LA-U dell'OLIVO
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Autore Discussione: MICHELE AINIS.  (Letto 129086 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Gennaio 27, 2009, 09:49:35 am »

27/1/2009
 
La Repubblica diseguale
 
MICHELE AINIS
 

Negli ultimi anni la produttività del lavoro in Italia è cresciuta 40 volte meno che in Estonia. Non sappiamo correre, fatichiamo persino a camminare. Ma è difficile tenersi in equilibrio quando hai una gamba zoppa e l’altra troppo muscolosa. Quando giorno dopo giorno si divarica la distanza fra i primi e gli ultimi della scala sociale, fra giovani e vecchi, precari e garantiti, meridionali e settentrionali, stranieri e cittadini. La disuguaglianza, ecco la più grande questione nazionale. Ma il nostro sguardo collettivo non la vede, la nostra voce pubblica rimane silenziosa. Con l’eccezione di qualche personalità fuori dal sistema dei partiti: Ciampi e Montezemolo, in questi ultimi tempi. Con l’ulteriore eccezione di Veltroni, le cui denunce vengono tuttavia ignorate dai suoi stessi compagni del Pd. E con l’indifferenza di un po’ tutti i partiti, assorbiti da faccende più serie, più pressanti: la presidenza della Vigilanza Rai, il figlio dell’onorevole Di Pietro, la poltrona di sindaco a Napoli o a Bologna.

Nel frattempo siamo sempre più divisi. Perché crescono i poveri, come accade un po’ dovunque in tempi di crisi economica globale; però nella Penisola crescono più che altrove. Tanto che il Rapporto Euristat 2005 ne contava 11 milioni, il 15% dell’intera Europa; mentre nel 2008 la Caritas li ha misurati in 15 milioni. Perché in secondo luogo in Italia le retribuzioni medie sono più basse del 20% rispetto agli altri Paesi industrializzati, secondo una stima Ocse diffusa nel luglio scorso. Perché in terzo luogo c’è una faglia sotterranea a dividere l’Italia, dal momento che il Pil di Milano è 3 volte quello di Crotone. Ma soprattutto perché la forbice tra gli uni e gli altri s’allarga fin dagli Anni 80, quando già l’1% della popolazione possedeva il 10,6% del patrimonio nazionale (oggi ne possiede il 17,2%). Col risultato che dopo Usa e Regno Unito la società italiana è la più ineguale di tutto l’Occidente, secondo l’Human Development Report 2006. Un dato ribadito dal Rapporto Growing Inequal? del 2008, dove s’attesta che in Italia la disuguaglianza tra le classi sociali è cresciuta del 33% dopo gli Anni 80, contro una media generale del 12%.

Questa frattura non nuoce unicamente all’efficienza del sistema. Non si limita a offendere il nostro senso di giustizia, o almeno quel po’ che ne rimane. Reca altresì un effetto disgregante, arma i diseredati contro lorsignori, mina l’unità del popolo italiano. Infine tradisce la promessa più solenne conservata nella Carta del 1947: quella che assegna alla Repubblica il compito di rimuovere gli «ostacoli di fatto» verso l’eguaglianza. Ma la Repubblica è a sua volta sbilanciata, a sua volta disuguale. O meglio lo è diventata dopo gli Anni 80, e non è affatto un caso questa coincidenza temporale fra disuguaglianza sociale e istituzionale. Al sistema di pesi e contrappesi, alla separazione dei poteri disegnata 60 anni fa dai padri fondatori è via via subentrata la concentrazione del potere, il suo esercizio solitario. Le assemblee parlamentari hanno perso la capacità di rappresentare gli elettori; e infatti 15.546.289 italiani (il 33% dell’elettorato) non sono rappresentati da questo Parlamento, per una scelta astensionista o a causa della soglia di sbarramento. Ma in realtà sono rimasti orfani pure gli altri 30 milioni, dato che con la nostra legge elettorale i rappresentanti più che eletti devono ritenersi nominati. Un Parlamento debole è preda del governo: da qui l’abuso dei decreti, i maxiemendamenti, la raffica dei voti di fiducia. Un esproprio istituzionale, ma altresì una distorsione che penalizza soprattutto gli ultimi, gli esclusi. Perché ogni società disuguale è frastagliata per definizione, e perché nelle stanze del governo - quale che sia - risuona un’unica voce, quella della sua maggioranza. Insomma l’eclissi delle Camere ha oscurato l’eguaglianza, e insieme ad essa la coesione e l'efficienza del Paese.


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« Risposta #16 inserito:: Febbraio 06, 2009, 09:58:57 am »

6/2/2009
 
La lumaca e l'elefante
 
MICHELE AINIS
 

A quanto pare, il decreto legge per Eluana non vedrà mai la luce. E allora sia detto senza enfasi: lo stop del Capo dello Stato ripristina la legalità costituzionale, o almeno quel poco che ne rimane in circolo. Perché ciascuno nutre le proprie convinzioni, in questo caso che divide le coscienze, che ci interroga sul significato stesso della vita. E ogni opinione è lecita, nessuna ha il monopolio della verità. Ma via via il conflitto etico ha debordato in conflitto tra poteri, in una malattia delle nostre istituzioni. Tanto da scomodare la Consulta, che l’autunno scorso ha già dovuto pronunziarsi in ordine al conflitto tra Parlamento e Cassazione su questa medesima vicenda. L’arma del decreto avrebbe sparato l’ultimo colpo, quello letale. Anzi un doppio colpo, contro il potere legislativo e contro il potere giudiziario. Togliendo al primo la libertà di discutere nel merito la nuova legge sul testamento biologico. Privando il secondo dell’autorità del giudicato, giacché sul caso Englaro c’è una sentenza ormai definitiva.

Ma questo delitto tentato, benché non consumato, ci impartisce pur sempre una lezione. E la lezione mette a nudo i vizi della politica italiana, le sue miserie, le sue fragilità. A partire dallo scarso rispetto delle regole, e perciò a partire dalla regola fondante delle democrazie, la separazione fra i poteri dello Stato. Quando un potere ruba il mestiere all’altro, quando l’esecutivo si fa al contempo legislatore e giudice, s’apre una deriva autoritaria, al di là delle più nobili intenzioni. Sennonché l’anomalia italiana sta nel fatto che la prepotenza si sposa all’impotenza, che strappi e scippi provengono da un pugile suonato.

La trovata del decreto legge per Eluana ne offre l’ennesima conferma. Quanto tempo hanno bruciato le due Camere senza riuscire a licenziare una disciplina sulle volontà di fine vita? A occhio, tutta la legislatura trascorsa, tutto questo scampolo della legislatura inaugurata nel 2008. Sicché per una volta la lumaca giudiziaria è stata più veloce dell’elefante parlamentare. Da qui l’urgenza, da qui il decreto. E d’altronde ormai la legge è sempre legge di conversione d’un decreto, l’urgenza è diventata permanente. Al pari della dichiarazione d’emergenza, che fu usata per esempio dal governo Prodi (nel 2006) per restaurare il David di Donatello danneggiato durante l’alluvione di Firenze (nel 1966).

Il guaio è che urgenza ed emergenza dipendono dal medesimo soggetto che dovrebbe poi mettervi riparo. Il guaio inoltre è che la pezza finisce per essere peggiore del buco. Perché un atto legislativo su una singola persona è un provvedimento odioso, una legge personale. Perché nella fattispecie avrebbe pure assunto le sembianze d’un provvedimento strampalato, dato che non era all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri, sicché il governo avrebbe dovuto fargli spazio nel decreto sulla rottamazione delle lavatrici. Perché infine avrebbe innescato senza dubbio un altro ricorso dinanzi alla Consulta, come se fin qui non ne avessimo contati già abbastanza, di pasticci che si trasformano in bisticci.

E c’è poi un secondo fattore di debolezza, che chiama in causa la laicità delle nostre istituzioni. Se la politica fin qui si è rigirata i pollici senza provvedere, se in ultimo ha tentato la mossa disperata del decreto, è perché subisce i venti che soffiano sopra il cupolone. Curioso: le gerarchie vaticane sono diventate pervasive, ed anche più aggressive, da quando le chiese sono vuote di fedeli. Anche le gerarchie partitiche gonfiano i muscoli da quando le sedi dei partiti sono vuote d’iscritti e militanti: basta rievocare il sistema con cui ci hanno costretti al voto nelle due ultime elezioni, espropriandoci della libertà di scegliere i nostri rappresentanti in Parlamento. Questa doppia debolezza, questa doppia prepotenza, confisca la nostra vita pubblica. Ma può accadere che venga a sua volta confiscata dalla resistenza d’un singolo individuo: il cittadino Englaro, il cittadino Napolitano.

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« Risposta #17 inserito:: Febbraio 16, 2009, 10:06:40 am »

16/2/2009
 
Se il 4 per cento vi sembra troppo
 
MICHELE AINIS
 

La legge con cui voteremo alle Europee introduce una soglia di sbarramento del 4%. Almeno nel testo timbrato dalla Camera, ma tutto lascia credere che il Senato rilascerà copia conforme. Per i partiti maggiori questa legge ci mette in riga con l’Europa. Per i partiti minori è una nuova legge truffa.

Chi ha ragione? I piccoli, verrebbe da dire. Un po’ per simpatia verso i deboli, un po’ per le intenzioni e i tempi con cui le nuove regole sono state licenziate. Proviamo tuttavia a osservare la questione dal lato degli elettori, anziché da quello degli eletti. Dopotutto i veri utenti dei sistemi elettorali sono i primi, non i secondi.

Da questa angolatura è irrilevante che la legge venga approvata all’ultimo minuto. Non sposta un solo voto. E d’altronde, se le vecchie regole fossero state modificate nell’autunno 2004, ai primi vagiti della legislatura europea, ci saremmo tenuti sul groppone per un quinquennio una rappresentanza delegittimata. Dice: ma le stanno cambiando solo adesso perché i numeri politici giocano in loro favore, tanto da fargli mangiare in un boccone i piccoli partiti.

E allora? In passato Rifondazione comunista era in favore della soglia, oggi non più, dopo la sberla alle ultime elezioni. Ogni partito ragiona sul proprio tornaconto, però non è detto che ci veda sempre bene. Magari succederà che gli elettori di sinistra, sganciati dal ricatto del voto utile per il governo nazionale, solleticati dalla sfida che reca il 4%, indispettiti da Veltroni, tornino a votare i loro vecchi partiti. Quando si scrivono le regole servirebbe un velo d’ignoranza, sostiene il filosofo John Rawls. Nella vita vissuta non accade quasi mai, ma per fortuna scatta quasi sempre l’eterogenesi dei fini.
Ne sa qualcosa Berlusconi, che nel 2005 mise in soffitta il Mattarellum per sbarrare il passo a Prodi. Se l’avesse mantenuto, l’anno dopo avrebbe rivinto le elezioni, invece vinse Prodi.

Ma la vera obiezione ha a che fare con lo scopo dei sistemi elettorali. Mirano a garantire due valori, rappresentanza e governabilità. Questi valori sono in reciproco conflitto, come la libertà e la sicurezza: più avvicino il primo, più perdo contatto col secondo. Si tratta di contemperarli, di fissare un punto d’equilibrio. Sennonché il Parlamento europeo non ha le chiavi del governo: la sua funzione principale è di rappresentare gli elettori. Se c’è una soglia per accedervi, molti elettori rimarranno fuori della porta. L’argomento a prima vista è irresistibile, benché si scontri con le scelte operate oltre confine: otto paesi europei stabiliscono una soglia del 5%, in due paesi è al 4%, senza contare la soglia implicita (e ben più elevata) che altrove scatta per la dimensione delle circoscrizioni elettorali. Ma l’obiezione all’obiezione muove dall’interesse del votante, piuttosto che del votato. Anzi: le contro-obiezioni sono cinque, come le dita d’una mano.

Primo: nessuna cartina stradale è grande quanto la città che rappresenta. Per orientarmi devo vederci chiaro, anche a costo di non leggervi i nomi scritti sui citofoni. Secondo: regole plurime disorientano e confondono. Se alle politiche voto con la soglia, è meglio che la soglia sia prevista pure alle europee. Terzo: se intendo costituire una società commerciale, il notaio mi chiede di depositare in banca un fondo cassa a garanzia dei miei rapporti. E allora pretendo dai partiti la stessa serietà; che si presentino solo quelli che hanno un minimo di radicamento e di organizzazione. Quarto: alle Europee 2004 il Partito dei pensionati ha ottenuto in rimborsi elettorali 180 volte le somme investite. Non ho nessuna voglia di ripetere il regalo. Quinto: ridurre il numero dei partiti significa sforbiciarne gli apparati. Significa perciò togliere di mezzo un po’ di professionisti della politica, quanti vivono «di» e non «per» la politica, come diceva Weber. È un’esigenza moralizzatrice, anche se non è questa l’esigenza da cui nasce l’introduzione della soglia. Ma vale pur sempre l’eterogenesi dei fini.

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« Risposta #18 inserito:: Febbraio 21, 2009, 06:49:29 pm »

21/2/2009
 
Chi s'è arreso alle armate del Papa
 
MICHELE AINIS
 

Cadono gli anniversari: l’11 febbraio, 80 anni dal vecchio Concordato, siglato da Mussolini; il 18 febbraio, 25 anni dal nuovo Concordato, quello con la firma di Craxi. Ma cade inoltre, dalla memoria collettiva, il ricordo delle scelte che li accompagnarono, che li resero possibili. Cade la percezione d’un clima nei rapporti fra Italia e Vaticano che oggi non sapremmo neanche immaginare. Altri uomini, altre regole. Ecco perché il documento pubblicato lunedì su questo giornale è un bene prezioso: ci aiuta a ricordare, al contempo ci dimostra che c’è stata una Chiesa rispettosa delle nostre istituzioni. E se c’è stata, può esserci di nuovo. Dipende dalle autorità religiose, ma soprattutto dalle autorità politiche della Repubblica italiana. Quel documento è una nota riservata del vescovo Riva, indirizzata a Moro nel gennaio 1976. Quindi 8 anni prima degli accordi di Villa Madama, ma la nota già ne anticipa il contenuto più essenziale. A partire dall’affermazione secondo cui la Chiesa «si sottopone alle leggi dello Stato».

La stessa affermazione, tradotta in norma vincolante, che apre il nuovo Concordato, dove la Santa Sede s’impegna al «pieno rispetto» della sovranità statale. Ma in quella nota c’è di più: una doppia ammissione che a leggerla adesso ti fa saltare sulla sedia. Perché c’è scritto che le gerarchie ecclesiastiche non reclamano privilegi dallo Stato italiano. Perché vi si mette a nudo la ferita più bruciante, che all’epoca fu inflitta dalla legge sul divorzio. L’emissario di Paolo VI continua a dolersi per la legislazione divorzista; ma aggiunge che la Santa Sede «non si propone di insistere in una richiesta pregiudiziale del ristabilimento della situazione quo ante». Insomma pazienza per la sacralità della famiglia, quantomeno allora era più forte la sacralità dello Stato. Come ha potuto rovesciarsi questo atteggiamento? Quando comincia l’invasione delle truppe pontificie (titolo di Le Monde) sul suolo italiano? Da dove nasce l’intransigenza, e insieme la prepotenza sfoderata attorno al caso Englaro? Semplice: da un doppio referendum. Quello che nel 1974 la Chiesa ha perso sul divorzio; quello che nel 2005 ha vinto sulla procreazione assistita. Ma se è questa la lezione della storia, significa che lo spazio della Chiesa nella nostra vita pubblica dipende principalmente da noi stessi. È uno spazio politico, e la politica ha orrore del vuoto. Se il trono rimane vacante, al suo posto sorgerà un altare. Se gli elettori pensano che la laicità sia questione da filosofi, la filosofia imperante sarà quella religiosa. Se i politici italiani sono libertini in privato ma genuflessi in pubblico, perché la Chiesa dovrebbe fare un passo indietro? C’è almeno un tratto di continuità fra l’arrendevolezza vaticana sul divorzio e l’inflessibilità sul testamento biologico: il pragmatismo, virtù molto terrena che sa adattarsi ai tempi, cogliendo l’opportunità del giorno dopo. Tutto l’opposto del rigore dottrinale, della parola scolpita sulla Bibbia. Eppure non è che lo Stato italiano si sia del tutto arreso alle armate vaticane. O meglio si è arreso il governo, si è arreso il Parlamento. Tuttavia di tanto in tanto resiste qualche giudice.

La Cassazione ha riconosciuto il buon diritto di Beppino Englaro. Successivamente la Consulta ha riconosciuto il buon diritto della Cassazione. E sempre la Suprema Corte questa settimana ha assolto il magistrato Tosti, che rifiutò di tenere udienza davanti al crocefisso, in nome della laicità della Repubblica. Evidentemente ai nostri giudici difetta il pragmatismo.

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« Risposta #19 inserito:: Marzo 11, 2009, 09:28:09 am »

11/3/2009
 
Fannulloni per decreto
 
 
MICHELE AINIS
 
Se la fantasia costituisce la prima qualità degli uomini politici, il nostro presidente del Consiglio ne ha da vendere. Il Parlamento va a rilento? È appesantito da troppe votazioni? Le votazioni regalano talvolta brutte sorprese a chi ha il timone del governo? Bene, facciamo votare solo i capigruppo e non pensiamoci più. Ricetta semplice, e probabilmente quantomai efficace. Magari un poco ruvida, un po’ eccessiva per quel migliaio di anime rinchiuse nei palazzi delle due assemblee legislative, che passerebbero così dalla catena di montaggio delle leggi all’ozio più assoluto. Ma che importa, conta solo il risultato. Peccato che questo risultato sia impossibile. Peccato che s’infranga contro i principi che reggono la nostra democrazia costituzionale. Peccato che strida col buon senso.

Anche perché questa soluzione suona ben più drastica del voto ponderato, in uso presso varie istituzioni. A cominciare dall’Unione europea, dove il voto di Germania, Italia, Francia e Regno Unito vale 29 punti, mentre un piccolo Stato come Malta pesa 3 punti appena. Ma in questo caso non c’è alcun esproprio del diritto di voto, non c’è un silenziatore alla voce dei più piccoli. Non c’è nemmeno una ferita al principio d’eguaglianza, perché tale principio - come stabilì Aristotele - s’applica agli eguali, non ai diseguali.

È evidente che gli Stati più popolosi rappresentano un numero più alto di cittadini europei, sicché misurarli secondo il loro peso demografico effettivo evita di sovradimensionare il voto dei maltesi. Ma c’è un’élite di rappresentanti più rappresentativi in Parlamento? C’è un deputato il cui collegio elettorale coincide con l’intera Lombardia, mentre il suo vicino di banco è stato eletto dai soli cittadini di Ragusa? Non c’è, non ci può essere; altrimenti gli elettori verrebbero discriminati a propria volta.

Qui allora viene in gioco un altro cardine delle democrazie costituzionali: l’eguaglianza del voto e dei votanti. In passato qua e là si praticava il voto plurimo, per esempio quello del capofamiglia, che esprimeva un valore superiore all’unità. Ma la Rivoluzione francese lo ha confinato tra i relitti della storia, da quando la Dichiarazione dei diritti del 3 settembre 1791 introdusse il principio del suffragio universale. Poi, certo, ce n’è voluto per tradurre il principio nella prassi. In Italia fino al 1882 votava appena il 2 per cento della popolazione. Nel 1912, mezzo secolo dopo l’unità, fu Giolitti a estendere a tutti i cittadini maschi il diritto di partecipare alle elezioni. Infine nel 1946 venne la volta delle donne, e a quel punto la traiettoria si è compiuta. Imporre una sordina ai parlamentari significa imporla agli elettori, significa perciò riportare indietro le lancette della storia.

E c’è poi un altro punto dolente nella ricetta che propone Berlusconi. Anzi due, anzi tre, anzi quattro. In primo luogo stabiliremmo una gerarchia fra i parlamentari, offendendo la norma conservata nell’art. 67 della Costituzione, secondo cui ogni membro del Parlamento rappresenta - ebbene sì, lui solo - la Nazione. In secondo luogo, anche ad ammettere che le sue personali convinzioni si riflettano come in uno stampo con le convinzioni del suo capogruppo, offenderemmo il principio della personalità del voto, racchiuso a propria volta nell’art. 48 della Carta. In terzo luogo svuoteremmo la regola del voto segreto, che i regolamenti parlamentari prescrivono ad esempio sulle questioni di coscienza, per tutelare l’autonomia di senatori e deputati. In quarto luogo, come mai faremmo noi elettori a valutare l’operato di chi ci rappresenta in seno alle due Camere? La mancata rielezione è l’unica arma che ci rimane in mano rispetto ai voltagabbana, ai traditori delle promesse elettorali, ai fannulloni; ma se diventano tutti fannulloni per decreto, tanto varrebbe privarci del diritto di votare.

Insomma l’epilogo non piacerà al presidente del Consiglio. Non piacerà neppure a chi ritiene che il Parlamento sia un ingombro di cui l’Italia dovrebbe sbarazzarsi. E allora rifugiamoci nell’autorità di Montesquieu: le lungaggini parlamentari, le procedure talora estenuanti della democrazia, sono il prezzo che paghiamo per la nostra libertà.

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« Risposta #20 inserito:: Marzo 18, 2009, 10:42:08 am »

18/3/2009
 
Scandalosi controllori controllati
 
 
MICHELE AINIS
 

C’era una volta il conflitto d’interessi di Silvio Berlusconi. Non c’è più, chi ancora ne parla suscita sbadigli. Ma forse a qualche lettore interesserà sapere che c’è tutto un sistema che ha elevato il conflitto d’interessi, o se si vuole il connubio d’interessi fra controllore e controllato, a regola suprema di governo. Vale per i segretari comunali: tutori della legalità degli atti firmati dal sindaco, ma al contempo - dopo la legge Bassanini che ha introdotto lo spoils system (n. 127 del 1997) - nominati e revocati dal sindaco medesimo. Vale per i giudici ordinari, dato che nessuna norma impedisce a un magistrato che tiene udienze a Napoli di fare l’assessore a Napoli. Vale per il difensore civico - che dovrebbe tutelare i cittadini nei casi di maladministration - perché ancora una volta è assurdo che il controllato, ossia il Consiglio regionale o comunale, designi il proprio controllore. Vale a maggior ragione per la pletora di autorità indipendenti, che dagli Anni Novanta hanno preso posto nel nostro ordinamento: i cui membri sono nominati dai presidenti delle Camere (e dunque dalla maggioranza di governo) oppure eletti dal Parlamento con voto limitato (e dunque, nella sostanza, lottizzati fra i partiti).

Ma se c’è un settore dove gli interessi si miscelano, dove controllore e controllato vestono l’identica casacca, questo è il settore della giustizia amministrativa. Dovremmo poter dire che è uno scandalo, se la parola non fosse ormai abusata. Perché lo scandalo aggredisce la funzione giurisdizionale, sentinella dei diritti. Perché la trasforma da guardiano indipendente dell’amministrazione a protettore degli amministratori. Perché infine disegna un’area d’impunità sul potere più elevato, il potere di governo. Ne è testimonianza la composizione del Consiglio di Stato, dove un quarto dei membri è di nomina governativa (legge 27 aprile 1982, n. 186), benché questa magistratura costituisca il più alto grado di giudizio contro gli abusi del governo. Ne è testimonianza la composizione della Corte dei conti, dove il governo nomina 39 consiglieri (d.P.R. 8 luglio 1977, n. 385), benché i giudici contabili vigilino sulle spese del governo. Col risultato che quest’ultimo, oltre a beneficiare di guardiani spesso compiacenti, se ne serve non di rado come una discarica per liberarsi dei personaggi più ingombranti.

Valgano a mo’ d’esempio la nomina in Consiglio di Stato di Nicolò Pollari, dopo la sua rimozione da capo dei servizi segreti per una gestione alquanto disinvolta delle intercettazioni (gennaio 2007); nonché la nomina alla Corte dei conti di Roberto Speciale - nomina poi rifiutata dall’interessato - dopo che il governo stesso lo aveva licenziato con gravissime accuse dal comando generale della Guardia di finanza (giugno 2007). Ma almeno in questo la seconda Repubblica coincide con la prima. Negli Anni 70 un esecutivo Andreotti fece un’infornata di 17 consiglieri di Stato, per lo più parlamentari trombati alle elezioni; tanto che un giurista prudente come Mortati parlò di situazione patologica. Senza dire dei pareri obbligatori del Consiglio di Stato ai ministeri, dove però c’è sempre un consigliere distaccato a capo di gabinetto del ministro. Più che un parere, una strizzatina d’occhio.

Ma la stravagante regola che mette il giudice in mano all’imputato non funziona solamente nei palazzi romani. Funziona dappertutto, dalle isole alle Alpi. In Sicilia il Consiglio di giustizia amministrativa ospita un giudice designato dal ministro dell’Interno e 9 scelti dal presidente della Regione siciliana (decreto legislativo 24 dicembre 2003, n. 373). In Trentino Alto Adige 2 giudici su 6 del Tribunale amministrativo regionale vengono nominati dal Consiglio provinciale di Trento, mentre a Bolzano c’è una sezione autonoma dove il governo nazionale nomina 4 giudici e il Consiglio provinciale di Bolzano gli altri 4 (d.P.R. 6 aprile 1984, n. 426). Nelle sezioni regionali della Corte dei conti siedono 2 magistrati rispettivamente designati dal Consiglio regionale e dal Consiglio delle autonomie locali (legge 5 giugno 2003, n. 131). Insomma non c’è male: chi pensa che il rapporto fra politica e giustizia sia troppo lacerato, e che la lacerazione provochi un formidabile complesso per le nostre istituzioni, potrà rassicurarsi. Almeno per la giustizia amministrativa, il complesso si è trasformato in un amplesso.


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« Risposta #21 inserito:: Marzo 26, 2009, 10:34:08 am »

26/3/2009 - BIOTESTAMENTO
 
Idratazione forzata
 
 
MICHELE AINIS
 

Ieri il Senato ha messo in minoranza Aldo Moro. È successo alle 11 e 30, minuto più minuto meno. C’era già stato il voto sulla nutrizione e l’idratazione artificiale, la soluzione di compromesso del Pd era stata respinta senza troppi complimenti. Nessun rifiuto del sondino, nemmeno in casi eccezionali, nemmeno se l’hai lasciato scritto con la vernice rossa sui muri di casa. Applausi dai banchi di destra, rumori, sospensione dei lavori. Alla ripresa il senatore Marino evoca per l’appunto Moro, e illustra un emendamento che riecheggia pressoché alla lettera quanto lui disse in Assemblea Costituente, durante la seduta del 28 gennaio 1947: «Ogni trattamento sanitario può venire rifiutato». Questo perché, aggiungeva Moro, viene qui in gioco una questione di libertà individuale, e dunque un limite al potere coercitivo dello Stato. Questione diversa dal caso aperto sessant’anni dopo attorno al corpo di Eluana Englaro: riguarda gli ammalati, non i moribondi.

E soprattutto riguarda uomini e donne in piena coscienza, capaci d’intendere e volere. Riguarda la possibilità di rifiutare un’aspirina così come un’amputazione, un elettrocardiogramma così come il trapianto del cuore. I costituenti dettero ragione a Moro, e scrissero l’art. 32 della Costituzione; i senatori ieri gli hanno dato torto, con 148 no, 116 sì, 10 astenuti.

Che cosa è mai accaduto nelle nostre istituzioni, quale mutazione antropologica ne colpisce gli attuali inquilini, se perfino il cattolicesimo democratico viene espulso dalla Repubblica italiana? Se questa Repubblica, qui e oggi, rinnega i valori con cui a suo tempo venne battezzata? Perché è questa la prima conseguenza della legge in dirittura d’arrivo al Senato: una patente d’incostituzionalità. La legge sul testamento biologico offende il diritto alla libertà personale iscritto nell’art. 13 della Carta, che significa anzitutto diritto di proprietà sul nostro corpo, potere di disporne. Offende il diritto alla salute sancito dall’art. 32, che a sua volta implica il rifiuto delle cure. Offende la dignità umana menzionata nell’art. 3, perché ciascuno dev’essere libero di scegliere dove si situi la misura di un’esistenza dignitosa. Con questa legge, viceversa, d’ora in poi chi disgraziatamente si trovasse nelle condizioni di Eluana dovrà restare appeso al suo sondino per tutti i secoli dei secoli. Di più: il voto altrettanto disgraziato su Aldo Moro rischia di trasformare le corsie d’ospedale in altrettante carceri, i pazienti in detenuti. Si dirà che lo stesso art. 32 riserva tuttavia alla legge il potere di disporre trattamenti sanitari obbligatori. Errore: la legge può farlo quando sussiste un interesse pubblico, un bisogno della collettività. Può stabilire d’internare i folli o i malati contagiosi, può imporre la vaccinazione obbligatoria, ma quale pericolo reca al proprio prossimo chi s’oppone alla nutrizione artificiale?

No, non c’è giustificazione alla cultura del divieto che soffia come un vento sulle nostre esistenze, sbattendole come panni stesi ad asciugare sul balcone. È un vento potente, tal quale la parola del cardinal Bagnasco: che il Parlamento faccia presto, ha detto lunedì. Eccolo accontentato. E dunque no alla ricerca sulle staminali, no ai matrimoni gay, no alla morte dignitosa, no - perfino - ai preservativi per difendersi dall’Aids. Non c’è scampo, né in camera da letto né in camera mortuaria. È la volontà del popolo che s’esprime attraverso questa selva di divieti? Se così fosse, potremmo quantomeno rassegnarci a un primato democratico. Ma proprio ieri un sondaggio di Repubblica ha rivelato che il 73,5% degli italiani è in disaccordo con Benedetto XVI quanto all’uso dei preservativi; e d’altronde non è affatto un caso se le chiese sono vuote, se la popolarità del Vaticano precipita più di Piazza Affari. Non precipita però la sua influenza, perché quest’ultima s’allunga non sui fedeli bensì sugli apparati, su chi sa che per ottenere un posto in Parlamento, una poltrona in Rai, una carica nei Cda che contano in Italia serve l’acqua santa. Per l’appunto: idratazione forzata.

michele.ainis@uniroma3.it
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« Risposta #22 inserito:: Aprile 02, 2009, 03:55:12 pm »

2/4/2009
 
Ritorno al futuro
 
 
MICHELE AINIS
 
La giustizia risponde in tempi biblici. Tanto più rispetto al ritmo nevrotico e febbrile che segue la politica, e perciò l’agenda parlamentare.

Ma può succedere che questi due tempi si ricongiungano, s’incrocino entrambi nel presente. Può succedere che nel 2009 una sentenza costituzionale bocci una legge del 2004, varata da un altro governo Berlusconi, due legislature fa. E può succedere che questa medesima sentenza sbatta come un pugno sul tavolo nelle decisioni che il Parlamento s’appresta a formulare. Perché ieri sera la Consulta ha azzoppato la legge sulla fecondazione assistita, ma in qualche modo pure la legge sul testamento biologico fin qui approvata dal Senato. E perché, sempre ieri, i giudici costituzionali hanno restituito qualche grammo di libertà alle donne, ma in prospettiva a tutti gli italiani. Per coniugare queste due vicende, c’è bisogno innanzitutto di descrivere la doppia censura d’incostituzionalità sulla quale si è abbattuta la mannaia della Consulta. In primo luogo, cade la norma che impediva di creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre». Una norma crudele, perché il divieto d’impiantare più di tre ovociti per ciclo, e insieme l’obbligo di trasferire tutti gli embrioni ottenuti con l’inseminazione, costringevano ogni donna a ripetere ad oltranza la stimolazione ormonale, esponendosi al rischio di contrarre malattie incurabili; e la costringevano inoltre ad accettare che l’embrione malato attecchisse nel suo corpo, semmai decidendo successivamente di abortire, e sottoponendosi pertanto a una doppia sofferenza. Come scrisse a suo tempo Michela Manetti, c’è in questa legge, in questo specifico passaggio normativo, una visione punitiva nei confronti della donna. E la punizione disposta dalla legge non si attaglia tanto all’illecito, quanto piuttosto al sacrilegio; non alla violazione di norme giuridiche, ma alla disobbedienza verso le leggi di natura. Ma c’è (c’era) anche un oltraggio nei confronti della scienza medica, dell’autonomia che spetta al medico. Questo perché il limite di tre embrioni da impiantare risulta in alcune circostanze troppo alto (determinando il pericolo di gravidanze plurigemellari), in altre troppo scarso. E perché inoltre il divieto di crioconservazione degli embrioni aumenta la necessità di ripetere la stimolazione ormonale, che tuttavia non si può ripetere vita natural durante senza mettere in pericolo la salute della donna. Insomma con quella norma l’eventualità che la terapia si concludesse con successo era un azzardo, una puntata ai dadi; non a caso vi si è subito innescato il fenomeno del turismo procreativo.

Ma adesso la Consulta ripristina la dignità dei medici, e insieme quella delle donne. È questo, dopotutto, anche il filo conduttore della seconda dichiarazione d’incostituzionalità (tecnicamente un’«additiva»), dove entra in gioco la norma che imponeva l’immediato trasferimento degli embrioni non impiantati al momento della fecondazione per causa di forza maggiore. No, ha detto ieri la Consulta: pure in quest’ipotesi il trasferimento va effettuato senza pregiudicare la salute della donna. E chi, se non il medico, ha in tasca gli strumenti per assumere tale decisione?

Poi, certo, leggeremo le motivazioni, quando la Corte le avrà depositate. Però intanto la doppia incostituzionalità della Legge 40 ci impartisce fin da adesso una doppia lezione, e soprattutto la impartisce ai nostri legislatori. In primo luogo, nessuna legge può trasformare i medici in altrettanti megafoni di un’ideologia politica, né tanto meno religiosa. In secondo luogo, nessun valore può farsi tiranno sugli altri valori che attraversano la nostra esistenza pubblica e privata. I valori vanno piuttosto compensati, bilanciati. È il caso della tutela dell’embrione rispetto alla salute della donna. Ma è anche il caso della libertà di decidere la morte, rispetto alla tutela della vita. Se il Parlamento se ne rammenterà, prima di licenziare quest'altra legge sul testamento biologico, potrà quantomeno risparmiare alla Consulta la prossima fatica.

michele.ainis@uniroma3.it

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« Risposta #23 inserito:: Aprile 19, 2009, 05:13:42 pm »

19/4/2009
 
L'Istat? Molto meglio l'oroscopo
 
MICHELE AINIS
 
Questa è una storia di lassismo burocratico, di governi complici, di leggi scritte sulla carta però allegramente disattese. Tal quali le leggi antisismiche crollate all’Aquila insieme al terremoto. D’altronde pure questa storia deflagra il 6 aprile, benché nessuno fin qui ci abbia prestato caso. E anch’essa lascia almeno un morto sotto le macerie. Non - per fortuna - un morto in carne ed ossa. Ma la vicenda è analoga, sia pure con la differenza che separa la tragedia dalla farsa. E la vittima reca a sua volta un nome illustre: la statistica, o almeno la statistica ufficiale. La più inesatta fra le scienze esatte, dice chi non le vuol bene. Tuttavia una disciplina coltivata fin dall’antico Egitto, a Roma sotto Augusto imperatore, nella Cina dei Ming. Perché costringe i governi a ragionare sulle cifre, e perché dunque rappresenta il faro delle politiche pubbliche. Fu Leibniz il primo a proporre la creazione di un ufficio nazionale di statistica. In Italia la sua idea venne realizzata nel 1861, perfezionata nel 1926, quando sorse l’Istat.

La settimana scorsa ne abbiamo decretato i funerali, senza esequie di Stato, senza neppure un necrologio.

Tutto comincia nel giugno 2007, quando un direttore dell’Istat dichiara candidamente a Panorama che ogni anno 350 mila questionari inviati alle imprese e ai cittadini restano senza uno straccio di risposta. L’ennesima prova dello scarso senso civico del popolo italiano, verrebbe da pensare. Solo che in questi casi - in Italia come altrove - la risposta è (era) obbligatoria; e a propria volta l’Istat ha (aveva) l’obbligo di perseguire i colpevoli, applicando una sanzione pecuniaria. Vi ha mai provveduto? Macché. Alle nostre latitudini le leggi sono come le raccomandazioni della suocera, nessuno le prende mai sul serio. Sennonché il sindacato Usi/RdB, fatti due calcoli, denuncia i vertici dell’Istat per danno erariale; e la procura della Corte dei conti lo quantifica in 191 milioni di euro, di cui 95 da scucire al presidente Biggeri. L’udienza si terrà il 12 ottobre prossimo.

Nel frattempo però scattano le operazioni di soccorso. Il governo Prodi, fra un rantolo e un lamento, trova le forze per varare l’«indulto statistico», infilando nel decreto milleproroghe (febbraio 2008) una norma che non proroga un bel nulla, anzi chiude i conti col passato. Come? Inventando la risposta non risposta. Il Dio degli azzeccagarbugli sarà saltato sulla sedia: con questa norma rischia la multa solo chi mette per iscritto la sua volontà di sottrarsi ai questionari Istat, solo chi risponde di non voler rispondere. Ovviamente non lo fa nessuno, anche perché sarebbe come denunciarsi. Sarebbe come stabilire che gli evasori fiscali d’ora in avanti verranno castigati a condizione che dichiarino al fisco d’essere evasori. Una capriola logica e insieme un ossimoro giuridico: l’obbligo non obbligatorio.

Fine? Per il passato sì, ma c’è da preoccuparsi del futuro, dato che l’indulto statistico non vale dal 2009 in poi. Qui allora arriviamo al governo Berlusconi, arriviamo per l’appunto al 6 aprile: quando la Gazzetta Ufficiale pubblica un decreto che restringe da 144 a 29 le indagini statistiche a risposta obbligatoria. Ci si potrà più fidare delle rilevazioni Istat? Se già in passato Eurostat (l’ufficio statistico della Commissione europea) le prendeva con le pinze, da domani varranno meno d’un oroscopo tracciato sui segni zodiacali. Senza un martello da piantare sulla testa ai renitenti, da domani l’Istat non sarà più in grado d’offrire statistiche attendibili e complete. Anche perché le materie depennate non sono affatto marginali: c’è dentro il turismo, l’agricoltura, i trasporti, l’ambiente, i consumi delle famiglie, il tasso d’occupazione nelle piccole imprese, la sicurezza, gli aborti, le malattie infettive. C’è tutto il capitolo delle costruzioni, proprio adesso che cadono una addosso all’altra come un castello di tarocchi. C’è infine la giustizia, e magari è un bene per l’immagine consunta del Paese, così nessuno potrà più misurare i tempi biblici dei nostri processi. Ma dopotutto non c’è scandalo: in Italia l’informazione, al pari della legge, non è una cosa seria.

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« Risposta #24 inserito:: Aprile 30, 2009, 09:48:20 am »

30/4/2009
 
Democrazia con l'elmetto
 
 

MICHELE AINIS
 
Nel condominio delle nostre istituzioni si sta aprendo una stagione di conflitti. Le avvisaglie sono chiare, benché ancora nessuno abbia sparato il primo colpo di fucile. Sono altrettanto chiari i due fronti contrapposti su cui si dispongono i condomini: da un lato gli organi di garanzia; dall’altro lato gli organi politici. Sul primo fronte è acquartierata, da Tangentopoli in avanti, la magistratura; e infatti il rapporto fra politica e giustizia indica un nodo irrisolto della nostra vita pubblica. Ma più di recente vi si è aggiunto il tribunale costituzionale, dopo la sentenza che ha preso a morsi la legge sulla fecondazione assistita. Senza troppi giri di parole, la maggioranza ha salutato questa decisione come una ferita alla democrazia. Se è così, avremo altre ferite da medicare nel prossimo futuro, quando la Consulta s’occuperà del lodo Alfano o del testamento biologico. Anche perché al suo fianco va prendendo posizione un organo di garanzia politica qual è il presidente della Camera, che a giorni alterni spedisce un altolà al governo. E soprattutto si profila una maggiore intransigenza del Capo dello Stato. Dopo il caso Englaro, Napolitano ha moltiplicato le critiche contro l’uso troppo disinvolto dei decreti, contro l’eccesso dei voti di fiducia, in ultimo - nel discorso di Torino - contro un rischio autoritario nel nostro orizzonte collettivo. Certo, l’esecutivo può reagire minimizzando, facendo orecchie da mercante: per l’appunto la strategia esibita in quest’ultima occasione. Tuttavia il presidente può a sua volta trasformare la moral suasion nell’esercizio specifico e puntuale dei propri poteri di veto, per esempio rinviando alle Camere le leggi di conversione dei decreti. E allora i contendenti avranno un elmetto da indossare, dalle buone maniere passeranno alle maniere forti.

Un oroscopo infausto? Dipende dal giudizio sulla vecchia idea di Montesquieu: quella di separare i poteri e le funzioni, di distinguere la decisione dal controllo. In Italia è un’idea in crisi ormai da tempo, da quando alla separazione si è via via sostituita l’integrazione delle competenze. Ci ha messo del suo pure la Consulta, elaborando il canone della «leale collaborazione» fra i diversi attori della cittadella burocratica. Ovviamente c’è del giusto, perché un aereo cade a picco se il pilota non dialoga con il copilota. Ma c’è anche un pericolo, in primo luogo perché se tutti fanno tutto non saprai mai a chi chiedere conto dei misfatti. E in secondo luogo perché la logica dell’integrazione può risolversi - e spesso si risolve - nel predominio del più forte. È accaduto con l’esperienza regionale, e sta proprio in ciò la causa del suo fallimento. Nel 1947 i costituenti scolpirono un modello che divideva con un colpo d’accetta le attribuzioni statali e regionali. Nel 1970, quando finalmente le regioni si presentarono ai nastri di partenza, trovarono il circuito già occupato dalle autoblu ministeriali. Furono perciò costrette a montare sul sedile posteriore, e da allora in poi si sprecano i progetti di riforma. Ma è accaduto, per fare un altro esempio, riguardo al potere di grazia. Per sessant’anni esercitato in condominio dal Capo dello Stato e dal governo, anzi riservando al primo un ruolo puramente notarile. Finché Ciampi non ha sollevato un conflitto dinanzi alla Consulta, che a propria volta ne ha sancito definitivamente le ragioni.

Ecco, i conflitti. La logica dell’integrazione - delle competenze e dei poteri - porta in ultimo alla sedazione dei conflitti. E infatti non c’è più distinzione né frizione tra il legislativo e l’esecutivo, l’uno è protesi dell’altro. Non c’è laicità, non c’è separazione tra sfera pubblica e sfera religiosa, da quando è crollato il «muro» fra Stato e chiese di cui parlava Thomas Jefferson. Non c’è neppure un referendum oppositivo in mano ai cittadini, da quando l’astensionismo lo ha disinnescato. Ma i conflitti sono il sale delle democrazie, sono la via obbligata per restituirvi responsabilità e chiarezza. Non a caso l’istituto del conflitto fra i poteri è un asse portante dello Stato di diritto. E d’altronde l’alternativa si chiama organicismo, si chiama populismo, consiste nell’unità fittizia della cittadinanza che parla solo attraverso la voce del suo Capo. No, non dobbiamo aver paura dei conflitti. Preoccupiamoci piuttosto di non prendere troppi sedativi.

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« Risposta #25 inserito:: Maggio 11, 2009, 09:41:27 am »

11/5/2009
 
Referendum ho firmato non voterò
 

MICHELE AINIS
 
Confesso: io il referendum elettorale l’ho firmato.
È accaduto nella primavera del 2007, quando altri 820 mila italiani presero la stessa penna fra le dita. Confesso di nuovo: l’ho pure promosso. D’altronde carta canta, sarebbe impossibile negare: il mio nome figura al terzo posto nell’elenco dei 179 membri del comitato promotore, subito dopo i nomi di Guzzetta e Segni. Capricci dell’ordine alfabetico, non è il caso di farne un’aggravante. Ma adesso mi accingo alla terza confessione: non voterò questo referendum, o meglio voterò no sul quesito principale.
Prima d’essere infilzato dai partigiani di ambedue gli schieramenti, prima che mi iscrivano d’ufficio nell’albo nazionale dei pentiti, detto a futura memoria queste note.

No, non ho cambiato idea sull’importanza dei referendum elettorali. Sono l’unica leva in mano ai cittadini quando il bunker della politica si chiude a doppia chiave.
 
Del resto la seconda Repubblica è nata in questo modo, attraverso un doppio referendum (nel 1991 e nel 1993). Il guaio è che le leggi elettorali non scaldano mai il cuore.

Per lo più non ci facciamo neanche caso, come non ci s’accorge del motore rinchiuso dentro il cofano. E quasi nessuno capisce il meccanismo dei pistoni, pur capendo vagamente che da lì dipenderà il suo viaggio. Ma allora un referendum elettorale può vincere soltanto se intercetta un’energia politica, una spinta al cambiamento in qualche modo esterna e precedente alla formulazione dei quesiti, come avvenne durante Tangentopoli. Nel 2007, mentre andava in scena lo spettacolo del governo Prodi (102 fra ministri e sottosegretari, 11 partiti a dividersi il boccone, 2 senatori a vita decisivi per la sua sopravvivenza), questa energia s’accumulava, premeva sulla società italiana cercando un punto d’eruzione. L’ha trovato in un libro, La casta di Stella e Rizzo. Per una stagione l’ha trovato in un comico, Beppe Grillo. Infine se ne è impadronito Berlusconi. Dopo le politiche del 2008 quel vento ha smesso di soffiare per la semplice ragione che il cambiamento c’era già stato: piaccia o non piaccia (ai più piace), la palingenesi è il governo Berlusconi, metodi e stile opposti rispetto al suo predecessore.

Insomma corre un’era geologica, non 24 mesi appena, tra quel tempo e il nostro tempo.
Quando cominciammo a scrivere l’agenda del comitato promotore, né il Pd né il Pdl erano stati battezzati. La nostra iniziativa puntava a coagulare le anime sparse del Palazzo, per semplificare la politica, per renderla meno incomprensibile. Ma in ultimo la politica si è rimessa in movimento, senza attendere la mannaia del referendum. Questo vale altresì per la seconda lama forgiata dai referendari: quella che taglia la testa ai pluricandidati, e dunque ai plurieletti, che optando per l’uno o per l’altro collegio decidono la sorte di chi si trova in coda nella lista. Nel 2006 un terzo dei parlamentari fu scelto per graziosa concessione; nel 2008 soltanto qualche dozzina. Potremmo trarre una lezione da queste vicende elettorali. Dovremmo farlo specialmente noi italiani, convinti come siamo che tutti i mali del sistema derivano dalle regole, dalla Costituzione. No, è la politica a decidere sui fatti e sui misfatti; è la politica a dettare il tempo del nostro vivere comune.

Ecco, il tempo. Nessuna legge elettorale è mai per tutti i secoli a venire. Né sussiste un primato sempiterno del maggioritario sul proporzionale, o viceversa.
Dipende dal contesto, dalle stagioni della storia. Ieri avremmo potuto votare il referendum, sia pur turandoci il naso (avevo scritto così, sulla Stampa del 24 aprile 2007: un argomento per i miei avvocati). Oggi rischieremmo di non aver più nulla da annusare. Perché sul nostro calendario non c’è più troppo pluralismo, bensì troppo poco. Perché una soglia di sbarramento impervia, coniugata a un superpremio per un superpartito, oggi finirebbe col pietrificare la politica, trasformando in statue di sale gli elettori.

Perché nel frattempo pure la Consulta (sentenza n. 15 del 2008) ha segnalato gli «aspetti problematici» del premio di maggioranza. E perché infine, nonostante la generosità istituzionale di Segni e Guzzetta, oggi il referendum è diventato generoso con i ricchi, avaro con i poveri.

michele.ainis@uniroma3.it
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« Risposta #26 inserito:: Maggio 22, 2009, 11:55:11 am »

22/5/2009
 
Le riforme basta volerle
 
 
 
 
 
MICHELE AINIS
 
Nell’arco d’un solo pomeriggio il presidente del Consiglio ha attaccato due poteri su tre: comunisti i magistrati, fannulloni i deputati. Più che un’opinione, un anatema, un doppio affondo contro il corpo giudiziario e contro il Parlamento. Si salva, guardacaso, unicamente il potere esecutivo, anche perché altrimenti Berlusconi avrebbe dovuto bisticciare con se stesso.

È il caso di menare scandalo? Sì, è il caso. Non tanto in nome del galateo costituzionale, una pagina ormai ingiallita della nostra vita pubblica; anche se le nazioni muoiono di impercettibili scortesie, diceva Giraudoux. Neppure in nome del linguaggio edulcorato che un tempo usavano i notabili Dc; dopotutto la franchezza è una virtù, benché nella seconda Repubblica le parole dei politici siano diventate altrettanti corpi contundenti. Ma quando il politico di turno è il leader del nostro maggior partito, quando ha in pugno il timone del governo, s’apre allora una duplice questione: di metodo e di merito. Circa il metodo, rimbalza la domanda sollevata dallo stesso Berlusconi: non vale forse per il premier la libertà di manifestazione del pensiero di cui godono tutti gli italiani?

Non allo stesso modo, non in tutti i casi. Nei manuali di diritto si distingue tra manifestazione ed esternazione del pensiero, riferendo quest’ultima al Capo dello Stato, ai presidenti delle assemblee parlamentari, o per l’appunto al premier. Insomma la prima è una libertà, la seconda un potere. E il potere d’esternazione incontra limiti più netti, più stringenti, rispetto alle parole che viaggiano nei nostri discorsi collettivi. Perché è un potere che s’accompagna all’esercizio d’un potere - quello di rappresentare la nazione, di guidare i lavori delle Camere, d’orientare l’attività amministrativa. E perché in uno Stato di diritto nessun potere vive in solitudine, deve rispettare i territori altrui, senza invaderli nemmeno verbalmente.

Qui allora viene in gioco il merito, il contenuto dell’esternazione con cui Berlusconi ha salutato la platea di Confindustria. È vero o no che il Parlamento è un treno a vapore, che basterebbero 100 deputati come negli Usa (in realtà sono 435, presidente), che a propria volta l’esecutivo ha ricevuto in dotazione un fucile scarico dai nostri padri fondatori? Sì e no. Quanto ai parlamentari, effettivamente 945 sono troppi, quando si pensi che i costituenti erano poco più della metà (556), e che in un anno e mezzo scrissero la legge delle leggi. Ma sulla cura dimagrante concorda altresì l’opposizione: e allora passate dalle parole ai fatti. Quanto ai poteri del governo, di nuovo l’opposizione concorda su qualche aggiustamento, ma di nuovo la riforma sin qui è rimasta avvolta in una nuvola verbale.

È falso tuttavia che la democrazia italiana, sia pure con tutti i suoi difetti, indossi una camicia di gesso, sia insomma come paralitica. Il quarto governo Berlusconi ha varato 35 decreti legge, dei quali 34 convertiti dalle Camere. Nel suo primo anno di vita a Prodi ne vennero convertiti 19; eppure le istituzioni sono rimaste tali e quali, evidentemente è cambiato lo stile di guida del pilota. Quel medesimo pilota ha posto per 18 volte la questione di fiducia: dunque le regole in vigore non escludono le maniere forti. Ma se è per questo, non escludono neppure le maniere rapide. Tanto per dire, nel luglio scorso il lodo Alfano è giunto in porto dopo appena un mese di navigazione, mentre in aprile la legge che ha spostato il referendum al 21 giugno ha ottenuto il via libera di Camera e Senato in una settimana. Nell’uno e nell’altro caso c’era una forte volontà politica a mettere benzina nel motore. E allora coraggio, usiamola per fare le riforme. Possibilmente senza innescare incendi.

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« Risposta #27 inserito:: Maggio 28, 2009, 09:55:14 am »

28/5/2009
 
La sicurezza grandine di parole
 
MICHELE AINIS
 
Passi per il lodo Alfano, o lodo Mills, lodatelo un po’ come vi pare. Dopotutto, pazienza se 4 italiani su 60 milioni vengono posti dalla legge al di sopra della legge, se possono al limite stuprare le vecchiette, con un salvacondotto stampato a caratteri di piombo sulla Gazzetta Ufficiale. Però, a noialtri rei e reietti, qualche grammo di coerenza renderebbe più lieve la giornata. Se l’indulgenza è il nuovo indirizzo di governo, che almeno sia plenaria, Urbi et Orbi.

E invece no, due pesi e due misure. Negli stessi giorni in cui il tribunale di Milano sparava a salve contro il premier, Brunetta bastonava con 5 anni di galera i medici che rilasciano false attestazioni ai dipendenti, e gli stessi dipendenti se si fanno timbrare il cartellino da un collega. Ossia se scimmiottano i pianisti, nome di battaglia di quei parlamentari che votano in luogo del compagno di partito assente, magari perché questo è in missione, così la diaria entra in busta paga. La settimana scorsa erano 47 i missionari della Camera, i pianisti al Senato chissà quanti, tanto non rischiano la galera, al massimo un rimbrotto. Sempre la Camera ha appena inasprito le pene detentive (fino a 3 anni) per il gioco online senza autorizzazione. E soprattutto ha licenziato il decreto sulla sicurezza, un diluvio di 29.150 parole scagliate come pietre sulla testa del popolo italiano.

Ecco, le parole. Poiché il diritto è intessuto di parole - diceva Adolf Merkl - la lingua rappresenta un po’ il portone attraverso cui la legge penetra le nostre esistenze collettive. E che lingua parla la nuova legge? Proviamo a farne un’analisi testuale. Il termine «pena» vi ricorre 44 volte, quasi sempre in compagnia di locuzioni come «la pena è aumentata», o altrimenti raddoppiata, triplicata. In altri 26 casi si contemplano «sanzioni», ora amministrative ora pecuniarie (vietate però quelle corporali). La parola «reclusione» rimbalza per 36 volte su e giù lungo quel testo. Le «aggravanti» vengono citate 9 volte, le «attenuanti» 4 (ma per escluderle). Per 5 volte risuonano «misure di sicurezza» del più vario conio. Infine tracima un lago di «delitti» (34) e di «reati» (89), come se non ne avessimo già abbastanza sul groppone.

Già, ma quante sono le fattispecie di reato sulle quali ogni italiano può inciampare? Qualche anno fa gli addetti ai lavori azzardavano una stima: 35 mila. Roba da stacanovisti del crimine: se dedichi un’ora a ciascun tipo di reato, ci metterai 4 anni prima di completare il giro. Eppure questa stima non è mai stata confutata, forse perché viziata per difetto. D’altronde il solo governo Berlusconi, nel primo anno della legislatura, è intervenuto 90 volte sul sistema penale. A propria volta i sindaci, con la benedizione del governo, hanno cucinato quasi 700 ordinanze per servirci un fritto misto di divieti. E tuttavia non basta, non basta mai. Il decreto sulla sicurezza menziona per 81 volte il codice penale, per 33 volte quello di procedura penale. Trasforma il disagio sociale in una questione d’ordine (non per nulla parla di «ordine» in 23 casi), istituendo per esempio il registro dei barboni presso il ministero dell’Interno. Infine dà libero sfogo alla fantasia punitiva dei signori della legge, introducendo - per fare un altro esempio - l’aggravante notturna per chi guida in stato d’ubriachezza dopo l’ora del tramonto. Domani sarà la volta dell’aggravante festiva per chi parcheggia in doppia fila di domenica, dell’aggravante anagrafica per chi sorpassa in curva sotto i quarant’anni. Anzi no, quella esiste già: l’ennesima invenzione del decreto-sicurezza.

Per ripararci dalla grandine, potremmo fare affidamento sulla proverbiale inefficienza dei controlli. Dopotutto questo rimane il Paese del «severamente vietato», dove però gli automobilisti hanno lo 0,1% di possibilità d’incontrare una volante, dove le verifiche sugli intermediari finanziari toccano lo 0,3% della categoria, dove chi affitta casa riceve la visita del Fisco nello 0,14% dei casi. Magra consolazione, tuttavia; anche perché la salvezza dipende unicamente dal capriccio della sorte. Chi invece si salva di sicuro sono i parlamentari. Hanno trasformato l’insindacabilità per le opinioni espresse nella licenza d’ingiuriare il prossimo: la Camera stoppa i giudici 92 volte su 100, il Senato 95 su 100. Ed è questo doppio registro, questa schizofrenia legislativa, il più incommestibile boccone. Speriamo che ci salvi uno psichiatra.

michele.ainis@uniroma3.it
 
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« Risposta #28 inserito:: Giugno 02, 2009, 11:35:47 am »

2/6/2009
 
A chi s'appella l'appellante
 
 
 
 
 
MICHELE AINIS
 
Manifestare significa rovesciarsi nelle piazze, percorrerle in corteo, urlare slogan col ritmo d’un tamburo. Ma c’è chi manifesta restandosene in poltrona a gambe accavallate. Questo privilegio tocca a una speciale fauna umana, comunemente nota con l’ambiguo epiteto di intellettuali. Per loro - soltanto per loro - manifestare significa firmare manifesti, pronunciamenti collettivi, appelli.

Ecco, gli appelli. Non fai in tempo a girarti e te ne cade sul groppone una secchiata. Appelli contro il supermanager ai Beni culturali (associazione Bianchi Bandinelli, 7 mila adesioni). Contro il ponte sullo Stretto (l’iniziativa è di Liberazione). Contro il ritorno al nucleare (Legambiente). In difesa della Costituzione (Libertà e giustizia). Per non lasciare gli extracomunitari senza cure (Federazione dei pediatri, 90 mila firme). Contro il referendum, o altrimenti in favore, oppure per organizzare l’astensione. Ma corrono in rete anche appelli per fermare la produzione dei cacciabombardieri JSF, o di solidarietà al movimento animalista in Austria. Pare infatti che oltralpe sia in corso una violenta repressione, magari staranno usando l’aeronautica.

C’è un mutamento antropologico dietro questi fenomeni inflattivi. Un tempo l’appello seguiva fatti eccezionali, e sanciva inoltre una rottura fra la cultura e la politica, fra gli intellettuali e i signori della legge. Aveva queste due caratteristiche il suo più celebre antenato, l’appello diffuso il 15 gennaio 1898 per la revisione del processo Dreyfus, due giorni dopo la pubblicazione del «J’accuse» di Zola. Oggi no, non è questa la regola. Perché appelli e petizioni non servono al convento, servono ai frati. «Chi non firma si rafferma», titola un paragrafo del libro che Oliviero Beha ha appena dedicato alla metamorfosi degli intellettuali (I nuovi mostri, Chiarelettere, 279 pagg., 13,60 euro). Un libro caustico e dolente, che punta l’indice contro la scomparsa dei cavalieri solitari, sostituiti dai pifferai di questo o quel partito.

La vera libertà è la libertà di non schierarsi, diceva a propria volta Adorno. Ma a quanto pare non interessa più nessuno. Precisamente a questo mirano gli appelli: sono ormai uno specchio collettivo, da un lato per celebrare l’autostima, dall’altro lato per farsi riconoscere dal branco. E dunque a chi s’appella l’appellante? Ma a se stesso, ovvio. Il nuovo appello è l’appello di Narciso.

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« Risposta #29 inserito:: Giugno 13, 2009, 09:26:28 am »

13/6/2009
 
Referendum al capolinea
 
MICHELE AINIS
 
C’è una partita politica dietro le quinte del referendum elettorale, e il 22 giugno ne conosceremo gli esiti. Quanto pesa il controcanto di Gianfranco Fini rispetto all’asse Berlusconi-Bossi, quanto pesa la scelta referendaria di Franceschini rispetto ai mal di pancia del Pd: è diventato questo il vero oggetto dei quesiti, il tema su cui s’esercitano previsioni, retroscena, analisi. Ma c’è anche una partita istituzionale, ben più importante della prima; eppure nessuno ci fa caso. Qui la posta in gioco non tocca gli equilibri interni di partiti e coalizioni, non tocca nemmeno la fisionomia della legge elettorale. No, il responso delle urne deciderà la sopravvivenza stessa del referendum, della seconda scheda che i costituenti posero in mano agli italiani. Dal 1997 in poi abbiamo consumato 21 referendum, ma hanno fatto cilecca l’uno dopo l’altro. Niente quorum, niente messa nella chiesa vuota di fedeli. Se adesso si ripeterà la diserzione, la prossima messa servirà per celebrare un funerale, quello dell’unico strumento di democrazia diretta contemplato nel nostro ordinamento.

Come ha attecchito questa malattia degenerativa? C’entra senza dubbio l’anoressia degli elettori, il rifiuto ormai di massa del pasto elettorale. Il partito del non voto è diventato il primo partito nazionale: 15 milioni di astenuti volontari, ha calcolato Ricolfi. Ovvio che in questa condizione il quorum si trasformi in un salto con l’asta. Faremmo meglio a rapportarlo al numero effettivo dei votanti nell’ultima consultazione elettorale: l’Italia del 2009 non è più quella del 1948, quando votavano perfino i vecchietti sulla sedia a rotelle. Ma c’è anche, più sottile e velenosa, un’altra causa scatenante. È la musica suonata dai pifferai dell’astensione, da quanti furbescamente s’aggiungono al partito del non voto per far naufragare il referendum, invece di contrastarlo in mare aperto. Giochino facile, eppure un tempo non usava: nel 1974 il fronte divorzista fece campagna per il no, poi si mise in fila davanti ai seggi elettorali (19 milioni di no contro 13 milioni di sì). Fu sconfitta la Dc, Fanfani ci rimise la poltrona, ma il referendum ne uscì sano e salvo.

Potremmo domandarci quale istinto masochista ci spinga a rinunziarvi, quando lo strumento ottiene viceversa un successo crescente in tutto il mondo (dei circa 1.500 referendum fin qui celebrati a livello nazionale, oltre la metà si è svolta negli ultimi 25 anni). Quando nel Regno Unito Gordon Brown sta per indirne uno allo scopo di far scegliere ai suoi concittadini la nuova legge elettorale. Quando non abbiamo altri megafoni per parlare di persona (se è per questo, non ci è data neanche l’opportunità di parlare per interposta persona, dato che non possiamo scegliere i nostri rappresentanti in Parlamento). Ma dopotutto è ancora un’altra la questione, e investe la legalità del nostro vivere comune. Perché il voto è un «dovere civico», dice a chiare lettere la Costituzione; e senza distinguere fra elezioni e referendum. Perché in quest’ultimo caso l’astensione organizzata si risolve in un trucchetto, come già aveva denunziato Bobbio, nel giugno 1990, sulle colonne della Stampa. Perché il trucco viene addirittura castigato con pene detentive, da due norme (art. 98 del testo unico delle leggi elettorali per la Camera; art. 51 della legge che disciplina i referendum) che fino a prova contraria sono ancora in vigore.

Insomma se il singolo elettore - pur non offrendo certo un esempio di civismo - può disertare il voto, chi organizza l’astensione si pone al di fuori della legalità costituita. Eppure gli appelli non si contano, dalla Lega al Comitato per l’astensione (dove ahimé spicca un corteo d’intellettuali). Ci sarebbe allora da aspettarsi una reazione, anzitutto da quei partiti che lamentano ogni giorno lo scempio del diritto, come i Radicali o Italia dei valori. Perché non sempre il silenzio è d’oro.

michele.ainis@uniroma3.it
 
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