogliono: smettere l'inganno delle sovranità nazionali, guardare alto e lontano, insomma pensare. E far politica, ma con lo spirito profetico che vede la possibile rovina (il "passo indietro" paventato da Napolitano) e la via d'uscita non meno possibile, se è vero che il futuro non cessa d'essere aperto.

(12 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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