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Autore Discussione: BARBARA SPINELLI -  (Letto 119794 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Marzo 01, 2009, 10:43:03 am »

1/3/2009
 
Lo Stato e le regole
 

BARBARA SPINELLI
 
La maggior presenza dello Stato nell’economia, resa necessaria dalla rovina finanziaria, restituisce ai poteri pubblici molti spazi che essi avevano ceduto o perso nell’ultimo trentennio. Restituisce allo Stato una forza inaspettata, vasta, benefica nell’immediato ma anche colma di rischi perché potenzialmente invadente, minacciosa non solo per l’economia ma per gli equilibri della democrazia.

Il fatto è che mancano, in buona parte dell’Occidente, classi politiche all’altezza di una svolta così profonda, anche se temporanea. Se si esclude Obama, giunto al potere in coincidenza con il crollo finanziario, numerosi politici che oggi governano le democrazie son figli dell’epoca che ha visto gli spazi della politica restringersi, e quelli del mercato allargarsi smisuratamente. I pericoli di uno Stato prevaricatore non diminuiscono ma aumentano, se il delicato passaggio è gestito da una generazione che per decenni s’è fidata del mercato più che della politica, abituandosi non a servire lo Stato ma a servirsi di esso, e mostrando un’acuta allergia alle regole. Nelle loro mani, lo Stato rinsaldato potrebbe divenire un Leviatano temibile.

Per tutti costoro, il Grande Crollo rischia di somigliare a quello che per Bush fu, nel 2001, la Grande Scossa dell’11 settembre.

Un’occasione non per consolidare la democrazia che si pretendeva tutelare, ma per accentrare il potere, per accentuare l’unilateralismo, per estendere l’ingerenza nel privato del cittadino, per distruggere l’equilibrio dei poteri sino a violare norme costituzionali come l’habeas corpus, che è il diritto di chi è arrestato a sapere perché il suo corpo viene sequestrato. Proprio dai neo-liberisti venne il più potente attacco alle libertà individuali: un’aggressione che la crisi economica può riprodurre, mescolando proditoriamente, come allora, politica dei valori, della paura, degli interessi particolari, del nazionalismo. Proprio da loro venne l’idolatria di una concorrenza sganciata dalla cooperazione. Dal caos d’un mercato senza briglie sono fuoriusciti governanti che hanno edificato la propria forza, oltre che sulla propria ricchezza, sul rifiuto esplicito delle leggi, costituzionali o internazionali. Che hanno spregiato la politica classica chiamandola inutile teatro. In Italia si parla di teatrino: i paesi feroci adorano i diminutivi.

In molti casi sarà questa generazione politica a gestire il ritorno dello Stato, e proprio questo turba. Dirigenti che aborrivano la politica e le istituzioni, che erano avvezzi a servirsene, che sono andati al potere da privati per privatizzare il pubblico, si trovano ora al volante di Stati dilatati, e tenderanno a comportarsi come ieri. Continueranno ad agire fuori dalle regole, a crearsi spazi dove gli spiriti animali del mercato non son temperati né dal senso razionale del limite, né dalla fiducia nel diverso. Con la politica dei valori e della paura si plasmerà la società. La guerra al Grande Crollo diverrebbe una variazione ben poco armoniosa della Guerra al Terrore.

Tale è infatti il potere, se non controbilanciato: cresce senza misura. Lord Acton diceva che naturalmente «tende a corrompere», e «quando è assoluto, corrompe assolutamente». Ciò è tanto più vero per chi lascia nel vago i fini che col governo della cosa pubblica vuol raggiungere, e tende a profittare del momento per accrescere un potere fatto di forza, muscoli, influenza sulle menti, sulla società, sull’informazione, addirittura sul comportamento etico di ciascuno. La vocazione ad accentrare e privatizzare il potere mal tollera le regole, i contropoteri, financo l’opposizione. In Italia si finge addirittura un’unità nazionale che nessun esito elettorale ha sancito. In Germania la Grande Coalizione è nata nelle urne. Da noi strega e corrode le menti, delegittimando chi vorrebbe, classicamente, fare opposizione.

Eppure solo uno spazio pubblico aperto a opinioni diverse permette di sventare i pericoli di uno Stato straripante: uno spazio nel quale a un potere si contrapponga un altro potere, alla maggioranza faccia fronte la minoranza, con la calma che nasce da una lunga storia della democrazia. A questo compito non sono preparate né le destre, influenzate per decenni dal fondamentalismo del mercato, né le sinistre immerse nello sforzo di tagliare le proprie radici stataliste. Ambedue sono figlie del neo-liberismo e del caos che ha generato. Ambedue dovranno affrontare la crisi ripensando il potere, i suoi fini, i suoi limiti.

C’è bisogno di un potere calmo, non rivoluzionario, per diminuire i rischi di uno Stato troppo forte, nocivo all’economia come ai cittadini. Chi sa i rischi dello strapotere non solo accetta ma favorisce la moltiplicazione di contropoteri, di controlli nazionali, europei, se possibile mondiali. Ma può farlo a due condizioni: deve dire i fini del potere politico, e sapere cosa significa senso dello Stato.

Un potere che si proponga fini alti non passa il tempo a criticare il politicamente corretto e gli ideali di giustizia sociale della sinistra. Attività simili perdono ogni senso: valevano quando si credeva che il mercato si regolasse da solo. Lottando contro il politicamente corretto, i fondamentalisti del mercato hanno scoperchiato tabù ma hanno anche finito con lo svilire i fini della politica: fini come la convivenza tra diversi, l’accoglienza dello straniero, la protezione dei bisognosi. Il potere - che dovrebbe essere un mezzo - è divenuto un fine in sé: nichilisticamente, sostiene Gustavo Zagrebelsky.

Non meno importante è la seconda condizione: che concerne il senso dello Stato, delle istituzioni. Un senso che non combacia sempre con lo Stato-nazione. Oggi, il senso dello Stato tocca averlo sia nazionalmente, sia in Europa: e non per ideologia sovrannazionale, come scrive sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia. L’Europa federale già esiste in numerosi campi (frontiere, moneta, commercio, concorrenza, agricoltura, spazi giuridici crescenti). Siccome nessuna mente, neanche la più fine, può dire il domani, nessuno può escludere che in futuro il senso delle istituzioni diventi senso dell’istituzione-Europa. Jean Monnet lo sosteneva agli esordi dell’unione: tutto sta a creare istituzioni comuni, perché «solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge»: «Niente esiste senza le persone, niente dura senza le istituzioni». Nell’odierna crisi finanziaria è evidente: ogni Stato si difende da solo, minacciando col protezionismo l’Europa e se stesso contemporaneamente. Non esiste il sacrificio degli interessi «nazionali» sull’altare europeo, perché i due interessi coincidono più che mai. D’altronde gli europei lo intuiscono: molti irlandesi già si son pentiti del no al Trattato di Lisbona, molti Stati euroscettici sull’orlo della bancarotta riscoprono l’Unione.

In Italia cominciano a farsi sentire voci, anche a destra, che vogliono liberarsi dalla rivoluzione neo-liberista e neo-nazionalista contro le tavole delle leggi. Tremonti invoca regole mondiali e discipline europee, contro il caos del mercatismo. Gianfranco Fini si muove nello stesso senso. Giuseppe Pisanu, ex ministro dell’Interno, mette in guardia il governo, in un’intervista a Metropoli, contro una politica che ignora le regole, e contro lo Stato che si fa invadente, repressivo. Invita quest’ultimo a «governare con sapienza l’immigrazione», a non punirla attizzando cupi risentimenti negli immigrati, a non spezzare «l’unitarietà e l’efficienza del nostro sistema di sicurezza» con le ronde private.

Lo Stato diventa sempre più forte e proprio per questo sono importanti la costituzione, le regole, l’Europa. Solo custodendole si può dire, come Obama giovedì al Parlamento: lo Stato interverrà nell’economia senza danneggiarla ma non rinuncerà a dire la sua, e non mollerà: We are not quitters.

da lastampa.it
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« Risposta #46 inserito:: Marzo 08, 2009, 09:23:00 am »

8/3/2009
 
I valori rifugio
 
BARBARA SPINELLI
 

C’è sempre il sospetto, quando si parla con frequenza assillante di un bene o una virtù, che i tempi in cui se ne parla siano specialmente vuoti: che quel bene si assottigli, e in particolare il bene comune. Che le virtù si faccian rare: in particolare quelle esercitate nella sfera pubblica, presidiate da istituzioni e costituzioni durevoli ma discusse. Sono i tempi in cui con più fervore garriscono le bandiere dei valori, come ebbe a scrivere Carl Schmitt nel breve saggio del 1960 intitolato La Tirannia dei Valori (Adelphi, 2008). Salvare i valori da questi sbandieramenti è urgente, perché è pur sempre in nome di principi e valori che la stortura andrà corretta.

Tempi simili son dichiarati cinici, nichilisti. In genere son colorati di nero. Enzo Bianchi, in un testo scritto su La Stampa dopo la morte di Eluana, li chiama tempi cattivi, da cui usciamo non concordi ma più divisi (15-2-09). Tempi in cui il vociare attorno ai valori si dilata, invadendo lo spazio più intimo dell’uomo «al solo fine del potere», e distruggendo i valori stessi. Tempi in cui il sale perde il suo sapore e però diventa molto salato, corrosivo. Può accadere addirittura che s’unisca al salace, producendo strane misture di gossip, lascivia e moralismo. Negli Ultimi Giorni dell’Umanità, Karl Kraus descriveva l’eccitata vigilia della Guerra ’14-’18 come epoca di valori tanto più gridati, quanto più fatui. I giornalisti, tramutati in vati, erano ingredienti decisivi di quest’epoca enfatica, violenta e cieca.

Non è diversa la crisi che viviamo, e di sicuro s’aggraverà man mano che lo sconquasso finanziario ci toccherà da vicino. Come custodire in tali condizioni il potere, quando governi e politici sono ingabbiati nella dura necessità di un precipizio che controllano a mala pena o non controllano affatto, essendosi affidati alle illusorie forze degli Stati-nazione? Possono dire, con Cocteau: «Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori». È quello che fa il presidente del Consiglio in Italia: prima negando la crisi, poi accusando i media d’ingigantirla evocando tragedie, sempre usando i valori come diversivi. I valori sono già oggi e diverranno sempre più lo strumento per governare con magniloquenza e distrarre l’attenzione da sfide vere, mal comprese e mal spiegate. Prendono il posto del mistero che ci oltrepassa, s’impongono con rigide gerarchie: ci sono valori superiori, e poi più giù valori inferiori o perfino disvalori. Al disastro dell’impotenza, a una politica incapace di reinventare linee divisorie, si replica con ferree graduatorie: ogni schieramento pretende d’esser custode dei valori supremi, relegando l’avversario nelle terre dei disvalori. Facendo garrire i valori, nessun mistero ci oltrepassa: invece della crisi, si parla d’altro.

Non sono in questione solo la morte e la vita, come nel caso Englaro. I valori in blocco, cioè l’insieme di virtù e beni, vengono tramutati in espediente, in trucco che distrae. La giustizia, la libertà, l’eguaglianza, la vita, la pace, l’autonomia, il benessere dei più, la moderazione del dialogo politico non sono in sé squalificati: restano beni essenziali, per la costituzione e il cittadino. Ma nello stesso momento in cui sono adoperati a fini di potere si snaturano, trasformandosi in mezzi. Il potere, innalzato a fine, non li serve ma se ne serve per affermarsi e negare l’avversario.

I valori come assillo che finisce col distruggere quel che si vuol restaurare non sono una novità. Apparvero nell’800, in risposta a un nichilismo ritenuto letale per i valori supremi e addirittura per Dio. Oggi tornano in auge, come strumento di lotta all’avversario, deturpando parole e abolendo antiche distinzioni. Secondo Kant ad esempio, sono le cose ad avere un valore (le si fanno valere sulla base d’un prezzo, sono scambiabili) mentre le persone, se considerate fini e non mezzi, hanno una dignità che non si paga ma si rispetta. Basti pensare al termine valore-rifugio: in economia funziona, nell’etica no. Anche la Chiesa si presta a un’operazione che assolutizzando i valori li incattivisce, e non è un caso che il Concilio Vaticano II - con il suo desiderio di vedere la realtà da più punti di vista - sia considerato da tanti un impedimento. Ci sono parole di Giovanni XXIII difficilmente immaginabili oggi: «Qualcuno dice che il Papa è troppo ottimista, che non vede che il bene, che prende tutte le cose da quella parte lì, del bene: ma già, io non so distaccarmi naturalmente, a mio modo, dal nostro Signore, il quale pure non ha fatto che diffondere intorno a sé il bene, la letizia, la pace, l’incoraggiamento». L’arroganza dei valori è da anni prerogativa della destra, ma non sempre fu così. Anche quando si chiamavano virtù, c’era chi non dissociava valori e violenza. Nella Rivoluzione francese Robespierre diceva: «Il terrore è funesto, senza virtù. La virtù è impotente, senza terrore».

I valori degradati a mezzi cambiano il linguaggio, e ci cambiano sfociando nella svalutazione - o trasvalutazione - dei valori. Fin quando sono fini, essi devono costantemente confrontarsi con valori non meno possenti, se vogliono generare regole condivise da chi - pur discordando - deve pur sempre convivere. Se vogliono evitare l’antinomia, che è lo scontro fra norme egualmente primarie ma diverse. Per proteggere il fine, devono scendere a patti. Le costituzioni sono lo sforzo tenace, acribico, di conciliare leggi morali in conflitto tra loro ma egualmente preziose, da preservare una per una (per esempio l’eguaglianza e la libertà, il diritto alla vita e il diritto a dominare la propria morte). Quando invece i valori sono espedienti, possono divenire prevaricatori, visto che il fine è il potere di chi li maneggia: qui è la loro possibile tirannia. Se i valori sono un fine, i mezzi vanno adattati alla loro molteplicità. Se cessano di esserlo, lo scontro si fa feroce e il valore vincente assurge a valore non solo supremo ma unico. Forse per questo esistono pensatori e filosofi non minori che diffidano della parola valore, preferendo parlare di principi, beni o norme.

La crisi economica che traversiamo è tragica, checché ne dica il presidente del Consiglio, proprio perché il politico per padroneggiarla converte i fini in mezzi e viceversa. Perché svaluta valori o li assolutizza, capricciosamente servendosene. La crisi attualizza più che mai quel che Marx scriveva nel Manifesto: «La borghesia non salva nessun altro legame fra le singole persone che non sia il nudo interesse, il "puro rendiconto".(...) Tutto quel che è solido evapora, tutto ciò che è sacro è sconsacrato, e alla fine l’uomo è costretto a guardare con freddo spirito le sue reali condizioni di vita e le relazioni con i suoi simili».

Il valore unico, come il pensiero unico, taglia le ali a altri valori e non preservandoli crea squilibri. Prefigura alternativamente o guerre di tutti contro tutti, o estesi conformismi. Assolutizza perfino i modi del conversare democratico. La scorsa settimana ne abbiamo avuto un esempio. Venuto da fuori, straniero al comune sentire come i persiani delle Lettere di Montesquieu o il bambino di Andersen che scopre il re nudo, un allenatore di calcio (José Mourinho, dell’Inter) ha denunciato la «grandissima manipolazione dell’opinione pubblica», la «prostituzione intellettuale» di tanti giornali, il «pensare onesto» che in Italia fatica a guardare i fatti e s’abbarbica a idee preconfezionate. Ad ascoltarlo c’era da trasecolare: Mourinho sembrava parlasse non del calcio, ma dell’Italia tutta. Subito è stato zittito in nome dei sacrosanti «toni bassi»: quest’altro valore supremo, usato come mezzo per non affrontare il merito di una questione e azzittire avversari o magistrati. Toni bassi abbandonati senza pudore, ogni volta che fa comodo al capriccio dei potenti.
 
 da lastampa.it
 
 
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« Risposta #47 inserito:: Marzo 15, 2009, 09:48:58 am »

15/3/2009 - QUEI ROMENI
 
Habeas vultus
 
BARBARA SPINELLI
 

E’ davvero singolare che chi s’indigna per la messa a nudo dei politici attraverso le intercettazioni, e addirittura parla di complicità dei giornali in turpi linciaggi, non trovi le parole per protestare contro l’uso che viene fatto dei volti di due romeni, Alexandru Isztoika Loyos e Karol Racz, arrestati il 17 febbraio per lo stupro di una minorenne nel parco della Caffarella. Quei volti ci si accampano davanti a ogni telegiornale, e hanno qualcosa di cocciuto, invasivo, conturbante: da ormai un mese ci fissano incessanti, nonostante il Tribunale del Riesame abbia invalidato l’accusa dal 10 marzo, e le analisi del Dna abbiano scagionato i loro proprietari già il 5 marzo. Se ne son viste tante, di gogne: questa è gogna di due scagionati.

Parliamo di proprietari di due volti perché la faccia ci appartiene, è parte del nostro corpo inalienabile. Così come esiste dal Medioevo un habeas corpus, che è il divieto di sequestrare il corpo in assenza di imputazioni chiare, esiste in molti codici quello che potremmo chiamare l’habeas vultus, l’habeas facies: il diritto alla tua immagine anche se sei indagato (articolo 10, codice civile). L’abuso in genere non avviene per gli italiani sospetti di violenza sessuale. Per i romeni è diventata norma, anche se non ce ne accorgiamo più.

Il loro viso è sequestrato, strappato con violenza inaudita, e consegnato senza pudore ai circhi che amano le messe a morte del reietto.

Habeas facies è un diritto che non ha statuto ma è in fondo anteriore all’habeas corpus. In alcune religioni (ebraismo, islam) il volto è sacro al punto da non dover essere ritratto. Vale per esso, ancor più, quello che Giorgio Agamben scrisse anni fa sulle impronte digitali: «Ciò che qui è in questione è la nuova relazione biopolitica “normale” fra i cittadini e lo Stato. Questa non riguarda più la partecipazione libera e attiva alla dimensione pubblica, ma l’iscrizione e la schedatura dell’elemento più privato e incomunicabile: la vita biologica dei corpi. Ai dispositivi mediatici che controllano e manipolano la parola pubblica, corrispondono i dispositivi tecnologici che iscrivono e identificano la nuda vita: tra questi due estremi - una parola senza corpo e un corpo senza parola - lo spazio di quella che un tempo si chiamava politica è sempre più esiguo e ristretto» (Repubblica, 8 gennaio 2004). Agamben aggiunge: «L’esperienza insegna che pratiche riservate inizialmente agli stranieri vengono poi estese a tutti».

Il pericolo dunque riguarda tutti. Quando si comincia a denudare lo straniero, ricorrendo al verbo o all’occhio del video, è il cruento rito del linciaggio che s’installa, si banalizza, e l’abitudine inevitabilmente colpirà ciascuno di noi. Lo ha scritto Riccardo Barenghi il 3 marzo su questo giornale («Alla fine, quanti di noi italiani finiranno nella stessa situazione?») quasi parafrasando le parole del pastore antinazista Martin Niemöller: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari - e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici \. Poi un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».

Il linciaggio ha inizio con una svolta linguistica, cui ci si abbandona non senza voluttà perché il linciaggio presuppone la muta ardente e la muta non parla ma scaraventa slogan, non dà nomi all’uomo ma lo copre con sopra-nomi, epiteti che per sempre inchiodano l’individuo a quel che esso ha presumibilmente compiuto di mirabile o criminoso. Racz diventa «faccia da pugile». Isztoika riceve un diminutivo - «biondino» - che s’accosta, feroce, al diminutivo che assillante evoca le vittime (i «Fidanzatini»). Sono predati non solo i volti e i nomi ma quel che i sospetti, ignorando telecamere, dicono in commissariato. Bruno Vespa sostiene che le intercettazioni «sono una schifezza» e rovinano la persona, ma non esita a esibire una, due, tre volte il video dell’interrogatorio in cui il romeno confessa quel che ritratterà, trasformando la stanza del commissariato in sacrificale teatro circense come per inoculare nello spettatore la domanda: possibile mai che Isztoika sia innocente? Lo stesso fa l’Ansa, che più di altri dovrebbe dominarsi e tuttavia magnifica gli investigatori perché hanno condotto «un’indagine all’antica: decine di interrogatori di persone che corrispondevano alle caratteristiche fisiche delle belve» (il corsivo è mio).

Avvenuta la svolta linguistica il danno è fatto, quale che sia il risultato delle indagini, e i sospettati girano con quel bagaglio di nomignoli, slogan. Rita Bernardini, deputato radicale del Pd, evoca il bieco caso di Gino Girolimoni, il fotografo che negli Anni 20 fu accusato di omicidi di bambine e poi scagionato («Il fascismo dell’epoca trovò il capro espiatorio per rasserenare la cittadinanza di allora e dimostrare che lo Stato era più che efficiente e presente»). Ancor oggi, c’è chi associa Girolimoni all’epiteto di mostro. Damiano Damiani nel ’72 ne fece un film, Girolimoni - Il mostro di Roma, con Nino Manfredi nella parte della belva. Non riuscendo più trovare un posto, Girolimoni perse il patrimonio che aveva e cercò di sopravvivere aggiustando scarpe e biciclette a San Lorenzo e al Testaccio. Morì nel ’61, poverissimo. Ai funerali, nella chiesa di San Lorenzo fuori le mura, vennero rari amici. Tra questi il commissario Giuseppe Dosi, che aveva smontato le prove contro l’accusato: azione avversata da tutti i colleghi, e che Dosi pagò con la reclusione a Regina Coeli e l’internamento per 17 mesi in manicomio criminale. Fu reintegrato nella polizia solo dopo la caduta del fascismo.

Anche se scagionata, infatti, la belva resta tale: più che mai impura, impaura. La sua vita è spezzata. Così come spezzati sono tanti romeni immigrati che l’evento contamina. Guido Ruotolo, su questo quotidiano, fa parlare la giornalista Alina Harhya, che lavora per Realitatea Tv: «Ma da voi non vale la presunzione d’innocenza? Le forze di polizia non dovrebbero garantire il diritto? E invece viene organizzata una conferenza stampa in questura e si distribuiscono le foto, i dati personali, dei presunti colpevoli. Non ce l’ho con la stampa italiana, sia chiaro. Però questo è un fatto. Qui da voi si fa la rivoluzione se un politico viene ripreso in manette e invece nessuno protesta quando si sbatte il mostro romeno in prima pagina» (La Stampa, 3 marzo). Ancora non sappiamo di cosa siano responsabili Isztoika e Racz, ma i motivi per cui restano in carcere appaiono oggi insussistenti e, se i romeni saranno scagionati del tutto, le loro sciagure s’estenderanno ulteriormente: proprio come accadde a Girolimoni, mai risarcito dallo Stato che l’aveva devastato.

La polizia di Stato può sbagliare: è umano. Ma se sbagliando demolisce una vita e un volto, non bastano le parole. Se la comunità intera s’assiepa affamata attorno al capro espiatorio, occorre risarcire molto concretamente. Iniziative cittadine dovrebbero reclamare che i falsi colpevoli non siano scaricati come spazzatura per strada. Nessun privato darà loro un lavoro: solo l’amministrazione pubblica può. Occorre che sia lei a riparare il danno che gli organi dello Stato hanno arrecato.

Se non si fa qualcosa per riparare avrà ragione Niemöl-ler: non avendo difeso romeni e zingari, verrà il nostro turno. Tutti ci tramuteremo in ronde - politici, giornalisti, cittadini comuni - per infine soccombere noi stessi. Le trasmissioni di Vespa sono già una prova di ronda. Le parole di Alessandra Mussolini (deputato Pdl) già nobilitano e banalizzano slogan razzisti («Certo, non è che possono andare in galera se non sono stati loro, ma non cambia niente: i veri colpevoli sono sempre romeni»). Saremo stati falsamente vigili sulla sicurezza: perché vigilare è il contrario dell’indifferenza, del sospetto, e dei pogrom.

da lastampa.it
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« Risposta #48 inserito:: Marzo 22, 2009, 10:24:08 am »

22/3/2009
 
Il silenzio che manca in Vaticano

 
BARBARA SPINELLI
 
C’è forse una parte di verità in quello che si dice delle ultime parole e azioni di Benedetto XVI: comunicare quel che pensa gli è particolarmente difficile. Sempre s’impantana, mal aiutato da chi lo circonda. Sempre è in agguato il passo falso, precipitoso, mal capito. Il pontefice stesso, nella lettera scritta ai vescovi dopo aver revocato la scomunica ai lefebvriani, enumera gli errori di gestione sfociati in disavventura imprevedibile. Confessa di non aver saputo nulla delle opinioni del vescovo Williamson sulla Shoah («Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l'Internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema»). Ammette che portata e limiti della riconciliazione con gli scismatici «non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro». Poi tuttavia sono venuti altri gesti, e l’errore di gestione non basta più a spiegare. È venuta la scomunica ai medici che hanno fatto abortire una bambina in Brasile, stuprata e minacciata mortalmente perché gravida a 9 anni.

La scomunica, che colpisce anche la madre, è stata pronunciata da Don Sobrinho, arcivescovo di Olinda e Recife: il Vaticano l’ha approvata. Infine è venuta la frase del Papa sui profilattici, detta sull’aereo che lo portava in Africa: profilattici giudicati non solo insufficienti a proteggere dall’Aids - una verità evidente - ma perfino nocivi. C’è chi comincia a vedere patologie. Una quasi follia, dicono alcuni. L’ex premier francese Juppé parla di autismo. Sono spiegazioni che non aiutano a capire. C’è del metodo in questa follia. C’è il riaffiorare possente di un conservatorismo che ha seguaci e non è autistico. Sono più vicini al vero coloro che stanno tentando di resuscitare il Concilio Vaticano II, nel cinquantesimo anniversario del suo annuncio, e vedono nella disavventura papale qualcosa di più profondo: l’associazione Il Nostro 58, sorretta da Luigi Pedrazzi a Bologna, considera ad esempio la presente tempesta una prova spirituale.

Una prova per il Papa, per i cattolici, per la pòlis laica: l’occasione che riesumerà lo spirito conciliare o lo seppellirà. Non si è mai parlato tanto di Concilio come in queste settimane che sembrano svuotarlo. Le figure di Giovanni XXIII e Paolo VI risaltano più che mai. Chi legga l’ultimo libro di Alberto Melloni sul Papa buono capirà più profondamente quel che successe allora, che succede oggi. Capirà che quello straordinario Concilio è appena cominciato, e avversato oggi come allora. Quando Papa Roncalli lo annunciò, il 25 gennaio ’58 nella basilica di San Paolo, solo 24 cardinali su 74 aderirono (7 nella curia). Inutile invocare un Concilio Vaticano III se il secondo è ai primordi. Eppure son tante le parole papali che contraddicono errori, avventatezze. Il filosofo Giovanni Reale sul Corriere della Sera ne ricorda una: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Enciclica sull'Amore). Se in principio non c’è un dogma ideologico diventa inspiegabile la durezza vaticana sul fine vita, conclude Reale. Diventa inspiegabile anche la chiusura su profilattici e controllo delle nascite in Africa, dove Aids e sovrappopolazione sono flagelli. In realtà il Papa sostiene, nella lettera ai vescovi, che «il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini, e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento».

È un annuncio singolare, perché chi certifica la catastrofe? E il certificatore non tenderà a un potere fine a se stesso? Se Dio davvero scompare, tanto più indispensabile è l’autorità del suo vicario: una tentazione non del Papa forse - che nell’orizzonte nuovo pareva credere - ma di parte della Chiesa. L’auctoritas diventa più importante dell’incontro con Gesù: urge affermarla a ogni costo. Così come più importante diventa la gerarchia, rigida, astratta, dei valori. In un orizzonte vuoto non restano che astrazione e potere. L’arcivescovo brasiliano afferma il monopolio sui valori, innanzitutto: «La legge di Dio è superiore a quella degli uomini»; «L’aborto è molto più grave dello stupro. In un caso la vittima è adulta, nell’altro un innocente indifeso». E si è felicitato degli elogi del cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione dei vescovi. Né Sobrinho né Re vedono l’uomo: né l’uno né l’altro vedono che la bambina ingravidata non è adulta. Non vedono l’essere umano, il legno storto di cui è fatto: proprio quello che invece vide Giovanni XXIII, alla vigilia del Concilio. Melloni ricorda l’ultima pagina del Giornale dell’Anima di Roncalli, scritta il 24 maggio ’63, pochi giorni prima di morire: «Ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere, anzitutto e dovunque, i diritti della persona umana e non solo quelli della chiesa cattolica. (...) Non è il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio». Comprenderlo meglio era «riconoscere i segni dei tempi».

O come dice Melloni: indagare l’oggi. Vedere nell’uomo in quanto tale il vangelo che parla alla Chiesa, e «non semplicemente il destinatario del messaggio, o il protagonista di un rifiuto, ovvero - peggio ancora - il mendicante ferito di un “senso” di cui la Chiesa sarebbe custode indenne e necessariamente arrogante» (Papa Giovanni, Einaudi, 2009). Questi mesi erranti e maldestri sono una prova perché gran parte della Chiesa non pensa come il Papa: dà il primato alla libertà, alla coscienza, sul dogma. Indaga l’oggi, specie dove l’uomo è pericolante come in Africa o nelle periferie occidentali. Ricordiamo Suor Emmanuelle, che a 63 anni decise di vivere con gli straccivendoli nei suburbi del Cairo, e un giorno scrisse una lettera a Giovanni Paolo II in cui illustrò la necessità delle pillole per bambine continuamente ingravidate. Lo narra in un libro scritto prima di morire (J'ai 100 ans et je voudrais vous dire, Plon). Distribuiva profilattici senza teorizzare su di essi. Giovanni Paolo II non rispose alla lettera. La sintonia con Ratzinger era forte. Ma il silenzio ha un pregio inestimabile, è un’apertura infinita all’umano. Suor Emmanuelle gli fu grata: disse che il suo silenzio era un balsamo. È il silenzio che oggi manca in Vaticano. Il silenzio che pensa, ha sete di sapienza, ascolta. Che non vede orizzonti vuoti. Il Vangelo è sempre lì, va solo compreso meglio. Contiene una verità che sempre riaffiora, quella detta da Gesù a Nicodemo: «Lo spirito soffia dove vuole. Ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va» (Giovanni 3,8). Soffia come il fato delle tragedie greche: innalzando gli impotenti, spezzando l’illusione della forza. Chi fa silenzio o è solitario lo lascia soffiare, afferrato dal mistero.

In Africa, il Papa ha accennato al «mito» della sua solitudine, dicendo che «gli viene da ridere», visto che ha tanti amici. Perché questo ridere? Come capire il dolore umano, senza solitudine? Cosa resta, se non l’ammirazione della forza (la forza numerica dei lefebvriani, evocata nella lettera del 12 marzo) e l’oblio di chi, impotente, incorre nell’anatema come il padre di Eluana, la madre della bambina brasiliana, i malati che si difendono come possono dall’Aids? Per questo quel che vive il Papa è prova e occasione. Prova per chi tuttora paventa gli aggiornamenti giovannei, e sembra voler affrettare la fine della Chiesa per rifarne una più pura. Prova per chi difende il Concilio come rottura e riscoperta di antichissima tradizione. La tradizione del rinascere dall’alto, dello spirito che soffia dove vuole: vicino a chi crede nei modi più diversi.

da lastampa.it
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« Risposta #49 inserito:: Marzo 29, 2009, 11:38:06 am »

29/3/2009
 
Il coma dell'anima
 
BARBARA SPINELLI
 
Non è solo il corpo a esser sequestrato, dalla legge che il Senato ha approvato sul testamento biologico. Molte cose giuste sono state scritte sullo Stato espropriatore, ma la presa di possesso oltrepassa l’organico. È la vita a essere sequestrata, nel suo scabroso intreccio tra materia e spirito, corpo e anima. Più precisamente, è l’idea che da millenni ci facciamo del vivere bene, che non è mero vegetare ma vivere pensando, ragionando, capendo chi soffre. In questo viver bene, il pensiero della morte è, oltre che centrale, il più vitale dei pensieri. Non è il finale segmento della strada terrena, ma quel che le dà profondità, sapore. Per la filosofia antica, a cominciare da Platone, l’esistere saggio consiste proprio in questo: nel prepararsi alla morte, l’anima impara a esser «tutta raccolta in sé»; s’abitua a vivere «senza impacci», più liberamente sceglie la virtù.

Socrate parla nel Fedone di questo prepararsi e lo chiama esercizio di morte, melete thanatou: allenamento, meditazione. Un po’ più tardi, Seneca e Marco Aurelio diranno che ci si allena vivendo ogni giorno come fosse l’ultimo: non per fatalismo ma per aguzzare l’intelligenza, la perfezione.

Posso vivere bene o male il mio giorno: ma se è l’ultimo il bene peserà di più e anche il male, non potendolo più riparare. Il testamento biologico doveva essere proprio questo: una preparazione del fine vita e un ripensare la vita stessa, un rammemorarla, un predisporre autonomamente la sua conclusione in caso di non-coscienza, senza ledere il prossimo e senza dipendere da tutori non scelti. Doveva essere un esercizio di morte: un atto del vivere bene.

La legge approvata in Senato, se non sarà cambiata dalla Camera, non lo permette. La Dichiarazione anticipata non è vincolante (articolo 7 della legge), e contro la nostra volontà dovremo esser nutriti e idratati artificialmente. La legge e lo Stato non si limitano a gestire al nostro posto i corpi, ma meditano, si esercitano, vivono insomma, al nostro posto. Chi si esercita a morire è sentinella - il verbo greco ha la stessa radice. Vivere bene è vigilare su di sé, darsi da soli una legge (questo è: auto-nomia). È lo Stato a divenire ora sentinella, non solo ai confini d’un territorio geografico ma alle frontiere stesse dell’essere. Diventa bio-potere, bio-politica: due parole che Michel Foucault coniò nei primi Anni 70, quando studiò la clinica e la metamorfosi della medicina. Il sovrano che decide della vita e della morte non lascia solo vivere ma «fa vivere»: complice della tecnica, della scienza, di una Chiesa sbandata, determina i cicli vitali. Beppino Englaro non ha torto quando dichiara: «Adesso lo Stato si crede Dio». Fini, parlando della legge ieri al Congresso Pdl, ha ammonito contro lo Stato etico e l’abbandono dello Stato laico.

Molto più del corpo è dunque in gioco. Sono in gioco l’essere dell’uomo e l’antichissima arte medica, già in mutazione secondo Foucault dalla fine del ’700. È quel che fa capire Umberto Veronesi, quando il 18 marzo dice in Senato: «La medicina tecnologica moderna è in grado di spostare il termine della vita al di là della morte naturale, introducendo una vita artificiale che permette agli organi del corpo umano di rimanere vitali, anche senza attività cerebrale, senza coscienza, senza pensiero, senza vista, udito, parola». Nutrimento e idratazione forzati dei comatosi non sono trattamenti terapeutici ma «forme di sostegno vitale», dice la legge, e anche questo è opinabile. Il trattamento forse non è terapeutico ma di sicuro è sanitario (Veronesi ha descritto crudamente l’inserimento di tubi nei corpi), e fa violenza anch’esso alla natura e a Dio. Foucault parla, a proposito della nascita della clinica, della fine della medicina aspettante e dell’avvento della medicina interventista, tecnologica. Il medico aspettante non rompe il rapporto con la natura. Spera di dominarla meglio, ma conosce il limite, non punta ad annullare la morte, la sua necessità. I rivoluzionari del ’700 crearono le cliniche non solo istituendo un nuovo clero - i medici pagati con i beni confiscati alla Chiesa - ma presumendo addirittura di abolire la malattia.

Quando lo Stato s’impadronisce dell’esercizio di morte non nega all’uomo solo la libertà. Gli toglie la responsabilità: quella di riconoscere la finitezza dell’essere. Per questo non è appropriato parlare esclusivamente di diritti calpestati. Calpestato è il senso del dovere che impregna il viver bene, se è vero che il pensiero della morte, per chi voglia redigere il più importante dei testamenti (quello che riguarda non gli averi, ma l’essere) è meditazione sul proprio presente e memoria di una vita fatta di emancipazioni.

Il contrario dell’esercizio di morte è l’indifferenza e dunque più fondamentalmente: la perdita di controllo su di sé, l’anticipato coma dell’anima. Per lo Stato che monopolizzando ogni cosa si sostituisce alla natura, il cittadino comatoso è l'ideale. Non contano l'uomo e i suoi modi scritti o verbali di allenarsi alla morte. Conta il corpo nudo, «gettato lontano» nelle cliniche, come scrive Rilke nel Malte Laurids Brigge. Contano il sovrano, e le macchine con cui esso piega la volontà delle persone. Quella che viene strappata all’uomo, in realtà, è la condizione di maggiorità (la sua Mündigkeit, direbbe Kant). Non a caso il sottosegretario Eugenia Roccella paragona il comatoso irreversibile, trafitto anche senza volerlo da sonde nutritive, a un neonato nutrito col biberon.

Chi immaginava un vero testamento biologico dovrà ricordarlo. Come quel neonato dovrà vedersi da ora in poi allo specchio, se la legge passerà: infantilizzato, dotato di diritti dell’infanzia ma gettato nella prigione del coma senza aver potuto sventare in tempo lo stato di minorità. Dovrà vedersi non come bamboccione ma addirittura come lattante, titolare di diritti ma privo di responsabilità.

La maggiore età è per Kant la facoltà che ciascuno possiede di determinare se stesso, di parlare e pensare per proprio conto in indipendenza e libertà, di sfuggire la minorità. È così comodo esser minorenni, e lusinghiero per chi ci vorrebbe poppanti: «A far sì che la stragrande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo mostrano a esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole» (Kant, Risposta alla domanda: cos'è l'Illuminismo?).

Chi aspira alla maggiorità si guarderà dall’esaltare valori supremi, che sempre hanno qualcosa di guerresco: abbassando ogni altro valore, il Valore Supremo diventa Unico. Il bello delle costituzioni è di ammettere le contraddizioni (c’è il valore della vita, ma anche il rispetto dell’autodeterminazione personale). Trovare un equilibrio tra valori significa non vederne più di supremi. È una delle forme del viver bene, e della laicità.
Vivere bene vuol dire anche, per chi auspica veri testamenti biologici, ascoltare punti di vista diversi (come fa la Costituzione). È vero che togliere cibo e acqua è rischioso eticamente: se mi affido a un medico, devo non temere - lo diceva il filosofo Jonas - che si trasformi in boia, servendo magari interessi estranei (i trapianti, il desiderio di sbarazzarsi dei vecchi in società senescenti). È vero che urge perfezionare le terapie del dolore, perché spesso più che morire temiamo il soffrire. Sono obiezioni sostanziali; vanno ascoltate: purché il malato non sia ridotto a lattante.
 
da lastampa.it
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« Risposta #50 inserito:: Aprile 05, 2009, 11:23:41 am »

5/4/2009
 
La crisi come una guerra
 
BARBARA SPINELLI
 

Man mano che s’estende e s’aggrava, la crisi economica che traversiamo somiglia sempre più all’esperienza che l’uomo fa della guerra. È violenta, e suscita nel popolo violenza, ira. Chiude le porte dell’avvenire, troncando non solo le vite ma i progetti, le aspettative che oltrepassano l’immediato presente. Le sue due prime vittime sono il tempo lungo e la verità. Al pari dei generali, i governanti tendono a esecrare le cattive notizie che gli organismi internazionali diffondono ogni ora sulla ricchezza delle nazioni che scema, sulla disoccupazione che cresce. Le brutte notizie pubblicizzano i mali, aprono finestre che sarebbe preferibile tener chiuse, permettono alle lingue di sciogliersi, di sfatare menzogne dette per decenni sulle intrinseche virtù del mercato.

Nella sete di verità e nella sua divulgazione non si vede che disfattismo, questa passione triste che tenta il soldato in trincea. In parte per pigrizia, in parte per vigliaccheria, i governanti sembrano quasi voler curare il male con i mali che l’hanno scatenato: con l’illusionismo, con il nascondimento dei rischi, con il pensare-positivo che ignora i pericoli, con l’escamotage. Non con l’analisi psicologica ma con il coaching, l’incoraggiamento sbrigativo che ti riconforta scansando non tanto il pessimismo, ma il realismo. Non con lo sguardo proiettato sul domani, ma con l’istante che l’abolisce. Quel che diceva Samuel Johnson della guerra, in un articolo del 1758, s’adatta all’oggi in maniera impressionante: «Fra le calamità della guerra andrebbe annoverata la diminuzione dell’amore della verità, ottenuta tramite le falsità che l’interesse detta e che la credulità incoraggia».

Il gruppo dei 20 Paesi riunitosi giovedì a Londra s’è sforzato di uscire dalle pigrizie, e anche di far luce su quel che tanti vorrebbero oscurare: ad esempio su alcuni paradisi fiscali, o sui conti bancari segreti. Ma il fastidio che la verità incute nei governanti resta intenso, specie in Europa. Sarkozy ha perso la pazienza qualche giorno fa, irritato dalle cifre pessimiste che circolano a Bruxelles. E il fastidio è forte nel governo italiano. L’Italia è più impreparata alla crisi di quanto il potere voglia far credere, ma il capo del governo è aggrappato al pensare-positivo come ci si aggrappa a una droga. Il contrario del pensare-positivo non è per lui altro che pensare-negativo: non è verità, necessità. Le colpe sono sempre di altri, e in particolare degli organismi internazionali che sfornano ogni giorno cifre più allarmiste: l’Ocse è invitata a «star zitta», i commissari europei «a lavorare piuttosto che far prediche ai governi» e «disturbarne» il lavoro. Così facendo Berlusconi ammette il disastro: chiede di non renderlo pubblico. Eppure la verità è rimedio essenziale, e chi comincia a dirla già compie metà del cammino, già si esercita a veder più lontano e più chiaro.

Solo se si conosce l’ampiezza del male e la sua natura, solo se si discerne l'enorme mutazione che sta avvenendo e se si guardano in faccia le violenze e i conflitti sociali che s'accompagneranno alla mutazione, si può pensare di uscire dal disastro non distrutti. La verità è un’etica e al tempo stesso un farmaco contro il pensare positivo o negativo: nelle tragedie, è il punto in cui l’eroe accecato o colpevole si trasforma grazie alla peripezia, al rovesciamento di cose che parevano avere un senso e d’un tratto ne hanno un altro. La medicina della verità, Kant la chiama pubblicità: che non è réclame ma è il dibattito fra opinioni diverse reso pubblico, la rinuncia del potere alla segretezza dispotica, le istituzioni comuni che prima ancora d'esser democratiche si fanno repubblicane, appartenenti alla sfera pubblica. Il rischiaramento dei Lumi e il sapere aude! (osa sapere!) che Kant invoca permettono all’uomo di diventare cittadino e alle nazioni di divenire cosmopolite: l’uno e le altre non più responsabili solo verso se stessi.
Non so cosa pensi Sergio Marchionne del grande crollo ma non è del tutto improbabile che la sua visione del futuro sia scabrosa, non ottimista: che veda un domani dove l’auto sarà un peso, costoso e dannoso per il pianeta. Che proprio questa visione l’abbia spinto a innovare radicalmente e conquistare l’America. La mutazione del mondo è la cosa più difficile da vedere, governare. È difficile per l’America, che fatica a smettere l’egemonia. Ma non è meno difficile per gli europei, che alla trasformazione rispondono concentrandosi su singoli duelli con Obama, e chiedendo che l’America ripari il riparabile visto che è stata lei a sfasciare. L’ascesa di nuove potenze come Cina e India è un’ulteriore verità che disturba il loro sonno dogmatico, e il mal dissimulato desiderio di ricominciare la storia di ieri: una storia in cui l’Unione europea brilla forse per intelligenza, ma non per capacità di guida e responsabilità mondiale. Quando Berlusconi dice che il vertice veramente importante sarà quello degli Otto Grandi alla Maddalena, quando i governanti europei parlano della crisi come di una burrasca passeggera, la presa di coscienza è rinviata e il rovesciamento tragico lontano.

La verità di cui si teme il disvelamento è che la piccola élite del G8 è sorpassata, non è neanche più élite. Le idee nuove sulla crisi sono venute non dall’Europa o dall’America ma dalla Cina, che con realismo vede il declino del dollaro e con questa visione attrae un numero crescente di Paesi: non solo il governo russo che per primo ha denunciato il pericolo del dollaro-moneta di riserva mondiale ma anche Indonesia, Filippine, Malaysia, Argentina, Venezuela. La Cina non solo è più inventiva: il racconto che fa del mondo - lo spiega bene lo storico Paul Kennedy sull’Herald Tribune del 2 aprile - fotografa il reale e le necessità del domani con fedeltà difficilmente confutabile.

Il racconto veritiero sul mondo che abitiamo - il filosofo Paul Ricoeur lo chiama la «narrativa» - è da tempo usato nelle terapie dei tossicodipendenti, per la ricostituzione di identità frantumate. È utile anche per la tossicodipendenza delle nostre società e dei loro governanti: aiuta a comprendere meglio le rivolte che si estendono, la questione sociale che si risveglia, Marx che secondo Paul Kennedy rinasce. È futile parlare di piagnoni o fannulloni: i tumulti di questi giorni a Londra e Strasburgo, ma ancor più i sequestri di manager o l’ira contro i ricchi che si moltiplicano in Francia, sono segni ominosi. Alle rivolte partecipano sempre più lavoratori - scrive il sociologo Carlo Trigilia che le analizza con lucidità - e a esse occorre replicare riconoscendo gli effetti sociali della crisi e dando ai minacciati più giustizia e protezione (Sole- 24 Ore, 2 aprile). Anche Obama ha parlato di violenza, vedendola come fenomeno della società-mondo, e sembra desideroso di opporre un suo racconto della crisi al racconto ostile che va gonfiandosi. Ha cominciato col descrivere il proprio Paese, denunciando la fede nel mercato che per anni l’ha cattivato e annunciando che l’America di domani non sarà più il Paese che era: «Voracemente consumatore», drogato dall’indebitamento, incapace di risparmiare. Un mercato ideale per tanti.

In un saggio scritto nel 1926 su Montesquieu, Paul Valéry racconta la Francia prima della rivoluzione e narra un Paese arguto ma smarrito: «Senza che nulla di visibile sia mutato (nelle istituzioni dell’epoca), esse non hanno più altro che la bella presenza. Il loro avvenire si è segretamente esaurito. Il corpo sociale perde dolcemente il domani. È l’ora del godimento e del consumo generalizzato». È un Settecento adorabile e tuttavia viziato, senza futuro. Non diverso da quello dipinto da Samuel Johnson: affetto da credulità, interesse miope, disamore della verità. Un mondo che precede le guerre, le rivoluzioni, e se tutto va bene le grandi trasformazioni.
 
da lastampa.it
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« Risposta #51 inserito:: Aprile 19, 2009, 05:12:30 pm »

19/4/2009
 
La nostra infinita emergenza
 

BARBARA SPINELLI
 
Sono ormai anni che viviamo nell’emergenza, e quasi non ci accorgiamo che ogni mossa, ogni parola detta in pubblico, ogni sopracciglio intempestivamente inarcato, son sottoposti a speciali esami di idoneità, che mescolano etica e estetica, dover essere e presunto buon gusto. La mossa, la parola, il sopracciglio, devono adeguarsi all’ora del disastro: sia esso attentato terroristico o ciclone, tsunami o terremoto. Chi rompe le righe si copre di colpe, prestamente censurate. Vergogna e indecenza sono il marchio impresso sulla fronte di chi non ha tenuto conto del perentorio buon gusto. L’emergenza è diventata una seconda pelle delle democrazie, e per questo non ci accorgiamo quasi più dell’anormale convertito in normale: delle libertà che per l’occasione vengono sospese, dell’autonomia di giudizio che vien tramutata in lusso fuori luogo.

È un po’ come il corno che cresce d’improvviso sulla fronte di tutti i concittadini di Bérenger, protagonista dei Rinoceronti di Ionesco: arriva il momento in cui la protuberanza è talmente familiare ed estesa che chi non la possiede si sente un reietto, e lo è. Anche durante il terremoto in Abruzzo è stato così, e questo spiega lo scandalo assolutamente abnorme generato da una trasmissione televisiva - Anno Zero di Santoro - che era un po’ diversa dalle altre perché fondata sulla denuncia polemica: dell’organizzazione dei soccorsi, e soprattutto della secolare commistione fra affari, corruzione, malavita, edilizia.

Indecente è stata definita la trasmissione, perché questa non era ora di far scandalo: di «seminare zizzania con i morti ancora sotto le macerie, di descrivere l’Italia come il solito Paese di furbi, incapaci di rispettare ogni legge scritta e morale», ha scritto Aldo Grasso sul Corriere della Sera, l’11 aprile. Lo spazio smodato dato su giornali e telegiornali all’evento è esemplare, perché conferma una malattia democratica diffusa. Incapaci di dominare eventi più grandi di loro, le democrazie vivono sempre più di emergenze, ne hanno bisogno esistenziale. A partire dall’ora in cui è pronunciata la frase fatale: «Questo non è il momento», già è stato di eccezione. In tempi normali è proprio questa l’ora delle controversie. Se non nel mezzo del disastro, quando farne l’archeologia e denunciare?

Non così in stato d’eccezione, quando è il regnante a decretare natura e vincoli del momento. La sua sovranità è essenzialmente sulla vita e la morte, e il momento è dunque quello delle bare allineate, del supremo dolore, del lutto vissuto nell’unanime afflizione. Grazie a questo momento si crea un’unità magica, propizia all’intensificazione massima della sovranità. Viene mobilitato anche l’Ecclesiaste: «C’è un tempo per demolire e un tempo per costruire». La Bibbia per la verità parla all’anima, ma nell’emergenza anima e politica si fondono. Assieme, esse giustificano lo stato d’eccezione che sempre esordisce con la soppressione, non si sa se davvero provvisoria, di libertà e abitudini alla critica vigenti in epoche di pace. Giorgio Agamben, che ha studiato tale materia, racconta come morte e lutto siano ingredienti dello stato d’eccezione sin da Roma antica: l’emergenza si chiamava iustitium, e in quei giorni veniva abolito il divieto di mettere a morte un cittadino senza ricorso a un giudizio popolare (Agamben, Lo Stato di eccezione, Torino 2003).

Stato d’eccezione o emergenza sono in realtà imbellimenti di quel che effettivamente accade, camuffano lo stato di guerra: per l’Oxford English Dictionary, sono suoi sinonimi, eufemismi. È in guerra che i comportamenti liberi, biasimatori, son ribattezzati disfattisti. Nell’emergenza guerra, disastro e morte richiedono un dover-essere e un dover-dire. È a questo punto che lo stato di eccezione si tramuta in regola, e il sistema giuridico politico in «macchina di morte». La morte fa tacere il popolo e al tempo stesso nutre il sovrano. È il grande correttore, regolatore: non dici cose scomposte davanti a una salma, anche se veritiere. Il potere usa la morte: diviene necrofago. L’uomo colpito da catastrofe è ridotto a vita nuda e quest’ultima sovrasta la vita buona, prerogativa di chi tramite la politica e la libera opinione esce dalla minorità. La nudità politica, scrive Hannah Arendt nelle Origini del Totalitarismo, può esistere anche senza diritti civili.

Il fenomeno non è nuovo, Agamben lo spiega molto bene. I giorni dello iustitium sono anche i giorni in cui si celebra il lutto del sovrano. Leggi e libertà non sono abolite ma sospese, perché l’essenza del potere (potere di vita e di morte) non appaia vuoto. Da allora ogni disastro, naturale o terrorista, è occasione di affermare tale essenza. Di mettere in scena non il morire o il multiforme soffrire dei cittadini, ma la possibile morte del sovrano e della stessa politica. L’unità si fa non attorno alle salme ma al sovrano, il quale dice: «Sono io in causa, e la vera posta in gioco è la dilazione della mia messa a morte, l’anticipazione rituale del lutto della mia persona».

Nella storia della democrazia c’è anche questo: l’eccezione che cessa d’esser tale, facendosi regola. Che non proclama più giorni di lutto, ma epoche. Tutto è guerra, in permanenza si tratta di riconfermare il sovrano unendo il mio col suo, la solidarietà emotiva di cui ho bisogno io e quella di cui necessita lui. L’idea che tale sia la guerra moderna nasce nel ’14-’18, ed è teorizzata da uno dei suoi protagonisti, Erich Ludendorff, nella Guerra Totale scritta nel 1935. Nella guerra democratica totale scompare la distinzione tra fronte e retrovia, militari e civili (Heimatfront è la fusione hitleriana - animista, dice Ludendorff - tra fronte e patria). Il governo delle emozioni permette di metter fra parentesi libertà e norme, e in questo ha le stesse funzioni della violenza fuori-legge. Il giornalista che aderisce agli imperativi di tale emergenza distrugge il proprio mestiere.

Nei disastri c’è chi soffre, chi governa, chi racconta (messaggero nella tragedia antica, giornalista oggi) e chi indaga rammentando. Ogni ambito ha un suo dover-essere, una sua autonomia. Se la priorità per il messaggero sono i sofferenti, si racconterà tutto quel che essi provano: gratitudine ma anche rabbia, sollievo per i soccorsi e ira suscitata da uno Stato complice di speculazioni edilizie. Chi ha letto Gomorra, ricorderà quel che Saviano scrive nel capitolo sul cemento armato, «petrolio del Sud», a pagina 235-236: «Tutto nasce dal cemento. Non esiste impero economico nel Mezzogiorno che non veda il passaggio nelle costruzioni: appalti, cave, cemento, inerti, mattoni, impalcature, operai… L’imprenditore italiano che non ha i piedi del suo impero nel cemento non ha speranza alcuna. È il mestiere più semplice per far soldi nel più breve tempo possibile.… Io so e ho le prove. So come è stata costruita mezza Italia. E più di mezza. Conosco le mani, le dita, i progetti. E la sabbia. La sabbia che ha tirato su palazzi e grattacieli. Quartieri, parchi e ville. A Castelvolturno nessuno dimentica le file dei camion che depredavano il Volturno della sua sabbia... Ora quella sabbia è nelle pareti dei condomini abruzzesi, nei palazzi di Varese, Asiago, Genova».

L’emergenza, come la guerra, ha sue leggi speciali. Non sono le leggi della dittatura, perché la dittatura crea nuove leggi. Lo stato d’eccezione permanente è più insidioso: non instaura regolamenti nuovi, ma sospende leggi e libertà creando vuoto legale, anomia. L’Ecclesiaste a questo punto non è parola di Dio, ma decreto del sovrano che assieme al giornalista-messaggero invoca unanimismo. Il giornalista nega se stesso, quando consente a mettere sullo stesso piano gli abusi dell’edilizia e gli «abusi di libertà» di chi punta il dito su tali abusi: invece di vigilare, giustifica - per sé e i concittadini - lo stato d’eccezione.

da lastampa.it
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« Risposta #52 inserito:: Maggio 03, 2009, 12:00:11 pm »

3/5/2009
 
Il sequestro non è mai un gioco

 
BARBARA SPINELLI
 
E’ dagli inizi di marzo che sugli schermi televisivi, in Francia, va in onda un peculiare e ripetuto spettacolo: il sequestro dei manager, ormai comunemente chiamato bossnapping. È accaduto allo stabilimento della Sony e a Caterpillar, a 3M e Continental, a Molex e in una filiale della Peugeot. Il sequestro può durare ore o giorni, e in genere è presentato quasi fosse una fiaba a lieto fine: gli operai che l’hanno organizzato sono soddisfatti per l’aumento di stipendio ottenuto o il licenziamento evitato, il boss esce dalla prigionia sotto i fischi non solo dei sequestratori ma della gente che sta da quelle parti. Poco fiabeschi sono tuttavia i volti dei sequestrati: lo sguardo è sperduto, i capelli spettinati, si vede che la paura li ha abitati e un male è stato commesso.

Per il sequestrato la piccola rivoluzione non è stata un pranzo di gala: fatto di serena cortesia. I sequestratori insistono su questa delicata serenità, si definiscono non maoisti ma pragmatici - volevamo solo esser riconosciuti, non c’era in noi risentimento - ma dal punto di vista del sequestrato il distinguo è insensato.

Dal loro punto di vista la violenza è stata inaudita: se ti chiudono in una stanza per strapparti concessioni non sai come andrà a finire e chi deciderà l’epilogo. La frontiera che separa il gioco dal processo e dall’esecuzione è labilissima. Jean Starobinski racconta come in un attimo si passò, nel ’700, dalle graziose altalene di Fragonard alla ghigliottina.

Questa labile frontiera svanisce, nei racconti dei carcerieri. Marx aveva detto che «la storia si ripete sempre due volte: la prima in tragedia, la seconda in farsa». E i carcerieri pur volendo esser seri usano scientemente il vocabolario della farsa giocosa. Dopo il sequestro di quattro dirigenti alla Scapa, un sindacalista ha dichiarato: «Li abbiamo solo trattenuti, non sequestrati. Il nostro atteggiamento era zen. I sequestrati potevano uscire dalla stanza a fumare, bere il caffè. La mattina gli portavamo il croissant, anche se ovviamente dalla fabbrica non potevano uscire». Ecco il peculiare, nelle rivolte di questi tempi di crisi: sono certo violente - come definire altrimenti una prigionia che esordisce con un cornetto ma non sai come finisce? - e però son presentate addirittura come zen. Nell’epoca di Mao la rivoluzione non era un pranzo di gala o un ricamo, ma un atto di violenza. Oggi è proprio questo: croissant, ricamo cortese. Tutto ciò sarebbe plausibile e non sinistro se non fosse per quei volti visti in televisione, impalliditi. Per loro non è stato ricamo ma violenza illegale, gioco che impaura. Prima ti danno il cornetto poi magari qualcuno perde la pazienza e non gioca. La storia che si ripete in farsa è una delle inanità dette da Marx. La violenza non è meno lesiva se la chiami farsa.

Tuttavia è l’elemento farsesco a esser sottolineato, con effetti insidiosi perché la leggerezza facilita il contagio. Oskar Lafontaine (ex ministro delle Finanze, oggi leader della sinistra radicale tedesca) è giunto fino a sollecitare l’imitazione, il 24 aprile: «Quando i lavoratori francesi in collera sequestrano i padroni, desidererei che accadesse anche qui». Più allarmato, Epifani teme le emulazioni e mette in guardia contro un sindacato che dovesse esser debole come in Francia, e tanto più corrivo. È la corrività diffusa che impressiona in Francia. Corrività estesa ai politici, che sembrano come confortati da quel che accade: non è lo Stato il Leviatano sotto tiro. Il Leviatano è l’astratto, inafferrabile Mercato.

Il sociologo Carlo Trigilia ha detto cose pertinenti in proposito. Ha scritto che il fenomeno francese deve suscitare più inquietudine vera, e perciò più azioni. Che bisogna riconoscere gli effetti sociali della crisi, esporli con maggiore trasparenza, e dare ai minacciati maggiore giustizia e sicurezza. Gli operai dopo decenni di latitanza tornano a lottare con mezzi illegali, e questo rende i sequestri un evento di grande rilievo (Il Sole-24 Ore, 2 aprile 2009)

Ma c’è qualcosa di più negli eventi francesi, ed è la scherzosa popolarità di cui godono, non solo in Francia, le violenze anti-manager. Specialmente premonitorio è il film Louise-Michel di Kervern e Delépine, adorato anche in Italia. La storia narra di lavoratori che un mattino s’accorgono che la fabbrica è delocalizzata. Sperduti ma battaglieri, decidono che la via a questo punto è una sola: buter le chef, far fuori il capo. Probabilmente ogni azione violenta comincia così, con una freddura buttata lì a casaccio. Tutto è buttato lì a casaccio e si trasforma in comica, nel film. Il killer ingaggiato è un asso di maldestra idiozia, e il pubblico ride: quasi troppo. La violenza è edulcorata, ordinaria: proprio così si fa epidemica.

Due cose colpiscono innanzitutto nei bossnapping, rivelatrici ambedue dello spirito del tempo. In primo luogo: la distinzione che vien fatta tra legale e legittimo. Il sequestro è certo illegale, in Francia è punito severamente. Ma il legale s’appanna, completamente sommerso dalla categoria della legittimità come da quella, dichiarata superiore alle norme, dei valori. Può non esser legale il mio agire, ma il contesto e i valori lo rendono comprensibile e poi giustificato. La distinzione è antica vena francese: le mobilitazioni per Cesare Battisti o altri ex terroristi italiani hanno questa radice.

Il secondo aspetto riguarda la figura del ribelle. È una figura che s’è banalizzata, contaminando la politica oltre all’escluso. Ci sono leader che su tale caratteristica hanno edificato un carisma, meticolosamente coltivato. Sarkozy e Berlusconi si sono costruiti come ribelli, sovrapponendo spesso il legittimo al legale. In qualche modo son figli del ’68 che tanto esecrano, e della cultura Do It Yourself che secondo lo studioso Xavier Crettiez nasce dal ’68. La cultura DIY significa: fai le cose a modo tuo, null’altro ti servirà e tanto meno rispettare le leggi e il «teatro della politica». Quel che è legale, sono io a dirlo. Il mio scopo è realizzarmi, senza badare ad altri. Se sei licenziato trovati qualcosa da fare, dice Berlusconi. Trovati un marito ricco. La chiamano ribellione del futile: fuck off è il suo motto.

La banalizzazione della violenza spinge il politico e gli stessi manager a passarci sopra, illudendosi che la furia si spenga per stanchezza o noia. Quasi nessun sequestrato ha sporto denuncia e Sarkozy, che tiene a esser uomo forte, è imbarazzato. Lo è ancor più perché è sotto influenza dei sondaggi, e questi sono al momento univoci. Il più significativo è quello dell’istituto Csa, all’inizio di aprile. Quasi la metà dei francesi approva i sequestri, e la cosa impressionante è la divisione per età. È la generazione di mezzo - quella del ’68 - che antepone la legittimità alla legalità. I più favorevoli ai sequestri hanno tra 40 e 64 anni (la percentuale più alta, 52 per cento, è fra i 50 e 64. In questa generazione c’è il numero più basso di contrari). Tra i giovanissimi, invece (18-24 anni), i favorevoli ai sequestri sono il 38 per cento, e quelli che li giudicano inaccettabili sono la cifra più alta in tutte le età: 62.

Il nuovo ribelle esprime risentimento ma anche altre passioni. L’uomo in rivolta di Albert Camus lo descrive come qualcuno che in prima linea invoca riconoscimento: «Non difende solo un bene che non possiede e la cui privazione lo frustra. Chiede che sia riconosciuto qualcosa che possiede, e che per lui è più importante di quel che potrebbe invidiare»: il lavoro, uno statuto riconosciuto nella società. Quel che il ribelle moderno dimentica di Camus è il senso della misura che deve correggere il vitalismo ribellista. In Camus è scritto: «Per esser uomo, bisogna rifiutare di essere Dio»: una frase che suscitò l’ira di Sartre e Breton. Sartre ha oggi di nuovo seguaci, ma chi vede lontano resta pur sempre Camus.

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« Risposta #53 inserito:: Maggio 06, 2009, 06:01:05 pm »

6/5/2009
 
Il privato uccide la politica
 

BARBARA SPINELLI
 
Sarebbe bello poter ignorare del tutto, forti della cecità del veggente, quel che accade o che è accaduto dentro il recinto di casa Berlusconi. Si vorrebbe dal politico la fuoriuscita dall’abitazione privata, il suo spostarsi nell’agorà dove il privato non entra ma vien pudicamente lasciato in anticamera, come il cappotto che attacchi al gancio quando ti metti al lavoro e non ti occupi solo di te. Si vorrebbe non sapere quasi nulla dell’uomo politico, se non quel che riguarda il bene comune, che appartiene alla res publica: nulla delle sue notti o delle sue vacanze, delle sue barche o delle sue tribali parentele, nulla neanche del suo credere o non credere in Dio. La Cosa Pubblica sarebbe bello che fosse uno spazio molto ristretto e non straripante: un piccolo lembo di terra dove l’umanità fa politica. Si esercita nel mestiere di cittadina votando o giudicando, governando o facendosi governare. A partire dal momento in cui diciamo che il privato è politico, abbiamo ucciso la politica. L’abbiamo dilatata oltre misura, e al tempo stesso l’abbiamo resa inafferrabile, illimitata, informe. Secoli di pensiero politico e filosofico hanno cercato di delimitare l’ambito in cui l’uomo è animale politico, per salvaguardare qualche pezzetto almeno di indistruttibile intimità. La fatica non è finita. La privatizzazione della politica - e della guerra, della pace - è una nave con vele gonfiate di nuovo da forti venti. Quel che il sovrano fa nella camera da letto o nelle camere da letto è affare della nazione.

Il politico che oggi si lamenta di questa degradazione farebbe bene a meditare quello che ha fatto e come l’ha fatto, perché si giungesse a tale baratro e perché le pareti della sua personale dimora smettessero di esser fatte di pietre e si trasformassero in lastre di vetro, trasparenti al mondo. Sarkozy soffrì la messa in scena del proprio divorzio da Cécilia, e s’indispettì con la stampa famelica. Aveva ragione, la stampa davvero è famelica: chiacchiere e gossip sono diventate il pane quotidiano che mastica e che fanno masticare. Ma questa fame fu lui a provocarla, facendo politica coi suoi matrimoni, le sue gite in yacht, i suoi occhiali Ray-Ban. Fu lui a orchestrare, quasi una piccante serie tv, la banalissima leggenda del suo matrimonio con Cécilia: prima idilliaco, poi infranto, poi salvato, infine spezzato. I rotocalchi che imitano l’americano People s’impossessarono del melodramma, e i giornali seri si misero al passo. I francesi, che amano i neologismi, inventarono la parola pipolisation: la politica sommersa dallo spirito people, quando non sa bene quel che deve fare e che può. L’obiettivo di Sarkozy era di affascinare la provincia più che la capitale, l’elettore assetato di storielle più che di storia. Funzionò il tempo della campagna elettorale ma poi la tanto encomiata nuova trasparenza inciampò. Con Carla Bruni la golosità di giornali e pubblico continuò, ma l’Eliseo si fece più sommesso.

L’imperatore che si mette in scena nudo sarà nudo sempre e necessariamente dovrà sopportarne gli infortuni. È spogliato in partenza, prima ancora che il bambino lo scorga e dica: «È nudo». In un blog (ghostwritersondemand.splinder.com) si legge del «raro horrorshow» che da qualche giorno va in onda in Italia: «Come se il re, nudo, mostrasse di non avere un sesso (o di averne tre, tutti diversi, o di essere tutto un solo, gigantesco sesso indistinto)». Così successe anche a Clinton, quando il gorgo dell’intimità parve risucchiarlo assieme a Monica Lewinsky. Sia pure molto diversa, la pubblicità data alla conversione religiosa di Tony Blair ha le stesse caratteristiche della politica che s’affaccia incongruamente sull’intimo. Son tutte cose che non riguardano l’agorà, a meno di non sapere più in cosa precisamente consista lo spazio separato di conversazione cittadina che secondo Aristotele fonda la civiltà e che i barbari non possiedono.

Clinton, Sarkozy e Berlusconi hanno coltivato invece queste cose, come le coltivavano i monarchi dell’ancien régime le cui teste erano destinate alla ghigliottina prima ancora che venissero tagliate. Goethe ebbe parole giuste, quando descrisse l’inanità di chi portava la corona senza sapere quel che portava: «Perché mai, come con una scopa, un tale re viene spazzato via? Fossero stati veri re, tutti sarebbero ancora indenni». Quel che accadeva dentro le regali mura casalinghe, nell’ancien régime, invadeva ormai ogni interstizio: i tic e i vezzi di Luigi XVI, le peripezie sentimentali di Maria Antonietta, il ridicolo villaggio che la regina fece edificare accanto a Versailles, per imitare la bucolica vita dei contadinelli e contestare i pubblici fasti della corte. Da quel villaggio finto con le sue graziose altalene si passò nel giro d’un attimo alla ghigliottina.

Berlusconi è entrato in politica assumendo in pieno la fusione tra privato e pubblico: nella vita personale come in quella degli interessi aziendali. Vide che l’aria dei tempi era questa, ed era aria possente a destra e a sinistra. Aveva radici in molte culture e anche in quella degli Anni Sessanta, nel grande rimescolamento di generi e nella grande fusione tra ribellione politica e personale che animò lungamente i movimenti contestatori, le donne femministe, e tanti giovani che correvano trafelati e proclamavano che il privato era pubblico e il pubblico privato. Berlusconi fiutò quel vento, ci costruì sopra un suo distorto immaginario televisivo, e cominciò la politica come i monarchi descritti da Goethe: mettendo in scena vistosamente la propria famiglia, il proprio giaciglio, perfino il proprio personale mausoleo. Ecco la famiglia perfetta, diceva, e sulla famiglia si gettò anche ideologicamente, trasformandola in supremo valore italiano e in colonna d’un nuovo ordine morale. Non importavano le contraddizioni personali, né i valori che cozzavano contro la pratica: non contano d’altronde mai, nella volontà di potenza che si sfrena. Una volta privatizzata la politica, per forza di cose il privato diveniva kitsch: immagine politico-pubblicitaria che imbellisce la realtà, nanetto nel giardino, cupola di vetro con la neve che scende su minuscole fate.

Berlusconi è il più grande privatizzatore della politica in Occidente. Altri si son ritratti inorriditi dopo aver suscitato lo spettro, come avvenne a Sarkozy e a Clinton. Lui no, il privato è come l’avesse divorato e forse addirittura non c’è mai stato posto nella sua mente per l’idea di pubblico. Non è questione solo della sua famiglia. Anche quando governa preferisce il recinto personale ai luoghi delle istituzioni: è nel recinto che riunisce ministri, convoca oppositori, nomina dirigenti Rai. Praticamente tutto si cucina a Palazzo Grazioli. È significativo che la dimora romana del Premier si sia metamorfizzata in Palazzo per eccellenza.

C’è qualcosa di smodato nello spazio che occupa il divorzio dei Berlusconi: un oltrepassare i limiti che distrugge ed è autodistruzione. C’è un ribellismo ibrido, che mescola passioni anticonformiste mal vissute e un più profondo, mimetico conformismo. Da qualche giorno gli italiani son completamente stregati dalla fiction che gli si snoda davanti. Se li guardi per strada o nei caffè o nelle stazioni, vedi occhi inchiodati sulle pagine (anzi le paginate) che narrano la leggenda sui giornali. Vengono in mente i rotocalchi inventati da Edilio Rusconi subito dopo l’ultima guerra - Oggi, poi Gente - che snocciolavano le storie delle famiglie reali agli albori della Repubblica. Erano re da ghigliottina anche quelli, il minimalismo delle storie era totale, ma la gente ne era stregata. Siamo ancora lì.
 
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« Risposta #54 inserito:: Maggio 10, 2009, 11:33:25 am »

10/5/2009
 
L'Europa sparita
 
BARBARA SPINELLI
 

Delle molte questioni su cui voteremo a giugno ce n’è una, continuamente citata, di cui non si parla praticamente mai: l’Europa e il suo Parlamento. Al massimo si dice che le urne non vanno disertate, che certi candidati sono incompetenti. Ma cosa significhi il voto che avverrà in 27 Paesi dell’Unione, cosa sia l’Europa in questo momento di crisi e mutazione: nulla se ne sa e quel che regna è silenzio o nascondimento, escamotage. L’italiano sa qualcosa sulle amministrative, qualcosa sul referendum, ma dell’Europa visto che non se ne parla non sa che idea farsene. Per il singolo resta una realtà un po’ astratta, che non gli appartiene veramente. Se l’affluenza sarà bassa sentiremo dire che l’Unione «è lontana dai cittadini», di nuovo.

Invece l’Europa ci è enormemente vicina, è la metà almeno della nostra esistenza. Già da decenni ha trasformato la nostra cittadinanza, che non è più una soltanto. Ogni italiano è al contempo cittadino europeo, e se ancora non pensa europeo già vive come tale.

Abbiamo una sola moneta, son cadute le frontiere interne all’Unione, e anche il diritto è comune in tante cose: più della metà delle decisioni che determinano la nostra vita quotidiana non sono prese nello spazio nazionale, ma in quello europeo.

Lo studioso Ulrich Beck scrive: «Nelle società etichettate come "nazionali" non c’è più un solo angolo libero dall’Europa» (Lo sguardo cosmopolita, Carocci 2005). Di fatto siamo già cittadini con varie identità, non per ideologia ma perché ci muoviamo in una doppia o tripla realtà (nazionale e cosmopolitica-europea).

Viviamo europeo schivando il pensare europeo, tuttavia. Di questa grande menzogna (che Beck chiama nazionalismo metodologico) sono responsabili le classi dirigenti di ogni Paese membro. La realtà che viviamo la eludono non solo i governi ma sindacati, imprenditori, intellettuali, giornalisti. Tutti costoro distinguono l’interesse nazionale dall’europeo, come se l’Europa non fosse, oggi, il luogo dove viene massimizzato sia l’interesse vero delle nazioni, sia quello del singolo cittadino che ha bisogno d'esser tutelato in ambedue le sfere pubbliche. Che in ambedue i casi ha bisogno di interlocutori forti, dunque di avere anche in Europa un governo funzionante: imputabile, censurabile come in patria. Le sfere pubbliche cui apparteniamo sono ormai multiple: comunali, nazionali, europee, mondiali. Si può ignorarlo - proprio in questi giorni il governo l’ha ignorato, respingendo 227 migranti in mare senza dar loro la possibilità (prescritta dalla Convenzione di Ginevra) di chiedere asilo, ma l’ignoranza è scusa debole e spesso pretestuosa.

La menzogna nazionalista non cade dal cielo: nasce accampando ragioni poco nobili che pretendono d’esser realistiche pur non essendolo affatto. Qui è l’escamotage, la realtà fatta sparire cambiando le carte in tavola: il trucco serve a fingere una sovranità nazionale assoluta, a nascondere il fatto che essa è parzialmente delegata ormai a una nuova res publica, parallela alla nazione. La menzogna sabota il pensare europeo ma non sventa la costante, cocciuta ribellione della realtà. I cittadini lo sanno: le situazioni cambiano a seconda dei Paesi, e gli Stati-nazione mantengono ampia egemonia legislativa in settori chiave. Ma gran parte della legislazione nazionale è oggi di origine europea (consumatori, ambiente, mercato interno ecc).

L’Europa non è un organo internazionale che alcuni utopisticamente vorrebbero federale, dotato di costituzione. I più grandi studiosi sostengono che è un’istituzione da tempo costituzionalizzata, visto che soggetti del suo ordinamento non sono solo gli Stati (come nei trattati inter-nazionali) ma anche i cittadini. E i cittadini lo sono molto concretamente: a partire dai primi Anni 60, il diritto europeo ha il primato sulla legislazione nazionale e si applica immediatamente. L’Unione è incompiuta, non ha gli attributi basilari del costituzionalismo, ma questo non le vieta d’essere fin d’ora costituzionalizzata, sostiene il giurista Joseph Weiler (La Costituzione dell'Europa, Mulino 2003).

Certo l’Unione è gracile, spesso afona: abbarbicati al diritto di veto, gli Stati le impediscono di governare. Certo il suo Parlamento dovrebbe avere più poteri, nonostante ne abbia già parecchi (l’accettazione o rifiuto della Commissione, ad esempio). Alcuni dubitano che sappia fronteggiare l’odierna crisi economica, il che è giusto, e aggiungono che le regole di Maastricht son datate, intralciando un rilancio simile a quello di Obama perché troppo severe sui deficit pubblici. Quest’ultima critica non tiene conto d’un fatto: se l’America avesse rispettato regole come le nostre, vigilando sull’indebitamento eccessivo pur di salvaguardare lo Stato sociale, una catastrofe così vasta non l’avrebbe conosciuta.

L’europeizzazione del nostro quotidiano è un’evidenza, che intacca profondamente gli Stati-nazione e le loro sovranità presunte. Ma anche la menzogna intacca, la crisi ne ha dato la prova: limitandosi al coordinamento, i ministri dell’Unione hanno evitato azioni comuni che avrebbero salvaguardato assai meglio gli interessi nazionali e delle persone. Non hanno pensato europeo. Il coordinamento è fra Stati, non è un agire comune, e quel che Jean Monnet disse nel ‘40 vale tuttora: «Il coordinamento è un metodo che favorisce la discussione, ma non sfocia in decisione. È espressione del potere nazionale, non creerà mai l’unità». La menzogna nazionalista delle élite è questa, secondo Beck: «Esse deplorano la burocrazia europea senza volto, ovvero il congedo dalla democrazia, e quindi partono dall’assunto totalmente irreale secondo cui ci sarebbe un ritorno all’idillio nazional-statale». Un ritorno irrealistico, anche se travestito da Realpolitik. Prendiamo Andrea Ronchi, ministro delle politiche europee: ogni volta che parla, è per dire che «ci sono eurocrati» rovinosi per l’Europa. È falso: rovinosi sono gli Stati-nazione. Numerosissime decisioni eurocratiche lamentate dai governi son prese da loro stessi, nei Consigli dei ministri. Ronchi non dice il vero, con l’aggravante che forse neppure lo sa. L’immaginario nazionale resta ficcato nelle menti perfino quando la realtà lo smentisce: «Diventa uno spettro sentimentale, un’abitudine retorica in cui gli impauriti e i confusi cercano un rifugio e un futuro» (Lo sguardo cosmopolita, p. 225).

La svolta non può che venire dal cittadino, se comincia a ragionare cosmopoliticamente. Se vota partiti e uomini che vogliono più Unione, non meno. Il disastro climatico è tema essenziale in Italia, perché ha confermato quanto la destra sia allergica all’Europa. Lo dimostra la mozione sul clima che il Senato ha approvato il 18 marzo, criticata da Marzio Galeotto sul sito La Voce e da Mario Tozzi su La Stampa. Una mozione che il ministro Prestigiacomo definisce legittima anche se non vincolante, ma che pur sempre chiede al governo di non accettare gli ideologici piani dell’Unione (emissioni gas serra ridotte del 20 per cento, utilizzazione di energie alternative pari al 20 per cento del fabbisogno, riduzione del 20 per cento della richiesta di energia entro il 2020).

Oggi il pensare europeo è debole ovunque, soprattutto a destra ma anche a sinistra. Non stupisce, perché il salto è impervio. Si tratta nientemeno di consentire a una seconda conquista della laicità, nella storia d’Europa. Prima venne la separazione della politica dalla religione. Adesso s’impone l’atto laico numero 2: la separazione fra Stato e nazione. Senza demolire lo Stato, ma facendo combaciare la nazione con le sue sfere pubbliche molteplici. Sarà un atto non meno decisivo della caduta del Muro, e anche qui varrà quel che Gorbaciov disse al cieco regime comunista tedesco, nell’ottobre ‘89: «Chi arriva in ritardo, la vita lo punirà».

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« Risposta #55 inserito:: Maggio 17, 2009, 02:48:59 pm »

17/5/2009
 
Immigrati urla e silenzi
 
 
 
BARBARA SPINELLI
 
Nel dichiarare guerra agli immigrati clandestini e alla tratta di esseri umani, il governo è sicuro di una cosa: dalla sua parte ha un gran numero di italiani, almeno due su tre. Ne è sicura la Lega, assai presente nel territorio. Ne è sicuro Berlusconi, che scruta in quotidiani sondaggi l’umore degli elettori. Non ci sono solo i sondaggi, d’altronde: indagini e libri (per esempio quello di Marzio Barbagli, Immigrazione e sicurezza in Italia, Mulino 2008) confermano che la paura - in particolare la paura della crescente criminalità tra gli immigrati - è oggi un sentimento diffuso, che il politico non può ignorare. A questo sentimento possente tuttavia i governanti non solo si adeguano: lo dilatano, l’infiammano con informazioni monche, infine lo usano. È quello che Ilvo Diamanti chiama la metamorfosi della realtà in iperrealtà.

Negli ultimi vent'anni l’iperrealismo ha caratterizzato tre guerre, fondate tutte sulla paura: la guerra al terrorismo mondiale, alla droga e alla tratta di esseri umani. Le ultime due son condotte contro mafie internazionali e italiane (la tratta di migranti procura ormai più guadagni del commercio d’armi) i cui rapporti col terrorismo non sono da escludere. Sono lotte necessarie, ma non sempre il modo è adeguato: contro il terrorismo e i cartelli della droga, la guerra non ha avuto i risultati promessi.

George Lakoff, professore di linguistica, disse nel 2004 che la parola guerra - contro il terrore - era «usata non per ridurre la paura ma per crearla». La guerra alla tratta di uomini rischia insuccessi simili. Le tre guerre in corso sono spesso usate dal potere politico, che nutrendosene le rinfocola.

Roberto Saviano lo spiega da anni, con inchieste circostanziate: ci sono forme di lotta alla clandestinità votate alla sconfitta, perché trascurano la malavita italiana che di tale traffico vive. Ed è il silenzio di politici e dei giornali sulle nostre mafie a trasformare l’immigrato in falso bersaglio, oltre che in capro espiatorio. Lo scrittore lo ha ripetuto in occasione dei respingimenti in mare di fuggitivi. Le paure hanno motivo d’esistere, ma per combatterle occorrerebbe andare alle radici del male, denunciare i rapporti tra mafie straniere e italiane: le prime non esisterebbero senza le seconde, e comunque la malavita viaggia poco sui barconi. Saviano dice un’altra verità: se ci mettessimo a osservare le condotte dei migranti, la paura si complicherebbe, verrebbe controbilanciata da analisi e sentimenti diversi. Una paura che si complica è già meno infiammabile, strumentalizzabile.

Saviano elenca precise azioni di immigrati nel Sud Italia. Negli ultimi anni, alcune insurrezioni contro camorra e ’ndrangheta sono venute non dagli italiani, ormai rassegnati, ma da loro. È successo a Castelvolturno il 19 settembre 2008, dopo la strage di sei immigrati africani da parte della camorra. È successo a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, dopo l’uccisione di lavoratori ivoriani uccisi perché ribelli alla ’ndrangheta, il 12 dicembre 2008. Ma esistono altri casi, memorabili. Il 28 agosto 2006, all’Argentario, una ragazza dell’Honduras, Iris Palacios Cruz, annega nel salvare una bambina italiana che custodiva. L’11 agosto 2007 un muratore bosniaco, Dragan Cigan, annega nel mare di Cortellazzo dopo aver salvato due bambini (i genitori dei bambini lasciano la spiaggia senza aspettare che il suo corpo sia ritrovato). Il 10 marzo 2008 una clandestina moldava, Victoria Gojan, salva la vita a un’anziana cui badava. Lunedì scorso, due anziani coniugi sono massacrati a martellate alla stazione di Palermo, nessun passante reagisce tranne due nigeriani, Kennedy Anetor e John Paul, che acciuffano il colpevole: erano giunti poche settimane fa con un barcone a Lampedusa. Può accadere che l’immigrato inoculi nella nostra cultura un’umanità e un senso di rivolta che negli italiani sono al momento attutiti (Saviano, la Repubblica 13 maggio 2009).

Questo significa che in ogni immigrato ci sono più anime: la peggiore e la migliore. Proprio come negli italiani: siamo ospitali e xenofobi, aperti al diverso e al tempo stesso ancestralmente chiusi. Sono anni che gli italiani ammirano simultaneamente persone diverse come Berlusconi e Ciampi. Oggi ammirano Napolitano; anche quando critica il «diffondersi di una retorica pubblica che non esita, anche in Italia, ad incorporare accenti di intolleranza o xenofobia». Son rari i popoli che hanno di se stessi un’opinione così beffarda come gli italiani, ma son rari anche i popoli che raccontano, su di sé, favole così imbellite e ignare della propria storia. L’uso che viene fatto della loro paura consolida queste favole. Nel nostro Dna c’è la cultura dell’inclusione, dicono i giornali; non c’è xenofobia né razzismo. Gli italiani non si credono capaci dei vizi che possiedono: il nemico è sempre fuori. Non vivono propriamente nella menzogna ma in una specie di bolla: in un’illusione che consola, tranquillizza, e non per forza nasce da mala fede. Nasce per celare insicurezze, debolezze. Nasce soprattutto perché il cittadino è molto male informato, e la mala informazione è una delle principali sciagure italiane. È vero, la criminalità tra gli immigrati cresce, ma cresce in un clima di legalità debole, di mafie dominanti, di degrado urbano. Un clima che esisteva prima che l’immigrazione s’estendesse, spiega Barbagli. Se la malavita italiana svanisse, quella dei clandestini diminuirebbe.

La menzogna viene piuttosto dai governanti, e in genere dalla classe dirigente: che non è fatta solo di politici ma di chiunque influenzi la popolazione, giornalisti in prima linea. Tutti hanno contribuito alla bolla d’illusioni, al sentire della gente di cui parla Bossi. Tutti son responsabili di una realtà davanti alla quale ora ci si inchina: che vien considerata irrefutabile, immutabile, come se essa non fosse fatta delle idee soggettive che vi abbiamo messo dentro, oltre che di oggettività. I fatti sono reali, ma se vengono sistematicamente manipolati (omessi, nascosti, distorti) la realtà ne risente, ed è così che se ne crea una parallela. La realtà dei fatti è che ogni mafia, le nostre e le straniere, si ciba di morte, di illegalità, di clandestinità. La realtà è un’Italia multietnica da anni. Il pericolo non è solo l’iperrealtà: è la manipolazione e la mala informazione.

Per questo è un po’ incongruo accusare di snobismo o elitismo chi denuncia le attuali politiche anti-immigrazione. Quando si vive in una realtà manipolata, chi si oppone non dice semplicemente no: si esercita ed esercita a vedere i fatti da più lati, non solo da uno. Rifiuta di considerare, hegelianamente, che «ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale». Che ciò che è popolare è giusto, e ciò che è impopolare ingiusto o cervellotico. Bucare la bolla vuol dire fare emergere il reale, cercare le verità cui gli italiani aspirano anche quando s’impaurano rintanandosi. Accettare le loro illusioni aiuta poco: esalta la loro parte rinunciataria, lusinga le loro risposte provvisorie, non li spinge a interrogarsi e interrogare.

Lo sguardo straniero sull’Italia è prezioso, in tempi di bolle: ogni articolo che viene da fuori erode la mala informazione. Non che gli altri europei siano migliori: nelle periferie francesi e inglesi l’esclusione è semmai più feroce. Ma ci sono parole che lo straniero dice con meno rassegnazione, meno cinismo. Ci sono domande e moniti che tengono svegli. Per esempio quando Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, ci chiede come mai accettiamo tante cose, dette da Berlusconi, manifestamente false. O quando Perry Anderson chiede come mai l’auto-ironia italiana non abbia prodotto una discussione sul passato vasta come in Germania (London Review of Books, 12-3-09). O quando l’Onu ci rammenta le leggi internazionali che stiamo violando.

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« Risposta #56 inserito:: Maggio 24, 2009, 11:35:53 am »

24/5/2009
 
I perdenti che vivono di sconfitte
 
BARBARA SPINELLI
 
Hans Magnus Enzensberger, scrittore tedesco, li chiama i perdenti radicali. Sono coloro che non si guardano intorno e non cercano di capire come il mondo si disfa e si rifà, quando sono alle prese con traumi sociali, ma vivono le calamità come una specie di giudizio universale anticipato. Non hanno altra misura che se stessi: sono loro le uniche grandi vittime, loro gli umiliati e gli offesi. La solidarietà con popoli o persone che soffrono più di loro è inesistente. Potrebbero anche non essere perdenti in modo radicale, potrebbero sforzarsi di vedere quel che in ogni crisi è opportunità, mutazione. Ma la scelta che hanno fatto di essere perdenti ha qualcosa di definitivo, di fatale. La realtà ha poco peso in quel che dicono e che pretendono di vedere.

C’era un po’ di tutto questo nei tumulti della scorsa settimana a Torino: prima al Lingotto, quando alcuni appartenenti ai Comitati di base hanno contestato e malmenato il sindacalista Rinaldini, segretario della Fiom; poi il 18 e 19 maggio, quando due-trecento violenti hanno rovinato la manifestazione dell’Onda e scatenato, come avevano promesso, una guerriglia urbana davanti al Castello del Valentino dove si svolgeva il G-8 dei rettori. L’uso del nome G-8 è stato una provocazione stupida, certo: dopo gli eventi del 2001 a Genova, la sigla evoca un potere che agisce impunemente con inaudita violenza. Ma una sigla errata non giustifica le armi scelte nei tumulti torinesi: gli spintoni brutali al Lingotto e poi, al G-8 universitario, i sassi, le spranghe, i fumogeni, i caschi e le mazze, gli estintori, le auto e i bidoni incendiati.

La storia non si ripete mai eguale a se stessa e nessun movimento ripete le gesta anteriori. Non è nemmeno vero che la tragedia si ripete in farsa, come diceva Marx. La storia è capriccio inopinato e anche quello che dopo chiamiamo tragedia non era all’inizio che gioco, parola. Rudi Dutschke non era affatto un terrorista, ma fu lui, nel febbraio 1966, ad auspicare la guerriglia urbana nelle democrazie. Spesso le tragedie cominciano con discorsi che tollerano, incitano: i romanzi di Dostoevskij - i Demoni, i Fratelli Karamazov - narrano precisamente questo. Uno parla con leggerezza, poi arriva il perdente radicale e passa all’atto cruento. Per questo è giustificato quel che ha scritto Luigi La Spina, il 20 maggio su La Stampa: la memoria di passate violenze «può essere un incubo, ma anche un vaccino».

La crisi economica che stiamo vivendo è una prova, ben più grave per milioni di persone di quel che conobbe la generazione del ’68 o ’77: non a caso i tumulti tendono ovunque a moltiplicarsi (periferie in rivolta, sequestri di manager). Per questo converrà studiarne le radici, e comunque non sottovalutarli. Ma occorrerà farlo evitando se possibile le scorciatoie, che sono due. La prima consiste nel concentrarsi esclusivamente sull’ordine pubblico, reprimendo ogni scontento come se il legame tra scontento e terrorismo fosse automatico. È la via militarizzata, simile alla guerra mondiale al terrore: il male è combattuto solo con le armi. Non meno insidiosa tuttavia è la seconda scorciatoia. È la via che psicologizza, socio-analizza: che condona piccole violenze, e tratta gli estremisti come fossero bambini, non cittadini maggiorenni. Essa rinuncia a indicare il limite invalicabile delle proteste, e s’accomoda - soprattutto in Italia - con una cultura dell’illegalità diffusa sin nei vertici dello Stato. La gioventù è un soffio scottante che viene e che va: basta fidarsi della biologia. La psicologia ha fatto molti danni nell’ultimo secolo e mezzo.

I politici e le classi dirigenti non sono incolpevoli, in questa faccenda. Se si accumulano tante incomprensioni, se piccoli ma numerosi gruppi sono attratti dalla violenza e faticano a guardare il mondo come cambia, è anche perché sono rari i responsabili che esplorano e dicono quel che davvero sta accadendo. I più cercano di nascondere gli scombussolamenti che la crisi porta con sé: il rischio che nella vita di ciascuno si dilata, i risparmi e i salari che scemano, la vasta trasformazione dei costumi che s’imporrà. Gian Enrico Rusconi spiega le differenze che esistono, ad esempio, fra italiani e tedeschi: ci sono sciagure anche in Germania, ma minore tensione sociale. Questo perché il cittadino è meglio informato, da politici e stampa. Diversamente dai governanti italiani, i tedeschi «non hanno mai diffuso ottimismo di maniera» (La Stampa, 17-5).

vIn Italia e a Torino quel che infiamma gli spiriti è da qualche tempo la Fiat. Quanti impieghi saranno sacrificati per salvare l’industria dandole l’indispensabile dimensione transnazionale? E lo Stato che fa, per proteggere il lavoro italiano? Il caso è emblematico perché rivela tre pericoli al tempo stesso: lo stacco dalla realtà, il nazional-protezionismo, e il nuovo potere dello Stato in questa crisi (uno Stato intrusivo più che spendaccione, scrive Martin Wolf sul Financial Times). Occultare la realtà vuol dire aspettare che «tutto torni come prima, meglio di prima» (Berlusconi, 17-5). Vuol dire ignorare quel che nella crisi dell’auto non è episodico. L’auto ha conosciuto un’espansione straordinaria grazie al petrolio abbondante e poco caro, e all’indifferenza verso il clima devastato. Tante scelte sono legate a quell’epoca - i Suv, il fenomeno delle città residenziali periferiche, i suburbia americani dai quali ci si muove essenzialmente con automobili - e son destinate a diminuire o sparire (è la tesi di James Kunstler, nel libro The Long Emergency uscito nel 2006).

Oggi siamo a un bivio, e il risparmio energetico voluto da Obama lo attesta: ogni auto nuova deve avere un motore capace di fare 35,5 miglia per ogni gallone (57,1 chilometri con 3,8 litri). Un mutamento che può incoraggiare la reinvenzione dell’industria ma che sarà costoso per tutti: consumatori, imprese, operai, politici bisognosi di popolarità. Quel che dice Sergio Marchionne è difficilmente confutabile: si producono troppe auto nel mondo (95 milioni) per un pianeta che va tutelato. 20 milioni sono di troppo. I manifestanti al Lingotto scandivano, lunedì: «Marchionne, tu vvò fà l'americano», occultando anch’essi la realtà. Se si vuol aggiustare il clima, occorre dire queste verità e trarne conclusioni. Secondo alcuni studiosi, bisogna uscire dal mondo auto-industriale: puntando sul trasporto pubblico e su veicoli che risparmino energia drasticamente. Lo scrive l’economista Emma Rothschild in un saggio sul New York Review of Books del 26 febbraio, nel quale è criticata la vista corta di produttori e governi. Lo scrive l’analista Max Fraser il 13 maggio su The Nation. Fraser cita le parole di una sindacalista americana, Dianne Feeley, ex lavoratrice alla Ford: «Salvare l’industria dell’auto così com’è non ci darà impieghi, non ci metterà sulla buona strada per il clima, non aiuterà le nostre città. La strategia deve concentrarsi su come salvare la classe operaia e le nostre comunità».

Marchionne dice un’altra cosa importante: l’America ha più mezzi di noi europei, pur traversando una crisi maggiore. Ha un governo unitario, sindacati che cooperano. L’Europa non è a questo punto: qui è lotta di ogni nazione contro le altre, qui non si pensa in grande (geograficamente, industrialmente, politicamente). Non stupisce che sia così anche dentro le società, come spiega bene lo storico Marco Revelli: al classico conflitto verticale - tra lavoratori e impresa - si sta sostituendo il conflitto orizzontale: lavoratori contro lavoratori, nazioni contro nazioni. Ogni scheggia mira a farsi vedere, «come in un reality show» (La Stampa, 18-5).

Il perdente radicale vive di scontri orizzontali e reality show. Vive di sconfitte, che teme ma segretamente agogna. Esattamente come i mercati, i perdenti radicali «si scatenano quando sentono odore del sangue».

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« Risposta #57 inserito:: Maggio 31, 2009, 09:31:48 am »

31/5/2009
 
Vacuità della politica
 
BARBARA SPINELLI
 
Non è la prima volta che il presidente del Consiglio s’indigna per il trattamento che gli riservano i magistrati che lo processano, o i giornalisti che indagano sulla spregiudicatezza con cui mescola condotte private e pubbliche. S’indigna a tal punto che le due figure - il magistrato, il giornalista - sono equiparate a quella del delinquente: è avvenuto giovedì all’assemblea della Confesercenti. Le tre categorie sono assimilate a loro volta all’opposizione politica. Le accuse che vengono loro rivolte sono essenzialmente due. Primo, l’offesa al popolo sovrano, al consenso che esso ha dato alle urne e che imperturbato rinnova nei sondaggi. Secondo, la natura pretestuosa di tali attacchi antidemocratici: il primato dato alla forma sulla sostanza, ai problemi finti degli italiani su quelli veri, allo show sulla realtà, al gossip sulla politica del leader.

L’accusa va presa sul serio, perché il premier ha costruito il proprio carisma sulla maestria dello show e non ha concorrenti in materia. In particolare sa abbandonarlo, se serve, e presentare l’avversario come vero manipolatore della società dello spettacolo. Come ha scritto Carlo Galli, «il suo vero potere è sul linguaggio e sull’immaginario»: qui è l’egemonia che dagli Anni 80 esercita sul senso comune degli italiani, e che l’opposizione non ha imparato a scalfire (la Repubblica 25 maggio).
Ma qualcosa si va scheggiando, in questo perfetto potere d’influenza, come accade agli apprendisti stregoni che non dominano più interamente i golem fabbricati.

Il gossip, lo show, il privato che fagocita il pubblico, i problemi veri semplificati fino a divenire non-problemi, dunque falsi problemi: questi i golem, e tutti provengono dalle officine del berlusconismo. Sono la stoffa della sua ascesa, gli ingredienti della sua egemonia culturale in Italia. Quel che succede oggi è una nemesi: il problema finto divora quello vero, show e gossip colpiscono chi li ha messi sul trono. All’estero la condanna è dura. Non da oggi, certo: l’Economist lo giudicò «inadatto a governare» il 28 aprile 2001, sono passati anni e Berlusconi resta forte. Ma lo sguardo esterno stavolta s’accanisce, perché finzioni e non-verità si accumulano.

Il fatto è che nel frattempo il mondo è cambiato, attorno a lui. Berlusconi è figlio di un’epoca di vacuità della politica: il mercato la scavalcava impunemente, ignorando ogni regola; l’imprenditore-speculatore sembrava più lungimirante e realista del politico di professione. Il liberalismo dogmatico regnò per decenni, e Berlusconi fu una sua escrescenza. Ma questo mondo giace oggi davanti a noi, squassato dalla crisi divampata nel 2008. La regola e la norma tornano a essere importanti, il realismo dei boss della finanza è screditato, la domanda di politica cresce. È quel che Fini presagisce: senza dirlo si esercita in toni presidenziali, conscio del prestigio miracolosamente sopravvissuto del Colle. La crisi del 2007-2008 è sfociata in America nella sconfitta di Bush, ma quel che Pierluigi Bersani ha detto in una recente conferenza è verosimile: «Il capitalismo non finisce, ma finisce una fase ad impronta liberista della globalizzazione. E non finisce perché c’è Obama, ma c’è Obama perché finisce».

Questo spiega come mai Berlusconi - a seguito della sentenza Mills che lo indica come corruttore di testimoni e della vicenda Noemi in cui appare come boss che esibisce private sregolatezze fino a sfidare il tabù della minorenne - irrita più che mai chi ci guarda da fuori. Un’irritazione che si accentua di fronte ai troppi nascondimenti della verità: nel caso Mills la verità di sentenze che non sono tutte di assoluzione ma anche di prescrizione o assenza di prove; nel caso Noemi la verità di incontri poco chiari. Non dimentichiamolo: quando si incolpano le bolle, finanziarie o politiche, è di menzogne e sortilegi che si parla.

Quel che finisce, attorno a noi, è la negligenza dell’imperio della legge, della rule of law. Non tramonta solo il dogma del mercato onnisciente ma la figura del sovrano-boss, eletto per stare sopra le leggi, i magistrati, le costituzioni, le istituzioni. La fusione tra il suo interesse-piacere privato e il suo agire pubblico diventa un male non più minore ma maggiore, perché nelle democrazie c’è sete di regole e istituzioni, dopo lo sfascio, e non di favole ottimiste ma di realtà e verità. C’è bisogno di gesti fattivi e antiburocratici come la presenza in Abruzzo o a Napoli sui rifiuti, ma c’è anche bisogno di cose che durino più di una legislatura e non siano bolle. È utile osservare l’America, oggi: l’immenso sforzo pedagogico che sta compiendo Obama, per convincere i cittadini che il breve termine è letale, che la Costituzione e le norme devono durare più dei politici.

Deve poter durare il sistema di checks and balances innanzitutto: l’equilibrio tra poteri egualmente forti e indipendenti. Il presidente americano sta riconquistando l’egemonia della parola, con linguaggio semplice e vera passione pedagogica. Il suo discorso su Guantanamo e terrorismo, il 21 maggio, lo conferma: «Nel nostro sistema di pesi e contrappesi, ci deve essere sempre qualcuno che controlli il controllore. \ Tratterò sempre il Congresso e la giustizia come rami del governo di eguale rango». Berlusconi va oggi controcorrente: all’estero non ha altra sponda se non quella di Putin, figura tipica di politico-boss.

Tuttavia la società italiana gli crede ancora, e questo consenso varrà la pena studiarlo, con la stessa umile immedesimazione mostrata da Obama. Varrà la pena studiare perché gli italiani somigliano tanto ai russi, come se anch’essi avessero alle spalle regimi disastrosi. Perché tanta sfiducia verso le regole, lo Stato, la res publica. Non esiste una congenita debolezza morale degli italiani, e dunque occorre capire come mai la politica è così profondamente sprezzata, il conflitto così radicalmente temuto. La tesi esposta più di vent’anni fa dallo studioso Carlo Marletti è tuttora valida: è vero che da noi esiste un «eccesso di pluralismo e complessità che le istituzioni legali non semplificano» adeguatamente. E che al loro posto si sono installate auto-organizzazioni informali, claniche o familiste, che non sono arcaiche ma si sono adattate alla modernità meglio di altre. Marletti spiega come lo sviluppo industriale si sia mescolato alla criminalità organizzata e come si siano creati, in assenza di uno Stato che semplifichi la complessità, meccanismi di semplificazione sostitutivi, solidaristico-clientelari, «di tipo nero o sommerso» (Marletti, Media e politica, Franco Angeli, 1984).

Berlusconi prometteva questa fuga nella semplificazione deviante, meno ingarbugliata che ai tempi della Dc. Secondo il filosofo Václav Belohradsky, essa è basata sul prevalere dei fini personali o corporativi sui mezzi che sono le norme prescritte a chi vuol realizzare tali fini. Tra i due elementi è saltata ogni coerenza ed è il motivo per cui l’Italia vive nell’anomia sociale, come fosse fuori-legge.

In Italia accade questo: le mete del singolo sono tutto, le norme nulla. La legalità vale per gli altri (i clandestini), non per noi, scrive Carlo Galli. Per noi le leggi sono d’impedimento: quelle italiane e anche quelle dell’Unione Europea, come ha ripetuto Berlusconi alla Confesercenti. L’opposizione potrebbe ripartire da qui: dalle norme pericolosamente sprezzate, dall’Europa che il governo finge di poter aggirare senza rischi, dalla sovranità nazionale che esso finge di possedere, a cominciare dal clima. La commistione privato-pubblico ha condotto a tutto questo, non è solo la storia di un padre, di una moglie mortificata, dei loro figli. I più preveggenti dicono: dopo la crisi il mondo non sarà più eguale. Berlusconi promette di conservarlo: anche questo è bolla, ed è spinta rivoluzionaria che si sta esaurendo

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« Risposta #58 inserito:: Giugno 06, 2009, 05:30:32 pm »

6/6/2009
 
Dove porta l'odio dell'altro
 
BARBARA SPINELLI
 

Tra il discorso di giovedì all’Università del Cairo e la commemorazione dello sbarco in Normandia che avrà luogo oggi in Francia, Barack Obama ha scelto la sosta a Buchenwald, il campo di morte dove tra il 1937 e il 1945 furono rinchiusi 250 mila esseri umani provenienti da cinquanta Paesi diversi.

Morirono uccisi in 56 mila: 11 mila ebrei, gran parte del gruppo dirigente comunista a partire dal suo capo Ernst Thälmann, centinaia di soldati russi, e omosessuali, Rom, Sinti, uomini malati ritenuti «inabili al lavoro». Il Cairo, Buchenwald, la Normandia: tre luoghi e tre date si intrecciano, compongono insieme una storia e un tempo più vasto. Il passato dà pienezza al presente, il Ventesimo Secolo parla al Ventunesimo conferendogli profondità. In ambedue i secoli c’è sete di liberazione, in ambedue è questione di edificare un dopoguerra. Il 6 giugno 1944 in Normandia l’Europa fu liberata dal nazismo, l’11 febbraio 1945 furono i superstiti di Buchenwald a salvarsi. Oggi tocca uscire da un’altra guerra, prima che precipiti in ennesimi orrori e distruzioni: tocca, come ha detto al Cairo il Presidente, metter fine all’infausta guerra tra civiltà. La criminalizzazione dell’Islam deve finire, perché il rischio è grande di punire la diversità nel diverso, e di considerare la diversità un pericolo. Tutte e tre le tappe - Il Cairo, Buchenwald, la Normandia - narrano la difficile edificazione di un dopoguerra meno buio, fondato sulla memoria viva del passato.

Nel suo discorso a Buchenwald Obama ha sottolineato la centralità della memoria, perché non esiste ricominciamento che possa farne a meno. Soprattutto quando si è messi a cospetto di orrori talmente dolorosi che nello spettatore «subentra il mutismo, l’incapacità di proferire verbo» (accadde allo zio Charlie Payne, soldato che partecipò alla liberazione del campo: «per mesi», tornato in America, si chiuse nel silenzio). Eisenhower ne ebbe coscienza, quando vedendo il drappello di scheletri viventi accanto alle baracche disse a sè stesso e decise: bisogna che tutti vedano in immagine quel che sto guardando (tutti: tedeschi, giornalisti, soldati e deputati americani) altrimenti verrà il giorno in cui l’impensabile diverrà un’opinione.

Anche questa decisione ha voluto rammentare Obama, e anche in questo caso le tre tappe del suo viaggio si incrociano e quasi si fondono. Non si inizia una nuova relazione tra Islam e Occidente negando quel che è accaduto durante il nazismo. Non ci si mette a fabbricare un dopoguerra «raccontando menzogne sulla nostra storia». Obama sarà intransigente con lo Stato israeliano, giovedì ha definito «intollerabile» la vita dei palestinesi che vivono in terre di occupazione e ha chiesto al governo di Gerusalemme di smettere subito gli insediamenti, ma tutto questo ha senso se si riconosce quel che gli ebrei hanno sofferto e come avvenne la distruzione dell’ebraismo in Europa. Se si tocca con mano la verità storica come lui ha fatto ieri con Angela Merkel. A Buchenwald, è una guerra giusta che il Presidente Usa ricorda: l'ultima, forse, che gli americani considerino unanimemente tale. Tutti i conflitti successivi - Corea, Vietnam, Iraq - furono contestati.

Obama ha una propensione, forte, a connettere storie e tempi disparati; a creare mosaici molto ramificati, cosmopoliti. Anche la scelta di Buchenwald e di Dresda è colma di significati. Buchenwald fu innanzitutto massacro del diverso. Elie Wiesel, che ha accompagnato il Presidente assieme a un altro ex detenuto di Buchenwald, Bertrand Herz, ha usato ieri un’immagine tremenda: «Il primo esperimento di globalizzazione è stato fatto a Buchenwald, con il solo scopo di diminuire l’umanità degli esseri umani». Ma il luogo dove Hitler decretò la «distruzione attraverso il lavoro» fu anche qualcos’altro: fu simbolo della resistenza, perché i detenuti alla fine si organizzarono e presero il controllo del Lager. Quando i comandanti del campo si resero conto che le truppe Usa si stavano avvicinando, tentarono un’evacuazione dei detenuti (le «marce della morte») e i prigionieri salvarono centinaia di bambini e detenuti nascondendoli. Poi contattarono via radio i militari statunitensi e facilitarono il loro arrivo, l’11 aprile 1945.

Anche la visita di Dresda è significativa: è un esempio luminoso della politica della memoria in Germania, proprio perché evoca la vendetta atroce che si abbatté su di essa (Dresda subì un bombardamento alleato che fece 35 mila morti). Buchenwald simboleggia infine l’altro totalitarismo del ’900: il campo infatti non fu chiuso nel ’45, trovandosi prima in zona sovietica e poi in Germania comunista. Restò aperto fino al 1950: i morti per sevizie furono 7 mila.

Ricominciare la storia è ricordare dove può condurre l’odio dell’altro, e sapere che sempre può riaccendersi trasformandosi: oggi prende le forme, ha detto Obama, «del razzismo, dell’antisemitismo, dell’omofobia, della xenofobia, del sessismo».

Le parole sono importanti per Obama, il suo viaggio in Medio Oriente ed Europa lo dimostra. E proprio perché sono importanti, non si può stravolgerle con bugie e revisionismi. A Ahmadinejad il Presidente ha offerto giovedì il dialogo, giungendo fino a confessare il coinvolgimento americano nella liquidazione violenta di Mohammed Mossadeq (il primo ministro entrato in conflitto con lo Scià negli Anni 50: «Gli Usa svolsero un ruolo nel rovesciamento di un governo iraniano eletto democraticamente», ha ammesso al Cairo), ma gli ha anche detto: ecco, prima di qualsiasi dialogo è a Buchenwald che devi mentalmente venire, sono queste pietre che devi toccare come le sto toccando io. Altrimenti ogni parola è infangata, e il dono della lingua dato agli umani è insensato. Altrimenti succede come ai nazisti, che fabbricarono un mostro presso Weimar, la città di Goethe e Schiller, e sul cancello del Lager scrissero, a grandi lettere, A OGNUNO IL SUO - JEDEM DAS SEINE, mostrando come uno dei più nobili precetti del diritto romano possa pervertirsi e divenire il più cinico e mortifero segno di odio.

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« Risposta #59 inserito:: Giugno 07, 2009, 11:58:56 am »

7/6/2009
 
Incapaci di pensare europeo
 
BARBARA SPINELLI
 
Possiamo già prevedere le parole che verranno dette, in molte capitali del continente, subito dopo le elezioni europee: è mancato, ancora una volta, quel che viene chiamato spirito o comune sentire europeo. In ogni Stato si vota su temi nazionali, ogni elettore tende a giudicare il proprio governo o la propria opposizione, non quello che le istituzioni europee hanno fatto o faranno. Alcuni vedranno confermata una loro persistente convinzione: non esiste un popolo - un demos - dell’Unione. L’Europa intesa come comune governo, affiancato ai governi nazionali, è un’utopia nata nell’ultima guerra che ha fatto naufragio anche se gli elementi statuali dell’edificio comunitario sono ormai inconfutabili.

Tutti questi ragionamenti hanno un difetto. La realtà, continuano a vederla attraverso l’unica lente che conoscono: quella dello Stato-nazione. Ogni giorno i fatti dimostrano che la lente è inadatta, senza tuttavia intaccare la monotona routine. È come se nella pittura fossimo rimasti alle figure bidimensionali, ricusando la prospettiva di Piero della Francesca. La vecchia lente garantisce all’osservatore comodità, sforzo minimo, potere: perché abbandonarla?

Eppure i fatti sono chiari: più della metà delle decisioni che determinano la nostra vita quotidiana non sono più prese nello spazio nazionale, ma in quello europeo; e l’Europa è imprescindibile non solo dove c’è stato trasferimento di sovranità (moneta, commercio, frontiere) ma anche in materie gelosamente custodite dagli Stati come clima, energia, immigrazione, politica estera. Infine non è vero che lo Stato, per funzionare, deve avere prima una nazione, un demos. Antonio Padoa-Schioppa, studioso di diritto europeo, ha ricordato, il 7 maggio a un convegno della Regione Lombardia, che solo nella mente dei giuristi ottocenteschi lo Stato coincide esclusivamente con la nazione: «L’analisi storica mostra che in Paesi come Francia, Inghilterra, Spagna l’identità nazionale si è formata dopo la nascita degli Stati, non prima».

Detto questo, è innegabile che lo spirito europeo sia oggi in declino: lo certifica l’astensionismo elettorale, in aumento dalla prima elezione diretta del Parlamento di Strasburgo nel 1979. Allora era il 63% a votare, oggi non più del 30-40. Particolarmente bassa è la partecipazione degli europei dell’Est, entrati da poco nell’Unione. Il fatto è che anche dove c’è spirito europeo, esso non produce affluenza alle urne né demos. Avviene anzi il contrario, e in questo il comportamento dell’Est è emblematico. Lo spirito europeo, qui, è vivo. Risale ai tempi totalitari, quando il Centro Europa, come disse nel 1983 Milan Kundera, fu «sequestrato a Est» malgrado il suo cuore e la sua storia fossero a Ovest. I cittadini bulgari, scrive il giornalista Ivo Indjev, sono tra i più europeisti nell’Unione. Tuttavia pare si asterranno in massa. Così in altre zone o ambienti dove lo spirito europeo, pur radicato, non si traduce in impegno elettorale pratico.

Lo spirito dunque non basta. Il sentire europeo può essere intenso, ma non implica, automaticamente, pensare europeo. Pensare è un’altra cosa, come spiega bene il Programma per l’Europa Politica elaborato dall’associazione Impresa Domani (Idom): un’autentica politica europea non nascerà «dalla sommatoria di debolezze nazionali», ma dovrà essere «il frutto del pensare europeo». E pensare non significa esser sensibili, ma «porsi immediatamente l’obiettivo del passaggio dei poteri a quelle istituzioni dove soltanto può formarsi un pensiero politico europeo». Non significa neppure «avere un’idea del mondo, ma avere un programma per il governo del mondo». Altrimenti abbiamo il paradosso bulgaro: più ti senti europeo, meno agisci. Non è l’unico paradosso di queste elezioni. Egualmente pernicioso è il paradosso d’un Parlamento che ha sempre più poteri (può sfiduciare la Commissione, il suo parere è vincolante su molte leggi), e nonostante ciò l’astensione cresce. Anche qui c’è discrepanza: più potere, meno pensiero.

I poveri cittadini non sono responsabili in prima linea di questi paradossi. Quando possono, reclamano un’Europa potenza. Sono responsabili gli Stati, le amministrazioni, i partiti, i giornali. Sono loro a monopolizzare l’informazione europea, a farsi impigrire dalle vecchie lenti. Negli Stati la politica è mutata radicalmente: le battaglie sono personalizzate, i partiti selezionano ormai grandi oratori, grandi caratteri. Solo le istituzioni europee rimangono immobili. Se avessero innovato, oggi voteremmo anche in Europa forti personalità, censurando i malgoverni. Ogni schieramento avrebbe un candidato alla presidenza della Commissione, e i partiti si organizzerebbero come partiti europei giudicando la scorsa legislatura. Non mancano d’altronde eccellenti candidati in pectore. Chi denuncia l’ignavia o l’opportunismo del presidente della Commissione Barroso, ad esempio, avrebbe potuto schierare europeisti come Guy Verhofstadt ex premier belga, o Pascal Lamy direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio. Una vasta coalizione impedisce tali progressi, e di essa fanno parte Stati e giornali, partiti di sinistra e di destra. Scrive ancora l’Idom: «Essere un partito europeo è avere un programma sull’Europa, un’organizzazione su base sovrannazionale, e proporre propri candidati per le istituzioni dell’Unione».

I veri utopisti sono coloro che s’illudono, credendo che lo Stato resti sovrano assoluto come immaginava nel secolo scorso Carl Schmitt. Parafrasando Keynes, «sono generalmente schiavi di qualche giurista o politologo defunto». Si definiscono realisti, ma sono abitudinari e senza inventiva. I fatti non li smuovono, staccarsi dalla routine li strema. Tra sentire e pensare usano dare il primato non al pensiero difficile ma al consolatorio, inerte sentimentalismo.

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