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Autore Discussione: MICHELE AINIS.  (Letto 122186 volte)
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« inserito:: Marzo 11, 2008, 09:14:40 am »

11/3/2008
 
Il diavolo nella par condicio
 
MICHELE AINIS

 
Da ieri è par condicio. O meglio, la ferrea regola sui minuti dei politici in tv entra nella fase 2: la vendetta. Perché con la presentazione delle liste elettorali il controllo sulle telecamere diventa più assiduo, più stringente. E perché cambia il parametro, la frontiera tra il lecito e l’illecito. Durante la prima fase lo spazio dei partiti era commisurato al loro rispettivo peso nel Parlamento uscente; viceversa lungo quest’ultimo tratto del percorso ogni forza politica avrà la stessa voce, basta che sia presente in almeno un quarto dei collegi elettorali. Saranno contenti i piccoli, verrebbe da pensare. Nemmeno per idea. Contro la distribuzione delle facce nel carosello dei tg tuona la sinistra estrema (Bertinotti) non meno della destra estrema (Storace). Perfino due tipi pacifici e paciosi come Boselli e Casini lasciano in diretta gli studi televisivi dov’erano stati invitati, per protesta contro il sopruso di giornata. Senza dire dei partiti maggiori, a cominciare da quello guidato da Silvio Berlusconi, che tutti i sondaggi accreditano del successo finale. Lui, d’altronde, ce l’ha sempre avuta con la par condicio come il fumo agli occhi, e almeno in questo non ha mai cambiato idea.

C’è una ragione se una disciplina che ha per stella polare l’eguaglianza, in Italia genera l’eguale contumelia dei diversi. C’è una ragione se quella stessa disciplina, che negli Usa mira all’equal time fra i candidati per restituire trasparenza alla competizione elettorale, nelle nostre latitudini si trasforma in un fattore d’opacità, se non proprio in un trucco messo in pista con tutti i crismi del diritto. E questa ragione è alla fine la medesima che ci impedisce di risolvere la tragedia dei morti sul lavoro, di venire a capo dell’evasione fiscale, o più in generale d’assicurare alla giustizia gli autori dei reati. Troppo diritto, ecco il problema. Troppe regole pedanti e cavillose, il cui stesso numero offusca la luce dei principi cui ogni regola dovrebbe dare fiato. Troppi dettagli, quando si sa per esperienza che il diavolo s’annida nei dettagli. Di più: almeno qui in Italia il diavolo è il dettaglio, è il demone classificatore che pretende di codificare ogni respiro, col risultato che poi in ultimo ciascuno fa come gli pare.

Le prove? Abbiamo in circolo non uno bensì due angeli custodi sulla par condicio (la Commissione di vigilanza e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni), sicché la prima impresa è metterle d’accordo. A propria volta, i due garanti devono applicare un castello normativo formato da 6 leggi e da 4 decreti, che peraltro Corrado Calabrò - presidente dell’Agcom - dichiara inadeguato. Per svolgere il loro compitone, i nostri garanti approvano un doppio regolamento alla vigilia di ogni turno elettorale. Insomma, norme su norme: e infatti il testo licenziato dall’Agcom il 4 marzo scorso scodella 16 articoli, suddivisi in 2 titoli e 3 capi. Eccone un brano: «Ai programmi di comunicazione politica, come definiti dall’art. 2, comma 1, lettera c), del codice di autoregolamentazione di cui al decreto del Ministro delle comunicazioni 8 aprile 2004, che le emittenti televisive e radiofoniche locali intendono trasmettere nel periodo di vigenza della presente delibera si applica quanto previsto dall’art. 7 della delibera 33/08/CSP, garantendo la parità di condizioni ai soggetti politici di cui all’art. 2, comma 1 della presente delibera».

Chiaro? No, oscuro. E pazienza per i conduttori di talk show, vorrà dire che s’iscriveranno in massa in qualche facoltà di legge. L’importante è che rispettino il divieto d’abbordare temi di «evidente rilevanza politica» (dunque la monnezza a Napoli è tabù?); che trasmettano i calendari anche a mezzo fax utilizzando il modello MAG/3/EN (come dispone, con maniacale precisione, il regolamento); che ogni informazione venga sottotitolata per i non udenti (peccato, almeno in questo caso l’handicap poteva essere un vantaggio); che le domande dei giornalisti non sforino i 30 secondi (pena il licenziamento in tronco?). Fra tutte queste regole, però ne manca una. L’unica regola non scritta nel paese del diritto scritto: quella del buon senso.

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« Ultima modifica: Ottobre 10, 2008, 10:00:29 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 12, 2008, 10:48:22 pm »

12/3/2008 (7:39) - IL CASO

Liste, lacrime e paura questione di famiglia
 
MATTIA FELTRI


ROMA
C’era Gianni Rivera che ha dovuto compilare ventisei moduli e poi l’hanno lasciato fuori dalla squadra dell’Ucd-Rosa Bianca. C’era Luigi Casero, del Pdl, che ha dovuto litigare per delle mezzore con gente che in lista, al numero trentasei, non ci voleva stare: almeno al ventotto o al trentatré, ché in caso di autobomba al Senato si mantengono possibilità di sostituire i defunti. C’era Silvio Berlusconi che a una tirata del genere, a far notte perché i conti quadrassero, non si vuole sottoporre più. C’erano i poveracci senza nome incolonnati davanti alle stanze delle somme decisioni, sedicenti portatori di decine di migliaia di voti, e messi alla porta sbrigativamente. Estenuante e drammatico. Il povero Guido Crosetto è svenuto due volte mentre trattava pugni sul tavolo con Sandro Bondi per conservare i piemontesi candidati in Piemonte, e mentre lo rianimavano, e gli chiedevano se servisse l’ambulanza, mormorava: no, e che si sappia quanto mi sono battuto.

Una cosa così, mai più. Sciagura se sei dentro, sciagura se sei fuori. Gerardo Bianco, escluso coi suoi fedeli da quelli di Pierferdinando Casini, ieri aveva un filo di voce: «Lo hanno fatto per mettere dentro il nipote di De Mita». E cioè Giuseppe, passato dal Pd al centro per seguire lo zio. «Sono stato ingannato. Hanno prevalso le logiche dei pretoriani», ha detto l’ex capogruppo in commissione finanze dell’Udc, Maurizio Eufemi. Ma bisognerebbe mettersi nei panni della povera Daniela Cardinale, ventisei anni, figlia di Salvatore, ministro delle Telecomunicazioni con Giuliano Amato. «Non mi sono mai occupata di politica», ha detto dopo essere stata prescelta dal Pd, ma la politica la pratica da quando, aveva cinque anni, vide sventolare le bandiere della Dc. Tutti le hanno riso dietro. Lei ha pianto per un po’ finché un’amica non le ha detto: «E piantala. Sempre meglio figlia di che amante di».

Sono i dolori del rinnovamento. Marianna Madia, pure ventiseienne, capolista nel Lazio con Walter Veltroni, comincia ad assaporarli. Le si attribuiscono altolocate storie d’amore, e quando la intervistano - è successo in un servizio della Rai durato tre quarti d’ora - poi mandano in onda un minuto e mezzo perché lei, programmaticamente, si propone di salvare il mondo. E perché, sorridendo stupefatta, indica in Walter il suo modello fra i modelli. Colpe dell’inesperienza. E a Maurizio Gasparri viene naturale mettere in pista il suo lato più ruspante: «Il Pd candida sciampiste». La Madia si offende. «Che male c’è?», si chiede impermalita Donatella Poretti, nel Pd in quota radicale, per avere trascorsi nel ramo come rappresentante di prodotti per parrucchieri. E’ vero: per le donne è peggio. Si prenda Pina Picierno, altra ragazza di ventisei anni, bella figlia della Campania dove Veltroni l’ha messa capolista; anche qui si parla di nepotismo perché lo zio Raffaele è sindaco di Teano, il padre Salvatore è stato segretario della Margherita di Sessa Aurunca, ma soprattutto il padrino fu Ciriaco De Mita sul cui eloquio, sportiva e spiritosa, la ragazza ha redatto la tesi di laurea. La Picierno incassa meglio delle colleghe e va avanti spedita a dire che gli incontri elettorali coi giovani sono «una metafora dell’idea di cambiamento». Che è un po’ quello che si coglie davanti a Piera Levi Montalcini, 63 anni, in corsa in Piemonte e nipote di Rita. I noveri dei parenti (Colaninno Jr, Merloni jr, la moglie di Fassino e quella di Bassolino) sono stati proposti un po’ ovunque. Giancarlo Lehner, giornalista e scrittore, voluto in lista da Berlusconi, ha un imperativo: «Basta favorire, a danno di chi merita, figli, mogli, concubine, comparielli, suocere, nipoti, nipotine e cognati. Vaffanculo i parenti!». I quali, naturalmente, stanno anche dalla sua parte. Fallito il tentativo di piazzare una vecchia e bella amica - Katia Noventa - Paolo Berlusconi è riuscito a soddisfare, e per la seconda volta, almeno l’ex moglie, madre dei suoi figli, Mariella Bocciardo. E se Licia Ronzulli non risulta essere la massaggiatrice di Silvio, ma una stimata professionista della fisioterapia, nel Parlamento venturo ci saranno anche Mariella Rizzotti, che si occupa, fra l’altro, delle rughe del capo, ed Elena Centemero, ex insegnate del Berlusconi più giovane, Luigi.

E’ inutile: si risolve tutto in famiglia, nel bene e nel male, e la famiglia oggi più lacerata è quella radicale. Emma Bonino, in tour europeo, non risponde al telefono a Marco Pannella. Il quale continua il suo sciopero della sete - contro la lingua biforcuta di Veltroni e per la pace in Medio oriente - ma nel disinteresse generale e interno. L’altra sera è andato dai socialisti con due simboli: Radicali italiani per Cappato presidente e Lista Bonino per Pannella presidente. Enrico Boselli ha sorriso e ringraziato. Pannella è tornato a casa mogio e ieri, al partito, c’era lo stato maggiore. Erano tutti contro il vecchio babbo radicale, per un partiticidio e parricidio imperfetto.

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« Risposta #2 inserito:: Settembre 02, 2008, 03:39:15 pm »

2/9/2008
 
Aspettando la riforma dei talenti
 
 
 
 
 
MICHELE AINIS
 
Un diluvio di riforme s’annuncia per questo mese: giustizia, federalismo, legge elettorale, poteri del governo. Resta però invisibile la riforma più essenziale, quella dei talenti. Eppure l’incapacità di riconoscerli, di stimolarli, di compensarne adeguatamente l’operato è la palla al piede della nostra società. Per l’Ocse, fra il 2001 e il 2006 in Italia la produttività del lavoro è cresciuta dell’1 per cento, 40 volte meno che in Estonia. Il Global Competitiveness Index 2006-2007 ci situa al 42º posto, perfino dietro le Barbados. Al contempo un vestito di gesso blocca la mobilità sociale, inchiodando i figli al medesimo destino dei propri genitori. Secondo una ricerca di Schizzerotto, quest’eredità pesa da 3 a 5 volte in più rispetto agli Usa, mentre per un operaio la probabilità di far carriera è del 3,2%, contro il 14,3% in Svezia.

Da qui la paura del futuro (i giovani italiani sono i più pessimisti d’Europa, racconta un’indagine Gallup realizzata il mese scorso). Da qui la caccia alle spintarelle (in un caso su due sono indispensabili per trovar lavoro, secondo una rilevazione Isfol del 2006). Da qui, più in generale, la scarsa fiducia nelle regole, l’arsenale di trucchi e di sgambetti coi quali ogni italiano sfanga la giornata. Sicché il cerchio si chiude: la questione meritocratica traligna in questione morale, e insieme all’efficienza s’inabissa la legalità del nostro vivere (in)civile.

Questa malattia tutta italiana è stata diagnosticata a più riprese: basta leggere i libri di Floris, Stella e Rizzo, Abravanel, solo a considerare i più recenti. Ma alla diagnosi non segue mai la terapia. Perché? Innanzitutto per una resistenza culturale, che una volta tanto unisce la destra e la sinistra, i preti e i mangiapreti. Sta di fatto che il solidarismo cattolico e l’egualitarismo ereditato dalla tradizione comunista hanno in sospetto ogni processo selettivo, in nome di un malinteso sentimento d’inclusione verso gli ultimi, verso chi uscirebbe fuori gara. Bella carità, quella di chi per aiutarti ti nega ogni riscatto sociale. E in secondo luogo sta di fatto che i privilegiati votano, e il loro voto è ormai più numeroso del voto degli esclusi, dei senza privilegio. Sarà per questo che i programmi elettorali di Prodi e Berlusconi non hanno speso neanche un rigo sull’abolizione degli ordini professionali. Una vergogna nazionale, un tappo alla libertà di concorrenza inventato dal fascismo, che l’Unione europea ci chiede a giorni alterni di riporre nel cestino dei rifiuti. Senza successo, dato che i loro iscritti - stando a un rapporto Censis del 2007 - sono ormai un milione e 90 mila. E dato altresì che fra tali iscritti milita il 31,4% dei parlamentari.

Sicché la meritocrazia rimane una parola in voga nei convegni, o al più in qualche sparuto editoriale. L’unico a metterci le mani fin qui è stato Brunetta, col suo progetto di cacciare i fannulloni. Ma i fannulloni non basta licenziarli: il vero problema è non assumerli. Per quest’impresa tuttavia dovremmo rivoltare l’Italia come un calzino usato, depurandola dalle incrostazioni delle lobbies, dal nepotismo, dalle connivenze fra commissari e candidati, dai conflitti d’interesse, dalla presa rapace dei partiti su ogni ganglio della nostra società. Dovremmo aprire una grande discussione sull’ingiustizia che non premia i meriti e non premia neppure l’eguaglianza: dopo gli Usa e il Regno Unito siamo infatti il Paese più diseguale di tutto l’Occidente, dice l’Human Development Report 2006. E in conclusione dovremmo liberarci della massima di Antifonte: «Tutti gli uomini sono eguali, perché tutti respirano col naso». Sarà pur vero, ma non ci impedisce di misurare i nasi. Sempre che, ovviamente, la politica disponga d’un buon metro. Ma dopotutto è questa la Bicamerale di cui davvero c’è bisogno: una Bicamerale dei talenti.

michele.ainis@uniroma3.it
 
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 23, 2008, 02:35:49 pm »

23/9/2008
 
Voglia di ordine
 

MICHELE AINIS

 
L’Italia come una caserma?
Lo fa temere una litania di fatti, che stanno rovesciando molte nostre abitudini sociali. Te n’accorgi alla partita di pallone, con i divieti di trasferta decretati dal ministro Maroni, e con la tolleranza zero negli stadi. Nelle relazioni con domestici e badanti, da quando sempre Maroni espelle gli immigrati a brutto muso, smantella i campi nomadi, confisca gli appartamenti in affitto ai clandestini. A scuola, dopo il ritorno del 7 in condotta stabilito dal ministro Gelmini. Al mercatino, perché il ministro Scajola ha dichiarato guerra a chi acquista griffe contraffatte. Camminando nei quartieri periferici, dove il ministro La Russa ha inviato ronde di soldati. In fila allo sportello, dal giorno in cui il ministro Brunetta ha cominciato a licenziare gli impiegati troppo lavativi. Nei rapporti di lavoro, come mostra la mano dura del ministro Sacconi con i sindacati di Alitalia. Perfino nei costumi sessuali, giacché il ministro Carfagna ha deciso d’arrestare su due piedi lucciole e clienti.

Questo atteggiamento muscolare, quest’indirizzo delle maniere forti si propaga per cerchi concentrici, come l’onda sollevata da un sasso sulla cresta del lago.
Ha origine in un atto del governo, viene poi subito emulato da tutti gli altri apparati dello Stato. Dalla polizia stradale, che ha iniziato a prendere sul serio le norme contro l’alcolismo. Dalla magistratura, che senza l’altolà di Alfano avrebbe processato la Guzzanti per aver spedito all’inferno il Santo Padre. Da 8 mila sindaci travestiti da sceriffi, che in nome del decoro urbano proibiscono l’accattonaggio (Assisi), il tramezzino in pubblico (Firenze), le massaggiatrici in spiaggia (Forte dei Marmi), la sosta in panchina per più di due persone (Novara), le effusioni in auto (Eboli), le bevande in vetro nelle ore serali (Genova). Ma il giro di vite risponde a una domanda ormai corale da parte di chiunque sia investito di qualche responsabilità sulla nostra vita collettiva: è un ritornello, un tic. L’ultima proposta viene dal presidente della Lega calcio Matarrese, che reclama celle negli stadi, anche perché le patrie galere hanno esaurito i posti a sedere.

Fosse successo appena l’anno scorso, non si sarebbero contati gli scioperi, i sit-in, i presidi antifascisti. Invece tutti zitti, contenti e applaudenti. Il vento dell’autoritarismo gonfia le vele del governo, trasforma la sua navigazione in gara solitaria, senza scogli, senza avversari: l’ultima rilevazione di Euromedia gli assegna un gradimento record del 67,1%. C’è in questo l’unanime condanna del lassismo, che fin qui ci sommergeva. C’è in secondo luogo il lascito del biennio Prodi, una reazione di rigetto contro la chiacchiera elevata ad arte di governo, contro lo stallo, la non decisione. C’è in terzo luogo il tarlo dell’insicurezza, che rode le nostre esistenze individuali. Insicurezza anzitutto economica, con l’impoverimento della classe media e con l’affamamento dei ceti popolari; ma l’incertezza sul futuro si traduce in un bisogno d’ordine, scarica pulsioni intolleranti, imputa al maghrebino che raccoglie pomodori tutta la colpa se il lavoro è poco. E c’è in quarto luogo l’espulsione dalle assemblee parlamentari delle due sole tradizioni politiche schiettamente antiautoritarie, quella liberale e quella della sinistra libertaria e anarchica. A fare opposizione dura e pura resta Di Pietro, però il suo movimento non ha mai osteggiato l’uso del manganello sulla testa degli indisciplinati.

Questi elementi non bastano tuttavia a spiegare il nuovo clima che ha attecchito sui nostri territori. Perché tale fenomeno s’accompagna a una mutazione antropologica, e perché è stato l’uomo nuovo a generare il nuovo clima, non il contrario. Riecheggia a questo riguardo la lezione d’uno psicologo nazista, Jaensch, poi rilanciata da Fromm e Adorno: ogni governo autoritario ha bisogno di una «personalità autoritaria», ossia d’un popolo zelante verso i superiori, sprezzante nei confronti dei più deboli.

Non è forse questa la chiave di lettura del razzismo che soffia come un mantice sulla società italiana? E non sgorga da qui la doccia di gesso che ha spento le vampate d’odio sulla Casta? Improvvisamente la nostra società si è risvegliata docile, addomesticata. Alla cultura del conflitto, il sale dei sistemi liberali, abbiamo sostituito tutt’a un tratto il culto del potere, delle gerarchie, dell’ordine. E il centro-destra si è limitato a intercettare questo sentimento, a dargli sfogo, sia pure riesumando fossili come le case chiuse o la verga del maestro. L’obbedienza non è più una virtù, diceva nel 1965 don Milani. Infatti: quarant’anni dopo, si è tramutata in vizio.

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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 06, 2008, 06:25:16 pm »

6/10/2008
 
Chi scalpella il Quirinale

 
 
MICHELE AINIS
 
Serve ancora alla Repubblica italiana un presidente della Repubblica italiana?
Domanda impertinente, se non fosse che la politica ci sta recando in pasto un ultimo frutto avvelenato; e il veleno goccia a goccia intossica la nostra più alta istituzione. Perché scalfisce i suoi poteri, ne diminuisce il peso. Senza attacchi frontali, senza una lapidazione in piazza come sperimentarono Scalfaro e Cossiga. No, l’avvelenamento piuttosto si consuma svuotando il ruolo che ricoprì per primo Enrico De Nicola, sottoponendolo a un processo d’erosione, di neutralizzazione progressiva.

In questo, la vicenda del quindicesimo giudice costituzionale suona quantomai eloquente. Manca da un anno e mezzo, ma in Parlamento non si trovano mai i numeri per eleggere il successore del dimissionario Vaccarella. Uno scandalo istituzionale, che ha indotto Napolitano a un pubblico richiamo, dopo lo sciopero della sete inaugurato da Marco Pannella. Tuttavia lo scandalo dipende dal fatto che maggioranza e opposizione vogliono saziarsi entrambe, e allora temporeggiano in attesa che il menù raddoppi. Succederà a febbraio, con la scadenza del giudice Flick.

A quel punto uno a te, uno a me. Da qui il gioco delle coppie, perché il successo di ciascun candidato si lega al profilo del candidato proposto dallo schieramento avverso: un tecnico tira la volata a un tecnico, un uomo di partito s’accompagna giocoforza a un uomo di partito.

Niente di nuovo, la politica ci ha ormai resi avvezzi a questi mercatini. Peccato tuttavia che il successore di Flick non lo designi il Parlamento, bensì il Capo dello Stato. Se i partiti ne contrattano la nomina, se i vari candidati fanno capriole e giravolte per ottenere la benedizione dei partiti, con ciò stesso oltraggiano le prerogative del nostro Presidente. Ma c’è qualcuno che ancora si rammenti del galateo istituzionale? Nessuno, né a destra né a sinistra. Almeno in questo caso, l’oltraggio non chiama in causa un unico imputato.

Non è un oltraggio viceversa la proposta del governo - anticipata da Ghedini - di dividere il Csm in due, sottraendone la presidenza al Quirinale.
Non un oltraggio, ma un errore di grammatica (costituzionale). Perché il Presidente ha un ruolo di cerniera fra i diversi poteri dello Stato. Perché presiedendo il Csm evita di conseguenza che la magistratura divenga un corpo separato. Perché infine nel 1947 i costituenti gli assegnarono il compito di moderare le tensioni fra politica e giustizia, e chissà come potrebbe mai provarci rimanendo fuori della porta. Dice Ghedini: ma con la nostra riforma Napolitano nominerà un terzo dei futuri componenti. E allora? Pure il Consiglio supremo di difesa viene presieduto dal Capo dello Stato, che però volta per volta ne decide altresì la composizione, invitando altri ministri in aggiunta a quanti vi fanno parte di diritto. Dovremmo perciò togliergli anche tale presidenza? Senza dire che la pressione dei partiti impedisce nomine serene. Ma forse il disegno sotterraneo è proprio questo: regaliamo pure al Presidente un’altra nomina, purché per interposto partito.

C’è poi il capitolo dei decreti legge, dove l’abuso si è ormai trasformato in un sopruso. Dall’avvio della legislatura le Camere hanno approvato la miseria di due leggi: il rinnovo dell’Antimafia e il lodo Alfano. Il resto del tempo è andato via per convertire 12 decreti del governo, senza contare quelli che s’aggiungono al paniere (5 nel solo mese di settembre). Una prepotenza contro il Parlamento, come è stato denunziato da più voci. Ma anche contro il Presidente, cui vengono confiscati i poteri di controllo in sede di promulgazione. Infatti i decreti scadono dopo 60 giorni, le assemblee legislative li convertono sempre all’ultimo minuto, e dunque se il Presidente rinviasse la legge di conversione al Parlamento provocherebbe la decadenza dei decreti, finendo alla berlina come traditore della Patria.

E la moral suasion? Napolitano ha già alzato la voce contro la pioggia di decreti, contro lo stallo alla vigilanza Rai, contro la rissa quotidiana fra i partiti. Semplicemente non gli danno retta. D’altronde sono caduti nel vuoto anche gli appelli su una riforma costituzionale condivisa. C’è forse chi abbia visto un testo, un’ipotesi, un progetto? L’aria che tira è questa: ossequio formale, irriverenza sostanziale. Il Quirinale resta l’istituzione più popolare fra la gente, ma nel Palazzo è come il cavaliere inesistente di Calvino.

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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 07, 2008, 12:53:12 pm »

7/10/2008
 
Decreti, vigilerò con rigore
 
 
 
GIORGIO NAPOLITANO
 
Gentile Direttore,
ho vivamente apprezzato il senso delle istituzioni cui era ispirato l'articolo di Michele Ainis (pubblicato su La Stampa di ieri), e la sua preoccupazione per ogni erosione delle prerogative e degli equilibri costituzionali.

In Italia si governa - come in tutte le democrazie parlamentari - con leggi discusse e approvate dalle Camere nei modi e nei tempi previsti dai rispettivi Regolamenti, e solo «in casi straordinari di necessità e di urgenza» con decreti (cioè «provvedimenti provvisori con forza di legge») che al Parlamento spetta decidere entro sessanta giorni se convertire in legge. Continuerò a esercitare a questo proposito - nessuno ne dubiti - con rigore e trasparenza le prerogative attribuitemi dalla Costituzione.

In quanto alla mancata elezione, da parte del Parlamento, del giudice costituzionale chiamato a sostituire il prof. Vaccarella dimessosi dalla carica nell’aprile 2007, il professor Ainis ricorda di certo come nella storia della Repubblica accadde più di una volta che si ritardasse a lungo nel colmare simili vacatio per l’assenza di un accordo tra maggioranza e opposizione. Ma non accadde mai che la soluzione venisse trovata attraverso la contestuale «contrattazione» della nomina di un giudice costituzionale che debba succedere ad uno dei cinque nominati dal Presidente della Repubblica. Non accadrà neppure questa volta: stia certo il professor Ainis che considero semplicemente ingiuriosa l’ipotesi che il Presidente possa piegarsi ad una simile, impropria e prevaricatoria, contrattazione tra partiti.
 

da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 20, 2008, 12:29:33 pm »

20/10/2008
 
Il Parlamento non decide?

Perda un turno
 
 
 
 
 
MICHELE AINIS
 
C’è un modo per uscire dallo stallo, dal gioco di reciproci dispetti e di veti incrociati che sta paralizzando le due Camere? C’è una soluzione tecnica all’impasse della politica? Sì che c’è, e andrebbe sperimentata con urgenza. Perché sta di fatto che il Parlamento è moribondo. Pensavamo d’aver scoperto l’assassino, dopo il monito del Capo dello Stato contro l’abuso dei decreti, ospitato sulle colonne di questo giornale. Ma non è colpa del governo lo spettacolo che è poi andato in scena nei giorni successivi. Non è un caso d’omicidio quello cui assistiamo da dietro le vetrate del Palazzo. No, si tratta piuttosto di suicidio. E la 19ª fumata nera per eleggere il successore di Vaccarella alla Consulta, nonché il blocco prolungato sul presidente della Vigilanza Rai, ne offrono la prova più eloquente.

Insomma il Parlamento non sa più fare le leggi (soltanto 6 in 6 mesi, ma 4 per ratificare trattati internazionali stipulati dal governo) e non sa decidere le nomine, pur costituzionalmente doverose. Sicché muore d’inedia, come un corpo che rifiuti gli alimenti. Oltretutto, non è neppure un suicidio dignitoso. Le Camere da giovedì scorso convocate a oltranza, ma sconvocate venerdì. Sempre giovedì, sciami di parlamentari che ondeggiano contro il bancone della presidenza, supplicando d’annullare la terza votazione, perché coincide con la cena. I trolley accatastati uno sull’altro nel guardaroba di Montecitorio, dato che il giorno dopo c’è uno sciopero dei voli. Gli sms di Cicchitto e Gasparri sui cellulari dei peones, per invitarli a disertare il voto. Le 87 anime presenti in aula venerdì mattina, meno del 10% di tutto il Parlamento. Lo striscione dei radicali, con il vicepresidente della Camera Leone che chiede per due volte di rimuoverlo e l’altra vicepresidente Bonino che s’oppone, finché non intervengono i commessi. E sullo sfondo l’improprio baratto fra la Consulta e la Rai, fra l’acqua santa e il diavolo.

Per salvare il moribondo, e per salvare inoltre ciò che resta del comune senso del pudore, la terapia può essere una sola: poteri sostitutivi. Formula ermetica, che tuttavia ricorre già nella Costituzione italiana così come in altri sistemi federali. In sintesi, significa che quando una regione o qualche ente locale rimanga inerte circa un particolare adempimento, lo Stato vi provvede al posto suo. La macchina pubblica, difatti, non può arrestarsi solo perché il conducente di turno schiaccia un pisolino. In questi casi si cambia conducente. E allora perché non dovremmo togliere il volante pure al Parlamento? Quando s’incarta sulle nomine basta fissare un tempo massimo, oppure un massimo di votazioni a vuoto: facciamo 10, benché la metà sarebbe già abbastanza.

Semmai il problema è individuare il sostituto, senza ledere la dignità delle assemblee legislative, senza inventarci un salvatore della Patria.
Ma non è affatto un problema insormontabile. Rispetto al quindicesimo giudice costituzionale potremmo farlo scegliere ai 14 che hanno già un ufficio alla Consulta: è il sistema della cooptazione, in uso per il Senato dell’antica Roma. Oppure potrebbe entrare in gioco il Capo dello Stato, anticipando la sua futura nomina salvo poi restituirla la volta dopo alle due Camere; in questo modo gli equilibri costituzionali non verrebbero alterati. Più arduo rimediare alla paralisi quando si tratta d’eleggere il presidente della Vigilanza Rai, così come di qualsiasi altra commissione formata in Parlamento. Qui ogni soccorso esterno suonerebbe come un’invasione dell’autonomia parlamentare, dunque la soluzione va trovata dentro le mura della stessa commissione. Potremmo assegnare la poltrona al commissario più anziano, come del resto avviene in occasione della prima riunione delle Camere, presieduta per l’appunto dal decano; ma l’età non è mai un segreto, e sapendo come andrà a finire ci sarebbe sempre un partito cui conviene lo stallo. Meglio il sorteggio, quindi, meglio una puntata ai dadi. Dopotutto nell’antica Grecia le cariche pubbliche erano quasi sempre sorteggiate, fu con questo sistema che la democrazia diffuse i suoi primi vagiti.

Usiamolo di nuovo, trasformiamo il moribondo in un neonato.

michele.ainis@uniroma3.it
 
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« Risposta #7 inserito:: Novembre 09, 2008, 04:56:40 pm »

9/11/2008
 
Solo una dea bendata ci salverà
 
 
 
MICHELE AINIS
 
All’università telefoni bollenti. Smistare il traffico era già un’impresa prima, con 4 professori da eleggere in ciascuna commissione di concorso, e con 4.020 posti da assegnare; ora che c’è da eleggerne il triplo, chi ci guadagna è di sicuro la Telecom. Ma ci guadagna altresì la trasparenza, l’imparzialità, la regola del merito nel reclutamento dei docenti. Non solo perché s’allarga la platea dei commissari potenziali, quanto piuttosto perché sarà un sorteggio a decidere i signori dei concorsi. Ne eleggi 12, infili i loro nomi dentro un bussolotto, ne tiri fuori 4 a caso. Insieme col membro designato dall’ateneo che ha pubblicato il bando, in commissione saranno sempre in 5 a giocare la partita delle cattedre; ma per quattro quinti spetterà alla dea bendata assegnare i posti in tavola.

E dunque stop alle cordate, alle scalate, agli scambi di posti e di favori. Via il potere dei gruppuscoli (ce n’è in ogni disciplina) che passano tutto il tempo a tessere concorsi mentre gli altri frequentano convegni. Potenza del sorteggio, giustamente auspicato da Gavazzi in un fondo del 3 novembre sul Corriere della Sera, ma anche da chi scrive in un elzeviro ospitato il 19 ottobre dalla Stampa. Perché il sorteggio soddisfa un’esigenza che altrimenti rimarrebbe inappagata - l’esigenza di rendere ogni singola scelta il più possibile neutrale, di liberarla dal sospetto d’intrallazzi, combine, favoritismi. Sia pure a scapito - almeno in questo caso - della celerità.


Nella Atene di Pericle
Qualche ritardo si sconterà per forza, dato che in molti raggruppamenti concorsuali non esistono abbastanza professori per riempire tutte le caselle; sicché c’è da attendersi un’elezione suppletiva, e magari un’altra ancora, attingendo dai raggruppamenti affini. E allora meglio un unico concorso nazionale, purché sia celebrato tirando in aria i dadi.

D’altra parte non è affatto un caso se il sistema dei sorteggi venne impiegato in lungo e in largo nell’epoca di Pericle, quando la democrazia diffuse i suoi primi vagiti. Nel V secolo ad Atene era formato per sorteggio il Consiglio dei Cinquecento, cui spettava l’iniziativa delle leggi, la gestione delle finanze pubbliche, il controllo dell’esercito, le relazioni estere, la sicurezza cittadina. Gli arconti, che via via assorbirono le prerogative degli antichi re, venivano anch’essi estratti a sorte in ragione di uno per tribù. Erano parimenti sorteggiati i magistrati, quantomeno nel loro maggior numero. E infatti Aristotele, nella Retorica, definisce la democrazia come il regime nel quale le cariche si distribuiscono col sorteggio; mentre nella Politica aggiunge che quando le magistrature vengono elette, anziché sorteggiate, c’è allora un’aristocrazia. Questo medesimo concetto, del resto, affiora già nella Repubblica di Platone, dove il sorteggio si lega all’idea dell’eguaglianza fra tutti i cittadini.


Un sistema già sperimentato
Insomma per coltivare il nuovo seme c’è bisogno di un po’ di terra antica. Ma sul fronte dei concorsi l’esperimento non è del tutto inedito, neppure all’università. Fino agli anni Novanta del secolo trascorso il sorteggio funzionava con una procedura variabile a seconda che fossero messi in palio posti da ordinario o da associato: o s’eleggeva un numero doppio di professori, sorteggiandone successivamente la metà; oppure ne veniva sorteggiato il doppio, e in seguito si procedeva a elezione fra i docenti sorteggiati. Dopo di che il sorteggio è andato per molti anni in naftalina, con le nefaste conseguenze che sappiamo. Sempre il sorteggio decideva un tempo le commissioni per selezionare i dirigenti ospedalieri: la legge n. 148 del 1975 stabiliva infatti che vi sedesse un professore universitario estratto a sorte dagli elenchi nazionali, tre primari della materia anche loro sorteggiati, un medico ministeriale e un rappresentante dell’amministrazione locale. Sarà stato anche questo un effetto della sorte, ma da quando il sistema dei sorteggi non c’è più la politica si è impadronita delle nomine, lottizzando camici e pigiami.

Si tratta allora d’estendere la regola in questione, di renderla sempre vincolante quando un’amministrazione vara un bando di concorso. La sorte sarà pure cieca, avrà pure le sembianze d’una dea bendata e capricciosa, ma qualche volta è meglio non vederci anziché vedere soltanto i propri cari.

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« Risposta #8 inserito:: Novembre 25, 2008, 12:36:11 pm »

25/11/2008
 
Villari e l'elettore schiavo
 
MICHELE AINIS

 
Tutto sommato dovremmo essergli grati. Non tanto per aver resuscitato Kafka in Parlamento, come ha detto il presidente del Consiglio; benché in quei corridoi qualche lettura in più, diciamo così, non guasterebbe. Quanto perché la strenua resistenza del senatore Villari ci fa spalancare gli occhi su un buco nero della nostra vita pubblica. Lui magari avrà tutte le ragioni, deve pur esserci un limite all’arroganza dei partiti, che prima ti fanno papa e il giorno dopo vorrebbero degradarti a sagrestano. Ha dalla sua pure il vocabolario, che contempla la voce «mi dimetto», ma non anche quella «ti dimetto». La sua elezione a presidente della Vigilanza Rai è stata assolutamente regolare, nel pieno rispetto delle forme e delle procedure. Infine il regolamento della commissione, pur dopo le tre modifiche approvate dopo il 1975, non menziona le dimissioni coatte del presidente eletto.

E dunque perché mai l’eletto dovrebbe liberare la poltrona, solo perché glielo domanda l’elettore?

Ecco, è esattamente in questo punto che s’allarga il buco nero. Ed è questa voragine che ingoia i nostri poteri d’elettori, ogni volta che siamo chiamati a esercitarli. Vale per i parlamentari, come dimostra per esempio il caso Mele, che nessuno ha potuto schiodare dal suo seggio pur dopo aver scoperto come il moralista pubblico fosse in privato un immorale. Ma vale altresì per il rettore, per il presidente d’un Rotary club, per il rappresentante dei genitori in consiglio di classe. Tu lo voti, lì per lì ti dà fiducia, poi il minuto dopo lui rovescia ogni promessa nel suo opposto. Oppure dà di matto, e di nuovo tu non ci puoi far nulla. Sicché ti risuona nelle orecchie la sentenza di Rousseau: «Il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia. È libero soltanto durante l'elezione dei membri del Parlamento; appena questi sono eletti, il popolo diventa schiavo, non è più niente».

Eppure un anticorpo ci sarebbe: la revoca, la mozione di sfiducia. Ipotesi dichiarata «irresponsabile» dai capigruppo Pdl, in una lettera ospitata ieri dal Corriere della sera. Se oggi fosse praticata contro Villari - si legge in quella lettera - domani potrebbero restarne vittima gli stessi presidenti di Camera e Senato. Ma irresponsabile è in realtà il potere senza responsabilità, il potere che non deve rispondere a nessuno delle proprie decisioni, perché ha rotto il cordone ombelicale con il popolo votante. E d’altronde la Costituzione italiana tiene quel cordone teso sia verso il governo (che ha l’obbligo di dimettersi dopo un voto di sfiducia delle Camere), sia verso il Capo dello Stato (attraverso l’impeachment). Perché mai la regola che governa i piani alti del nostro ordinamento dovrebbe eclissarsi ai piani bassi? Perché mai se cambio idea posso revocare l’avvocato, ma non anche il deputato?

Insomma viva Villari. Perché il suo caso, comunque si concluda, può impartirci una lezione. E a sua volta la lezione riguarda un pubblico più vasto dei segretari di partito, dei loro delegati dentro la commissione di Vigilanza Rai. Ci coinvolge tutti, e coinvolge la nostra vita associativa. Sicché delle due l’una: o la libertà dell’elettore, oppure quella dell’eletto. O la reversibilità delle scelte elettorali, oppure un tram senza ritorno. O un matrimonio rinnovato di ora in ora, oppure la negazione del divorzio. Ma dopotutto al divorzio fra moglie e marito siamo già arrivati. Ora non sarebbe male conquistarsi il divorzio dagli eletti.

michele.ainis@uniroma3.it
 
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« Risposta #9 inserito:: Dicembre 01, 2008, 03:07:45 pm »

La laicità come principio giuridico

Colloquio con Michele Ainis

di Marina Vincenti 21/05/2008


Biografia
Michele Ainis insegna Diritto pubblico all’Università “Roma Tre”. Oltre all’impegno accademico, svolge un’intensa attività di editorialista de La Stampa. Tra i suoi ultimi volumi, Se 50.000 leggi vi sembran poche (Mondadori, 1999), La legge oscura. Come e perché non funziona (Laterza 2002), La libertà perduta (Laterza, 2003), Le libertà negate. Come gli italiani stanno perdendo i loro diritti (Rizzoli 2004), Vita e Morte di una Costituzione (Laterza, 2006), Stato Matto. L’Italia che non funziona e qualche proposta per rimetterla in moto (Garzanti, 2007).

Abstract
Il conflitto normativo sul piano costituzionale come punto di partenza dei problemi legati alla definizione giuridica di laicità; la separazione tra diritto e fattore religioso come antitesi al ruolo attivo dello Stato; il “principio pattizio” sancito dalla Costituzione e la “neutralità” del diritto; la collocazione costituzionale del fenomeno religioso; i rapporti tra l’articolo 7 della Costituzione ed i principi di laicità e di uguaglianza religiosa; definizione giuridica di “laicità”.
Professor Ainis, lei parla di conflitto normativo a livello costituzionale, che si riflette nella prassi, come punto di partenza dei problemi pratici della laicità, dunque in materia di rapporti tra la Chiesa e lo Stato. In particolare, l’articolo 7 della Costituzione definisce lo Stato e la Chiesa cattolica, ciascuno nel proprio ordine, come indipendenti e sovrani, prevedendo, altresì, che i loro rapporti siano regolati dai Patti Lateranensi, per le cui modifiche non è richiesto dalla nostra Carta Fondamentale alcun procedimento di revisione costituzionale. Dove emerge nella Costituzione tale conflitto normativo?

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La contraddizione più vistosa nasce dal secondo comma dell’articolo 7 della Costituzione, che introduce un regime speciale per la Chiesa cattolica, a dispetto del principio di laicità e di quello d’eguaglianza religiosa. Del resto già Salvemini osservava come ogni concordato è sempre un privilegio per le autorità ecclesiastiche e per i cittadini di fede cattolica; ma il riferimento ai Patti lateranensi nel testo della Costituzione italiana trasforma questo privilegio in un rompicapo per gli interpreti.

La separazione tra diritto e religione (sancita nel primo comma dell’articolo 3 della Costituzione1) è contraddetta dal ruolo attivo dello Stato (imposto dal secondo comma dello stesso articolo2).

Come nasce questa prima antitesi e come si riflette nella sfera individuale e collettiva?

L’articolo 3 della Costituzione vieta discriminazioni fondate sul fattore religioso: tutti i cittadini sono eguali «senza distinzione di religione», recita per l’appunto questa norma. Ne deriva che l’ordinamento rimane indifferente rispetto all’appartenenza religiosa; in altre parole, ne deriva che l’appartenenza religiosa è giuridicamente irrilevante. Dunque per l’articolo 3 la religione non ha significato giuridico, e non ce l’ha perché diritto e religione abitano sfere separate. D’altronde questa separazione riecheggia il primo e più fondamentale connotato dell’idea di laicità, che a sua volta accompagna la genesi degli Stati nazionali. Come ha mostrato Böckenförde, lo Stato nasce laico, o altrimenti non sarebbe nato. Nasce quando il potere politico divorzia dal potere religioso, attraverso un processo storico che ha origine nella Lotta delle Investiture, e viene poi codificato dalla Costituzione francese del 1791, quando la libertà di fede sancisce la definitiva emancipazione dello Stato rispetto alla cura degli affari religiosi. Come diceva Locke, la salvezza delle anime non ricade fra i compiti dello Stato.

Insomma dopo il secolo dei lumi la laicità implica l’irrilevanza della dimensione religiosa nel campo del diritto, e per l’appunto di questa irrilevanza è specchio il primo comma dell’articolo 3.

Tuttavia il secondo comma afferma ciò che il primo comma nega: l’appartenenza religiosa può ben tradursi in un fattore di discriminazione sociale, che perciò reclama interventi compensativi in nome del principio di eguaglianza sostanziale. Al pari del sesso o della razza, anche la fede quindi scivola dal piano dell’irrilevanza a quello della rilevanza giuridica se osservata con le lenti dell’eguaglianza formale ovvero di quella sostanziale. Questa disciplina pone allo Stato l’obbligo di definire l’appartenenza religiosa, di regolarla, di qualificarne gli ambiti. È un vincolo logico, ancor prima che giuridico.

Se la Costituzione garantisce la libertà di culto, i poteri pubblici non potranno trattare una chiesa o una moschea come un qualsiasi altro edificio, né assimilare una celebrazione sacra ad un comizio. Se le confessioni religiose hanno il diritto di stipulare intese con lo Stato, quest’ultimo dovrà quantomeno individuare il titolare del diritto.

Ma che cos’è una confessione religiosa? Lo è per esempio Scientology, un’organizzazione a metà del guado fra religione e psicanalisi, con una rigida gerarchia al suo interno e l’uso di tecniche di marketing all’esterno? Sta di fatto che non solo l’Italia, ma vari altri ordinamenti hanno dovuto prendere partito su Scientology, così come sul concetto di religione. Ma questo compito costringe le istituzioni pubbliche ad un’alternativa (è il caso di dire) diabolica: se in nome del principio di autonomia delle confessioni religiose lo Stato si limita a recepire le autodefinizioni dei singoli gruppi, esso rischia d’offrire una patente religiosa anche ad organizzazioni come quella fondata negli Usa durante gli anni Ottanta, dove si diventa ministri di culto spedendo 25 dollari per posta alla coppia fondatrice; se viceversa lo Stato forgia una definizione vincolante, dovrà usare giocoforza i materiali che gli propone l’esperienza, rischiando di cucire un vestito su misura per le vecchie religioni, e perciò di discriminare quelle nuove.

Come si concilia il principio pattizio3 con la pretesa “neutralità” del diritto in uno Stato laico? In particolare, Professore, cosa si intende per “neutralità” dello Stato, ed in che senso uno Stato può e deve essere “neutro”?

Ne parlavamo poc’anzi. In via generale, la laicità si risolve in un’indicazione puramente negativa, che vieta all’ordinamento di farsi contaminare da valori religiosi. Evoca il «muro» fra Stato e chiese cui si riferiva Thomas Jefferson, e ripete in qualche modo il verso di Montale: «codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Ne deriva che il suo terreno di coltura risiede nell’eguaglianza formale, nella garanzia di non discriminare i cittadini in base all’appartenenza religiosa. Perciò il diritto laico è neutro, avalutativo rispetto alle questioni della fede: ai sensi dell’articolo 49 della Costituzione può ben esserci una «politica nazionale», ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione non esiste una religione nazionale. Perciò, in conclusione, le garanzie offerte dallo Stato laico sono garanzie formali; per meglio dire, la laicità è garanzia di un’unica forma, di un’unica procedura applicata senza tener conto della differenza religiosa. Tuttavia il principio pattizio innerva il diritto pubblico di elementi sostanziali, perché esso integra le chiese nello Stato, e a propria volta l’integrazione è veicolo di contaminazione dei valori religiosi nel tessuto formale del diritto.

Il fenomeno religioso ha una duplice collocazione nella nostra Costituzione: culturale ed istituzionale. Quale aspetto ritiene essere prevalente, anche sulla base dell’evoluzione storico-sociale del nostro Paese?

Intanto chiariamo la premessa. Se la fede è un tassello del concetto di cultura, essa ricade nello spettro normativo dell’articolo 9 della Costituzione: dunque lo Stato ha il dovere di promuoverla, oltre che di garantirne la libera espressione. Se viceversa la religione entra a comporre l’architettura istituzionale, essa giocoforza viene attratta nella sfera della politica, e deve sottostare alle sue regole. Non è una differenza da poco: in campo politico la decisione è governata dal principio di maggioranza, sicché lo spazio giuridico di ogni confessione religiosa dipenderebbe in questa ipotesi dal numero dei propri fedeli; ma in campo culturale il successo di pubblico non è mai garanzia di qualità (o di “verità”, potremmo dire nel caso di specie), ed anzi è spesso prova del contrario. Questo perché – diceva Adorno – non esiste una pura immediatezza della cultura, se non quando il prodotto culturale si presenti in realtà come bene di consumo; eppure nel nostro paese il seguito maggioritario del cattolicesimo è stato utilizzato in innumerevoli occasioni per giustificare i privilegi della Chiesa. Senza accorgersi che questo tipo di argomenti finisce per spogliare l’esperienza mistica dei suoi connotati culturali, e finisce in conclusione per trattare le confessioni religiose alla stessa stregua dei partiti. Ciò nonostante, e soprattutto a causa dell’attivismo politico delle gerarchie ecclesiastiche, il secondo aspetto risulta di gran lunga prevalente, nell’evoluzione socio-politica del nostro Paese. Ma nella Carta costituzionale no, è vero casomai il contrario.

Come si giunse alla formulazione dell’articolo 7 della Costituzione? E quali problemi pone il disposto del secondo comma di detto articolo4 con il principio di laicità dello Stato e dell’uguaglianza religiosa?

Anche a questo abbiamo già accennato. Il fatto è che nel marzo 1947 l’Osservatore romano aveva ammonito a più riprese che il mancato richiamo dei Patti nella nuova Costituzione avrebbe minacciato la pace religiosa; e in un Paese traumatizzato dalla guerra, lacerato dal referendum tra monarchia e repubblica di qualche mese prima, incerto sul proprio orizzonte politico e sulle alleanze internazionali, l’articolo 7 venne concepito come una garanzia di stabilità, come un’assicurazione contro ulteriori fratture sociali. Sicché la questione vaticana fu rinviata a tempi migliori, come traspare dalla stessa formula costituzionale, quando essa allude alle future «modificazioni» dei Patti lateranensi; ma a prezzo di riprodurre la frattura all’interno della Carta.

Da cosa si evince il carattere eccezionale e, pertanto, derogatorio dell’articolo 7 della Costituzione? Nonché il suo carattere di norma provvisoria, che ha condotto alla tesi della “costituzionalizzazione provvisoria dei Patti”? Lei ha definito l’articolo 7 della Costituzione come “un frammento dello specchio, un’immagine parziale”. Si contrappone, dunque, al pluralismo religioso sul piano costituzionale?

Diciamo innanzitutto che il capoverso dell’articolo 7 esprime una norma particolare: il suo raggio d’escursione non investe tutte le confessioni religiose, ma soltanto quella cattolica. Il luogo della generalità, del pluralismo, è altrove, abita nell’articolo 8. E in quello stesso luogo abita pertanto la nostra identità. Perché l’identità è sintesi, non separazione. Questo vale per gli individui non meno che per i gruppi organizzati. Ciascuno di noi somma un’identità sessuale, politica, anagrafica, razziale. L’insieme di queste varie identità riflette la nostra immagine allo specchio. E l’immagine è una sola, a meno che lo specchio non sia infranto. In questo senso, l’articolo 7 è solo un frammento dello specchio, è un’immagine parziale, particolare per l’appunto. Si riferisce all’unica intesa già siglata nell’immediato dopoguerra, e le fa spazio tra i principi costituzionali. Come se i costituenti, dopo l’articolo 49 sui partiti politici, avessero scritto un articolo 50 sulla Democrazia cristiana. L’articolo 7 è dunque una specificazione dell’articolo 8, e questo connotato ne evidenzia la qualità di deroga, intesa come fattispecie contenuta all’interno di un’altra e più estesa fattispecie normativa: l’eccezione ha un oggetto particolare, la regola ha un oggetto generale, o almeno più generale rispetto all’eccezione.

Professore, può definire in termini giuridici i concetti di laicità e libertà religiosa?

Diciamo che rappresentano le due facce della stessa medaglia. La laicità implica la libertà di fede, e a propria volta la garanzia costituzionale che permette ad ogni individuo di coltivare una fede, o anche di non coltivarne alcuna, costituisce l’abito laico delle istituzioni pubbliche.

In base a tale concetto costituzionale di “laicità”, qual è, o quale dovrebbe essere, dunque, secondo lei, il ruolo dello Stato nei rapporti con le confessioni religiose?

Sostanzialmente si tratta d’un ruolo suppletivo rispetto alla diseguaglianza dell’offerta religiosa. Questo ruolo è illuminato dal principio d’eguaglianza sostanziale, e ha per orizzonte il pluralismo. Poiché infatti la Costituzione italiana accoglie una democrazia sostanziale, e non solo procedurale, la laicità impone una giustizia di risultato. In altre parole, impone di alimentare il pluralismo religioso prestando l’ausilio pubblico in soccorso delle confessioni minoritarie o marginali, per impedire che esse vengano schiacciate dalla religione dominante. Tuttavia ciò non significa auspicare l’istituzione di un dicastero per gli affari religiosi, competente a dettare una sorta di programma di governo verso i culti. Lo Stato laico deve rimanere muto rispetto ai valori coltivati dalle singole fedi. Ma può e deve intervenire per assicurare ad ogni confessione l’eguaglianza nei punti di partenza, affinché tutte le voci religiose siano udite. Che poi siano anche ascoltate, questo dipende dalla libera scelta dei fedeli.

1 Articolo 3, primo comma, della Costituzione: “ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

2 Articolo 3, secondo comma, della Costituzione: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

3 E’ il principio in base al quale lo Stato e la Chiesa cattolica, nelle materie di comune interesse e nella regolamentazione dei loro reciproci rapporti, non procedono unilateralmente, bensì sulla base di accordi e intese bilaterali.

4 Articolo 7 della Costituzione: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.

I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”.

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« Risposta #10 inserito:: Dicembre 09, 2008, 03:29:00 pm »

9/12/2008
 
Le riforme (non) possono attendere
 
MICHELE AINIS

 
Come Alessandro Del Piero, il gabinetto Berlusconi esibisce un doppio passo. Svelto e deciso se si tratta d’apprestare le regole per i cittadini; lento e molle, quando non proprio fermo al palo, sulle regole di governo. In questi sette mesi di legislatura non c’è emergenza che non abbia ricevuto il suo tampone, dal blocco dei rifiuti all’Alitalia, dall’immigrazione clandestina alle tasse sulla casa, dalla sicurezza in città alla crisi dei mercati. Tuttavia il decisionismo evapora assieme alle buone intenzioni se c’è da chiamare i muratori sulle fondamenta del sistema, sulla governance complessiva di questo Paese, che pure reclamerebbe non meno urgenti correzioni.

Quanto all’edificio istituzionale, l’elenco ha più capitoli dei grani d’un rosario. Il bicameralismo? Con due assemblee gemelle per composizione e per funzioni è diventato più un intralcio che una garanzia, ma intanto l’intralcio è sempre lì, come una carcassa sui binari. I poteri del premier? Prodi non poteva revocare i suoi ministri, né può farlo Berlusconi. La sfiducia costruttiva? Calderoli l’ha promessa il mese scorso, da qualche parte dev’esserci una bozza di riforma, però così segreta che non ne sanno nulla neppure gli agenti segreti. Le procedure con cui decide il Parlamento? Qui invece il testo c’è, e c’è dal 1º luglio, con la proposta di modifica dei regolamenti parlamentari depositata dai capigruppo Pdl; ma è rimasto chiuso in un cassetto, nonostante le polemiche contro la pioggia dei decreti, e benché due Camere efficienti smonterebbero l’alibi dietro al quale si ripara ogni governo, quando abusa per l’appunto dei decreti.

Senza dire della legge elettorale, impresentabile eppure - a quanto pare - inemendabile, dato che la maggioranza non è riuscita a correggere neanche quella con cui voteremo alle prossime europee. O senza chiamare in causa la riforma dei partiti, le oscure modalità con cui avviene la selezione della loro classe dirigente, i poteri degli iscritti, le storture del finanziamento pubblico. O il governo dei giudici, che non è cambiato d’una virgola benché sia stato annunziato già da tempo il progetto di un nuovo Csm. O infine la riforma delle Authority, che sono troppe, e si pestano i piedi a vicenda. E il federalismo fiscale? Sin qui una nebulosa in cui si smarrirebbe perfino un astronauta. E l’abolizione delle province? Sì, o meglio nì, vediamo, non c’è fretta.

Si dirà: ma le riforme istituzionali chiedono tempo, vanno ben ponderate. Giusto, però trent’anni possono bastare, giacché cadeva il 1979 quando Craxi pose per primo la questione. Inoltre se tutti gli altri governi non sono stati fulmini di guerra, su questo fronte l’inerzia del governo Berlusconi è più grave, più vistosa. Sia in rapporto alla velocità supersonica con cui l’esecutivo in carica ha preso di petto ogni altra faccenda. Sia rispetto all’investimento che vi ha operato fin dal suo battesimo, raddoppiando i ministri delegati alle riforme. Questi due ministri (Bossi e Calderoli) sono entrambi della Lega, sicché l’impasse è fonte d’imbarazzo innanzitutto per questo partito. Ma in qualche misura dovrà pur imbarazzare la stessa opposizione, se è vero che le regole del gioco vanno condivise da tutti i giocatori, e se è vero inoltre che il centrosinistra fa muro perfino quando la maggioranza accoglie i suoi suggerimenti (è accaduto per il decreto Gelmini).

Però il vuoto di riforme non danneggia unicamente la credibilità dei partiti. Ci danneggia tutti, perché l’Italia soffre di cattivo rendimento (49º posto, dietro il Portorico e le Barbados, secondo il Global Competitiveness Index 2008-2009), nonché di scarso ricambio nelle classi dirigenti (con il record europeo di settantenni, come attesta il Rapporto Luiss 2008). A tale riguardo le riforme istituzionali sono la prima pietra, tuttavia non certo l’ultima. C’è bisogno di una nuova governance che impedisca per esempio d’incontrare rettori in carica da 25 anni (a Brescia) o da 22 (a Napoli). C’è bisogno, in una parola, di governi forti e rinnovati a ogni livello. Perché il pesce, come dicono al Sud, puzza sempre dalla testa.

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« Risposta #11 inserito:: Dicembre 12, 2008, 03:42:05 pm »

12/12/2008
 
Diritti celebrati ma poco applicati
 
MICHELE AINIS
 

Se c’è una festa, siamo sempre i primi della fila. Mercoledì la «Dichiarazione universale dei diritti umani» ha spento 60 candeline e in tutta Italia è stato un via vai di celebrazioni. A Torino il Gruppo Abele, insieme con altre associazioni di volontariato, ha chiesto ai cittadini di presentarsi con una fetta di torta. A Barletta il Club Unesco ha curato la pubblicazione d’un volume. A Milano l’Ares ci ha imbastito sopra un bel convegno, alla presenza del sindaco Moratti. Trento festeggerà oggi con un concerto per i diritti umani. A Parma seduta congiunta del consiglio comunale e provinciale. A Rieti un opuscolo distribuito in 30 mila copie dalla prefettura. E poi l’Arci, con la sua Maratona dei diritti. Amnesty International, con un cd dove 17 cantautori raccontano i diritti negati. Le scuole d’ogni ordine e grado. Le massime autorità della Repubblica, con un profluvio di dichiarazioni e di messaggi.

Non che sia male ricordare il seme da cui sono germogliati i nostri diritti collettivi. Anzi: in un paese come l’Italia, senza identità e senza memoria, si tratta di un esercizio salutare. Anche perché la storia della «Dichiarazione» è a suo modo esemplare. Nata da un’idea del presidente Truman, fu inizialmente molto contrastata, tanto che gli Stati si divisero perfino sul nome da assegnare al documento (c’era chi proponeva la stesura d’una Convenzione, ossia un trattato vincolante). Fu necessario trovare un codice comune fra individui delle più diverse razze, dal cinese Chang al francese René Cassin (Nobel per la Pace nel 1968), dal cileno Santa Cruz all’americana Eleanor Roosevelt, presidente del comitato di redazione. Ma infine i contrasti vennero appianati, sicché la notte del 10 dicembre 1948 - a Parigi - il testo fu approvato senza nessun voto contrario e appena 8 astensioni. Un epilogo tutt’altro che scontato, se s’osserva che la guerra fredda già divideva in due come una mela la faccia del pianeta. Ma quest’epilogo fu reso possibile dal trauma della guerra, da una comune reazione di rigetto contro ogni mortificazione della libertà, della dignità, dell’eguaglianza di ogni essere umano. È infatti la persona l’asse su cui ruota la «Dichiarazione», ha detto giustamente il Capo dello Stato.

Il guaio è che questa «Dichiarazione» molto celebrata, risulta poi ben poco applicata. Non solo in alcune lande disgraziate, in Congo, nel Darfur, a Gaza, nel nord dello Sri Lanka, dove si consumano in questi stessi giorni esodi biblici e stermini di massa. Succede, sia pure in modo assai meno drammatico, sul nostro stesso suolo. E allora ronza il sospetto che questa celebrazione collettiva della «Dichiarazione dei diritti» fornisca dopotutto un alibi per la sua rimozione collettiva. Qualche esempio, fra i molti che potrebbero elencarsi.

La «Dichiarazione» vieta la tortura, il nostro ordinamento non contempla il reato di tortura. Enunzia il diritto alla sicurezza sociale, che per metà degli italiani rimane una chimera. Aggiunge il diritto di partecipare ai benefici della scienza, su cui Santa Romana Chiesa accende il rosso del semaforo. Ma forse la prova più eloquente del suo avaro destino si legge fra le righe della giurisprudenza costituzionale. In oltre mezzo secolo di vita, solo in 6 circostanze è capitato alla Consulta d’occuparsene. E salvo un caso (nel 2002) ha sempre dichiarato la questione inammissibile, trattando i diritti della Carta Onu come diritti di carta, fiato senza parole.

In questa cattiva stella della «Dichiarazione» gioca senza dubbio la sua scarsa efficacia sul piano del diritto, secondo l’intenzione con cui essa venne espressamente concepita. Quel testo spiega un’autorità politica e morale, piuttosto che giuridica. Però la sua stessa esistenza, nonché la popolarità che lo circonda (262 mila pagine in italiano su Google), indicano un orizzonte, una direzione verso cui è giusto marciare. Non senza qualche successo, tanto che nel 1981 è stato replicato attraverso la «Dichiarazione islamica universale dei diritti dell’uomo». E in entrambi i casi la lezione sta tutta nell’aggettivo: «universale». Perché i diritti sono di tutti, o altrimenti sono un privilegio.

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« Risposta #12 inserito:: Dicembre 16, 2008, 11:11:58 am »

16/12/2008
 
L'amaro fuori legge
 
MICHELE AINIS
 

La commissione Trasporti della Camera sta per trasportarci nel paradiso degli astemi. Il tasso alcolico consentito per chi impugna un volante già ora è troppo basso: 0,5 per cento, due bicchieri di vino. Dall’anno prossimo la tolleranza scende ulteriormente a 0,2 per cento. Significa che se pasteggi ad acqua minerale, ma poi chiudi la cena con un goccio d’amaro, come minimo ti viene sequestrata la patente. Sicché approfittane, è l’ultimo Natale. Dopo sarà sempre Quaresima.

No, la commissione Trasporti vuole trasportarci nell’inferno dei reietti. Perché dopotutto è questa la stazione d’arrivo dell’ultima idea bipartisan (a proposito, ma destra e sinistra non erano come cane e gatto? Si vede che quando c’è da mettere al muro gli italiani scatta un’assonanza d’amorosi sensi). E il mezzo di locomozione è sempre lo stesso da decenni: la Gazzetta Ufficiale. Le cronache registrano un caso di pedofilia? La politica triplica le pene per i pedofili. A Napoli la monnezza lievita come panna montata? Altra legge, altro castigo. Gli incidenti stradali del week-end? Un tratto di penna del legislatore e verranno cancellati. Tanto varrebbe aggiungere nella prossima Gazzetta Ufficiale che d’ora in poi gli uomini possono volare, così magari ci svegliamo con un paio d’ali piumate sulle spalle.

Di fronte a questa peste legificatrice non serve impiccarsi sui dettagli. Come le statistiche falsate da soglie alcoliche prossime allo zero, che puntano l’indice contro l’ubriachezza quando l’incidente deriva da ben altre cause. O come la trovata bislacca (e a sua volta bipartisan, come sbagliarsi?) che vorrebbe incrudelire le sanzioni per i trentenni, lasciando indenni gli ottantenni. Ma il guaio, o per meglio dire la tragedia, è che un’idea così suona insieme arbitraria e velleitaria. È arbitraria, perché l’amaro dopocena è un rito un po’ per tutti gli italiani, e perché se tutti sono colpevoli allora nessuno è colpevole davvero. Anzi: sarà colpevole chi incrocia un poliziotto senza compassione, chi ha la faccia antipatica, chi si fa prendere dai nervi gonfiando il palloncino.

La repressione di massa trasforma giocoforza il potere dell’autorità in capriccio. Ed è velleitaria perché maschera l’inefficienza dei controlli sotto la falsa efficienza delle norme. In Italia s’esegue ogni anno un milione di alcol-test, contro i 10 milioni in Francia. Sempre in Italia, se vai sotto processo te la cavi quasi sempre con una prescrizione (a Napoli, nel 2007, un reato estinto ogni 13 minuti). La vera emergenza è l’incertezza della pena, ha detto ieri il capo della Polizia. Appunto.

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« Risposta #13 inserito:: Dicembre 18, 2008, 10:42:18 am »

18/12/2008
 
Eluana e i guardiani ubbidienti
 
MICHELE AINIS
 
Ileghisti l’avranno presa male, anche se al momento non c’è traccia di reazioni ufficiali. E così i federalisti, di cui trabocca la nostra scena pubblica. Perché l’editto di Sacconi, l’atto con cui il ministro pretende di chiudere a Eluana le porte d’ogni clinica pubblica o privata, è innanzitutto questo: un diktat per le Regioni, nonché per le Province di Trento e di Bolzano. È insomma la mascella volitiva dello Stato, che detta legge agli enti decentrati. Ma come, non siamo già immersi mani e piedi in uno Stato federale?

Non c’è alle viste il federalismo fiscale, che renderà totale l’immersione? Evidentemente no. In Italia funziona così, c’è spazio solo per un federalismo dei giorni dispari, nei giorni pari ciascuno torna al suo vecchio mestiere.

Ma la questione si misura essenzialmente in punta di diritto. Come d’altronde fin qui è sempre accaduto, in questa guerra di carte bollate e di sentenze combattuta su un corpo senza coscienza, senza volontà. Tuttavia l’ultimo episodio registra un miracolo giuridico: la resurrezione del defunto. Il provvedimento di Sacconi riesuma difatti la funzione d’indirizzo e coordinamento, con cui lo Stato ha regolato per trent’anni l’attività delle Regioni. Lo faceva in nome dell’interesse nazionale, una formula magica ospitata nel vecchio testo della Costituzione. Ma a condizione che l’atto d’indirizzo venisse espressamente previsto in una legge, che fosse adottato dall’intero Consiglio dei ministri, che la Conferenza Stato-Regioni avesse manifestato il proprio assenso. Come stabiliva l’art. 8 della legge Bassanini (n. 59 del 1997), che entrò in vigore quando la funzione d’indirizzo e coordinamento era ormai agonizzante, incolpata non a torto d’aver affossato l’esperienza regionale.

Nessuna di queste tre condizioni ricorre nel provvedimento solitario di Sacconi, che dunque suona illegittimo perfino rispetto al vecchio ordine giuridico. Ma nel 2001 la riforma del Titolo V ha soppresso ogni riferimento all’interesse nazionale e ha soppresso perciò le basi su cui poggiava il potere d’ingerenza del governo. Non solo: l’art. 8 della legge La Loggia (n. 131 del 2003) ha poi ulteriormente precisato, a scanso d’equivoci, che gli atti d’indirizzo e coordinamento sono vietati nel campo della sanità. Sicché l’atto firmato da Sacconi è due volte incostituzionale: sia per il passato remoto che per il futuro prossimo. Anzi tre volte: perché oltre a offendere le competenze regionali calpesta la sovranità del Parlamento (soltanto una legge statale di principio può intervenire in materia sanitaria), e perché viola le attribuzioni del corpo giudiziario (sul caso Eluana c’è ormai una sentenza definitiva della Cassazione).

Insomma questo provvedimento non vale nulla, è come una legge promulgata dal direttore delle Poste. E allora a cosa serve? Semplice: serve a intimidire gli ospedali, a ricattarli minacciando di togliergli i quattrini, se non addirittura la licenza. E perché Sacconi, che è persona seria, ci ha messo in calce la sua firma? Ri-semplice: perché ha agito sotto dettatura. Non è il primo caso, non sarà purtroppo l’ultimo. È appena successo con i fondi per le scuole private, dopo la protesta a squarciagola della Cei: 120 milioni spariti e subito riapparsi con un emendamento in Finanziaria. Succede con la pillola del giorno dopo, la cui vendita al pubblico viene rinviata di anno in anno, con gran soddisfazione del Vaticano.

Diciamolo: c’è un Antistato dentro il nostro Stato. Le sue sentinelle, i suoi stessi generali, sono ormai i generali dello Stato italiano. Da qui l’impotenza della cittadella burocratica, da qui la complicità della politica: l’una e l’altra ormai espugnate dall’interno, e senza neanche la fatica di fabbricare un cavallo di Troia. Da qui la strage della nostra civiltà giuridica, pur sempre figlia del secolo dei Lumi, quando l’Antistato ha in odio le carte settecentesche dei diritti, l’etica del dubbio, la separazione dei poteri. Prima di consegnarci prigionieri, c’è però un Dio laico cui possiamo chiedere soccorso. È un giudice, e magari qualche volta può sbagliare. Ma giudica con la stessa toga ministri e cittadini. E nessuno ministro, così come nessun cittadino, ha il potere di rovesciarne le sentenze.

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« Risposta #14 inserito:: Gennaio 06, 2009, 11:36:18 am »

6/1/2009
 
La libertà di non partecipare
 
 
MICHELE AINIS
 

A Lecco una giovane donna, Eluana Englaro, attende ormai da diciassette anni di venire liberata da una vita che è la caricatura della morte. A Milano e a Catanzaro due giudici agguerriti (Forleo e De Magistris) subiscono il castigo di un trasferimento d’ufficio per mano del Csm. A Roma il Vaticano si duole per una flessione delle firme sull’8 per mille. In Abruzzo un elettore su due non ha votato alle regionali di dicembre. Che cosa hanno in comune questi diversi avvenimenti? C’è un’unica pagina sotto le pagine del vecchio calendario, quello che abbiamo sfogliato l’anno scorso? All’apparenza no, sono vicende incomparabili. Ma gratta gratta sì, c’è una sola storia dentro tutte queste storie. Vi si racconta un rifiuto, un’opposizione. Il rifiuto d’esercitare diritti o libertà di cui trabocca il nostro generoso ordinamento. Ma il rifiuto viene rifiutato a propria volta, nel senso che non provoca mai effetti concreti. Sicché la stessa libertà diventa una prigione: ti è permesso entrarci, ti è proibito uscirne. Una libertà coatta, un diritto che si converte in obbligo.

Sprezzo del diritto, da Eluana all’8 per mille
Cominciamo da Eluana, sul cui povero corpo si misura ormai il perimetro del diritto alla salute. Fu proprio la Costituzione italiana la prima in Europa a tutelarlo, al di là di qualche cenno conservato nella Carta di Weimar del 1919. Significa cure gratuite agli indigenti, come vuole l’art. 32. Significa perciò libertà effettiva di curarsi. Ma il rifiuto no: a Eluana - o a chi ne fa le veci - non è concesso, benché lo riconosca una sentenza passata in giudicato. Come non fu concesso a Welby, come non spetterà ai futuri Welby cui il Parlamento nega il sussidio del testamento biologico. Ma se è per questo, nega a noi tutti anche la libertà di rifiutare le terapie ufficiali, per avvalerci di medicine non convenzionali. Serve un bollo, un’autorizzazione. La stessa che ancora fa difetto per mettere in commercio la pillola abortiva Ru486. Aspettiamo, però non c’è da essere troppo fiduciosi. Pare che il Vaticano sia di parere opposto.

E a proposito di Santa Romana Chiesa. Il sostegno al clero è il risvolto attivo della libertà di religione, ne permette in concreto l’esercizio. E a sua volta la libertà di culto ha anticipato la stessa libertà di pensiero, dopo secoli di guerre e persecuzioni religiose nel ventre dell’Europa. Guai a scalfirla, dunque. Però l’appoggio finanziario muove dal consenso, e il consenso non può essere né estorto né presunto. Viceversa l’8 per mille funziona con un marchingegno giuridico che calcola pure la scelta dei contribuenti che non scelgono. Quando la Chiesa si lamenta - com’è appena accaduto - è solo perché le cade di tasca qualche spicciolo. La torta di un miliardo di euro l’anno resta comunque assicurata. Con sprezzo della logica, oltre che del diritto. Perché la libertà di fede dovrebbe garantire pure chi non ha fede, così come la libertà d’associarsi comprende giocoforza la libertà di non associarsi.

Quella pagina in sospeso nel nostro calendario
Ecco, le associazioni. O meglio le lobbies, le correnti, le corporazioni. Nei casi di Forleo e De Magistris si tratta soltanto d’un sospetto, però un doppio sospetto descrive un mezzo fatto. È una coincidenza che la prima non abbia mai militato nei partiti giudiziari? O che il secondo si sia dimesso dall’Associazione nazionale magistrati, denunziando con una lettera di fuoco la deriva correntizia? Peggio per loro, giacché sul loro scalpo tutte le correnti si sono ritrovate - per una volta - unite nella lotta. Peggio per noi, perché in Italia non hai alcuna speranza di vincere un appalto, d’ottenere un avanzamento di carriera, di guadagnare posti o incarichi se non fai parte della cordata giusta. Le associazioni vennero represse durante tutto l’Ottocento, a partire dalla legge Le Chapelier del 1791. Oggi a quanto pare sono obbligatorie.
E l’Abruzzo? C’entra qualcosa il non voto alle ultime elezioni? E non è forse vero che il suffragio universale costò la vita ai nostri nonni? Vero, tant’è che la Costituente eletta a suffragio universale lo ha innalzato a «dovere civico». Tuttavia a questo dovere aggiunse l’obbligazione degli eletti a comportarsi «con disciplina e onore». Se manca la seconda, cade pure il primo. Ma il rifiuto del voto è un’arma sterile, senza munizioni in canna. Eppure in astratto ci sarebbero. Uno su due non vota? Allora dimezziamo i consiglieri regionali, tagliamo a metà i loro poteri, decurtiamogli la paga. Magari la volta prossima si daranno un po’ da fare.
Sì, c’è questa pagina in sospeso nel nostro calendario. È la libertà di non fare, dopo quella del fare. E ciascuno può aggiungervi a sua volta un rigo: per esempio la libertà di non sposarsi, in una società che tassa a oltranza i single per punirli del loro rifiuto. Se sapremo scriverla, avremo completato la libertà degli individui. Li renderemo autonomi, anziché copie fotostatiche, replicanti d’una folla senza nome.

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