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Autore Discussione: Il Che, il mito, il marchio  (Letto 5648 volte)
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« inserito:: Luglio 02, 2007, 04:54:56 pm »

Il Che, il mito, il marchio

Maurizio Chierici


Con le guerriglie che ogni sera accendono i Paesi alla fine del mondo (tre ore d’aereo dalle nostre abitudini) sembra paradossale la commozione che accompagna il ricordo del guerrigliero dei guerriglieri del secolo appena alle spalle. Ma la giovinezza brucia le rabbie e intiepidisce gli slanci e la memoria perde nel tempo veleni e ambizioni, ma non svaniscono i sentimenti, e il guerrigliero dei guerriglieri è un sentimento che accompagna due o tre generazioni cresciute sotto il segno del Che Guevara: poster, t-shirts e barbe dietro alle quali le masse adolescenti enfatizzavano rivoluzioni quasi sempre allo yogurt. E adesso comincia l’estate del Che. Guevara è morto in ottobre, 40 anni fa, ma giornali e librerie, dibattiti e graffi si preparano all’evento. Mancano quattro mesi e già propongono antiche e nuove immagini: dal film «Viaggio in motocicletta» al documentario premiato con Gianni Minà al festival di Berlino. E la straordinaria ricostruzione su chi ha tradito Guevara: Erik Gandini l’ha raccolta in un documentario - «Sacrificio»- incoronato in Brasile e Portogallo.

Per il momento gira le città italiane in circuiti quasi underground, mentre Toni Capuozzo si incarica di inaugurare la saga Tv. Due libri stanno scalando la classifica delle vendite: «Evocacion: la mia vita al fianco del Che», ricordi di Aleida March, guerrigliera e moglie del guerrigliero (editore Bompiani) e «Guevariana: racconti e storie del Che», curato per Einaudi da Alberto Filippi e Paolo Collo. Sacrificio di Guevara che immalinconisce Josè Saramago, Eduardo Galeano, Osvaldo Soriano, Julio Cortazar. Chi lo ha incontrato e chi lo ha solo immaginato da lontano assieme a milioni di ragazzi anni sessanta. Il Che è morto quando aveva quasi 40 anni; ne avrebbe quasi 80 ma nessuno riesce a immaginarlo con la barba bianca così diverso da come lo ha sorpreso la Leica di Korda. Per ogni giovinezza quale simbolo più esaltante di un argentino di buona famiglia, cura i lebbrosi, libera Cuba dalla dittatura e subito ricomincia a camminare nell’illusione di liberare il resto del mondo? Ricomincia tagliando il passato: quando muore, muore un apolide che ha rinunciato agli onori e alla cittadinanza cubana e non ha chiesto a Buenos Aires di rimettere il nome nei registri argentini. È diventato nessuno.

La febbre del ‘68 era alla ricerca di un simbolo da sventolare nelle piazze. La foto che nel 1967 esce dalla valigia di Gian Giacomo Feltrinelli reduce dall’Avana dove incontra l’Italo Calvino che ha attraversato il mare per sposarsi nella città nella quale è nato; questa foto del Che dallo sguardo smarrito regalata da Korda all’editore del «Dottor Zivago», diventa la bandiera che tutti aspettavano. E ancora attraversa le piazze inquiete 40 anni dopo quando i fan hanno perso l’innocenza dell’idealismo per farsi largo nella vita: dirigenti d’azienda, machiavelli nei giornali, capi di personale che non perdonano, mentre il Che è sempre lo stesso: la morte ha pietrificato giovinezza e utopia. Ma non subito e non in ogni posto. Gli anni settanta sono anni complicati per l’America Latina. Il basco di Guevara non riusciva ad attraversare certe frontiere. I camion carichi di merci e campesinos che salivano dal Perù governato da generali progressisti ed entravano nella Bolivia del generale Banzer, prima di arrivare alla dogana sul ponte del Rio Desaguadero, facevano toeletta. Giravano le fiancate di legno sulle quali era stampata l’immagine di Korda per offrire alle polizie un messaggio senza problemi: «Todo va bien con coca cola». La notte argentina si è allungata agli anni ottanta. Regime militare che inceneriva ogni disobbedienza censurando anche i pensieri. «Era sufficiente tornare dall’Europa con un giornale con la foto del Che e si spariva. Ecco perché nessun ragazzo argentino lascia infoltire la barba; nessuna ragazza va in giro con un basco francese. Troppo pericoloso. E la cautela sopravvive alla fine della dittatura. Non si sa mai...»: amarezza di Ernesto Sabato, grande scrittore con un dubbio che vent’anni dopo è stato cancellato. «Chissà se gli argentini sapranno mai chi è stato Guevara». Guardando la sala delle 500 poltrone, Fiera del Libro di Torino, camicie e giacche blu appollaiate fin sotto il palco dove la figlia del Che presentava il libro della madre stretta da una folla che spaventa gli organizzatori; guardando facce di generazioni diverse, mi sono chiesto: ma tutti, proprio tutti, sanno cos’ha fatto Guevara? Eccitazione troppo giovane, entusiasmo delle magliette. E sessantenni sull’orlo della pensione ormai disposti a recuperare l’idealismo chiuso nel cassetto negli anni della carriera. Non si è spenta la curiosità dell’ascoltare come la moglie racconta il marito. Fin dalla seconda pagina del libro ci si dimentica di tutti i libri che da quarant’anni hanno raccontato la sua storia. Il Che lavora giorno e notte: dorme cinque ore, si sveglia e torna in ufficio. Appena sposato il Che ministro parte per Africa e Oriente: deve convincere cinesi, indiani e i presidenti del continente nero che la democrazia cubana può cambiare il mondo. «Un viaggio di tre mesi. Posso lavorare come segretaria, ma voglio stare con te», implora la giovane sposa. Impossibile, risponde il giovane marito. «Sarebbe un privilegio che chi dà l’esempio non si può permettere». E Aleida resta a casa. Quando nasce Aleidita, la pediatra commossa sul palco di Torino, il Che è in missione. Manda un telegramma da Shangai: aveva sognato un figlio maschio da chiamare Camillo come Cienfuegos, compagno sulla Sierra: «Con la solita ironia mi prende in giro: “Allora è una femmina. Chissà perché ti impegni sempre nel farmi arrabbiare”». Arriverà anche Camillo e Aleida «per ordine di Fidel» può raggiungere il marito sotto la tenda della guerriglia africana o a Praga dove l’irritazione di Mosca lo costringe ad un esilio concordato con Castro. Sono gli ultimi giorni che i due sposi trascorrono da sposi sia pure in vacanza coatta. Ufficialmente a Cuba Guevara non torna più. Torna un uomo dai capelli rasati, occhiali di vetro e protesi in bocca per perdere l’accento argentino: si preparava a sparire in Bolivia. È l’ultimo ricordo di Aleidita bambina. La voce si rompe scatenando l’applauso della folla torinese. Se questo è il Che privato, più profondo il ricordo del Che di «Guevariana». Rodolfo Walsh, giornalista e drammaturgo, è fra gli argentini che corrono all’Avana dopo la vittoria della rivoluzione: «Risento il vecchio Hemingway dire queste parole: “Andiamo a vincere, noi cubani andiamo a vincere”» e quando Walsh lo guarda con aria dubbiosa, lo scrittore si scusa battendo le ciglia: «D’accordo, sono yankee, non cubano ma questi ragazzi mi piacciono». Gli piace il Che che piomba all’Avana dove «gli abitanti impiegano un po’ di tempo per abituarsi al suo humor freddo e sottile, così porteño: cade loro addosso come un temporale. Quando capiscono chi è diventa una delle persone più amate». «Traditore», gli dice Eduardo Galeano mostrandogli il ritaglio di un giornale: appariva vestito da pitcher e giocava a baseball. Traditore perché un argentino deve credere solo al gioco del pallone e perché il baseball è una piega dell’imperialismo americano. Traditore? Il Che scoppia a ridere. «La conversazione rimbalzava come una pallina da ping pong da un argomento all’altro, da un ricordo a un rimpianto. “Che cos’ha la mia mano?”, chiede il Che a Galeano: “È maledetta”, risponde lo scrittore. “Maledetta?”. «Ha salutato Frondizi (presidente argentino) e Frondizi è caduto. Ha salutato Janio Quadros (presidente brasiliano) e Janio Quadros è caduto. Per fortuna che non ho nessuna carica dalla quale cadere e ti posso dare la mano. E lui rideva, si accigliava, camminava per la stanza lasciando cadere la cenere del sigaro. Me lo puntava al petto fingendo una minaccia». Il premio Nobel José Saramago non lo ha mai incontrato ma non gli piace che il Che sia stato usato «come incongruente oggetto di arredamento in molte case della piccola e media borghesia... sorta di rischiosa maniera per occupare l’ozio della mente, frivolezze mondane che non hanno mai retto il minimo scontro con la realtà quando è venuto il momento di passare dalle parole ai fatti. Ed è allora che il ritratto del Che, testimone di così tante azioni d’impegno, della paura nascosta, della codardia rinunciataria o addirittura del tradimento, è stato tolto dalle pareti e nascosto o distrutto come se si avesse avuto a che fare con qualcosa di cui vergognarsi».

L’ipotesi di Saramago fa balenare il ricordo di Regis Debray: intellettuale rivoluzionario, lo aveva raggiunto sulle pietraie della Bolivia per raccogliere le sue ipotesi sul futuro dell’America Latina. Ma appena lo catturano i ranger boliviani che danno la caccia ad una banda di straccioni armati, Debray si difende con poche parole di delazione: «Sono un giornalista e un saggista francese. Ho solo intervistato Che Guevara». Il Che, qui? Fino al momento nessuno ne sospettava la presenza. E comincia la grande caccia: cattura e morte. I primi saggi di Debray raccolgono l’ammirazione per il guerrigliero maestro. Ma ad ogni decennale della scomparsa l’entusiasmo si affievolisce, cominciano i dubbi che diventano accuse terribili dopo la scomparsa del presidente Mitterand del quale era consigliere. Il Che autoritario, sadico, psicopatico. Gli ultimi insulti risalgono al ‘97. Chissà cosa sta preparando per il quarantesimo anniversario. I giornalisti grigi che hanno invece seguito gli ultimi passi del Che in Bolivia, sono passati dal silenzio timoroso della gente di La Higuera (paese dei fichi dove è stato ucciso), alle ammissioni di averlo conosciuto, alle vanterie di avergli portato le ultime sigarette nella scuola dove aspettava la morte: il tempo passava, la paura spariva. A poco a poco il Che è diventato l’orgoglio dei contadini che lo avevano venduto. Nel ‘97 Walter Romero, scrivano e memoria storica di La Higuera, sospira con malinconia nello studiolo di pochi libri. «Guevara può diventare l’attrazione turistica di questo posto, polvere, rocce e niente. Mancano perfino le strade». Allunga una cartolina: l’immagine del Che sfumata nel fondo è attraversata da una linea rossa, l’ultimo viaggio. Accampamenti e soste, casa per casa, testimone per testimone: «L’abbiamo fatta stampare a Santa Cruz de la Sierra chiedendo al governo di La Paz di organizzare qualcosa. Nessuno si è fatto vivo». Adesso si è fatto vivo il governo di Evo Morales. È nata la «strada del Che»: 18 chilometri di una via Crucis con stazioni dolorose. Qui ha sofferto un attacco d’asma, qui non ha sparato a un povero graduato della polizia che non sapeva d’essere sotto tiro, qui è scappato nella notte mentre arrivavano i rangers. Le agenzie turistiche diffondono la lista dei «Che Hotels»: a Santa Cruz il Discount Hotel offre il 70 per cento di sconto alle carovane degli stranieri che si ripercorrono i passi di Guevara. Le chincaglierie dei ricordi affollano le bancarelle. Magliette «originali» con il basco di Korda vendute a prezzo d’affezione: 8,9 dollari. Il pericolo è che il ricordo diventi una celebrazione pasticciata dalle caricature di ogni Disneyland. Nel bene e nel male Guevaraland può far piacere solo a chi mette un piatto in tavola in un posto dove le tavole sono ancora vuote. Perché la memoria è un segreto del cuore che non batte più forte fra i cotillon. La sua rivoluzione boicottata da Mosca è finita al cimitero ma quarant’anni dopo a La Higuera arriva almeno il pane.

mchierici2@libero.it



Pubblicato il: 02.07.07
Modificato il: 02.07.07 alle ore 11.29   
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 07, 2007, 11:47:16 am »

2007-10-06 15:52
LE RAGIONI DI UN MITO
 (di Martino Rigacci)

BUENOS AIRES - Il calendario 'Che - 2008' è in questi giorni appeso in bella mostra alle edicole di Buenos Aires e delle altre città dell'Argentina, patria del celebre Ernesto Guevara, ucciso 40 anni fa in Bolivia e ancora oggi un mito rivoluzionario inossidabile: più passa il tempo, più pare rafforzarsi. Non solo in Argentina e a Cuba, ma in molti paesi latinoamericani, il 40mo anniversario di quel 9 ottobre 1967, quando il medico nato a Rosario nel 1928 venne crivellato a colpi di mitragliatrice, sarà ricordato con commemorazioni ed eventi. Ormai da giorni, quotidiani e settimanali pubblicano articoli in cui le analisi sul Che (il quale se fosse vivo avrebbe ora 79 anni) affiorano un po' in tutte le salse. Oltre alle vecchie, e nuove, biografie, e ai saggi sulla vita militare e sulle idee politiche - la lotta armata, l'internazionalismo - del 'comandante' molti sono i ricordi, con gli inevitabili aneddoti, di chi l'ha conosciuto. Sul guerrigliero più fotogenico del pianeta in questi giorni non mancano d'altra parte i siti web oppure le immagini, fra le quali quelle celebri di Alberto Korda, che lo ritrasse col basco e la stella a cinque punte, e di Freddy Alborta, autore delle foto con l'espressione di Cristo che il volto del Che assunse da morto. Fotografie che, tramite mille strade, hanno contribuito a far uscire Guevara dai limiti della storia latinoamericana, per farlo diventare un'icona internazionale.

Fra i media che questa settimana hanno scelto di mettere in copertina il bel profilo di Guevara c'é per esempio il settimanale brasiliano Veja, che indaga le ragioni per le quali "l'uomo era diverso dal mitò, oppure la rivista argentina N, che si chiede perché egli sia ormai "il santo di una religione laica". E in fondo, quello che un po' tutti gli analisti cercano di capire è proprio perché, 40 anni dopo, la figura del Che sia rimasta intatta nella memoria di due-tre generazioni, e quali siano gli ingredienti del mito. Per il messicano Jorge Castaneda, autore di una delle biografie ('Companerò) più note, "Guevara è entrato a far parte delle utopie sociali e dei sogni di un'intera generazione a causa di un'affinità quasi mistica con il suo tempo. Ha avuto un'identificazione pressoché perfetta con il periodo storico in cui visse". Tesi non molto diversa da quella dello scrittore inglese John Berger, per il quale Guevara viene ancora oggi ricordato "non tanto per le sue azioni - del tutto fallimentari sia in Bolivia sia in Africa - ma per il modo in cui, ricorrendo per esempio all'utopia e al martirio, le intraprese".

In mezzo a tanta ammirazione, non manca qualche valutazione decisamente negativa. In un articolo in cui descrive il Che come "una fredda macchina omicida", Alvaro Vargas Llosa (figlio del più noto Mario) afferma: "forse il 'Che' era innamorato della propria morte, di certo lo era di più della morte degli altri". E d'altra parte, in un sondaggio realizzato questa settimana tra gli adolescenti ed i giovanissimi di Buenos Aires ci sono commenti positivi, ma anche valutazioni d'indifferenza o negative: Matias, 17 anni, pensa per esempio che "non ci debba essere un modello da seguire, e d'altra parte il 'Che' era un uomo violento", mentre Estefania (17) dice di "non sapere nulla su Guevara, per me non è un simbolo". Sempre in Argentina, Guevara continua comunque a battere gli altri due grandi miti nazionali, lo scrittore Jorge Luis Borges ed Evita Peron. Qualche settimana fa, migliaia di telespettatori hanno votato proprio a favore del Che quale politico argentino più popolare del XX secolo. In quell'occasione, Guevara è riuscito a stracciare persino Evita.   


2007-10-06 16:01
RICORDO CRONISTA, NON SEMBRAVA MORTO
 LA PAZ - "La prima volta che ho visto il suo corpo è stato sulla pista d'atterraggio di Vallegrande. Ero arrivato assieme a Felix Ramos, un agente della Cia. Il cadavere era su un lettino legato ad un elicottero..": è il ricordo del giornalista boliviano José Luis Alcazar, il primo cronista che vide il cadavere di Ernesto Che Guevara il 9 ottobre del 1967. Attualmente Alcazar vive a Tarija, nel sud della Bolivia, dove ha riferito a ANSA la sua esperienza di 40 anni fa.

"Ovviamente il suo volto, i suoi occhi, mi colpirono. Non sembrava il volto di un morto. Sembrava vivo.. Non lo dimenticherò mai.. Non c'era paura nei suoi occhi, c'era una espressione di serenità. La sua bocca era semiaperta, con un sorriso ironico" ricorda Alcazar, che per conto del quotidiano cattolico Presencia seguì le vicissitudini del gruppo guerrigliero guidato da Guevara nella selva boliviana dal novembre 1966 fino al momento della cattura del Che. "In realtà, era morto poche ore prima che il suo corpo fosse portato a Vallegrande, un giorno dopo essere stato catturato, secondo quanto mi spiegò un medico di cognome Martinez che aveva fatto l'autopsia del corpo" prosegue il giornalista.

"Vidi la sua mano che spuntava fuori dalla coperta e la presi: rimasi sorpreso perché era ancora calda.. Mi si strinse il cuore durante qualche secondo.. Questo fu il primo sospetto che non era morto la notte prima, come dicevano i documenti ufficiali", sottolinea Alcazar. (ANSA). 


2007-10-06 16:07
MINA', NON ERA UN VISIONARIO
 ROMA - Arriva in Italia in visita ufficiale il 28 ottobre il presidente della Bolivia Evo Morale, un indio aimara candidato anche al Nobel per la pace, che sta cambiando la costituzione in nome dell' eguaglianza e parità di diritti di tutti i cittadini: "Ernesto Guevara non era un visionario, lo possiamo ben dire oggi, mentre questo accade nel paese in cui lui venne ucciso 40 anni fa, e sta accadendo anche in Ecuador", afferma Gianni Minà, aggiungendo: "In America latina sta avvenendo qualcosa che forse nemmeno il Che sognava potesse accadere così presto".

Minà è diventato celebre in Sudamerica, ma non solo, per due interviste a Fidel Castro, una del 1987 e un'altra subito dopo la caduta di socialismi reali in Europa. E' direttore da 7 anni della rivista Latinamerica, di cui sta per uscire il n. 100. E' anche autore di due documentari, uno proprio su 'Fidel racconta il Che', e un'altro intitolato 'Il Che 40 anni dopo', che saranno alla Festa del cinema di Roma, dopo essere stati al Festival di Berlino, dove lui ha ricevuto il premio Berlinale Kamera alla carriera come documentarista, consegnatogli da Walter Salles, il regista con cui realizzò il film 'I diari della motocicletta'. Nel documentario, Fidel racconta, tra l'altro di sognarsi ancora spesso Ernesto, illudendosi che non sia morto, e quando fu girato, dette la notizia che, prima di andare in Bolivia, il Che fu in Africa, in Congo dopo l'assassinio di Lumumba, con un gruppo di cubani, per aiutare nella lotta anticoloniale, ma non trovò le condizioni per creare un movimento rivoluzionario e dovette andarsene". "Mi spiace per gli intellettuali italiani - aggiunge Minà - spesso critici, ma in Sudamerica il Che gode ancora di grandissimo rispetto. In Bolivia lo chiamano Santo Ernesto, a Buenos Aires c'e un corso all'università sulla sua figura e i suoi scritti, ora riuniti in 14 libri dal Centro Che dell'Avana, diretto dalla moglie e i figli, che hanno affidato i diritti internazionali all'australiana Ocean Book.

Per tutti, anche chi non condivide le idee comunista, resta l'esempio della capacità di lottare e resistere sino all'ultimo, come ha resistito Cuba, piccola isola dei Caraibi, che è orgoglio di tutti i latino americani e a 50 anni dal blocco Usa, a 18 dalla caduta del comunismo in Europa, un anno dopo il ritiro per malattia di Fidel, è sempre lì, contro ogni previsione, fatta evidentemente partendo da presupposti errati". Minà si dispiace che in occidente l'icona del Che sia diventata una sorta di logo, ma sa "che il capitalismo, se non riesce a esorcizzare e vincere, cerca di comprare, di usare e consumare". La sua speranza è comunque "che i giovani, le nuove generazioni, non conoscano solo il Che per sentito dire, ma vadano a leggere i suoi libri, per imparare che nel mondo ci sono ancora posti dove si muore di fame e che solo il 20% dell'umanità ha una vita decente. Se in Sudamerica si intravede un'alba, questo non accade ancora per l'Asia e l'Africa". Intanto tornano in libreria il suo 'Racconto di Fidel' e il 'Libro di Fidel' riuniti in un unico volume da Sperling & Kupfer, con le due storiche prefazioni di Garcia Marquez e di Jorge Amado, in cui sono anche molte pagine dedicate al Che.   


2007-10-06 15:57
QUANDO IL CHE FECE SHOPPING A MADRID
 MADRID - Era il 13 giugno del 1959. I 'barbudos' con alla testa Fidel Castro, avevano da pochi mesi rovesciato il dittatore cubano Fulgencio Batista. Ernesto Guevara in viaggio per il vertice dei paesi non allineati al Cairo, è costretto per mancanza di un volo diretto a far scalo a Madrid, capitale della Spagna anticomunista del generalissimo Francisco Franco. E ne approfitta per fare il turista e un po' di shopping acquistando, fra al'altro, le opere di José Antonio Primo de Rivera, il fondatore della Falange che ispirò Franco ed era un ammiratore di Benito Mussolini.

La visita del Che venne immortalata da un giovane fotografo dell'agenzia Europa Press, Cesar Lucas, che era stato tirato giù dal letto dall'ambasciata cubana per conto del giornalista Antonio D. Olano, che aveva conosciuto il Che nella Sierra e che gli faceva da cicerone. Di quelle fotografie ne fù pubblicata all'epoca solo una, alcuni giorni dopo la visita, perché, raccontano Lucas e altri testimoni, Franco aveva acconsentito al transito del rivoluzionario argentino, il cui governo non aveva ancora optato apertamente per la parte sovietica, a condizione che non avesse contatti politici. E così fu, e quasi nessuno se ne accorse.

Solo un signore, ricorda Lucas, al vederlo passare disse alla moglie: "Quello deve essere Fidel Castro". Guevara, giunto a Madrid la sera del 13 giugno ripartì alle 15.00 di quello successivo. Vestito con la divisa grigioverde, gli stivali e il berretto da guerrigliero, si fece portare in giro per Madrid, visitò il Palazzo Reale e l'università, andò a vedere una plaza de toros vuota aperta per lui dal proprietario, fratello del torero Luis Dominguin, bevve qualcosa in una caffetteria facendosi fotografare con una cameriera, e visitò la Galeria Preciados, un centro commerciale poi assorbito decenni dopo dal Corte Ingles. Data l'ora e la giornata festiva Olano chiese al proprietario José Fernandez di aprire la galleria per Guevara, e così venne fatto. Qui, secondo la testimonianza del diciottenne Lucas il ministro cubano acquistò "alcuni libri". Secondo altre testimonianze, che parlano anche di una macchina da scrivere Olivetti 22, i libri acquistati dal Che erano le opere di Primo de Rivera, un rivoluzionario di destra ammirato pubblicamente dallo stesso Castro. Ed è probabile che fosse stato Fidel, che si era portato i libri di de Rivera nella Sierra Maestra, a suscitare il suo interesse.

Una leggenda sostiene che quando il Che fu assassinato in un villaggio boliviano l'8 ottobre 1967, aveva con sé i volumi del fondatore della Falange. Quella visita a Madrid non fu l'ultima. Di ritorno dal vertice del Cairo Guevara ripassò nella capitale spagnola. E infine nell'ottobre 1966 transitò sotto il falso nome di Ramon Benitez e un volto irriconoscibile per il trucco. Benitez era l'identità assunta da Guevara per raggiungere clandestinamente la Bolivia dove un anno dopo trovò la morte.   


2007-10-06 15:55
LE ULTIME ORE A LA HIGUERA
 BUENOS AIRES - Ernesto Che Guevara morì a 39 anni crivellato di pallottole su una panca di una scuola di La Higuera (Bolivia) la mattina del 9 ottobre 1967. La 'campagna boliviana' cominciò nel novembre 1966 quando, sotto falso nome e senza barba, Guevara entrò in Bolivia con un gruppo di rivoluzionari.

Un anno prima il Che aveva rinunciato alla carica di ministro e 'comandante' nonché alla cittadinanza cubana, per portare il messaggio rivoluzionario nel mondo. A La Higuera Guevara arrivò dopo aver vinto nella giungla alcuni scontri con l'esercito boliviano, nel marzo '67. I problemi cominciarono quando la colonna lascio' la giungla, il 26 settembre e cadde in un'imboscata a Vallegrande. I guerriglieri decimati e incalzati dai soldati furono infine accerchiati a Quebrada del Yuro.

All'alba dell'8 ottobre si cominciò a combattere. In serata, il Che, ferito ad una gamba, venne rinchiuso con gli altri prigionieri nella vicina scuola di La Higuera. Durante la notte Guevara non ebbe cure mediche mentre a La Paz, il presidente boliviano, il generale René Barrientos, decideva di farlo giustiziare. L'esecuzione avvenne alle 13.00. Gli sparò un sergente, volontario, dopo che il 'Che' gli aveva detto: spara codardo (secondo un'altra versione: stai tranquillo.. stai per uccidere un uomo). Dopo le foto, il suo corpo, con le mani mozze, fu sepolto a 30 km da lì, a Vallegrande, in una fossa comune non segnata.   


2007-10-06 15:53
UNA VITA FRA ARGENTINA, CUBA E BOLIVIA
 BUENOS AIRES - Ernesto Guevara de la Serna, detto 'El Che' dal suo tipico intercalare, nacque il 14 giugno 1928 a Rosario, in Argentina. Ecco le tappe principali della sua vita. - 1950: si iscrive alla facoltà di Medicina a Buenos Aires. Visita il nordovest dell'Argentina.

- 1952: è l'anno del viaggio in motocicletta in diversi paesi latinoamericani insieme all'amico Alberto Granado.

- 1953-54: si laurea in medicina, con una tesi in allergologia (soffre di asma dall'età di due anni). Primi impegni politici a La Paz, poi in Guatemala, dove nel '54 conosce quella che sara' la sua prima moglie, l'esule peruviana Hilda Gadea, dalla quale avrà una figlia.

- 1955-56: dopo il colpo di Stato in Guatemala, ripara a Città del Messico, dove conosce Fidel Castro. Il 2 dicembre 1956 sbarca a Cuba con Castro a bordo del Granma.

- 1957: Fidel lo nomina comandante di una 'colonna' di 75 uomini.

- 1958. S'installa nella regione di Escambray, dove aggrega diversi gruppi oppositori al dittatore Fulgencio Batista. S'innamora della guerrigliera Aleida March, che diventerà la sua seconda moglie. Avranno quattro figli. A dicembre guida fino alla battaglia finale, a Santa Clara, la rivoluzione.

- 1959-65: divenuto cittadino cubano, dirige il Ministero dell'industria, durante i quali andrà per tre volte in Urss. Nel dicembre '64 pronuncia un discorso all'Assemblea dell'Onu, a New York. Viaggia in Tanzania e in Congo, dove appoggia i ribelli di Laurent Kabila. La missione è un fallimento.

- 1966-67. Rientra all'Avana, per preparare la campagna in Bolivia, dove arriva nel novembre del '67 sotto falso nome. Prende la guida di una cinquantina di guerriglieri. L'8 ottobre, nello scontro di Quebrada de Yuro, ferito, è catturato dagli uomini dell'esercito. Viene ucciso il mattino del 9 ottobre a La Higuera. Trasportato a Vallegrande, il suo corpo, sarà ritrovato solo 30 anni dopo e traslato a Cuba.   


da ansa.it
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 08, 2007, 11:20:08 am »

C´era una volta il Che

Maurizio Chierici


Esce martedi con l´Unità il volume Guevara al tempo di Guevara di Saverio Tutino nella collana «Le Chiavi del Tempo» diretta da Bruno Gravagnuolo. Martedì sono quarant´anni che il Che è stato ucciso ma non svaniscono i sentimenti, e il guerrigliero dei guerriglieri resta il sentimento che accompagna le generazioni cresciute attorno al suo mito. Per lo più amato, ma anche bistrattato da chi porta la cravatta. Libri e dvd. Film vecchi e nuovi. Il racconto di Saverio Tutino non sfoglia i libri degli altri. È il diario di un testimone vissuto all´Avana negli anni del Che.

Lo guarda da vicino, ne registra le parole e le riascolta per capire se l´idealismo radicale di Guevara e il pragmatismo nazionalista di Castro potessero convivere nella costruzione di un futuro al quale si aggrappavano intellettuali di cultura europea e latini alla disperazione. Cuba è un piccolo segno, ma sono gli anni del Vietnam che inginocchia la superpotenza: vola l´utopia. Tutino ne è trascinato. Ma lentamente si affacciano i dubbi. Tutino arriva all´Avana mentre Kennedy annuncia il blocco aeronavale di Cuba, 1962. Da Praga al Canada dove viene perquisito assieme ad ogni passeggero. Dieci ore di sosta e riparte con la Cubana d´Aviacion accompagnata da due caccia starfighter americani: seguono il volo «fino a quando si profilano i contorni dell´isola». l´Unità lo ha mandato a raccontare la crisi dei missili e appena si mescola alla voci dell´Avana capisce il rischio di una guerra «palpabile, quasi spettacolare». Fino a quando i russi abbandonano l´isola, l´impressione non cambia. La sfida affascina i giovani, però Tutino ha 40 anni: viene dalla Resistenza in Piemonte, ha studiato a Parigi respirando gli entusiasmi della sinistra francese. A Cuba si propone non solo di mettere in fila le notizie, ma di osservare la rinascita del progetto inseguito nella lotta al fascismo e che l´Italia intiepidita dal benessere cominciava ad annebbiare. Dorme all´Habana Libre, vecchio Hilton che ha cambiato nome. Fruga biblioteche, lavora nei campi mescolandosi ai cubani «per imparare concreti aspetti della libertà collettiva». La legione straniera della speranza si è raccolta a Cuba, da Vargas Llosa a Garcia Maquez. Masetti, l´argentino che aveva raccontato alla radio le imprese di Castro e Guevara sulla Sierra, apre Prensa Latina, agenzia in concorrenza con le multinazionali del «mondo fuori». L´indecisione sul modello economico apre fessure tra i tecnici di Castro e i programmi estremi del Che, che vorrebbe abolire la moneta, centralizzare ogni risorsa. Il peso dovrebbe diventar solo un´unità teorica di misura nella contabilità rigidissima dello stato. Non deve servire a comprare qualcosa. Ma la realtà non segue utopia ed entusiasmo. Burocrazia che risorge lenta e inefficace. Si riaffaccia la corruzione. Solo Raul Castro, con Fidel malato, ne denuncia il malaffare impegnando ogni controllo per combatterla. Non nei giorni del Tutino cubano, qualche mese fa, 45 anni dopo. La rivoluzione comincia a dividersi tra Mosca e Pechino mentre l´ordine sovietico impone il ritorno alla monocoltura dello zucchero. Sbarca all´Avana macchinari obsoleti che Mosca considera fuori uso. Con questo spirito il Cremlino aiuta Castro ad «industrializzare l´isola». I fantasmi del trozkismo aprono sospetti che sfiorano le amicizie di Tutino. Non sarà più un ospite così gradito. Non capendo cosa gli altri possano pensare delle riflessioni ad alta voce sull´evoluzione della rivoluzione, Tutino finisce per «parlare da solo».

All´Habana Libre fa amicizia con Celia, madre del Che. Ogni giorno parlano di tante cose, Tutino le chiede di incontrare il figlio. Celia promette di intercedere, ma ogni volta la risposta è negativa. Non lo vuole vedere per due buoni motivi: perché è giornalista e perché scrive su l´Unità, allora quotidiano del Partito comunista «il più pacifista dei partiti comunisti del mondo». Troppo tranquillo per piacergli... E il giornalista non ha occasione di fare domande ma di ascoltarlo sì. Può seguirne l´evoluzione del pensiero, quando si arrabbia o tace o parla troppo. Una volta Guevara appare improvvisamente nell´albergo. Gira fra i tavoli degli scacchisti al campionato del mondo: «passo calmo, quasi pesante. Sigaro tra le dita. Nessuno osa abbordarlo mentre osserva la partita fra il sovietico Spaskije l´americano Fisher. La presenza di Guevara in quel luogo e in quel momento di grave tensione internazionale non era un evento consueto. Non si faceva mai vedere in giro per città. A Cuba si diceva che nel gioco degli scacchi fosse più bravo di Fidel. Erano le due anime della rivoluzione, eppure nessuno osava parlare di dualismo...». Che invece comincia e si allarga. L´affondo di Algeri di Guevara contro l´Unione Sovietica precisa i disegni ormai diversi dei protagonisti della rivoluzione. Realisticamente Castro si adegua a Mosca perché senza l´Urss Cuba non sopravvive. Il Che continua a sognare la liberazione dei popoli umiliati e allunga i passi fuori dall´isola.

Guevara ai tempi di Guevara, racconto delle voci raccolte tra virgolette, insegue il Che stampandone l´immagine su un Castro non del tutto amato dopo i primi entusiasmi al primo sbarco dall´Italia. La deduzione di chi ha attraversato a lungo la realtà cubana non può essere che personale, ma l´analisi resta curiosa: trasforma l´Avana in un posto dove la politica ricorda più o meno come si fa politica in ogni capitale del mondo. Con tanti misteri in più, dipendenze meno mascherate dalle grandi potenze, ma sono le verità nascoste il filo che accompagna il sospetto dell´autore, ombra che si espande alle spalle del monumento Guevara. Tutino ne è affascinato in modo diverso da chi ne riceve il mito da lontano. Fa capire che le sue improvvidenze allargano l´ammirazione nelle masse costrette alla razionalità delle società normali, soffocando umori che ribollono nelle persone più rassegnate. In un certo senso Guevara vive la sua avventura per tutti. Avventura di ministro intransigente con chi tradisce il dovere. Di politico che non conosce la mediazione e non sopporta il dominio sovietico. Di guerrigliero che al ritorno dal Congo non ha riguardi per Mosca. Tutino esplora gli imbarazzi di Fidel, coglie ciò che considera l´ambiguità delle mezze parole e ne deduce che mai due persone così vicine nella storia e nella vita hanno coltivato nella stessa rivoluzione vocazioni tanto diverse.

Il racconto dell´ultimo viaggio in Bolivia - solidarietà di Cuba che affievolisce, ordini di Mosca che invitano i comunisti di La Paz all´abbandono - riesce ad essere diverso dalle biografie della tradizione guevariana. Com´è diverso il profilo che Tutino disegna delle tre donne della vita di Guevara: Hilda che in Guatemala piega al marxismo la generosità di un ragazzo scandalizzato dall´ingiustizia sociale; Aleida moglie paziente che aspetta e aspetta; Tania, protagonista del Kgb, un po´argentina un po´ tedesca dell´Est, guerrigliera senza paura e senza pruderies in amore. Dopo la morte, coi russi ancora all´Avana, il lutto per Guevara viene provvisoriamente rimosso dall´ufficialità, non dal cuore della gente e dal ricordo di Tutino. Che annota: «nel suo modo di rivolgersi agli altri diventava un vero comunicatore. Se scriveva versi era un mediocre poeta, ma quando parlava agli operai in fabbrica, a donne e impiegati dei ministeri, o quando mandava lettere ai parenti e amici lontani, usava un linguaggio misurato, cercava toni sobri. I cubani tendevano l´orecchio appena qualcuno riferiva di una cosa detta in privato dal Che. Il suo parere si distingueva per un contenuto che comunque andava controcorrente. Forse era davvero un po´folle pensare di poter cambiare il mondo e salvare l´umanità assistendo a tutto questo nel giro di una vita, la propria». Nelle ultime righe il libro dei dubbi conclude coi dubbi: «Molti uomini politici e filosofi hanno avuto voglia di migliorare l´universo senza arrivare agli estremi del Che. Fidel Castro, per esempio, potrebbe pretendere di aver cercato più del Che la politica per fare quello che tutti e due volevano. Bisogna vedere chi dei due pensava più a se stesso che agli altri». Da vent´anni Tutino non torna all´Avana.



Pubblicato il: 07.10.07
Modificato il: 07.10.07 alle ore 19.08   
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 10, 2007, 12:47:59 pm »

QUARANT’ANNI FA LA MORTE IN BOLIVIA

Se il Che fosse ancora vivo
F.N.

Tutino: «Mi piace pensare che sposerebbe la causa di Amartya Sen»


«Penso che Cuba, così com’è oggi, non gli piacerebbe»  SANTA CLARA (Cuba). A quarant’anni dalla morte, Cuba ha reso omaggio ad Ernesto “Che” Guevara. Più di 10.000 persone, secondo la stampa ufficiale, hanno partecipato alla cerimonia organizzata a Santa Clara (300 chilometr dall’Avana), da dove il guerrigliero argentino guidò la battaglia decisiva per la vittoria. Nella Plaza de la Revolucion, sotto la statua del mitico combattente, dinanzi al mausoleo dove riposano le sue spoglie, il presidente facente funzione, Raul Castro, ha celebrato l’evento; presenti la vedova, Aleida March e i figli, Aleida, Camilo, Celia e Ernesto. Castro, che non ha potuto assistere alle celebrazioni perché convalescente, ha scritto un articolo, pubblicato dalla stampa ufficiale cubana, in cui ha celebrato il Che come «un fiore reciso prematuramente dallo stelo».

Non solo in Argentina, suo paese natale, e a Cuba, ma in molti paesi latinoamericani, il 40° anniversario di quel 9 ottobre 1967, quando il medico nato a Rosario nel 1928 venne crivellato a colpi di mitragliatrice, viene oggi ricordato con commemorazioni ed eventi. Anche il web è popolato dalle immagini del guerrigliero più fotogenico del pianeta. Quelle celebri di Alberto Korda, che lo ritrasse col basco e la stella a cinque punte, e di Freddy Alborta, autore delle foto con l’espressione di Cristo che il volto del Che assunse da morto. Fotografie che, tramite mille strade, hanno contribuito a far uscire Guevara dai limiti della storia latinoamericana, per farlo diventare un’icona internazionale.

ROMA. «Gli avevo chiesto un’intervista e lui, attraverso sua madre, mi disse di no per due motivi: perché ero un giornalista e soprattutto perché facevo parte del Partito comunista italiano, che lui considerava il meno comunista dei partiti comunisti del mondo».

Saverio Tutino, classe 1925, partigiano e giornalista, ha conosciuto Ernesto Guevara e, a quarant’anni dalla morte del Che, ricorda gli anni passati a Cuba, come corrispondente di diversi giornali italiani. Tutino (autore fra l’altro di libri come “Guevara ai tempi di Guevara” e “Il Che in Bolivia”) ha raccontato nei suoi articoli (che saranno ripubblicati in un libro che sarà diffuso nei prossimi giorni da’l’Unità») il guerrigliero e l’uomo politico.
Oggi, anche se la memoria fa qualche difetto, preferisce raccontare l’uomo. Una personalità fuori dal comune, fiera e anche scontrosa, senza dubbio ricca di fascino. «Il Che - rammenta - era consapevole di essere molto famoso, ma cercava in tutti i modi di mostrare che non gliene importava nulla. Era una figura che aveva un senso dell’intelligenza molto particolare, originale, direi “suo”. Non ripeteva mai ciò che sentiva dire da altri, per esempio da Fidel Castro. Aveva sempre una sua posizione personale e questo lo rendeva attraente per tutti. Soprattutto per i giornalisti».

Anche se il rapporto con lui, per i giornalisti, non era una passeggiata: «Con Guevara era difficile avere una discussione politica aperta, a tutto campo. Generalmente le conversazioni terminavano con sue affermazioni drastiche e conclusive, che non ammettevano replica. Era molto restio a cedere alla curiosità giornalistica». Tutino spiega che questo era dovuto anche alla necessità di una riservatezza estrema, molto sentita dal Che: «Si guardava dal dire in pubblico cose che potessero offendere Fidel o danneggiare Cuba. Anche quando tornava dai suoi viaggi, il Congo, la Cina e tanti altri, erano tutti ansiosi di sentire cosa avrebbe detto. Ma spesso lui si tratteneva. Non voleva infatti che passasse l’idea che andava all’estero per coltivare posizioni particolarmente ferme o personali. C’era una fermezza in lui, non si concedeva di assumere posizioni che apparissero troppo visibili o maestose».

Caratteristiche che emergevano anche nel suo modo di fare politica, quando a Cuba, dopo la rivoluzione castrista, era diventato ministro dell’Economia e dell’Industria: «Era molto molto riservato». Tutino ricorda anche che il Che non amava l’Unione sovietica: «Quando tornò dal suo viaggio a Mosca si percepiva un distacco da ciò che aveva vissuto: non gli piaceva ciò che aveva visto a Mosca e non gli piaceva il Partito comunista sovietico». La Cuba di oggi piacerebbe a Guevara? «Non credo. Già ai suoi tempi ha sentito avvicinarsi gli americani...». E oggi, quale causa sposerebbe il Che? «Amo pensare che si schiererebbe con Amartya Sen» (l’economista indiano premio Nobel nel 1998, che ha chiarito che il concetto di sviluppo si differenzia da quello di crescita e non coincide più con un aumento del reddito, quanto con un aumento della qualità complessiva della vita). «Credo che gli piacerebbe - prosegue Tutino - perché la sua era una formazione politica e culturale basata molto sulla persona più che sulle ideologie. E grazie a questo riusciva sempre ad attrarre persone che lo ascoltavano con grandissimo interesse».

«Oggi - è la conclusione - mi piacerebbe consultare Guevara per la sua personalità, molto rara per Cuba e per l’America Latina di quei tempi. Non c’erano personalità così forti e spiccate, dotate del fascino che aveva lui».

(09 ottobre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 25, 2009, 04:08:13 pm »

Accusa L’ex guerrigliero, condannato a morte, dal 1996 vive a Parigi

«Che Guevara tradito da Castro su ordine dell’Unione Sovietica»

Parla uno dei tre sopravvissuti al commando in Bolivia


PARIGI — È l’ultimo che ha visto il Che nella giungla della Bolivia. È l’ultimo testimone di un’esecuzione ancora oggi oscura. Dariel Alarcón Ramírez, detto «Benigno», ex guerrigliero della rivoluzione cubana, vive dal 1996 a Parigi, inseguito da una condanna a morte e dall’accusa di aver tradito il regime per il quale ha combattuto con onore. Che Guevara fu il capo seguito fino alla fine, un fratello che gli insegnò «a leggere e scrivere» e a «rispettare i nemici e i prigionieri». Ha ancora gli occhi umidi, Benigno, quando racconta la «trappola mortale» in cui cadde il mito rivoluzionario di intere generazioni.

E sfoga rabbia e delusione per una «macchinazione di cui furono responsabili Fidel Castro e l’Unione Sovietica ». «Volevamo esportare la rivoluzione. Fummo abbandonati nella giungla. Il Che andò incontro alla morte, sapendo di essere stato tradito. Il 9 ottobre 1967, eravamo a pochi metri dalla scuola dove l’esercito boliviano lo teneva prigioniero. Il nostro commando si era disperso. Altrimenti avremmo tentato di liberarlo a costo di morire». Nel 1956, Benigno era un «campesigno » di 17 anni, quando i soldati del dittatore Batista incendiarono la fazenda sulle montagne della Sierra Maestra, e uccisero sua moglie Noemi, quindicenne, incinta di otto mesi. Entrò nel gruppo di Cienfuegos, uno dei capi rivoluzionari. «Mi arruolai nella rivoluzione per vendicare i miei cari. Ero il più bravo con la mitragliatrice. Ho ucciso molti soldati. Non sapevo che cosa fosse il socialismo. Il Che mi insegnò tutto. Non era facile conquistare la sua fiducia. Ma era un uomo buono e onesto. Era l’unico, fra i leader, a pagare di tasca propria l’auto di servizio», racconta al Corriere.

Oggi Benigno ha quasi settant’anni. Dopo la rivoluzione, divenne capo della polizia e responsabile della sicurezza, poi dirigente dei campi di addestramento dei guerriglieri da inviare nel mondo a sostegno dei movimenti rivoluzionari. È in quegli anni che intuisce che il socialismo cubano non corrispondente agli ideali. «Cienfuegos e Guevara facevano ombra a Fidel. C’erano contrasti nel gruppo dirigente. Poi Cienfuegos morì, in un misterioso incidente. Ero con Guevara in Congo, quando Fidel rese pubblica una lettera in cui Guevara dichiarava di rinunciare ad ogni incarico e alla nazionalità cubana. Il Che prese a calci la radio e urlò: ecco dove porta il culto della personalità! Il comandante aveva scritto la lettera dopo il discorso di Algeri in cui aveva messo in guardia i Paesi africani dall’imperialismo sovietico. Credo che quel discorso fu la sua condanna a morte. Quando tornammo all’Avana, Fidel gli propose di andare a combattere in Sud America». «Il líder máximo —ricorda Benigno—partecipò ai preparativi. Veniva al campo d’addestramento, ci garantiva l’appoggio del partito comunista boliviano, la copertura degli agenti segreti, la formazione di nuove colonne. Avremmo dovuto sbarcare nel nord del paese, in territorio favorevole alla guerriglia. Imparammo anche il dialetto locale. Quando Fidel era presente, il Che se ne stava in disparte. Capimmo poi il perché».

Nell’ottobre 1967 scatta l’operazione. Il commando di rivoluzionari cubani penetrò in una foresta infestata da insetti e agenti segreti, isolata, dove si parlava un altro dialetto. «Scoprimmo che il partito comunista boliviano non ci sosteneva, probabilmente su istruzioni di Mosca. Il Che non era più lui. Sembrava disperato e depresso. Ci lasciò liberi di continuare o rinunciare. Rimanemmo, ma alla fine eravamo ridotti a diciassette, circondati da tremila soldati. Ci dividemmo in tre gruppi e una mattina cominciò la battaglia finale. Il Che fu fatto prigioniero. Lo ammazzarono il giorno dopo». Tre guerriglieri riuscirono a raggiungere il confine. Benigno, Urbano e Pombo si salvarono con l’aiuto di Salvador Allende, allora presidente del Senato. Nel viaggio di ritorno, passarono da Tahiti e dalla Grecia, fino a Parigi. Furono ricevuti all’Eliseo da De Gaulle e infine accolti a Cuba da Fidel come eroi. In patria, l’ultimo compagno del Che continuò a far carriera.

Urbano fu poi arrestato e internato. Pombo divenne generale. «Io cominciai a vivere una doppia vita». Chiediamo: per quali ragioni Castro e i sovietici avrebbero avuto interesse alla scomparsa del Che dalla scena politica? «I sovietici consideravano Guevara una personalità pericolosa per le loro strategie imperialistiche. Fidel si piegò alla ragion di Stato, visto che la sopravvivenza di Cuba dipendeva dall’aiuto di Mosca. Ed eliminò un compagno di lotta ingombrante. Il Che era il leader più amato dal popolo. La nostra rivoluzione è durata pochi anni, oggi è una dittatura come quella di Batista. I cubani hanno conquistato la cultura, non la libertà, e sono ancora poveri. E la causa non è soltanto l’embargo americano. È Fidel ad aver tradito la rivoluzione. Difficile prevedere il futuro, ma non vorrei che il potere finisse agli esuli di Miami che sono corrotti». Benigno decide di fuggire. Approfitta di un permesso dell’unione degli scrittori cubani. Si fa raggiungere dalla moglie a Parigi. «Se fossi fuggito in America, dove vive un mio figlio, avrei tradito il Che. Mi considero ancora un rivoluzionario. Il rivoluzionario è chi riesce a indignarsi per le ingiustizie». La sua vita diventerà un film, diverso da quello sul Che di Steven Soderbergh prossimamente sugli schermi italiani. «Il film è bello, ma non trasmette lo spirito del comandante e soprattutto non risponde alle domande: perché fallì in Congo e in Bolivia? Chi lo ha tradito e perché?».

Massimo Nava
(ha collaborato Alessandro Grandesso)

25 gennaio 2009
da corriere.it
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