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Autore Discussione: Mimmo CANDITO, giornalismo in lutto: addio al reporter Mimmo Candito  (Letto 27988 volte)
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« inserito:: Marzo 17, 2008, 02:39:59 pm »

Mimmo Candito


14/3/2008 - Le relazioni tra il mondo della politica e il sistema mediatico: il caso italiano, ma non solo
 
Oggi i giornali e i giornalisti davvero servi della politica?
 
 
La politica si fa attraverso i massmedia e dunque...
 
 
Cari naviganti. Ora vi appioppo una mappazza sul perverso rapporto tra sistema mediatico e sistema politico. In periodo di elezioni, questo rapporto raggiunge il suo più elevato punto di criticità, e dunque merita rifletterci organicamente, anche al di là dei brevi suggerimenti che in questi giorni sto cercando di inviarvi per ragionare un po', tutti insieme.
Allora, ecco qui sotto il testo. Siamo in week-end, magari trovate il tempo per leggerlo interamente e scrivere la vostra valutazione. Buona lettura...

Il rapporto fra media e politica
Ora che siamo riprecipitati dentro il tourbillon del voto, la nostra comune attenzione tende ad acuirsi sulle forme nelle quali i nuovi soggetti presentano agli elettori il proprio programma. Insisto sulle “forme”, più che – come sarebbe apparso logico in un altro tempo, ma è ormai giudizio scontato – più che sugli stessi programmi, perché ci siamo abituati progressivamente a “guardare” la realtà piuttosto che a “vederla”, rinunciando alla dimensione critica per adattarci invece a quella, più quieta e rilassante, del consumo passivo (per questo adattamento, le analisi di Antonio Scurati relative allo “spettacolo” della guerra hanno offerto interessante materiale di riflessione sulla mutazione del ruolo che la televisione ha indotto nelle pratiche di ricezione del flussi informativi). E una scrivania di ciliegio nel salotto buono di Porta A Porta attiva reazioni inconsce di catalogazione dei significati, secondo schemi che vanno ben al di là delle valorazioni semantiche del discorso là rappresentato.

E’ la “nuova” egemonia della televisione, certamente, ma è anche la qualità dell’apporto che il sistema generale dei mass-media ha dato alla politica, in un territorio virtuale che Roger Silverstone (“Perché studiare i media?”, Il Mulino, 2002) ha definito come rappresentativo di un cambiamento di forte incidenza sostanziale: “Mentre un tempo avremmo potuto pensare ai media come a un completamento del pensiero politico (…), oggi dobbiamo porci di fonte ai media come a soggetti fondamentalmente inscritti nel processo politico stesso: la politica, come l’esperienza, non può più neppure essere considerata fuori da un contesto mediale”. In questa cornice si è praticata dunque una integrazione di ruoli, con una dislocazione delle identità verso un universo di segni e di messaggi dove la contaminazione non lascia più granché di spazio a differenziazioni. Anzi, v’è da chiedersi se questa integrazione non apra talvolta il passo a un autentico scambio di ruoli.

Comunque, consuetudini pigramente accettate fanno ancora utilizzare categorie distinte, come se questa autentica palingenesi del discorso politico non si fosse realizzata, e il passaggio al dominio della figura del leader (fall-out naturale del processo mediatico) non avesse sostituito l’articolazione che un tempo si manifestava attraverso la dialettica tra le infrastrutture della politica, cioè i partiti e i loro programmi, e la politica come sistema. Scrive ancora Silverstone: “ Mentre un tempo avremmo potuto pensare al sistema dei media come a un garante della libertà e del processo democratico, oggi dobbiamo riconoscere che le libertà richiesta dai media (…) stanno per essere distrutte da quegli stessi media nella loro piena maturità”. L’integrazione ha prodotto dunque una degenerazione molto pericolosa per la stessa democrazia, perchè non è soltanto significativa di perdita d’identità del processo mediatico e/o del sistema politico, ma intacca la natura delle relazioni che si debbono intendere tra produzione della politica e conoscenza della stessa, facendo cadere la funzione di controllo e di garanzia che il giornalismo dovrebbe avere in un sano equilibrio di divisione dei poteri. (Qui si potrebbe anche ragionare sulle diversità strutturali tra il sistema mediatico americano e quello italiano, arrivando alla conclusione che – al di là delle radici storiche del giornalismo Usa e di quello di casa nostra – ciò che conta, e che incide, è che nella cultura politica americana la divisione dei poteri è tuttora un solido baluardo costituzionale e fattuale, anche quando le forti pratiche degli spin-doctors della Casa Bianca tendono ad aprire contraddizioni drammatiche).

All’interno di questo orizzonte, non è che il processo che si va consumando abbia cancellato ogni forma della precedente identità. Nient’affatto. Pensiamo alla forte denuncia che del degrado del sistema politico hanno compiuto Rizzo e Stella nell’assoluto best-seller “La casta”, all’ulteriore approfondimento che ne hanno realizzato Mario Cervi e Nicola Porro in “Sprecopoli” (Longanesi 2007), con un sottotitolo disperatamente illustrativo del loro lavoro di investigazione e di accusa contro la bulimia insaziabile della spesa pubblica: “Tutto quello che non vi hanno mai detto sui nuovi sprechi della politica”. Pensiamo al “viaggio nel paese in svendita” che ha fatto Aldo Cazzullo con “Outlet Italia” (Mondadori 2007), dove racconta con il vecchio animo dell’inchiestista come il degrado dei rapporti umani e la perdita di senso dei valori fondamentali d’una società – a partire dalla giustizia - siano il riflesso amaro di un sistema-paese che va scivolando dentro una spirale che la politica favorisce piuttosto che tentare d’arrestare.

A proposito, appunto, della giustizia, e delle sue strette, perverse talvolta, relazioni con il sistema politico, non può sfuggire all’attenzione il denso materiale critico, un’autentica summa antologica, raccolto da Barbacetto, Gomez e Travaglio, cioè tre delle firme più impegnate nel disvelamento della campagna di appropriazione che una parte del mondo politico ha lanciato nel territorio proprio della giurisdizione (ma può esservi anche una specularità di percorso). Con agevole ironia verso “destra e sinistra che si sono mangiati la II Repubblica”, il titolo di questo gigantesco tomo di 900 pagine è “Mani sporche” (Chiarelettere 2007). In controluce a questo drammatico viaggio negli ultimi 6 anni della nostra vita politica - e che parte con “Il ritorno del Cavaliere”, nel 2001, per approdare alla “Sinistra alla barra”, storia dunque di questi stessi giorni - in controluce si potrebbe anche rileggere il librino che Vittorio Foa e Federica Montevecchi dedicano a “Le parole della politica” (Einaudi 2008), non solo per le riflessioni che vi sono contenute sul linguaggio “plurale” che la politica strumentalizza e disossa ma, anche, per il confronto che riapre tra il discorso su giustizia-ingiustizia nel “Gorgia” plutoniano e l’obiezione socratica sulle connessioni inevitabili tra il logos e le ragioni dell’etica. L’etica. Parola di assai difficile reperibilità nell’universo del nostro attuale sistema politico, ricordando anche quanto ebbe a denunciare qualche breve tempo fa Luca Ricolfi sulla improvvisa indecente nudità della sinistra che sempre si era creduta, e rappresentata nei media, come nobile d’animo e diversa di pratiche (“Perché siamo antipatici? La sinistra e il complesso dei migliori”, Longanesi 2005). Eppure, una nobiltà e una diversità sono comunque presenti anche nel putridume d’un costume che progressivamente ha ceduto spazio e protagonismo all’antipolitica: nelle belle interviste che Corrado Stajano ha voluto dedicare a una settantina di figure chiave del Novecento (“Maestri e infedeli”, Garzanti 2008), da Bobbio a Gherardo Colombo, da Parri a Sylos Labini, da Magris ad Altan e Riccardo Lombardi, viene fuori il ritratto di un’Italia diversa, civile, problematica, consapevole della responsabilità dei ruoli e dei doveri alti della politica.

Ma questa sopravvivenza comunque d’un giornalismo d’inchiesta, che non ha ancora consumato completamente il connubio contronatura con il sistema politico, non contraddice affatto quanto Silverstone denunciava, e quanto abbiamo sotto i nostri occhi nella lettura quotidiana dei giornali e nello spettacolo (ahimè, davvero spettacolo) dei telegiornali. Il sistema mediatico/politico è una ibridazione mostruosa e però fattualmente reale. L’interdipendenza, ormai, tra informazione e attività politica ha avuto certamente nella televisione il suo strumento di consacrazione; l’egemonia del modello televisivo ha proiettato poi sugli altri media le forme di esercizio di questa pratica. C’è da chiedersi se il giornalismo, alla fine, ne soffra davvero, o se piuttosto non ci sguazzi dentro con felice crapula, a cominciare da quei giornalisti che si fanno naturalmente deputati e senatori.

 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 04, 2008, 11:37:17 am »

4/5/2008
 
Caduti per amore di notizia
 
MIMMO CANDITO

 
Nella «Giornata mondiale della libertà di stampa» l’Onu ricorda le vittime di un mestiere sempre più esposto a rischi e poteri forti. Perché l’Italia è sessantesima.

E’ molto probabile che, l'anno prossimo, scivoleremo giù da quel già sconsolante sessantesimo posto che Reporters sans Fronrières e gli altri organismi hanno assegnato all'Italia quando ieri, Giornata della libertà d'informazione, in cui l’Onu ha commemorato i giornalisti caduti nel loro lavoro, hanno pubblicato la graduatoria mondiale. I parametri per decidere il posto nella classifica della libertà di stampa tengono conto di molti fattori, e l'intreccio tra interessi editoriali e interessi politici non è di poco conto. Berlusconi editore, in qualche modo, di Mediaset e della Rai e però anche presidente (prossimo) del Consiglio dei ministri comporta un costo che la nuova classifica, il 3 maggio del 2009, registrerà implacabile.

Ma siamo davvero un paese da sessantesimo posto? A sentire Grillo, altro che sessantesimi: giù, giù, siamo proprio in fondo alla classifica, centesimi, centocinquantesimi, un giornalismo tutto di servi, tutto di camerieri. Che servi e camerieri ci siano, è innegabile: qualche tempo fa, il presidente Ciampi ebbe a esortare il giornalismo italiano a «tener sempre la schiena dritta», e l'esortazione non ci sarebbe stata se quella schiena Ciampi non l'avesse vista spesso ben piegata. E d'altronde, basta osservare come molti telegiornali hanno praticato una deprimente autocensura sulle immagini che mostravano Berlusconi a villa Certosa mentre mimava di sparare contro la giornalista russa «troppo invadente» (i lettori hanno segnalato quelle immagini soltanto su Tg3, La7 e TgSky).

Ma, al di là delle violenze verbali di Grillo, l'ampia partecipazione popolare alla sua manifestazione è una realtà della quale bisogna tener conto, se non vogliamo che questa Giornata mondiale sia esclusivamente rituale. Tanta gente che va in piazza e protesta e grida e s'infuria sulle news significa una cosa anzitutto: che v'è una domanda forte d'una informazione credibile, garantita. Affidabile.

Tuttavia, per aiutarci a coglierne il senso autentico dobbiamo leggere quella partecipazione assieme a un'altra notizia, anch'essa di questi giorni: le dimissioni del direttore del Wall Street Journal, che ha considerato di non poter continuare il proprio lavoro per l'invadenza eccessiva del nuovo proprietario. In altre parole: il nuovo padrone del WSJ, Rupert Murdoch, oltre che l'editore voleva fare anche il direttore, e allora il giornalista ha preso il cappello e se n'è andato. Integrare le due notizie aiuta a comprendere che il giornalismo ha, dovunque, un compito molto difficile, nella sua ricerca di una mediazione accettabile tra la lettura autonoma della realtà e la pressione condizionatrice che invece mettono in atto i poteri, politico, economico, culturale, per ottenere una lettura funzionale ai propri interessi.

Questa mediazione è fisiologica, è cioè pratica costante; e da quando la centralità dell'informazione è diventata un principio riconosciuto, la mediazione si è fatta ancor più difficile. Dire tutti servi, tutti camerieri, può anche consolarci, in quella pratica del «pensiero binario» (come lo chiama Edgard Morin) che nei fatti tradisce la realtà, la quale non è bianca o nera ma è una complessità di contraddizioni molteplici. Ricordare le dimissioni al WSJ aiuta, nella Giornata mondiale della libertà dell'informazione, a capire che l'aspettativa di un giornalismo credibile si realizza meglio se si aiuta il giornalismo a non trovarsi da solo nel braccio di ferro con i poteri.

da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 26, 2008, 03:34:28 pm »

26/6/2008
 
Le 7 sorelle si vendicano a Baghdad
 

 
MIMMO CÁNDITO
 
Gli americani la chiamano «the smokin' gun», la pistola fumante, per dire: ecco qui la prova inequivocabile, quella che inchioda il colpevole al di là di qualsiasi possibile dubbio. La pistola fumante che inchioda Bush e Cheney alle loro colpe sulla guerra lanciata cinque anni fa la si potrà trovare lunedì prossimo sulla scrivania del Ministro iracheno del petrolio quando, schierate di fronte a lui, siederanno con la penna già in mano le «sette sorelle», o comunque quanto resta di loro dopo le fusioni, pronte a firmare il contratto che gli concede di tornare a metter le mani sul petrolio della Mesopotamia. Le aveva rimandate a casa più di trent'anni fa Saddam Hussein, con un decreto di nazionalizzazione degli idrocarburi; ma ora che Saddam è stato messo a tacere, le majors possono godersi il miele della vendetta e rientrare in pompa magna a farsi i loro affari. Questa è la notizia che circola in molti blog americani negli ultimi giorni, a dire qual è l'umore sprezzante che sempre più viene rivolto al Presidente e alla sua politica irachena, con lo stillicidio quotidiano dei 4 mila morti interrati nella coscienza della nazione.

Cadute le facili illusioni dei primi giorni di quel 2003, nell'opinione pubblica ha finito per acquistare sempre maggiore credibilità l'ipotesi che la vera ragione di questa guerra fosse il petrolio, altro che «la democrazia da esportare». E l'Iraq, di petrolio ne ha davvero un mare. Le sue riserve conosciute sono di 115 miliardi di barili (più i 45 miliardi di metri cubi di gas), che è una cifra che lo mette al terzo posto della classifica mondiale; ma nelle settimane che precedettero il lancio della guerra l'Energy Information Agency del governo americano dava una stima assai più elevata, di 332 miliardi di barili, valutando che nella pancia del deserto occidentale ci siano riserve preziosissime, che porteranno l'Iraq al primo posto dei paesi produttori, sopravanzando di 70 miliardi di barili perfino l'Arabia Saudita, oggi il più ricco di pozzi e di petrodollari.

A confortare il giudizio amaro sui reali interessi di Bush e di Cheney - legati da sempre al mondo petrolifero, che gli finanziò la campagna elettorale dopo averli avuti anche come qualificati membri dei consigli di amministrazione - è la specifica che accompagna i contratti da firmare lunedì: contrariamente a quanto si pratica in questo comparto industriale, gli accordi sono stati raggiunti a trattativa privata, senza alcun bando pubblico, che è come dire che la Exxon Mobil, la Shell, la Total e la Bp (che facevano parte di quell'Iraq Petroleum Company che gestiva i ricchi affari iracheni prima di Saddam), più la Chevron-Amoco potranno spartirsi l'oro nero iracheno indisturbate, senza concorrente alcuno.

L'Iraq, che oggi produce 2 milioni e mezzo di barili al giorno (ma, con investimenti adeguati e un incisivo rinnovamento tecnologico, frenato a lungo dall'embargo contro Saddam, potrebbe arrivare fino a 6 milioni), conta di avere dai nuovi soci una immediata capacità di portare la produzione a 3,1 milioni già entro l'anno; e giustifica il contratto «di favore» con due spiegazioni: l'alto know-how delle majors, che potranno aiutare l'industria irachena a migliorarsi decisamente, e poi la durata del contratto limitata a 2 anni. «Poi si ridiscuterà».

Certo ogni illusione è lecita, poi. Il Columbia Journalism Review, pubblicando recentemente in un numero speciale i più importanti reportage sulla guerra, stampava anche quanto aveva detto ai suoi ascoltatori l'inviata della National Public Radio, Anne Garrett: «Gli iracheni, al nostro arrivo, erano scioccati per il fatto che i soldati americani non facessero niente contro le violenze e i saccheggi, e ricorderà per sempre che praticamente l'unico edificio a essere protetto era il ministero del Petrolio; questo ricordava a tanti il motivo per il quale gli Stati Uniti si trovavano là».

 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Novembre 07, 2008, 10:08:02 am da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 12, 2008, 11:21:31 am »

12/7/2008
 
Iraq, addio giornalismo di guerra
 

 
MIMMO CÁNDITO
 
Tranne qualche raro flash di routine, l’Iraq è scomparso dalle pagine dei giornali e dalle informazioni di telegiornali e radiogiornali. È come se laggiù fosse finito tutto, finita la guerra, finite le lotte tra sciiti e sunniti, finite le infiltrazioni terroristiche di al-Qaeda, finite le stragi e le autobomba. Poi sfogli il New York Times e nel piccolo riquadro d’una pagina interna un breve titolo, «I nomi dei morti», accompagna l’annuncio che il soldato John Smith e il sergente Carlos Redondo ieri sono stati ammazzati in Iraq. Smith e Redondo si aggiungono ai 4102 che finora erano i morti di quella guerra, ma altri due o tre o cinque Smith e Redondo già domani cancelleranno questi loro nomi, come accade in ognuno di tutti i giorni da quando la guerra è cominciata, nel marzo del 2003. In Iraq, si combatte e si muore tuttora. Solo che ora non se ne parla, non se ne scrive, non se ne raccontano più uomini, storie, tragedie, battaglie. L’Iraq pare diventato una guerra dimenticata.

Un tempo, le «guerre dimenticate» erano quelle dove i giornalisti non andavano perché - si diceva - non interessano nessuno, non erano coinvolte né grandi potenze né grandi strategie. Ma oggi la geografia del giornalismo è cambiata drammaticamente, oggi le guerre «dimenticate» sono le guerre dove invece i giornalisti non vanno perché non possono andarci. Perché il rischio d’esservi ammazzati è troppo elevato. Farnaz Fassihi, inviata del Wall Street Journal in Iraq, dice: «Essere un giornalista straniero a Baghdad in questi giorni è come essere un condannato agli arresti domiciliari». (La sua intervista può esser letta nel Diario-mese che ha pubblicato la traduzione italiana d’un numero speciale del Columbia Journalism Review dedicato ai reporter in Iraq).

Quest’ultima guerra del Golfo è, forse, anche l’ultima del giornalismo di guerra. Un mestiere va finendo, quanto meno va finendo il modo con cui lo si faceva, che era la pratica testimoniale di un rapporto diretto con il territorio raccontato e con coloro che vi operavano, i soldati, gli ufficiali, i guerriglieri, ma anche la gente comune e la loro vita senza storia e senza qualità. Oggi, in Iraq, se pensi ancora di andare in giro a osservare, intervistare, incontrare persone e informatori, sei un aspirante suicida.

Puoi essere rapito e sequestrato, come la Giuliana Sgrena o Malbrunot, ma è più facile ancora che ti prendano e ti sgozzino. Dice Borzou Daragahi, del Los Angeles Times: «Un espediente strategico che utilizzo è di andare sul lungo di un attentato, raccogliere con estrema rapidità i numeri dei cellulari della gente lì attorno, per andarmene nel giro di dieci o quindici minuti. Poi, mentre sto tornando indietro in macchina, li richiamo per raccogliere le loro testimonianze». Borzou non ha l’aspetto di un giornalista straniero, ma quei quindici minuti sono il limite massimo della sua missione. I media occidentali stanno delegando la raccolta e produzione d’informazioni ai loro collaboratori iracheni, che però - nemmeno essi - sono esentati dal pericolo, perché considerati «spie degli americani». Il Committe to Protect Journalists ha contato che, dei 206 giornalisti e stringer e interpreti uccisi fino a oggi in questa guerra, più di 170 erano iracheni.

Nell’analisi critica del giornalismo d’oggi, ha un ruolo sempre più accentuato l’utilizzo mediato dei flussi informativi, cioè la sostituzione del lavoro sul campo con la pratica di «impastare» in redazione le informazioni raccolte attraverso l’uso di fonti esterne. È, questo, il derivato più determinante dell’evoluzione tecnologica e delle straordinarie potenzialità del web. Finora, il reporter di guerra aveva potuto resistere a questa mutazione, integrando piuttosto con Internet il suo vagare e indagare sul campo di battaglia. Ma ora che l’Iraq è diventato territorio off-limits, la cronaca di una morte annunciata si va consumando. E ci si chiede che cosa sia giornalismo oggi.

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 20, 2008, 10:29:27 am »

20/8/2008
 
La nuova battaglia di Algeri
 
 
 
 
 
MIMMO CÁNDITO
 
Al pomeriggio, quando il calar del sole fa meno torrida l’aria di Algeri e la città bianca di Camus si riapre alla sua gente, i ragazzi che se ne vanno a flanellare lungo rue Diduche Mourad - un muro umano in un paese dove più del 70 per cento della popolazione è di giovani - sono l’obiettivo reale delle bombe che ieri hanno fatto 43 morti e una cinquantina di feriti. In Algeria il terrorismo è lo sfondo sul quale per 15 anni la vita quotidiana ha tentato, tra sofferenze profonde, di sopravvivere allo stillicidio ininterrotto d’una tragedia senza limiti e senza pietà; ha tentato e alla fine ci è riuscita, pur pagando - con 200 mila morti - un prezzo altissimo, che davvero poche società della storia contemporanea (al di fuori dei massacri compiuti dal nazismo e dal comunismo eurasiatico nella spirale ideologica del «secolo breve») hanno dovuto accettare come impianto culturale d’una condizione collettiva mostruosamente deformante.

Questi ragazzi, il muro compatto e tormentato delle loro speranze e frustrazioni, dovrebbero diventare, nel progetto del terrorismo, i nuovi militanti della guerra santa che l’alleanza tra al-Qaeda e le formazioni del Gruppo Salafita di Preghiera e Combattimento hanno stretto un anno fa, creando la nuova «al-Qaeda per il Maghreb Islamico», nucleo fondante d’un piano di trasferimento del jihad dalla Mesopotamia (dove sta attraversando una fase di crisi che potrebbe essere anche insuperabile) all’Africa Settentrionale (dove si radica larga parte dei massicci flussi migratori che muovono clandestinamente verso l’Europa e che, nel piano di al-Qaeda, dovrebbero trasformarsi nella quinta colonna che farà saltare in aria, dall’interno, gli equilibri politici e sociali del Vecchio Continente). E il programma ideologico della nuova formazione, redatto dallo stesso numero due di Bin Laden, Aymar al-Zawahiri, identifica il bersaglio delle azioni terroristiche proprio «nei Crociati europei, e nei loro alleati schiavi dell’America e figli della Francia» (gli «schiavi dell’America» sono i regimi arabi moderati, a cominciare da Egitto e Arabia Saudita, e i «figli della Francia» sono le ex colonie francesi del Maghreb, a cominciare dalla stessa Algeria).

Le due bombe di ieri vanno osservate da questa parte dell’Occidente con una riflessione più seria di quella che riceverebbero se si trattasse «soltanto» d’un problema locale, dove tensioni politiche e religiose si fondono con le radici storiche dei forti contrasti etnici tra la maggioranza araba algerina e la minoranza berbera insediata in Kabylia. Un’attenzione che il progetto di Unione Mediterranea, nato poche settimane fa sotto la spinta delle ambizioni di «re-grandeur» Sarkozy, accentua in modo significativo, collocando il Maghreb in una visione unitaria con l’Europa che fa prevalere sulle divisioni e sulle diversità - etniche, religiose, politiche, sociali - la speranza di un interesse comune.

L’Algeria, proprio per la sua tragica storia recente, e per questo muro umano di ragazzi, affascinante e però preoccupante nella sua fragilità emotiva, è al centro di un piano di destabilizzazione continentale di dimensioni quali finora mai si erano osservate, neanche con gli attentati ai treni di Madrid e alla metropolitana di Londra. Il trauma creato dalla «guerra civile» degli Anni 90 ha potuto essere superato con un’amnistia che il presidente Buteflika ha voluto fermamente, e che ha finito per svuotare gli arsenali umani del Gis (lo stesso leader del Gruppo islamico, Hassan Kattab, si è consegnato all’esercito, in opposizione all’allargamento della lotta che i suoi militanti stavano praticando). Questo nuovo potenziale di crisi può essere disinnescato dal piano di sviluppo del governo, che intende attuare un incremento del bilancio sociale del 19%, utilizzando le maggiori entrate dell’aumento del prezzo del petrolio e del gas per investimenti che rispondano ai bisogni di quel muro inquieto di ragazzi, con un piano di costruzione di 1 milione mezzo di alloggi e con forti contributi per l’istruzione e i trasporti. È una scommessa sulla quale si gioca una partita che coinvolge anche i Paesi del Sud dell’Europa. Merita prestarle un’attenzione che finora è stata spesso assente.
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Settembre 13, 2008, 12:33:18 am »

12/9/2008
 
Il risveglio degli indios
 
 
 
 
 
MIMMO CANDITO
 
Era diventato un mondo dimenticato dal mondo, l’America Latina, che sembrava consegnata al suo destino monroeiano di cortile di Washington. L’arrivo irruento di Chávez, prima, e l’esplosione poi del prezzo del petrolio, hanno rovesciato il corso della storia, attivando dinamiche che scuotono dall’interno il subcontinente. Due, soprattutto, sono le forme nelle quali si sta sedimentando il cambiamento: la prima è il risveglio della «nazione india», che scuote gli equilibri degli Stati nei quali gli indios costituiscono una quota rilevante della popolazione e ha trovato nella Bolivia - dove quechua e aymarà sono maggioranza - la realizzazione più compiuta con l’elezione a presidente dell’indio «cocalero» Elio Morales; la seconda è la nazionalizzazione delle risorse energetiche, in un processo che ha avuto in Chávez l’iniziatore e che ha trovato molti imitatori. I problemi boliviani nascono da entrambi questi fattori: le province ribelli sono a maggioranza bianca e sono le aree ricche di idrocarburi.

Un ambasciatore (per di più americano) che s’incontra ufficialmente con i prefetti di queste province o è uno che ha sbagliato mestiere oppure è uno che prepara, con il consenso della casa madre, storie sporche come quelle cilene. Sorprende, comunque, tanta rozzezza. I tempi sono cambiati da quanto successe proprio ieri 35 anni fa a Santiago, e la solidarietà manifestata immediatamente da Lula è molto significativa. Ieri stesso, Morales aveva firmato l’adesione della Bolivia all’Unasur, l’Unione sudamericana; tutto si muove, e il G-7 deve intanto registrare che si va formando un centro alternativo di potere che mette assieme gli «altri» grandi, si chiama Crib e dentro, con la Cina, la Russia e l’India, c’è proprio un pezzo «alternativo» dell’America Latina, questa «b» che sta per Brasile.
 
 
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 13, 2008, 11:55:32 am »

13/9/2008 (7:6) - LA STORIA

Cent’anni di rancore verso il padrone gringo
 
Da Bòlivar ai Tupamaros, un odio che non si è mai placato

MIMMO CANDITO

CARACAS


Yanquis de mierda, qué se vayan!». Hugo Chávez ha modi rozzi, che la sua frequentazione delle caserme ha forgiato al di là di ogni civile misura, ma questo scatologico invito agli americani ad andarsene (dal Venezuela e dalla Bolivia, ma soprattutto da quell’universo di genti, etnie e storie che è l’America Latina) voleva proporsi consapevolmente, in questa sua violenza verbale, come l’espressione che meglio interpreta un sentimento popolare che in Sud America è molto diffuso. E che lega in un atteggiamento culturale - prima ancora che politico - segmenti di società e di classi, solidali al di là delle frontiere. Alle radici sta certamente il retaggio dei secoli della colonizzazione spagnola, e portoghese, che da quando James Monroe (in realtà era John Quincy Adams, Monroe se ne appropriò) espresse la celebre dottrina «L’America agli americani», è stato progressivamente sostituito nell’immaginario dai nuovi padroni sull’altra sponda del Rio Bravo.

Con la «dottrina», nel 1823, Monroe voleva segnalare all’Europa che il Nuovo Mondo era territorio di competenza degli Usa, e ogni intervento sarebbe stato visto come aggressione. La vecchia alleanza tra latifondisti bianchi e servizievoli forze armate reggeva ancora molta parte dei Paesi del Sud America, però la battaglia bolivariana riportava dall’Europa il sentimento nuovo dello Stato nazionale. Il generale Simón José Antonio de la Santísima Trinidad Bolívar Palacios Ponte y Blanco tentò di costituire un’unione dei popoli sudamericani, autonomi da ogni ingerenza esterna, e poté far nascere la Gran Colombia come Stato-nazione che unificava parte del Venezuela, della Colombia, del Perù e dell’Ecuador; ma il suo progetto si consumò prima ancora della sua morte, scontrandosi con la resistenza delle vecchie alleanze «nazionali» di potere.

Comunque, l’invadenza sempre più forte degli investimenti americani spinse da parte la vecchia gestione spagnola (la guerra per Cuba, alla fine dell’800, è l’ultima resistenza), sostituendo una nuova gestione delle economie locali e dei governi, in un esercizio però di assoluta continuità con le alleanze di potere del passato, com'è evidente nel golpe in Nicaragua che porta al potere il sergente Somoza e per il quale il presidente Roosevelt dice in termini di difesa degli interessi statunitensi: «Sarà un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana». E quando, nel 1954, in Guatemala si afferma un progetto di governo che vuole sottrarre i latifondi al controllo della multinazionale United Fruit, un colpo di Stato della Cia (nome in codice Pb-Success) chiude rapidamente i conti.

Cuba sarà la tappa successiva, in un intrico di malintendimenti e di errori politici che esplodono nel momento in cui Fidel Castro vara una riforma agraria che nazionalizza gran parte degli investimenti americani e lascia intravedere un modello economico di propensioni socialisteggianti. Da Cuba e dai «focos» guerriglieri del Che Guevara comincia un percorso che si manifesta fino agli anni ‘80 nei tentativi rivoluzionari, antiyanquis. E che troveranno nel Cile di Pinochet, nell’Argentina dei generali golpisti, e nella lotta spietata ai Tupamaros in Uruguay, la loro fase terminale, schiacciati da alleanze militari che, formate con il sostegno di Washington nella «Escuela del las Americas» di Panama, prendono sanguinosamente il potere «contro il comunismo».

In questo orizzonte di risentimenti che proiettano sul mito dell’imperialismo yanqui (mito e solida realtà, naturalmente) malesseri sociali molto profondi, Chávez è solo la ripresa di una continuità mai interrotta. Se non fosse il mito a dominare i sentimenti popolari, assai più forte rancore dovrebbe manifestarsi verso la «Reconquista» spagnola: oggi, in molti Paesi, se accendi la luce, apri il rubinetto, telefoni, vai in banca, credi di trattare con una società locale e stai invece pagando un tributo alla società finanziaria di controllo, che ha sede sempre a Madrid. La nazionalizzazione degli idrocarburi di Chávez e Morales sta procurando forti mal di pancia non solo a Washington, ma a Washington sono yanquis.

da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Ottobre 28, 2008, 11:00:40 am »

28/10/2008
 
Maglie nere della libertà di stampa
 
 
MIMMO CÁNDITO
 

Al primo posto c’è l’Islanda, al secondo il Lussemburgo, al terzo la Norvegia, e poi a seguire Estonia, Finlandia, Irlanda, Belgio, Lettonia, fino al primo paese non europeo, che è la Nuova Zelanda, nono posto. La classifica mondiale della liberta di stampa appena pubblicata da una delle più autorevoli organizzazioni che controllano la condizione del giornalismo nel pianeta, Reporters Sans Frontières, non mostra in questa testa della graduatoria elementi di novità. Sono, tutti, Paesi e culture dove la libertà d’espressione non sta soltanto nelle norme del diritto positivo - ci sono, naturalmente, Svezia, Svizzera, Canada, Olanda, Inghilterra e così via - ma questa libertà è parte integrante del costume civile di quelle società, insieme con il rigoroso rispetto della divisione dei poteri.

Fa stupore, piuttosto, uno stupore iniziale, d’abbrivio, che gli Stati Uniti siano ben giù, al quarantesimo posto; ma poi si pensa alle censure e alle manipolazioni della «guerra contro il terrorismo», e alle dure limitazioni che il Patriot Act comporta nella vita pubblica di quel paese, e allora si fa presto a cancellare dall’immaginario la vecchia lezione (che pure era largamente autentica) del giornalismo del Watergate, di Lippman, di Arnett, di Cronkite. posizione ancor peggiore va comunque all’Italia, classificata quarantaquattresima, e possiamo perfino dire che non ci va malissimo, considerando l’evidenza dei conflitti d’interesse e delle manomissioni politiche che inquinano il nostro sistema mediatico, la canea strumentale sulle intercettazioni che tendono a imbavagliare la stampa sotto la pretesa dì un rigoroso controllo della privatezza, le pesanti minacce che la criminalità lancia contro i giornalisti, a cominciare dalla morte che pende sulle amare giornate clandestine di Roberto Saviano.

Per i Paesi dittatoriali o comunque a regime autoritario, poco da dire: l’Iran è 166°, la Cina 167°, Cuba due posti ancora più giù. Ultimi, Corea del Nord ed Eritrea. Ma poiché non sempre le strutture formali corrispondono alla realtà della vita pubblica, nessuno deve stupirsi se un Paese formalmente democratico, la Russia di Putin e di Medvedev, sia ben verso il fondo della classifica, 141ª (richiamo alla nostra comune memoria che, da quando Putin ha preso il potere, a parte il suo controllo totale, o quasi, sui media, nel suo Paese sono stati assassinati 22 giornalisti, senza che mai la giustizia abbia trovato un colpevole).

Chiuso l’elenco con qualche malinconico, insopprimibile, sconforto, bisogna avere tuttavia la forza di proiettare la classifica all’interno del nuovo orizzonte dentro il quale il giornalismo va muovendo, incerto, pavido, schiacciato dai condizionamenti dei poteri, ma anche dalla rivoluzione che le tecnologie elettroniche hanno scatenato sul vecchio mestiere. Se politica e affari tentano sempre più di inquinare l’autonomia della narrazione del giornalismo (consiglio a tutti di leggersi sulle pagine del New York Times gli editoriali rabbiosi del neo-premio Nobel, Paul Krugman), si vanno però diffondendo con Internet e con il telefonino forme nuove di produzione giornalistica, il citizen journalism, il microjournalism per esempio, che tentano di arrangiare una difesa che coinvolga più direttamente la società cioè i consumatori d’informazione. Il problema non è affatto corporativo: il 90 per cento di ciò che forma la nostra «conoscenza» viene costruito dalla produzione quotidiana dei massmedia. Conviene rifletterci, tutti.
 
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« Risposta #8 inserito:: Novembre 12, 2008, 10:14:35 am »

12/11/2008
 
Nuova Africa dietro le lacrime
 
 
 
 
 
MIMMO CÁNDITO
 
I giornali e le tv che ci raccontano il conflitto in Congo hanno toni drammatici, squarci e lampi di vissuto aspramente dolorosi, che lanciano contro la nostra disattenzione parole e immagini di violenze sconvolgenti: un’umanità misera perde lenta la propria identità e scompare in un orizzonte dove solo la natura ancestrale di quelle terre pare conservare il diritto alla vita. Come in Conrad, o nella Blixen, a imporsi nel nostro immaginario è ancora lo stereotipo immutabile della tragedia dell’Africa continente senza speranza. E tuttavia una lettura diversa dovrebbe poterci fornire elementi di riflessione più adeguati a comprendere una realtà che non è affatto immobile. E questo, su due piani: uno aderente allo specifico del «caso Africa»; l’altro, più attento a incunearsi nelle forme nuove di costruzione della conoscenza.

È sempre vero che gran parte degli 800 milioni di africani vive in condizioni disperate, languendo in una quotidianità senza certezze misurabili. E tuttavia negli ultimi anni i 48 Paesi delle regioni subsahariane hanno registrato un incremento costante del 5%, che è cosa minima in considerazione dei dati di riferimento e delle pesanti sperequazioni sociali, ma indica, comunque, che una tendenza quinquennale può essere legittimamente valutata come una prospettiva interessante di crescita. È sempre vero che la qualità dei sistemi politici mostra forti carenze di credibilità quasi in ogni Paese del continente, e l’esempio della crisi dello Zimbabwe è simbolicamente espressivo d’una realtà globale. E tuttavia, due terzi degli Stati africani sono retti oggi da cariche elettive a durata costituzionale e 14 capi di Stato hanno dovuto abbandonare, negli ultimi anni, le cariche dietro le pressioni interne e internazionali. E la signora Navatathem Pillay, rappresentante del Sud Africa, è il nuovo Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani.

È sempre vero, ancora, che le tensioni etniche appaiono l’elemento scatenante dei conflitti che insanguinano due terzi degli Stati africani, come ora in Congo nella guerra tra i banyamulenge del Kivu e gli interhawne del Ruanda. E tuttavia, una ricerca dell’Onu dimostra come, dietro lo scontro etnico, ci sono ben altre ragioni, prevalentemente interessi economici internazionali (le tensioni etniche sono solo al quinto posto delle «cause reali»). Il generale Nkunda e i suoi nemici mostrano di battersi per la difesa di ragioni etniche ma dietro queste bandiere stanno le ricchezze minerarie del Kivu e il contratto di 9 miliardi di dollari che il presidente Kabila ha firmato con la Cina. Nel Congo che nelle viscere conserva le più ricche miniere del mondo dopo quelle russe, l’intervento degl’investimenti cinesi segna simbolicamente l’inasprirsi di un conflitto strategico con gli Usa che già era stato aperto dagli investimenti nel Sudan e in Angola, e impone a Obama la necessità di una forte correzione delle politiche statunitensi.

Tutto questo sta nello sfondo delle cronache sulla guerra congolese, fino al punto da apparire evanescente. Una ragione forte di questa marginalità si trova nell’«estetica della lacrima» che ormai domina il lavoro giornalistico, soprattutto quando di guerre si tratta. Le esigenze della spettacolarizzazione che guidano il linguaggio della tv, e l’egemonia che il modello televisivo ha sulla costruzione dell’informazione, impongono narrazioni dove il dovere della commozione, la cattura delle emozioni, lo sfruttamento della sensibilità, sono obblighi rigorosi, perché funzionali alla creazione del «messaggio» come appetibile prodotto di consumo. La definizione della realtà è sempre più legata agli effetti di senso che la sua rappresentazione offre al pubblico, e così il simulacro diventa il reale.
 
da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Dicembre 10, 2008, 10:51:23 am »

10/12/2008
 
Che c'entra il giornalismo col tg faidate
 
MIMMO CÁNDITO
 

Dunque anche i giornali americani franano nei conti in rosso, implodono dentro le loro pagine, erodono la tradizione d’un modello che sembrava eterno. E non è nemmeno detto che sopravvivano fino al 2043, come qualcuno profetizzava. Ma non è un problema soltanto dei giornali, cambia da dentro, in profondo, il modo di fare informazione. Quando gli aerei dei terroristi s’infilarono nella pancia delle Torri, furono le immagini di alcuni filmati «amatoriali» a darci la prima notizia di quel mattino di settembre che stava cambiando il mondo. E furono di nuovo i filmati «amatoriali» che ci raccontarono lo tsunami o ancora, qualche tempo dopo, l’angoscia e la paura di una Londra sconvolta dagli attentati nell’Underground. Il lessico della vecchia cultura mediatica definisce «amatoriali» quelle immagini; ma oggi il loro nome è «citizen journalism». E poiché le parole non sono puri accidenti, la nuova formula apre un percorso che va al di là d’una classificazione di comodo.

Il «giornalismo cittadino» (o, per altri, «giornalismo partecipativo») è sicuramente il prodotto diretto delle nuove tecnologie elettroniche, quanto meno nel senso che la sua produzione si può avvalere di strumenti - il telefonino, la videocamera, il pc - capaci di registrare e riprodurre la realtà senza il passaggio obbligato di una particolare competenza tecnica. E in queste ultime settimane, sull’esempio di quanto è già avvenuto all’estero (per esempio, i.Report.com della Cnn) prima SkyNews24 e ora il TG1 vanno sollecitando i loro spettatori a inviare alle redazioni filmati «amatoriali» da inserire nel notiziario del telegiornale.

Va detto che quanto s’è visto finora è sconsolante. Ma non è questo che conta, certamente arriverà prima o poi qualcosa di più interessante. No, il problema sta nella presunzione di partenza, quella che definisce «giornalismo» la trasmissione di alcune immagini acchiappate casualmente e poi consegnate al consumo pubblico. Come se un «documento» compendiasse ed esaurisse il lavoro giornalistico. È evidente che il giornalismo sia oggi sottoposto a un processo di profonda trasformazione, sotto la pressione delle nuove tecnologie. Matt Drudge, uno dei santoni della Rete, ama dire che «ora l’informazione è democratica, orizzontale», cioè che è finito il monopolio dei sacerdoti (i giornalisti) che distribuivano la conoscenza dall’alto, possessori esclusivi del Verbo. Internet ha mutato relazioni, competenze, forme di produzione, aprendo uno sterminato territorio nuovo, nel quale il miglior giornalismo «tradizionale» si è avventurato da tempo, con curiosità e fascinazioni pari almeno alla cautela che la sua responsabilità gli impone. Responsabilità legate alla consapevolezza che il giornalismo non produce soltanto informazioni, ma anche realtà e anche conoscenza, e che dunque (quando giornalismo è) il processo della verifica e dell’approfondimento sono elementi genetici della sua stessa natura. Quando giornalismo è.

Ma nel concetto di «citizen journalism» c’è qualcosa di ben diverso dalla trasmissione di un filmato «amatoriale». C’è il progetto di un passaggio tendenziale del lettore-spettatore da «consumatore passivo» a «corresponsabile attivo»: i massmedia che si aprono ai commenti dei loro utilizzatori, che attivano forum di discussione del loro pubblico con i redattori, che sollecitano il pubblico a farsi fonte d’informazione (i filmati, le telefonate di segnalazione, i documenti offerti etc.), mostrano di voler affrontare senza timori la sfida delle tecnologie. Tuttavia, questa mutazione in corso non può realizzarsi con la cancellazione - o l’emarginazione - dei dati genetici del giornalismo, del suo compito cioè di offrire una credibile capacità di distinzione tra ciò che è «vero» da ciò che è «verosimile». La fascinazione delle nuove tecnologie tende a erodere quella distinzione, e già qualche tempo fa Paul Virilio ammoniva a badar bene che la realtà offerta dai massmedia non crei una «telerealtà», e dunque che - grazie ad una produzione mediatica dove la quantità del consumo (il numero degli spettatori, o i visitatori di un sito, per esempio) ora vale più del contenuto di un messaggio - la democrazia non si trasformi in «telecrazia per cittadini infatilizzati».
 
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« Risposta #10 inserito:: Febbraio 18, 2009, 10:53:09 am »

16/2/2009 - LA CENSURA IMPOSTA AI MASSMEDIA E L'INCHIESTA CONDOTTA SUL CAMPO
 
Rapporto di Reporters sans Frontiéres sulla guerra di Gaza
 
Le responsabilità di Israele e quelle di Hamas

Mimmo Candito

ISRAELE/GAZA

Operazione: « Piombo fuso» : il controllo dell''informazione è un obiettivo militare. I giornalisti palestinesi tra il fuoco israeliano e le minacce di Hamas.
 
« Il bilancio delle violazioni della libertà di stampa durante l''operazione "Piombo fuso", a Gaza, potrebbe certamente sembrare secondario se paragonato alle centinaia di vittime, molte delle quali civili. Ma l''informazione è l''ennesima vittima di questa guerra. La chiusura della Striscia di Gaza, ammessa apertamente dalle autorità israeliane, è inaccettabile ed inquietante. E va ben aldilà di questo conflitto: il controllo dell''informazione in tempi di guerra è ormai diventato, dappertutto nel mondo, un obiettivo militare... E'' ormai la norma », ha precisato Reporters sans frontières, in occasione della diffusione di un rapporto sulle violazioni perpetrate ai danni della libertà di stampa durante l''offensiva militare israeliana nella Striscia di Gaza, nel gennaio 2009.
 
«Anche Hamas è responsabile di numerose violazioni gravi della libertà di stampa. Contrariamente a quanto è stato riferito dai suoi dirigenti, i giornalisti non sono liberi di criticare il movimento islamista, diffondere le opinioni di altre fazioni o, semplicemente, esprimere punti di vista divergenti. La maggior parte dei giornalisti incontrati a Gaza da Reporters sans frontières condivide questo punto di vista, ma nessuno può esprimerlo pubblicamente, per paura di rappresaglie», ha sottolineato RSF, che ricorda che ben 28 giornalisti sono stati arrestati da Hamas – per le loro opinioni politiche - da quando, nel giugno 2007, l''organizzazione ha preso il controllo di Gaza.
 
Una delegazione di Reporters sans frontières si è recata in Israele e nella Striscia di Gaza, a metà gennaio, per fare un bilancio delle violazioni della libertà di stampa commesse durante l''ultimo conflitto. Dopo aver effettuato un''inchiesta in loco, Reporters sans frontières dichiara che: sei giornalisti sono stati uccisi – due mentre stavano lavorando -, quindici sono stati feriti e almeno tre edifici occupati da rappresentanti dei media sono stati colpiti dal fuoco israeliano.

Nel suo rapporto, Reporters sans frontières condanna con fermezza tutti gli attacchi sferrati dall''esercito israeliano contro gli edifici occupati dai media palestinesi o stranieri e chiede all''esercito e al governo israeliani di fornire rapidamente spiegazioni dettagliate sui motivi di questi attacchi.
 
«Le Nazioni Unite devono esigere di essere coinvolte in questa inchiesta. Inoltre delle ONG dovrebbero esservi associate. Reporters sans frontières esprime, fin d''ora, il desiderio di offrire, in tutta indipendenza, il suo contributo. In passato, altre inchieste avviate dall''esercito israeliano sulla morte di giornalisti o sui bombardamenti che hanno colpito sedi dei media hanno prodotto risultati molto criticabili, esonerando da ogni responsabilità i soldati coinvolti,» scrive RSF nella parte conclusiva del suo Rapporto. Reporters sans frontières aggiunge che, dall''inizio della Seconda Intifada nel settembre 2000, i giornalisti uccisi sarebbero 7 e i feriti più di 100.
 
Per quanto riguarda la chiusura della Striscia di Gaza ai media, Reporters sans frontières continua a sottolineare che questa decisione costituisce una violazione grave, inaccettabile della libertà di stampa. Anche per questo motivo, l''organizzazione incoraggia fortemente le Nazioni Unite ad adottare una risoluzione per esortare le autorità israeliane a non usare più, in futuro, tali metodi coercitivi per imbavagliare l''informazione.


RSF offre il suo contributo per organizzare, con l''accordo delle autorità israeliane, l''invio di materiale destinato ai professionisti dell''informazione nella Striscia di Gaza. Materiale che oggi manca totalmente: telecamere, cassette, macchine fotografiche, generatori etc. sono stati rovinati o distrutti durante il conflitto. Israele controlla i flussi di merci che penetrano nella Striscia di Gaza. Reporters sans frontières esorta lo Stato di Israele a far prova di assennatezza. Questo materiale, indispensabile ai media locali, dovrebbe poter beneficiare delle stesse condizioni di trasporto che regolamentano gli aiuti umanitari.
 

da lastampa.it
 
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 18, 2009, 10:15:03 am »

18/6/2009 - SHARIA & POTERE
 
I due rivali chiusi insieme nella gabbia del corano
 
MIMMO CÁNDITO
 
Quando Obama dice che non v’è poi molta diversità tra Ahmadinejad e Mousavi, non si lascia tentare da alcuna eresia politica: i due leader iraniani si muovono, infatti, all’interno di una gabbia dorata che li accomuna, quali che siano i loro programmi politici. La gabbia si chiama «Velayat-e faqih», che in persiano significa «Tutela del giurista» ed è la dottrina che Khomeini s’inventò per rendere inattaccabile il potere del Potere. L’esperto della legge di Dio - l’ayatollah, nello specifico - è l’interprete unico della volontà divina, e ogni esercizio di autorità deve dunque piegarsi all’interpretazione che viene data alle parole della shari’a. Non v’è potere politico, non v’è forza di partito, o di movimento, o di opinione, che possa contrastare quanto il «velayat-e faqih» ha deciso.

Come il cattolicesimo ebbe la sua Riforma, allo stesso modo nell’islam il percorso della «riforma» che taluni tentano va ben al di là di quanto possano predicare i Mousavi,i Khatami, o i loro seguaci nelle piazze. E il Martin Lutero di questa riforma è un mite professore di filosofia, Abdel Karim Soroush, occhiali spessi, una piccola barba sul mento, che ora insegna a Harvard anche se è iraniano di antica discendenza.

A Harvard c’è dovuto andare per salvarsi la pelle, perchè i gruppi studenteschi di Ansar-e Hizbullah lo avevano preso di mira e lì insegnava che se la religione è la forma della rivelazione divina, eterna, immutabile, invece l’interpretazione della religione si basa su fattori sociali e storici. Ma introdurre il principio che l’interpretazione del Corano e della shari’a vada storicizzata, e che vi possa essere una lettura «non autoritaria» e non dogmaticamente definita della legge, significa minare alla base il concetto del «velayat-e faqih», sottrarre ciè il potere al Potere dell’ayatollah e del Consiglio dei guardiani. Dopo l’ultimo attacco dei bastonatori, Soroush scrisse una lettera al presidente Rafsanjani dove chiedeva: «Ma questo paese, ha proprio bisogno di un Galileo o di un Giordano Bruno?». Un antico proverbio iraniano dice. «Non far salire mai il mullah sul tuo asino. Non ne scenderà più». Soroush oggi vive in America.
 
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« Risposta #12 inserito:: Luglio 30, 2009, 09:18:40 am »

30/7/2009
 
Per Zapatero i fantasmi di Franco
 
 
 
 
 
MIMMO CÁNDITO
 
Francisco Franco morì nel ’75, in una gelida alba di quel novembre ormai lontano; e qualche anno più tardi, in una fredda notte di febbraio dell’81, dopo decine di morti ammazzati e un golpe fallito pateticamente («Todos al suelo, coño»), morì anche il franchismo.

Che si voglia prendere come data della nascita della democrazia in Spagna quella lontana alba di novembre, o anche soltanto la lunga notte del 23-F di Tejero, appare davvero paradossale che sia proprio il nazionalismo basco, l’irriducibile, libertario, democratico, socialista, antifranchista, nazionalismo basco a far resuscitare oggi il fantasma polveroso del Caudillo, dopo trent’anni o anche più che la storia lo aveva abbandonato nelle pieghe perdute del tempo.

In questi trent’anni e più, la Spagna è entrata nell’Europa, ha affermato un sistema democratico di caratura inattaccabile, ha dato al Paese Basco lo Statuto dell’Autonomia, ha concesso amnistie «politiche» e avviato trattative di pace con ogni estremismo politico, ha smantellato commandos, gruppi di fuoco, «santuari» irraggiungibili, ha mandato in pensione perfino i monumenti equestri di Franco; ma l’Eta, l’Eta è sempre lì, con i suoi incappucciati, le sue bombe, i suoi proclami di difesa della libertà della patria basca dal «fascismo spagnolo».

Però una differenza c’è, e forte: l’Eta di oggi, questa Eta che mette ancora le bombe, e ancora ammazza, e prende il pizzo del terrore dagli industriali di Guipùzcoa e Bilbao, non c’entra più nulla, o quasi, con quella che a partire dal luglio del ‘59, giusto 50 anni fa, rivendicava la nascita di una terra libera contro la dittatura feroce del franchismo, nelle tre province giù dai Pirenei. Oggi le tre province hanno la libertà e una piena autonomia, nelle scuole si insegna la lingua basca, per le strade si può manifestare dissenso e scontento senza rischiare d’essere ammazzati dalla pallottola impunita di un guardia civìl, c’è una televisione regionale («nazionale» basca), l’albero dell’antico foro si erge solenne davanti al parlamento di Guernica, le librerie del Casco Viejo di san Sebastiàn e Bilbao hanno scaffali pieni di libri in euskera, si vota in tutta serenità, e il vecchio partito nazionalista Pnv si batte alla pari con le forze politiche «spagnoliste», come in ogni angolo del paese, senza limitazioni e senza controlli polizieschi.

Ma l’Eta attacca ancora, nel nome della «nazione basca». E però, se negli anni del franchismo più feroce - quando si garrotavano gli etarra, o li si fucilava in una valle sperduta alla periferia di Madrid - a dar forza, fede, sostegno morale, appoggio politico, agli uomini incappucciati di «Euskadi Ta Askatasuna» c’era quasi intera la società basca, i suoi politici, i suoi intellettuali, i suoi preti, i suoi avvocati, la sua gente qualunque senza nome e senza storia, oggi quel sostegno è quasi totalmente sfumato via. E gli etarra vivono clandestini in un’ombra rinserrata e cupa, che tenta di piegare con la ferocia più cruda, più intransigente, tutti i dubbi e le perplessità di un’azione terroristica fine ormai soltanto a se stessa, senz’altra prospettiva - dopo il fallimento dell’ultima tregua negoziale offerta da Zapatero - che il suicidio rituale di una violenza che vuole, e vive, il silenzio del confronto.

Gli etarra - i pochi che sono sfuggiti finora alla galera - sono ormai un gruppo disperato, che come tutte le formazioni terroristiche può anche immaginare di poter sopravvivere a se stesso, ma non trova più consenso né appoggio. Le sue rivendicazioni sono vissute - fuori dal ciclo delle armi - come un progetto culturale, più che politico, come la difesa di una idea ormai astratta di «nazione» unita da una lingua e da una memoria che è già fuori dal tempo. I risultati politici delle formazioni «nazionaliste» danno i numeri reali della consistenza di questo progetto anacronistico, e l’Eta può contare quasi esclusivamente sul reclutamento di giovanissimi militanti, affascinati da un ideale che è rivoluzionario soltanto nella sua illusorietà.

La bomba di ieri, a celebrare i 50 anni di un sogno di libertà, è soltanto il rito d’affermazione dell’ala militarista, che vede nella radicalizzazione dello scontro le ragioni della propria possibilità di sopravvivenza. È la storia infinita di tutti i gruppi terroristici, quando la purezza narcisistica dell’azione dimostrativa ammazza la ragione e la speranza.
 
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« Risposta #13 inserito:: Marzo 28, 2010, 10:34:47 pm »

28/3/2010 (7:19)  - MESSICO, SEICENTO MORTI DALL'INIZIO DELL'ANNO NELLA CITTÀ DI FRONTIERA CON GLI STATI UNITI

Inferno Ciudad Juárez, dieci morti al giorno e neanche una guerra

Narcos e massacri nella città messicana al confine con gli Stati Uniti

Il sindaco: “Oltre il ponte comanda Obama, questa è terra di nessuno”

MIMMO CANDITO
CIUDAD JUAREZ

Son quasi due milioni di abitanti sotto il sole di fuoco e il vento che ti taglia la faccia a stilettate crude, ma il posto più affollato di questa città di confine tra Messico e Stati Uniti eccolo qui, in uno scatolone bianco di cemento e di vetri verdi: si chiama Laboratório de Ciencias Forenses, vi si entra muti e con i piedi in avanti.

Lo chiamano Laboratorio, ma è soltanto l’obitorio, il deposito dei morti ammazzati. Qui ce ne stanno impilati fino a 300, di cadaveri tenuti al gelo, dentro la puzza greve della formalina che ti chiude la gola. Ho dovuto vedere l’obitorio di Beirut, e quello di Baghdad, e quello di Kabul, e di Mogadiscio, e di San Salvador, di Teheran, fetidi rifugi angosciosi di guerre senza fine, sotto cannonate che facevano ballare i muri; qui però le cannonate non si sentono, il vento che monta dal deserto addossato alle case è anche lui muto, ma Ciudad Juárez è una città in guerra anche senza i muri che ballano.

«Fino all’anno scorso avevamo quindici morti al giorno, in media», mi dice il sindaco. «Qualche volta trenta, altre volte dieci». Non pare nemmeno rammaricato, dà i suoi numeri con la quieta pazienza di una statistica ragionieristica. Però poi s’illumina: «Ah, ma a gennaio e febbraio siamo scesi a cinque morti al giorno». E mi guarda soddisfatto, «Spero che alla fine il conto di marzo confermi, più o meno, questa riduzione». Ma intanto, ieri ne hanno ammazzati altri sette, uno era un agente della Policía Federal, e il Laboratorio è ora circondato, quasi, dai suoi compagni, un centinaio nelle loro uniformi nere, le camionette schierate, alcuni con la faccia coperta dal passamontagna e il mitra al braccio sotto il sole di fuoco. Sotto il sole qui si muore ammazzati.

La guerra di Ciudad Juárez è la guerra delle narcomafie, da qui passano tonnellate di marijuana e di cocaina, senza nemmeno troppi misteri. La droga porta nei suoi sacchi miliardi di dollari, ma nel fondo si trascina anche fiumi di sangue. I morti ammazzati di Ciudad Juárez furono 1800 due anni fa, 2600 lo scorso anno, quest’anno - e siamo nemmeno al terzo mese - sono già 600, senza contare questi sette disgraziati di ieri. Ogni tanto poi la mattanza si concentra su obiettivi precisi, come ricorda la fila di croci rosa al confine con El Paso, a memoria di centinaia e centinaia di donne uccise, spesso dopo essere state seviziate e violentate. Le organizzazioni internazionali hanno più volte gridato al «femminicidio», ma la mattanza non si è fermata, portata avanti con lucida freddezza da persone conosciute o sconosciute, violenti, violentatori, assassini individuali o di gruppo, occasionali o professionisti.

La quotidianità a Ciudad Juárez è difficile: se esci di casa è certo che ti va bene e che ci tornerai, ma può anche accadere che qualcuno - per la tua faccia che, a lui non piace proprio, o per quello che sei, o perché ti hanno confuso con un altro, o perché ti sei trovato dove qualche pallottola se ne andava perduta nell’aria, o comunque perché anche tu sei un delinquente e ammazzi facile - può essere che quel tizio lì con la sua pistola o il suo kalashnikov ti faccia entrare nel Laboratório con i piedi in avanti; le probabilità te le giochi con la sorte.

E quando cala il buio, è meglio starsene a casa. Il coprifuoco - quello delle guerre con le cannonate - qui non c’è; però, è come se ci fosse. E l’ultimo spettacolo del teatro Matrix, la multisala che durante il giorno è affollata di ragazzi con i capelli di gel, quello spettacolo delle 11 di notte e di una sola sala è un’eccezione strana, fatta solo per chi ama giocare duro. «Sono pochi» - mi dice la maschera, con il cravattino e il gilet - «tutte le altre proiezioni finiscono il turno delle 9, e neanche quello ha molti spettatori».

La rotta del narcotraffico un tempo passava per il Caribe; le avionetas cariche di sacchi di juta e di plastica partivano da una delle tante piste di terra perdute nella giungla verde e gialla della Colombia e, superato il mare, finivano per atterrare da qualche comoda parte nella Florida; Miami a quel tempo era una città di violenza che neanche al cinema, morti ammazzati e droga che si sniffava come il caffè cubano preso a colazione. Ci fecero su anche la serie «Miami Vice», con i colori brillanti del cielo blu e le palme sullo sfondo. Poi Washington decise che non si poteva continuare, e mandò nella giungla verde e gialla della Colombia i suoi rangers, gli elicotteri all’infrarosso, i commandos che possono ammazzare senza nemmeno chiedere chi sei. E la rotta si chiuse. E si trasferì quaggiù, dove il Messico combacia con il Texas e a dividere i due paesi c’è soltanto un fiume grigio chiaro, che gli americani chiamano Rio Grande e i messicani, invece, Rio Bravo. (E hanno ragione i messicani, naturalmente.)

Il sindaco di Ciudad Juárez si chiama José Reyes Ferríz, è un ometto basso e gentile, con gli occhiali senza montatura, e la camicia e la cravatta come fanno gli americani, che in ufficio non indossano la giacca. È bianco di pelle, potrebbe essere un americano anche lui; le città di frontiera combinano meticciati dove l’identità è una variabile fuori controllo. Si alza dalla poltrona di pelle scura e mi chiama al grande finestrone che dà luce al suo ufficio; con la mano mi invita a guardar fuori. A cento metri c'è un gran ponte che si inarca sul fiume; da questa parte stanno le case piccole e basse del Messico, dall’altra, i grattacieli alti e forti dell’America yankee. «Siamo come un unico territorio, noi Ciudad Juárez, e quello che vediamo accanto e che quasi tocchiamo con la mano è invece El Paso, che ha un nome spagnolo e però parla inglese e lo comanda Obama».

Di là dal ponte, davvero con la mano che quasi lo tocchi, sventola un gigantesco bandierone a strisce e stelle che il vento scuote alto nel cielo.

È questa combinazione di una terra che è la stessa identica e che però un fiume ha diviso in due, con due identità e due storie e due passaporti, è questa combinazione che ha fatto la guerra senza cannoni di Ciudad Juárez. «Vede, qua sotto la mia finestra passano due linee ferroviarie, eccole lì, una porta a Chicago e l’altra a Los Angeles, e poi c’è la Panamericana, che spalanca la porta degli Stati Uniti da ogni Sud che stia da questa parte del Rio Bravo. Non v’è nessun’altra città che dia tante opportunità di comunicazione e di trasporto». Lo dice con la consapevolezza di chi amministra un territorio che potrebbe essere il paradiso e invece è inferno puro. A lui, un giorno fecero trovare davanti al portone del municipio un grosso cane morto, sventrato, che aveva un cartello legato al collo: «Sindaco, o te ne vai entro quindici giorni o ti ammazziamo, prima la tua famiglia e poi tu». I quindici giorni sono passati, e anche le quindici settimane. Lui, José Reyes Ferríz, sorride quieto sulla sua grande poltrona di pelle scura e quel bandierone a stelle e strisce dentro l’orizzonte della finestra: «Ho imparato che queste cose fanno parte del lavoro. L’ho imparato, e non ci penso troppo». Ma della sua famiglia non vuole parlare, e nemmeno di se stesso. Però si sa che, quando chiude a chiave la porta del suo ufficio, poi anche lui prende la macchina, attraversa il ponte, e se ne va a dormire a El Paso, che è Stati Uniti d’America e parla inglese anche se ha un nome spagnolo. A vigilare l’ufficio resta soltanto quella vecchia guardia con l’abito marrone chiaro e un grande distintivo della polizia appeso al collo.

Su quel ponte del sindaco (però Ciudad Juárez ne ha addirittura tre, e puoi scegliere quello che vuoi) passa un fiume ininterrotto di auto ma anche di camion, con i loro carichi che ogni tanto controlli e ogni tanto lasci passare. C’è la polizia federale, al ponte, e ora anche i soldati: qualche carico l’hanno trovato, hanno avuto fortuna o soffiate utili; però «il mare è grande», dicono quelli della droga, e si capisce che cosa intendano dire. Coca e marijuana passano sotto gli occhi dei soldati, e se ne vanno negli Usa; valgono venti miliardi di dollari; per prenderne il controllo merita bene di farci una guerra senza cannonate.

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« Risposta #14 inserito:: Agosto 01, 2010, 09:26:27 am »

1/8/2010

Quel giorno che la guerra si fece show
   
MIMMO CANDITO

Io, reporter di guerra, sono morto vent’anni fa, oggi, giorno 1 agosto del ’90, quando i carri armati di Saddam invasero e occuparono in poche ore il Kuwait, e puntarono i loro cannoni sui deserti gialli del re del petrolio, l’Arabia Saudita. Non lo capii subito, che ero stato ammazzato.

Ma quando tornai a casa dopo 8 mesi in quei deserti, e mi invitarono in giro per l’Italia a raccontare la guerra del «Desert Storm» (ero il reporter italiano più a lungo rimasto tra i cannoni e la sabbia del Golfo), lo scoprii presto che io ero proprio morto: parlavo e parlavo, pensando di svelarla io la guerra che avevo vissuto, da dentro, testimone diretto, ma a quelli che avevo di fronte, al pubblico che era venuto ad ascoltarmi non glie ne fregava niente del mio racconto, perché la guerra l’avevano fatta loro ancor meglio di me quando, la sera alle 8, ogni sera alle 8 per tanti lunghi mesi, si erano seduti sul divano del salotto, si erano calati l’elmetto in testa, avevano acceso il televisore, ed ecco che già stavano essi stessi a Khobar, a Dharan, a Ryadh, al Afr al-Batìn.

A farmi morto furono un vecchio militare grande e grosso, il gen. Schwarzkopf, detto l’Orso ma furbo come una faina, e poi quella diabolica macchina delle illusioni che si chiama tv e che in quei mesi d’inferno prese il nome eterno di Peter Arnett e, alla fine, di Cnn. L’Orso fece una drittata che ancora oggi è legge sovrana. In quell’agosto del ’90, prima di partire da Washington per venire in Arabia a comandare il Desert Storm, si era presentato a rapporto dal suo capo, George Bush. Il Presidente gli fece gli auguri per l’impresa, e mentre gli stringeva la mano gli disse anche: «Ma ora, caro Schawrz, mi raccomando, non combattiamo più con un braccio legato dietro la schiena». Quel braccio, a Schwarz e al suo Presidente, glielo avevamo legato noi, i reporter di guerra, che in Vietnam avevamo raccontato che cosa davvero era l’intervento americano in quella penisola dell’Asia, e i 50.000 marines morti ammazzati, e il milione di sciancati, i senza braccia, i drogati persi nella disperazione della giungla. Sconcertata, stravolta, da quel racconto della realtà, l’America già in furore di protesta aveva detto a Nixon: Basta, tutti a casa; e il più potente esercito del mondo era scappato via da Saigon, umiliato, sconfitto.

L’Orso, ora che stava per partire da Washington, passò negli uffici di una delle più importanti agenzie di pubblicità americane, gli raccontò di che cosa aveva bisogno, e ne affittò i servigi con regolare contratto del Pentagono. Finito il tempo della propaganda (la bandiera, la patria), ora era arrivato il tempo della pubblicità: la guerra andava venduta come un qualsiasi prodotto del supermercato, il detersivo, i pannolini, quella marca di automobili, le lamette da barba. E a «comprarla» saremmo stati noi, naturalmente, noi, i reporter di guerra, che poi avremmo provveduto subito a impacchettarla a dovere e propinarla all’opinione pubblica.

Nasceva il «news management», la gestione delle notizie, quell’artifizio manipolatorio per il quale la «fonte» non soltanto ti dà una informazione ma, anche, provvede a fornirtela in una confezione che pare contenere ogni risposta a qualsiasi possibile domanda. Conferenze stampa continue, briefings con gli ufficiali, visita ai reparti, foto e cineriprese con accompagnatore, e, in ultimo, anche la facoltà di usare come propria testimonianza diretta i report che un gruppo ristretto di inviati speciali «enbedded» dentro le formazioni operative (i «pool» selezionati) provvedeva a scrivere per conto e in rappresentanza dei quasi 2.000 reporter che, lontani dal fronte che si stava aprendo, tenuti sotto stretto controllo, ma bulimici di notizie, se ne stavano acquartierati a rodersi il fegato tra gli alberghi e le sabbie di un deserto di Buzzati. Noi scrivevamo, dettavamo, componevamo, ma a battere sui tasti della macchina da scrivere c’era lui, l’Orso che era una faina.

Un giorno dei tanti che aspettavamo la guerra che non arrivava mai e però era filtrata la notizia che no, che questa volta si stava combattendo davvero, su al Nord, alla frontiera, partimmo verso Al-Khafji violando gli ordini ricevuti, io con la mia auto (con tre colleghi italiani) e l’auto della tv australiana. Saltando i posti di blocco e viaggiando nel deserto, arrivammo nella piccola città di frontiera, giusto in tempo per vedere la coda della battaglia e rientrare prima del buio ad Al-Khobar, nel quartier generale dei giornalisti. Quella stessa notte inviammo i nostri reportage, uno scoop, noi e gli australiani; a noi il giorno dopo non accadde nulla, gli australiani furono espulsi. Loro erano «la tv», e la televisione ormai era la voce della verità, voce unica e dominante. I giornali, ormai erano stati messi in un angolo, contavano sempre meno.

Non fu Peter Arnett ad ammazzarci, noi, i reporter di guerra: anche lui faceva il nostro lavoro. Ad ammazzarci fu la tv, che prese il comando dei lavori con la potenza delle immagini, e, nel vuoto di notizie d’una guerra che non arrivava mai, costruì giorno dopo giorno «lo show della guerra», uno spettacolo hollywoodiano, di dune al tramonto, di deserti morbidi e di marines trasformati in comparse. Poco alla volta, il reportage dell’inviato perse rilievo, attenzione, centralità; e dal prodotto (il «messaggio») si passò al processo (la confezione spettacolare del «flusso»).

Era nato il tempo nuovo, il «dopo Cristo» dell’informazione. Che è anche il tempo di oggi, quando la Rete ha invaso il terreno della comunicazione e aggiunge nuove valenze al dominio del processamento dell’informazione. Oggi la comunicazione conta più del «messaggio», e comunque il «messaggio» è una costruzione dentro la quale la capacità di contestualizzazione della cronaca acquista più rilievo della stessa identità della realtà. Che sia la guerra o la politica o anche altro. E tuttavia, se in questi anni nell’Iraq in guerra sono stati ammazzati 259 reporter, alla fine vuol dire che il giornalismo non è affatto morto, che il giornalismo vuole ancora fare il proprio mestiere, quali che siano i rischi, i tentativi feroci di condizionarlo. In guerra o nella società. Tre giorni fa ,Wikileaks ha consegnato ai giornali 92.000 file di segreti chiusi nella Rete, e ha aperto alla luce del giornalismo scenari e storie e fatti che il giornalismo, quello che lavora sul campo, il giornalismo dei reporter, non era riuscito a disgelare. Io sarò morto, quel giorno, vent’anni fa, l’1 agosto del 1990, ma oggi la macchina del giornalismo si sta inventando un nuovo modo di lavorare; ha raccolto la sfida, una sfida che vale la conoscenza e la consapevolezza, e dentro ci stanno tutti, anche chi credeva di poter raccontare il mondo e invece non s’avvedeva che il mondo che raccontava era in realtà un’elegante confezione esposta da una faina vestita da orso negli scaffali del Supermarket dell’informazione.

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