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Autore Discussione: Dario Di VICO.  (Letto 113714 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Luglio 18, 2009, 09:55:10 am »

Il commento

L'autunno difficile e le riforme

Sacconi e la svolta scandinava da non sprecare


C’è attesa per il faccia a faccia che vedrà oggi protagonisti a Chianciano il ministro dell'Economia Giulio Tremonti e il leader della Cgil Guglielmo Epifani. Dall'esito si capirà qualcosa di più sui contorni dell'ennesimo difficile autunno italiano. Ieri il ministro, commentando l'approvazione del Dpef, è stato— non a caso— attento a sottolineare il valore della pace sociale. E anche le prime dichiarazioni di Epifani sono parse improntate a cautela. Pur tacciando il Dpef di «conservatorismo », Epifani è stato politicamente attento a non bruciarsi i ponti dietro le spalle.

In attesa di capir meglio lo scenario che si apre, la novità è che il governo una mossa di merito sul tema della riforma previdenziale l’ha fatta. Un politico che qualche tempo fa conobbe una discreta popolarità ben oltre i confini del suo Paese era solito dire che ogni lunga marcia inizia con un piccolo passo. Ebbene quel passo, complice Bruxelles, comunque c’è stato. È chiaro a tutti che senza il vincolo esterno, l'urgenza di armonizzare la nostra normativa a quella europea, l'esecutivo avrebbe preferito aspettare tempi migliori. Perché, come più volte hanno sostenuto Tremonti e il ministro Maurizio Sacconi, di fronte alla profondità della crisi e agli obiettivi rischi di secco incremento della disoccupazione, aggiungere ulteriori elementi di tensione sindacale (o meglio di stress sociale) è ai limiti del masochismo.

Ma non c’era scelta e bisognava prendere in qualche modo l’iniziativa. Nel muoversi —e sta qui l’elemento di discontinuità più rilevante — il governo non ha fatto ricorso a misure tampone, anzi ha prefigurato un itinerario nuovo che prende a riferimento l’esperienza dei Paesi scandinavi. Il meccanismo messo a punto dai due ministri ha come presupposto due opzioni di fondo. La prima è quella di utilizzare i risparmi da previdenza dentro il perimetro del welfare (con il fondo per i non autosufficienti) in maniera da agevolare le relazioni con le confederazioni ed evitare che l’allungamento dell’età pensionistica delle donne suonasse come punitivo per l’intera platea delle fasce deboli. La seconda opzione parte dal riconoscere che il nostro sistema previdenziale ha un problema di sostenibilità nel medio periodo a causa del progressivo allungamento delle aspettative di vita.

E mette in campo per la prima volta un meccanismo di stabilizzazione automatica che farà salire l’età di ritiro dal lavoro in ragione dell’evoluzione demografica, sottraendo alla querelle politica e ai governi che si avvicenderanno la decisione di intervenire di volta in volta. Si potrebbe persino dire che si tratta di una soluzione bipartisan. Nei prossimi giorni ci sarà tempo e spazio per il dibattito tecnico sull’efficacia delle soluzioni introdotte ma di sicuro il dibattito sulle riforme non può ignorare la novità. Da diversi mesi si discute sull’ipotesi di utilizzare la crisi come occasione per rilanciare le riforme, per metter mano alle più rilevanti storture del sistema Italia.

Con l’assemblea di fine maggio anche la Confindustria ha fatto sua questa linea di intervento con Emma Marcegaglia e poi l’ha ribadita anche dal pronunciamento delle principali associazioni industriali del Nord. Ora il governo riconosce che pur con cautela si può battere la strada dell’innovazione. L’auspicio è che anche i sindacati colgano quest’opportunità e non si mettano di traverso. Il generoso appello alla Cgil rivolto ieri, proprio a Chianciano, dal segretario Cisl Raffaele Bonanni non va disperso.

Dario Di Vico
16 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Agosto 28, 2009, 05:54:03 pm »

Le proposte che mancano


Come tutti gli intellettuali anche gli economisti hanno i loro vezzi. L’ultimo esempio riguarda la riflessione apertasi sulle caratteristiche della probabile ripresa dell’economia mondiale dopo lo shock dei mesi scorsi, dopo quella che chiamano la Grande Crisi. Si discetta tra gli economisti se si tratterà di un’uscita a V, veloce e vigorosa, oppure di un rilancio a W, destinato ad alternare per un periodo indefinito strappi di crescita e ricadute recessive. Oppure ancora di una ripresa a U, lenta e debole. È proprio quest’ultimo lo scenario giudicato più probabile per molti Paesi — pare di capire compreso il nostro — sia dal guru americano Nouriel Roubini sia dall’Economist. Nessuna illusione, dunque, su straordinari rimbalzi, ogni decimo di Pil in più dovremo guadagnarcelo con lacrime e sangue.

Un’uscita a U applicata al sistema Italia può determinare un nuovo handicap, distanziarci ulteriormente — se non altro sul piano temporale — rispetto ai nostri vicini europei. Come già segnalato dai dati di metà agosto riferiti allo sviluppo nell’eurozona, Francia e Germania si sono sorprendentemente rimesse a tirare. Un contributo è venuto dai sussidi governativi all’acquisto di auto che le amministrazioni di Parigi e Berlino hanno potuto distribuire con maggiore larghezza di mezzi. Ma, ed è questa la novità su cui riflettere, l’industria franco-tedesca sembra aver già avuto la capacità di approfittare della ripartenza delle economie asiatiche emergenti. La cruda verità per il sistema Italia è che dopo aver speso fiumi di parole sulla necessità di penetrare commercialmente sui principali mercati asiatici, vendiamo ancora poco, troppo poco, dalle parti di Pechino e di Shanghai. È vero che ogni tanto parte una spedizione di imprenditori ma negli anni scorsi si doveva fare di più per posizionare il prodotto italiano in funzione dei bisogni del ceto medio cinese.

Lo scenario a U trova conferma anche dalla profonda riorganizzazione della produzione mondiale in corso già oggi «dentro » la crisi e che pare catalogare l’Italia tra i paesi che potremmo eufemisticamente definire statici. Non solo non c’è traccia di investitori stranieri disposti nei prossimi mesi a scommettere sul Belpaese ma se si analizzano con attenzione le strategie della grande e media imprenditoria italiana emerge che in tanti stanno privilegiando il rafforzamento degli impianti delocalizzati e non certo gli investimenti sul suolo patrio.

In un contesto così aleatorio è sicuramente positivo che si sia aperta, grazie a un’intervista del ministro Maurizio Sacconi, un’ampia discussione sulla contrattazione decentrata e la detassazione degli aumenti. È positivo che anche in casa Cgil si scorgano segnali di ragionevolezza ma attenzione a non apparire strabici. In questo preciso momento, alla vigilia della riapertura delle fabbriche, ciò di cui soffre l’industria italiana è il taglio della domanda. Ciò che potrebbe spingere molti imprenditori a non riaprire è il silenzio dei fax e degli ordini, non il costo del lavoro. E allora anche il sindacato piuttosto che limitarsi a compilare elenchi delle aziende in crisi o ventilare un autunno all’insegna di «una, cento, mille Innse» farebbe bene a mettere in campo proposte coraggiose e innovative. In Germania ha funzionato, perché da noi non dovrebbe?

Dario Di Vico
27 agosto 2009
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« Risposta #17 inserito:: Settembre 12, 2009, 11:34:15 pm »

L’analisi -

Le aziende e gli effetti della moratoria con l’Abi. Ordini ridotti a uno-due mesi

A Nordest le «piccole» riaprono Ma i distretti restano al buio

A Vicenza (oro) e Manzano (sedie) la selezione resta dura


Alla fine fabbriche e capannoni del Nordest hanno riaperto. Si era temuto che già dalla prima settimana di settembre la deindustrializzazione italiana subisse un’accelerazione e ciò non è avvenuto. Il pericolo è stato scampato, o forse solo rinviato perché il portafoglio ordini per molte aziende non va al di là diun mese o due

È vero che qualche impresa, anche in Veneto, ha fatto ferie lunghissime e ria­prirà i battenti addirittura lunedì 14 ed è anche vero che ci sono stati casi — l’ultimo quello della conceria Vaianello di Montebello — di chiusure improvvi­se con lettera di licenziamento retroda­tata al 31 luglio. Ma fortunatamente so­no eccezioni, non la regola. I piccoli im­prenditori tengono botta, non voglio­no chiudere e mandare a casa i dipen­denti ai quali li lega un forte spirito co­munitario. Un effetto positivo sul mora­le lo ha avuto sicuramente l’avviso co­mune sulla moratoria dei debiti siglato dalle associazioni di categoria con l’Abi ai primi di agosto. In verità le potenzia­lità di quell’accordo si sono dispiegate ancora in minima parte e c’è stato persi­no qualcuno che dal fronte degli artigia­ni ha gridato all’imbroglio, al bluff. La Confindustria con Emma Marcegaglia ha manifestato le stesse perplessità e le banche hanno replicato duramente, ma è ancora presto per dare un giudi­zio fondato. Siamo ancora nella fase dell’implementazione.

Pericolo scampato o solo rinviato? I segnali negativi vengono da alcuni di­stretti industriali, pur ricchi di tradizio­ne. Oggi a Vicenza apre i battenti Choi­ce, la fiera dell’oro in un panorama di grande preoccupazione. Sono state mo­bilitate come testimonial anche Elisa­betta Canalis e Cristina Chiabotto ma la selezione darwiniana di orafi e gioiellie­ri è drastica. Sette anni fa nel solo Vi­centino erano attive circa 1.300 azien­de dell’oro, oggi ne sono rimaste in pi­sta 860 e le previsioni degli addetti ai lavori sentenziano che «supereranno la crisi solo 400 o 500». Il distretto dun­que cambierà faccia, non sarà più quel­lo di prima.

Qualcosa di molto simile sta accaden­do nell’Udinese, nel distretto della se­dia di Manzano: secondo i dati della Confartigianato locale più di cento aziende sono a rischio di imminente chiusura. La domanda mondiale di se­die di legno è in forte contrazione e le piccole imprese dovrebbero cambiar prodotto (ad esempio, i mobili da giar­dino tirano) ma ci vogliono risorse e professionalità che non tutti hanno. In più come denunciato dalla Confartigia­nato c’è difficoltà nel ricambio genera­zionale. I figli che avevano dubbi se in­traprendere o meno la strada dei padri per l’effetto-crisi cominciano a pensare a soluzioni professionali alternative.

Segnali tutt’altro che incoraggianti vengono anche dalle medio-grandi im­prese fortemente internazionalizzate. È il caso del gruppo Tecnica (1.200 dipen­denti, primo produttore mondiale di scarponi, famoso per i marchi Moon Boot e Nordica) che è segnalato in gra­ve difficoltà per il crollo della domanda estera che prima della crisi rappresenta­va l’80% dei ricavi. E quando gli ordini delle aziende medio-grandi comincia­no a scarseggiare la prima conseguen­za è il rientro delle lavorazioni terziste, mossa che si ripercuote sull’indotto con effetti devastanti.

Mentre le dinamiche di mercato se­gnalano morti e feriti è cominciata tra gli industriali e i banchieri di territorio una riflessione di carattere strategico. Visto che la crisi mette a nudo l’eccesso di capacità produttiva e dato per scon­tato che non si riuscirà a salvare tutto l’apparato industriale, non è il caso di evitare che la selezione avvenga in ma­niera casuale, magari solo perché gli operai della ditta X o Y salgono su una gru e minacciano di buttarsi giù? La pri­ma risposta riguarda il rafforzamento patrimoniale delle piccole e medie im­prese. Diversi accordi raggiunti tra le associazioni e le singole banche conten­gono già clausole di questo tipo. Se l’imprenditore mette mano al portafo­glio, magari vende la barca o la terza ca­sa e investe sulla sua azienda, gli istitu­ti di credito raddoppiano la posta e ac­compagnano lo sforzo del singolo indu­striale. Quanto invece alla possibilità che il governo lanci una sorta di Fondo Italia per la ricapitalizzazione delle Pmi, il presidente degli industriali vene­ti, Andrea Tomat, l’ha già bocciato bol­landola come «una nuova Gepi».

La seconda risposta si chiama aggre­gazione tra imprese. Se gli orafi di Vi­cenza si mettessero insieme probabil­mente riuscirebbero a salvare compe­tenze e occupazione ma in questo caso c’è da fare i conti con l’altra faccia del miracolo nordestino, l’individualismo esasperato. Che il presidente degli indu­striali Roberto Zuccato riassume con una vecchia barzelletta. Un imprendito­re trova la lampada di Aladino. Il Genio gli concede la possibilità di esprimere un desiderio ma lo avverte «qualunque cosa chiederai io ne darò il doppio al tuo vicino e concorrente». L’imprendi­tore ci pensa su e poi avanza la sua tre­menda richiesta: «Cavami un occhio!».

Dario Di Vico
12 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #18 inserito:: Ottobre 07, 2009, 04:15:32 pm »

LA RAPPRESENTANZA DI PROFESSIONISTI E «PICCOLI»

Gli italiani invisibili

Ottobre sarà un mese caldo per chi vuole ricucire con piccoli imprenditori e professionisti


Sembra incredibile ma nel Paese della concertazione oggi soffriamo di (poca) rappresentanza: è diventata un bene scarso. Complice la grande crisi scopriamo che interi pezzi della società sono diventati Invisibili. Non hanno santi in paradiso o lobby che li tutelino e le loro rivendicazioni non riescono nemmeno ad arrivare ai piani alti. È questa la condizione dei piccoli imprenditori costretti a far la fila in banca per chieder credito e non chiuder bottega, dei giovani licenziati dai grandi studi di avvocati e architetti che aprono la partita Iva per mancanza di alternative, dei consulenti del terziario avanzato che pagano all’Inps lauti contributi per pensioni che forse non matureranno.

Non c’è da stupirsi quindi se tra gli informatici e i designer dell’associazione Acta il primo partito sia diventato quello dell’astensione, se siano nati in diverse realtà territoriali comitati con il suggestivo nome di «Imprese che resistono » e se un gran conoscitore del mondo delle professioni come il sociologo Gian Paolo Prandstraller sentenzi: «Questo governo non vuole capire che senza le competenze dei professionisti non saremo mai un Paese avanzato ».

Che aria tiri qualcuno nel Palazzo ha cominciato a capirlo e sta giocando la carta della captatio benevolentiae. I convegni sulle Pmi non mancano, le banche stanno attente a fare una comunicazione «amica » verso i Brambilla, i politici locali preoccupati chiamano i ministri sul territorio a render conto della loro azione e persino i parlamentari milanesi del Pd cominciano ad alfabetizzarsi sui problemi delle partite Iva. Tutto dire. Ma non basta. La strategia del sorriso dura lo spazio di un convegno e invece servono soluzioni. Prendiamo, ad esempio, i conflitti di interesse che scuotono il mondo dell’industria. I piccoli sono stanchi di frequentare le associazioni per stringer mani e prender pacche sulla spalla, vogliono diventare partner industriali e non fornitori da tagliare alla prima occasione (magari per mandare il lavoro all’estero).

Il caso dell’obbligo di etichettatura made in Italy è esemplare: i «contadini del tessile» chiedono — con la sponda della Lega — totale trasparenza, non hanno remore ad attaccare gli stilisti e rendono faticosa la mediazione della Confindustria. Anche nell’industria aero-spaziale le piccole imprese non vogliono più che siano le grandi aziende di Stato, in primis la Finmeccanica, a fare il bello e cattivo tempo. Hanno premuto sulla politica e ottenuto dal ministero della Difesa l’apertura di un tavolo di confronto. Un primo passo che nel settore equivale a una piccola rivoluzione. Ma il conflitto più esplosivo riguarda gli incentivi per sostenere la domanda di beni di consumo. La Fiat li ha chiesti di nuovo e dovrebbe ottenerli ma il rischio di una sollevazione da parte degli altri settori è all’ordine del giorno. Dalla Federlegno alle associazioni industriali del Nord-est l’elenco è lungo.

Ottobre, comunque, sarà ❜❜ un mese «caldo» per la rappresentanza. La Lega si presenta come partito-società (anche in questo riecheggia il Pci) e scavalcando le associazioni degli artigiani ricerca il confronto diretto con i Piccoli. Le cinque organizzazioni del patto del Capranica (Confcommercio, Confesercenti, Cna, Confartigianato e Casartigiani) affrettano i tempi per lanciare la loro nuova iniziativa comune. Giuseppe De Rita, Aldo Bonomi e Paolo Feltrin stanno lavorando per scrivere addirittura una Carta dei Valori del nuovo soggetto di rappresentanza. La Confindustria replicherà a fine ottobre con un importante meeting a Mantova nel quale presenterà un progetto ambizioso: un piano per incentivare le aggregazioni delle piccole e medie imprese. Tanto attivismo organizzativo servirà a tamponare il credit crunch, la chiusura delle fabbriche e a reimpostare su basi nuove il rapporto con gli Invisibili? Molto dipenderà dalle scelte che le organizzazioni che si candidano a ricucire la società faranno. Si limiteranno a competere sul territorio per rubacchiarsi gli iscritti o dovendo scegliere tra gli Invisibili e la politica lenta staranno con i primi?

Sul versante dei professionisti la situazione è ancora più complessa. E la rappresentanza più fragile. Gli Ordini professionali attaccati negli scorsi anni per le loro chiusure e la non volontà di liberalizzare avevano mostrato una buona capacità difensiva. «Per quello che conosco al Nord, sono strumenti efficienti— sostiene Prandstraller— ma con la crisi tutto è destinato a cambiare. Perché stavolta penalizza più gli autonomi che i lavoratori dipendenti». A mettere in difficoltà gli Ordini è la frattura che si sta aprendo tra anziani e giovani perché chi paga il conto più salato sono i giovani avvocati, commercialisti o architetti che rischiano nei prossimi mesi di essere espulsi dalla professione. Senza avere strumenti di tutela che servano ad aiutarli a reggere il colpo e a fornir loro una seconda chance. Sono nate in questi anni numerose associazioni professionali spesso in polemica con gli Ordini ma per un motivo o per l'altro non sono riuscite ad avere la taglia necessaria per farsi ascoltare. La stessa considerazione vale per il Quinto Stato dei professional e consulenti milanesi. Il welfare per loro è una tassa aggiuntiva del 26%, non quella formidabile istituzione democratica che assicura a operai e impiegati, ai Visibili, cassa integrazione e buone pensioni.

Dario Di Vico

07 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #19 inserito:: Ottobre 13, 2009, 09:32:01 am »

L’incontro

Bossi alle aziende pubbliche: sostenete le piccole imprese

Vertice a Milano: le grandi affianchino le pmi

Tra il Carroccio e le aziende di Stato i rapporti non sono stati mai facili.

Del resto si trattava di due mondi lontanissimi tra loro e, anche antropologicamente, il boiardo e il lumbard hanno rappresentato polarità estreme.


Un caso che ha appassionato per lungo tempo gli addetti ai lavori è stato quello di Dario Fruscio, consigliere di amministrazione dell’Eni su indicazione leghista e in costante conflitto con i vertici del gruppo. Ora nell’anno di grazia 2009 siamo alla svolta.

I manager di Stato non solo sono invitati ai convegni ma viene chie­sto loro di darsi da fare per salvare il sancta sanctorum leghista, la pic­cola e media impresa. Venerdì scor­so ad aprire l’assemblea di Vergiate con Umberto Bossi e Giulio Tre­monti sul palco e gli artigiani ribel­li in platea era stato l’ingegner Giu­seppe Orsi, amministratore delega­to dell’Agusta Westland (gruppo Finmeccanica) che aveva fatto gli onori di casa ma aveva anche rica­pitolato puntigliosamente gli inve­stimenti della sua azienda e i rap­porti con l’indotto locale. Ieri matti­na a Milano, in una sorta di replica di Vergiate, i manager pubblici sul palco erano addirittura due: Nicolò Piazza, presidente di Invitalia e Giu­seppe Bono, amministratore dele­gato della Fincantieri. Una svolta in totale sintonia con Tremonti, che proprio ieri — non a caso — ha tirato una micidiale bordata con­tro le privatizzazioni.

E’ stato il duetto tra Bossi e Bono ad animare il convegno che questa volta vedeva in platea più nomenk­­latura di partito che artigiani. «Bo­no è un calabrese, un terrone, ma è bravo. È la dimostrazione che ogni tanto un’eccezione c’è». Il Se­natur era di ottimo umore e aveva voglia di scherzare ma la sensazio­ne che ha avuto il pubblico è che tra i due ci sia ormai una certa fa­miliarità.

Bossi ha ringraziato pub­blicamente il manager per avergli inviato le foto della cerimonia di consegna della Carnival Dream e poi rivolto ai presenti ha scandito in due diverse occasioni: «A Mon­falcone fanno le navi più belle del mondo». I bene informati racconta­no che ad aprire e successivamen­te a curare il dialogo tra due sia sta­ta l’onnipresente senatrice Rosi Mauro, a sua volta natia di San Pie­tro in Vernotico, provincia di Brin­disi.

Guai però a pensare che ieri al convegno milanese sulla piccola e media impresa sia andato in onda solo un inatteso siparietto, c’è pa­recchio di più. Bossi e suoi sono molto preoccupati per la tenuta del­le piccole aziende del Nord e per i riflessi politico-elettorali che una loro débacle può determinare alle prossime Regionali. Nelle province dove guidano l’amministrazione — si vedano i casi della provincia di Brescia o di Varese — gli uomini del Carroccio aprono i cordoni del­la borsa e vanno in soc­corso dei piccoli. Poi han­no in mente di organizza­re in più territori possibi­li un piccolo road show per far conoscere agli arti­giani tutte le facilitazioni di quella che chiamava «la finanza agevolata». E del resto commercialisti e tributaristi in casa le­ghista non mancano, a cominciare da Francesco Belsito, titolare di un av­viato studio, capo segre­teria del ministero della Semplificazione e consi­gliere di amministrazio­ne della Fincantieri.

Ma, e qui entrano in gioco le aziende pubbliche, Bossi sembra avere in testa una sorta di moral suasion nei loro confronti per evitare che taglino le forniture all’indotto e magari delocalizzino all’estero le produzioni. Da qui il test rappresentato dal dialogo rav­vicinato con Bono, al quale il Sena­tur durante il dibattito ha calda­mente raccomandato di sostenere le attività delle piccole aziende friu­lane che lavorano per Monfalcone. E Bono gli ha subito fatto eco di­chiarando che, a suo parere, «le piccole e medie sono forti quando c’è una grande impresa competiti­va e in grado di creare occasioni di sviluppo anche per loro».

Dario Di Vico

13 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #20 inserito:: Ottobre 21, 2009, 09:28:01 am »

Agenda fuori tempo


Ascanso di equivo­ci va detto subi­to: ne avremmo volentieri fatto a meno. L’animata discus­sione che nelle ultime 48 ore si è aperta sugli inne­gabili vantaggi del posto fisso (contrapposto all’ale­atorietà del mercato) e che ha coinvolto, con to­ni anche appassionati, il capo e i ministri del go­verno di centrodestra, i principali esponenti del­l’opposizione e i leader delle organizzazioni di rappresentanza, appare del tutto fuori tempo ri­spetto alla lenta evoluzio­ne della crisi. L’impressio­ne che un comune cittadi­no ne ricava è quella di avere a che fare con agen­de improvvisate che ser­vono di più ad «emozio­nare » gli elettorati che a delineare convinte strate­gie di governo. Quasi che la logica del talk show dettasse le regole.

È bene che la politica si occupi del popolo, orga­nizzi il monitoraggio del­la società, si chieda se gli elettori paghino o no le tasse, trovino oppure no lavoro, siano contenti del­le nostre università o pre­feriscano mandare i loro figli a studiare all’estero e via di questo passo. Ma ogni idea o programma (si può dire riforma?) che viene sottoposta al vaglio dell’opinione pubblica de­ve poi essere tradotto in leggi, normative e istituti che migliorino l’esisten­te. È sacrosanto, quindi, che il governo discuta del­l’occupazione e dei gua­sti provocati da una flessi­bilità corsara, ma fino a ieri la strada tracciata dal ministro Maurizio Sacco­ni — per altro in una logi­ca bipartisan — prevede­va il completamento del­le riforme Treu e Biagi con lo scopo di garantire la tutela del lavoro flessi­bile anche nei periodi di non impiego. Tutto ciò va rottamato?

L’occupazione in Italia finora ha retto grazie alla cassa integrazione, consi­derato a torto un ferro vec­chio e che invece ci ha per­messo di oltrepassare la fase più acuta della crisi. Ma attenzione: il grande freddo non è finito. Con uno di quei paradossi di cui è ricca la storia è ripar­tita prima l’economia di carta, simboleggiata dalle «famigerate» borse valo­ri, e invece quella reale è ancora lì, a leccarsi le feri­te. Non basta un conve­gno per spegnere le in­quietudini dei piccoli im­prenditori e artigiani, an­che di quelli del Varesotto che pure hanno votato in massa i partiti di governo e si spellano le mani per Umberto Bossi. Ma quan­te di quelle imprese so­pravvivranno al grande freddo? E si tratta di posti (fissi) che vengono can­cellati da un giorno all’al­tro e di territori che ri­schiano di veder azzerata la vocazione produttiva. C’è qualche ministro di­sposto a dir loro la verità e invitarli a rinunciare al­l’atavico individualismo e aggregarsi piuttosto che morire? La crisi, poi, non mette solo a repentaglio le micro-imprese, sta an­che falciando il già debo­le terziario italiano. Quan­ti sono gli Invisibili pro­fessionisti che non riesco­no più a mettere assieme uno stipendio decente e sono costretti però a paga­re i costi di un welfare di cui non usufruiranno mai? Troppi per partecipa­re a un talk show.

Dario Di Vico

21 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #21 inserito:: Novembre 07, 2009, 09:55:17 pm »

L’analisi


Ma dietro i numeri il ritardo dell'export


Il dato che viene dal superindicatore Ocse va incassato con tanta soddisfazione e un po’ di sollievo. L’analista più rigoroso sarà portato a sottolineare come il recupero previsto è sicuramente significativo (+17) e superiore a quelli degli altri Paesi ma nelle scorse rilevazioni l’Italia aveva fatto segnare un tracollo (-32), laddove gli altri erano incorsi in una caduta di proporzioni decisamente più modeste. A parità di numeri comunque l’Ocse ci dice che la nostra economia dovrebbe riprendersi con una velocità maggiore rispetto alla Germania e si tratta di una (piacevole) sorpresa. Passando dal terreno delle previsioni macroeconomiche alle scelte nazionali di politica economica c’è da osservare come il dibattito italiano sia quasi esclusivamente centrato sull’asse stimoli fiscali-debito. Discutiamo (e ci dividiamo) sull’opportunità o meno di tagliare l’Irap per favorire il rilancio del sistema delle imprese e rapportiamo quest’opzione ai rischi insiti al peggioramento dei nostri conti pubblici e del nostro rating.

Quella che manca, forse, è una seconda gamba del dibattito. Ammesso che a fine crisi il livello della domanda mondiale torni ai livelli precedenti, quella che cambierà radicalmente è la sua composizione. Non saranno più centrali i mercati americani ed europei — presidiati con sufficiente personalità dal made in Italy — ma quelli di Cina, India e Brasile nei quali, nonostante le tante parole spese al vento, l’industria italiana è in ritardo rispetto ai concorrenti. Da qui la necessità, da parte del sistema Italia, di varare un’operazione di riconversione dei prodotti e dei mercati in tempi che non possono essere lunghi. Qualche indizio positivo è venuto nei giorni scorsi dal monitor dei Distretti curato da Intesa Sanpaolo secondo il quale nel settore metalmeccanico, nei macchinari per l’imballaggio e nella meccanica strumentale l’export verso Pechino sta segnando un incremento. Ma è evidente che non può bastare e l’alternativa appare drastica: o ci muoviamo in fretta con politiche industriali e commerciali ad hoc oppure l’eccesso di capacità produttiva del made in Italy sarà pesante e ci costringerà volenti o nolenti a sacrificare una bella porzione di piccola e media impresa.

Dario Di Vico

07 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #22 inserito:: Novembre 11, 2009, 04:30:42 pm »

L'ASSEMBLEA DI BESNATE

Partiti e banchieri, le condizioni degli artigiani ribelli

Le voci e le storie degli indipendenti

 
 di Dario Di Vico


Gli artigiani ribelli del Varesotto non smobi­litano né i loro comitati né i loro blog. L'Ocse ci invita tutti all'ottimismo ma per leggere l'evoluzione della crisi i piccoli imprenditori terzisti non hanno bisogno di modelli econo­metrici e super-indicatori. E così, come ormai fanno periodicamente da cinque mesi, anche lunedì sera in 250 hanno riempito il teatro par­rocchiale di Besnate per discutere (animata­mente) con politici e banchieri. Stavolta però rispetto a cinque mesi fa è come se avessero preso coscienza del proprio ruolo, per la prima volta hanno l'impressione di poter dire la loro e nessuno può zittirli. Luisa Cazzaro ha una pic­cola azienda metalmeccanica di dieci dipenden­ti, è tra le animatrici di Imprese che resistono Lombardia. Si alza dal suo posto e senza tanti fronzoli spara la bordata: «Le intenzioni dei po­litici e delle banche sono anche buone ma quando arrivano a noi, sul territorio, tutto si perde. Vince la burocrazia. Ma vi pare possibile che uno dei miei dipendenti in cassa integrazio­ne sia stato destinato dalla Regione a frequenta­re un corso di formazione per la gestione dello stress? Siamo matti?». Massimo Mazzucchelli è anche lui un piccolo della meccanica, ha orga­nizzato la serata di Besnate e dal palco spiega con grande lucidità la maturazione dei ribelli del Varesotto: «In questi mesi non solo abbia­mo portato avanti le nostre richieste, ma abbia­mo capito che bisogna dedicare una parte del nostro tempo alla vita pubblica, compresi i blog. Se rimaniamo soli e zitti non andiamo da nessuna parte».

Cosa sia successo al sistema produttivo in questi mesi, potrà sembrare biz­zarro, ma nessuno lo sa con certezza. Davide Galli della Confartigianato giura che «in pro­vincia di Varese già mille aziende hanno chiu­so e cento solo nell’autotrasporto». Per evita­re che altre mille chiudano i ribelli si aspetta­no il taglio dell’Irap, che i gruppi più grandi paghino i fornitori e che la moratoria dei debi­ti con le banche sia allargata. Di politici a Besnate (5.400 anime compre­si vecchi e bambini, 150 imprese e un mare di partite Iva che da sole fanno il 15% del bilan­cio del Comune) sul palco ce ne sono tre, il senatore leghista Massimo Garavaglia, l’asses­sore regionale del Pdl Raffaele Cattaneo e, sor­presa, per la prima volta un esponente il Pd, il deputato Daniele Marantelli. Si vede lontano un miglio che davanti alla sua gente Garava­glia è costretto a giocare in totale difesa del governo. Anche la moglie ha un’aziendina da queste parti e gli verrebbe da dire che l’Irap va tagliata non una ma due volte e che i Co­muni andrebbero lasciati liberi di spendere. La ragion politica lo porta invece a parlare di conti pubblici, di breve e lungo termine, di una finanziaria ancora aperta a miglioramen­ti ma tra tante cautele dà anche una notizia: i temutissimi studi di settore, tarati sulla cresci­ta e non sulla recessione, vanno considerati sospesi de facto. Poi Garavaglia elogia il mini­stro Luca Zaia per concedersi una battuta: «Noi che vogliamo la Padania, alla fine siamo quelli che si battono per salvare il made in Italy». Cattaneo vende (legittimamente) un po’ della sua merce di amministratore locale: la Regione ha lanciato i Formigoni bond e fi­nanzierà il made in Lombardy , farà partire le opere infrastrutturali e quanto ai corsi an­ti- stress promette un’inchiesta rigorosa. Ai ri­belli, poi, lancia un appello: «Non fate i Cobas della piccola impresa, state dentro le associa­zioni ». Marantelli incassa il risultato di aver riportato il Pd in pista e attacca il piano di sta­bilità che mette in crisi «i Comuni virtuosi». Assicura di aver firmato anche lui la proposta di legge sul made in Italy voluta dagli artigia­ni e spiega che a Vergiate, all’assemblea della Lega con i piccoli, lui avrebbe voluto fare del­le domande scomode a Tremonti ma non gli è stato concesso. Il clou della serata arriva con il botta e rispo­sta artigiani-banche.

Cinque mesi fa probabil­mente un banchiere non sarebbe nemmeno potuto entrare in un’assemblea dei ribelli, si sarebbe rischiato il parapiglia. Sul palco di Be­snate c’è invece Bruno Bossina, responsabile di IntesaSanPaolo per la Lombardia. Qualcu­no gli aveva comunque sconsigliato di venire ma lui sembra aver la calma necessaria per sciogliere i rebus. Spiega alla platea come la moratoria dei debiti sia un’occasione da non perdere e come ci voglia una «fase due» dei rapporti tra piccole imprese e banche. Prende i suoi applausi ma non può evitare il fuoco di fila degli interventi dalla platea. Ciascuno par­la della propria azienda, racconta le peripezie nelle filiali di paese e arrivano a sostenere co­me Giuseppe Marzotto, un piccolo dell’abbi­gliamento dal cognome decisamente impe­gnativo, che avrebbe le commesse per far la­vorare i suoi dipendenti ma la banca non gli finanzia l’attività ordinaria. «Con la Tassara di Zaleski invece vi comportate diversamen­te ». Il banchiere regge il colpo, replica alle ac­cuse e poi chiude con un colpo d’ala: «Scam­biamoci i biglietti da visita ed esaminerò i vo­stri casi uno per uno». Nel giro di trenta se­condi ne mette insieme una discreta collezio­ne.

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11 novembre 2009
http://www.corriere.it/economia/09_novembre_11/artigiani_divico_2_ed428eb2-ce8a-11de-9c90-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #23 inserito:: Novembre 14, 2009, 10:56:08 am »

L’analisi

Piccoli imprenditori e dipendenti: la crisi li unisce ma il sindacato lo sa?

Le iniziative della Cgil e della Cisl e la scelta di tenere separati i fronti


Mercoledì 11 novembre a Martina Franca, provincia di Taranto, gli operai delle aziende tessili che-rischiano-di-chiudere hanno manifestato in piazza. E hanno chiesto a gran voce controlli contro i container pieni di capi di abbigliamento che, secondo le loro denunce, in alcune aziende entrano cinesi ed escono italiani. La Cgil e la Cisl che hanno organizzato la manifestazione hanno scelto simbolicamente il giorno di San Martino, festa dedicata ai cappottari, gli imprenditori locali specializzati nel confezionare cappotti. La novità è che quest’anno, in virtù anche del comune richiamo a valori consolidati nella comunità, al comizio in piazza hanno partecipato anche numerosi imprenditori terzisti della zona, altrettanto preoccupati per il dilagare della contraffazione.

Nell’industria tessile la mobilitazione comune tra datori di lavoro e sindacati ha dei precedenti anche nel Centro Nord: a Carpi, Prato e Biella all’incirca un anno fa ci sono state iniziative in comune per chiedere al governo una politica di settore. Ieri la richiesta di una saldatura tra dipendenti e imprenditori è venuta da Paolo Galassi, presidente della Confapi, che ha osato dichiarare che «è finita la contrapposizione tra piccoli imprenditori e lavoratori, siamo tutti sulla stessa barca e a maggiore ragione con questa crisi».

Forse Galassi avrà gettato il cuore oltre l’ostacolo ma il suo richiamo contiene un messaggio che sarebbe sbagliato lasciare nella bottiglia. La distinzione tra i Piccoli e i lavoratori dipendenti si stempera vieppiù ogni giorno che passa. Oggi a Roma la Cgil manifesterà per le strade di Roma portando in piazza i lavoratori delle aziende in crisi.

A fine mese la Cisl darà vita a una mobilitazione in diverse città del Paese. Tutte iniziative più che legittime ma che recano però il segno della divisione, di un dispendio di motivazione.

E se invece avesse ragione Galassi?

Dario Di Vico

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« Risposta #24 inserito:: Novembre 20, 2009, 03:30:53 pm »

20/11/2009

Ma i "piccoli" di Como parlano di Cina, non di Irap


La sorpresa dell'ospite la si può sintetizzare così: la parola di gran lunga più pronunciata in due ore di assemblea dai cento professionisti e industriali presenti in sala è «Cina» e non «Irap». A Como discutendo di crisi e professioni con il Gruppo dei Giovani - un organismo che riunisce undici organizzazioni della generazione pro.pro., dagli industriali ai commercialisti, dagli artigiani agli ingegneri, dagli architetti agli albergatori - si tocca con mano come la città lariana tema fortemente di diventare una seconda Prato.

«C'era una volta il tessile comasco» è il refrain di tanti interventi che segnalano una sorta di giro di boa, con la vecchia e gloriosa specializzazione dell'industria locale che non riesce più a tenere il passo dell'economia globale. «La Cina ci sta mangiando» dicono in tanti ed è uno slogan a doppia chiave. I pro.pro. leggono i giornali e sanno che la governance del mondo si sta indirizzando verso la formula G2 (Usa & Cina), ma vivono anche a Como e vedono i laboratori tessili cinesi crescere come funghi. La somma delle due tendenze produce una fastidiosa sensazione di accerchiamento.

Ci si domanda se tutto quello che sta avvenendo non poteva esser previsto ed è tutto sommato facile compilare un piccolo catalogo degli errori. Roberto Briccola, vice-presidente nazionale dei pellettieri, sostiene - ad esempio - che «la concertazione ha impoverito la nostra industria». Il sindacato ha impedito che «discutessimo seriamente di produttività e il risultato è che siamo più deboli davanti ai cinesi. Avremmo dovuto fabbricare prodotti vincenti a prezzi ragionevoli, ma non siamo stati capaci».

Arianna Minoretti, una giovane ingegnere, si alza per dire che «ci dovevamo pensare prima, dovevamo tutelare il prodotto italiano, ora è tardi e il made in Italy rischia di abdicare». Ed è lo stesso Briccola a dare alla platea una piccola notizia: anche lui andrà a produrre in Cina. «Spiegherò agli artigiani della Cna che lavorano per me perché lo faccio. Loro non sono più in grado di garantirmi condizioni competitive».

La platea ascolta e assorbe il colpo, magari non convivide ma capisce. Anche perché oltre ai cinesi c'è da fare i conti pure con i ticinesi. Sembra un calembour, eppure è la verità: un altro ingegnere e costruttore edile, Luca Guffanti, racconta come le autorità del Canton Ticino hanno lanciato il programma Copernico, incentivi e facilitazioni per chi investe sul loro territorio. E sarebbero tante le griffe italiane che hanno già abbracciato Copernico, «portano il marketing e la creatività di là» e tagliano il terziario in Italia.

Come può reagire una città come Como al rischio di rimanere senza la sua base industriale e non solo? «Svegliandosi» è la risposta che viene dalla platea. Spiega Andrea Tagliabue, presidente del Gruppo dei Giovani e organizzatore della serata: «Como è una bella addormentata che punta solo sulle bellezze del paesaggio. Varese e Lecco invece si muovono, rinnovano, le aziende cercano di salire di gamma e noi invece non sappiamo cosa fare da grandi».

L'argomento è di quelli destinati ad accendere qualsiasi platea. Si alza, infatti, subito dopo Federico Costa della Confartigianato: «Noi che facciamo rappresentanza delle imprese forse a questo punto dobbiamo fare un salto culturale. Metterci lo zaino in spalla e prenderci la responsabilità di costruire il nostro futuro». E' chiaro a tutti che, seppur in controluce, si sta parlando di politica ma c'è un sottile pudore che porta tutti a non nominare leader, partiti e coalizioni. A suo modo è una piccola e silenziosa secessione.

Dario Di Vico
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« Risposta #25 inserito:: Novembre 22, 2009, 05:27:17 pm »

Il laboratorio |

Al Cuoa imprenditori a scuola di sabato per capire come reinventare le proprie aziende

La svolta dei piccoli a Nord Est

Adesso studiano management

«Per il dopo-crisi copiamo la lezione giapponese»


Ci sono le aziende che chiudono, quel­le che resistono e quelle che pensano. E che addirittura scoprono che il manage­ment può rivelarsi una risorsa decisiva anche per i Piccoli. Per di più senza biso­gna di assumere e pagare dei manager. Chi l'ha detto che le tecniche più sofisti­cate sono adatte solo alle grandi impre­se? Perché anche le aziende manifatturie­re con meno di 50 dipendenti non posso­no farsi in casa la loro rivoluzione cultu­rale? A sostenere queste tesi sono gli in­dustriali del Nord Est tra i 40 e i 50 anni che frequentano con varia intensità la scuola di formazione del Cuoa di Altavil­la Vicentina.

Il bassanese Diego Caron è uno di lo­ro. Pensa che comunque vada a finire è assai improbabile che si torni ai volumi produttivi pre-crisi e ringrazia chi un an­no fa lo ha sconsigliato dal costruire un nuovo capannone di 3 mila metri qua­dri. Avrebbe perpetuato il vecchio modo di agire, quando la capacità di offerta ve­niva generosamente dilatata senza curar­si della domanda. Quando la voglia di fa­re considerava superfluo «il pensare».

La sua azienda metalmeccanica (tubi flessibili) si appresta a chiudere il 2009 a quota -40% di ricavi (i concorrenti sono addirittura a -70%!) e una dozzina dei 50 dipendenti sono in cassa integrazione ma Caron è tutt'altro che pessimista. L'obiettivo è prepararsi per la ripresa e perciò è diventato, parole sue, «un fanati­co della lean production», il modello dell'impresa anti-burocratica alla Toyota che cancella tutte le attività senza valore aggiunto. In omaggio alle teorie giappo­nesi, Caron ha ridisegnato l'organizzazio­ne aziendale azzerando costi e scorte e programmando un forte aumento di pro­duttività. «L'unica spesa che non ho ta­gliato è la formazione perché dobbiamo aumentare l'attenzione al cliente. Dovre­mo diventare un po' aziende manifattu­riere e un po' aziende di servizi». Il solo modo, aggiunge, per mettersi (almeno per qualche anno) al riparo dai terribili cinesi.

Il management snello sta incontrando un certo successo in tutto il Nord Est tra le piccole e medie imprese dei settori più vari. Nel «lean club» si segnalano le espe­rienze di un'azienda padovana che fab­brica mobili di design, la Lago e di un'im­presa, la Anodica Trevigiana, che forni­sce trattamenti termici. Poi c'è chi ha vo­luto fare due cose in una, accoppiare la lezione della Toyota con la creatività ita­liana: è il caso di Filippo Girardi, un im­prenditore quarantenne di prima genera­zione, che opera a Soave (provincia di Ve­rona) e che ha avuto un'idea semplice semplice.

Le batterie per auto come è noto sono tutte nere, ma perché - si è chiesto Girar­di della Midac - non proviamo a giocare sull'estetica e, visto che nei nuovi model­li di vettura le batterie non sono più na­scoste, non le facciamo a colori? Com­menta Paolo Gubitta, docente del Cuoa: «Non deve stupire che i Piccoli abbracci­no la filosofia giapponese. Anche loro ca­piscono che o programmano da soli la propria ristrutturazione post-crisi oppu­re gliela imporranno le aziende più gran­di. E saranno dolori». Gubitta sottolinea anche il nuovo approccio verso un mana­gement senza manager. «L'imprenditore investe su stesso. Va a scuola il sabato per capire come trasformare la sua picco­la azienda. Che nel pragmatico Nord Est nascesse un fenomeno di questo tipo era tutt'altro che scontato».

Imparate le più moderne teorie d'im­presa per tentare si salvarsi «le Piccole che pensano» si trovano di fronte a un altro bivio del dopo-crisi: individuali­smo o aggregazione. I piccoli della Con­findustria vicentina hanno deciso di spendersi per la seconda ipotesi fino a farne un cavallo di battaglia dell'associa­zione.

Si sono dati un anno «per arare il cam­po » e intanto stanno studiando le varie ipotesi di holding che circolano in que­ste settimane. L'opinione di Caron è che «si tratta di discorsi ormai maturi ma che sarà più facile rendere compiutamen­te operativi in presenza di un passaggio generazionale». Con la speranza che i fi­gli si rivelino meno individualisti dei pa­dri.

Dario Di Vico

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« Risposta #26 inserito:: Novembre 24, 2009, 06:22:17 pm »

FISCO, PAGAMENTI E BUROCRAZIA

Piccole imprese, quello che serve


L’opinione pub­blica italiana sta scoprendo, fi­nalmente, il va­lore delle «sue» piccole im­prese. Ora però deve batter­si per salvarle. I mesi che si aprono davanti a noi non so­no meno insidiosi degli ulti­mi, quando si è temuto il tra­collo. Fortunatamente la de­terminazione dei Piccoli è ri­masta pressoché intatta, la moratoria sui debiti qualche effetto positivo lo ha tra­smesso, più in generale è cresciuta l'attenzione per la sorte dei distretti e delle mi­cro- aziende. Ma i mercati no, quelli non hanno conces­so semaforo verde al salva­taggio. Il commercio inter­nazionale dà segni evidenti di ripresa in quei Paesi, i Bric, in cui siamo ancora re­lativamente presenti mentre i nostri mercati d'elezione non paiono in procinto di ri­partire e redistribuirci, co­me in passato, il dividendo della loro virtù. Per le azien­de — molte delle piccolissi­me — che lavorano in preva­lenza per il mercato domesti­co non arrivano notizie con­fortanti dal fronte consumi. Le città si sono addobbate per il Natale con qualche an­ticipo ma in pochi credono che vedremo negozi pieni e ressa alle vetrine.

Di fronte a queste incer­tezze i prossimi 100 giorni ci daranno molte risposte. E' difficile dire con esattez­za quante siano le aziende a rischio chiusura, si è detto un milione, si è corretto a 250 mila. Al di là del nume­ro, quella che non si intrave­de è una credibile strategia di contrasto, un program­ma coerente e snello di cose da fare. Come attesta la ri­cerca della Fondazione Nord Est, che oggi anticipia­mo, gli imprenditori la loro parte la stanno facendo: il 60% degli interpellati dichia­ra di aver subito vistosi cali del fatturato ma solo il 20% ha ridotto l'occupazione. Un dato straordinario che atte­sta il contributo delle Pmi al­la coesione sociale. Non so­lo: in un Paese immobile in cui si procede per linee oriz­zontali, per scambi tra caste e gruppi di pressione, la ri­cerca dimostra come le Pic­cole siano il luogo in cui la mobilità sociale, il famoso ascensore, funziona. Il 53,3% dei micro-imprendito­ri e degli artigiani prima di metter su bottega era un la­voratore dipendente. Non sappiamo però per quanto tempo ancora questi fattori di vitalità resteranno tali. Le comunità locali appaiono impaurite, conteggiano le perdite di occupazione, si chiedono se valga la pena o no coltivare ancora i propri simboli, siano una fiera o una scuola di specializzazio­ne. I casi positivi non man­cano, la capacità di reazione delle varie Jerago d'Italia è reale ma nei distretti si regi­stra anche tanto silenzio. E nella solitudine c'è il rischio che crescano l'ossessione e il rancore per i cinesi piglia­tutto. Da Prato a Como pas­sando per Martina Franca qualche indizio c'è.

Dicevamo programma per i 100 giorni per evitare una distruzione — per nulla creativa — di competenze e valori. Rispetto a tanti liberi­sti immaginari, i Piccoli avranno magari disertato qualche convegno però il mercato lo hanno sempre saggiato sulla loro pelle. Ma proprio perché le Pmi in Ita­lia sono cresciute a cespu­glio e mai hanno trovato in­terlocutori che le aiutassero a concepire una politica di sistema, la ricerca della Fon­dazione Nord Est ci mostra un tessuto di relazioni eco­nomiche fragile: il 77% ven­de prevalentemente nella Regione d'insediamento, il 67% è portato a vedere l'in­ternazionalizzazione come un rischio, la propensione individualistica non favori­sce un boom di aggregazio­ni, i rapporti con le banche, pur avendo superato la fase più polemica, restano ab­bondantemente sotto la so­glia delle necessità.

«Trop d’usines». Così titolava nei giorni scorsi il quotidiano Les Echos . «Troppe fabbriche» rischia dunque di essere il leit motiv dei prossimi mesi in Europa. La crisi ha palesato un eccesso di capacità produttiva che riguarda purtroppo tutti i settori, dalla siderurgia all’automotive, dal tessile persino fino alle energie rinnovabili. Ma se i programmi di ristrutturazione delle grandi imprese sono attentamente monitorati dalla politica e dal sistema bancario, per le Piccole lo scenario che si apre è quello della selezione darwiniana.

Che si può fare per impedirla?

Tagliare l’Irap in maniera che favorisca la piccola dimensione, estendere su tutto il territorio nazionale l’esempio delle regioni più avanzate (Lombardia) nella semplificazione burocratica, rateizzare i pagamenti della pubblica amministrazione ma soprattutto concepire una politica industriale per le pmi che, territorio per territorio, specializzazione per specializzazione, individui i passi avanti da fare. Se un distretto collassa le banche imbarcano sofferenze, allora non è meglio muoversi prima, riunire le comunità, incentivare le aggregazioni, studiare operazioni di riconversione, guidare i Piccoli a riposizionarsi sui mercati vincenti? Il mito dell’imprenditore con la valigetta che trova la strada di Marco Polo fa parte della narrazione più vitale dell’imprenditoria italiana, ma siamo sicuri che in tempi brevi e di fronte al cambio dei mercati possa rivelarsi ancora l’arma vincente? Una rappresentanza, un sistema creditizio e, sì, anche una politica, attenti al futuro non dovrebbero assolutamente distrarsi nei prossimi 100 giorni.

Dario Di Vico

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« Risposta #27 inserito:: Novembre 27, 2009, 11:11:28 am »

Gli artigiani non chiamano più i ministri, ma gli specialisti di gestione aziendale

La svolta dei ribelli di Vergiate «Adesso facciamo da soli»

Alla scorsa assemblea Bossi e Tremonti, ora i professori della Bocconi


La politica? Stavolta no. Dall’as­semblea di Vergiate, con i ministri Umberto Bossi e Giulio Tremonti sul palco a rispondere alle domande de­gli artigiani di Varese, è passato un mese e mezzo, eppure sembra un se­colo. L’idea che le soluzioni potesse­ro venire dall’alto o da Roma, sem­mai c’era stata, oggi non trova cam­po. E votino Lega oppure no, i Piccoli di Varese che si sono riuniti mercole­dì sera nella sede della Cna vogliono discutere soprattutto di business, in­novazione e made in Italy . Non a ca­so l’organizzatore della serata, Piero Cassani — lo stesso di Bossi a Vergia­te —, ha chiamato un esperto di eco­nomia aziendale, il bocconiano Pao­lo Preti. E così quello che va in scena è quasi un seminario di politica indu­striale: ciascun artigiano si alza, rac­conta come chiuderà l’anno e analiz­za il suo caso. Gli altri ascoltano, fan­no qualche domanda e poi discutono liberamente. Fossimo a Milano, lo chiamerebbero workshop.

Lontani dalla politica gli artigiani restano però vicinissimi ai propri di­pendenti. Non ce n’è uno che coltivi l’idea di uscire dalla crisi licenzian­do, come invece è pratica corrente tra i più rinomati manager delle gran­di imprese. «Ho trenta addetti, que­st’anno ho perso il 50% del fatturato, ho messo in azienda 130 mila euro di tasca mia ma pur di non tagliare l’oc­cupazione abbiamo fatto i contratti di solidarietà» racconta Vito Tioli, cromatore. E aggiunge Raffaella Pre­stinoni, una giovane imprenditrice dell’abbigliamento: «Le persone a ca­sa non le lascio, una coscienza ce l’ho anch’io. A marzo del 2010 finiscono i soldi degli ammortizzatori sociali, che capita se noi molliamo?».

In sala ci sono tessili e meccanici in proporzioni uguali e il confronto tra i destini dei due settori ricorre spesso. Commenta Davide Parolo del­la Cna: «Noi del tessile abbiamo avu­to una morte lenta, mentre voi della meccanica non avete fatto a tempo nemmeno ad accorgervene». Tra i produttori di abbigliamento c’è però chi fa autocritica e sostiene che quel declino poteva essere evitato. «Sape­vamo che con la fine dei dazi sarebbe cambiato tutto. Dovevamo muoverci prima e non aspettare l’ultimo mo­mento ». Non la pensa così la Presti­noni: «Io faccio maglioni made in Italy al 100% ma al consumatore del­la qualità gliene frega sempre di me­no, guarda solo il prezzo. E delle vol­te mi domando chi me lo faccia fare di produrre a Varese quando tutto re­ma contro di me». Anche qui come a Como la doppia concorrenza con i ci­nesi, quelli in Asia e quelli sotto casa, tiene banco. Due giorni fa a Casorate Sempione la Polizia locale ha fatto ir­ruzione in una villa che ospitava una fabbrica-dormitorio che dava lavoro a 30 cinesi e dalla quale uscivano abi­ti con la scritta made in Italy. Com­menta la platea dei Piccoli: «La verità è che i controlli, almeno i controlli, dovrebbero farli con regolarità».

Chi possiede un marchio e può an­dare sul mercato con la sua identità è sicuramente in posizione migliore ri­spetto ai terzisti. E proprio per que­sto sta marciando un progetto per mettere assieme gli artigiani stampi­sti, farli dipendere meno dalle grandi imprese fino a proporsi direttamente sui mercati internazionali. Questa è una modalità di aggregazione che ai Piccoli piace, un modo per emanci­parsi. Niente da fare invece per le fu­sioni tra concorrenti. È ancora trop­po presto, dicono, questa generazio­ne di artigiani non ce la fa a compie­re il grande passo.

Si discute molto di innovazione e mercati esteri. Qualcuno si alza e de­nuncia: «Proprio per innovare mi so­no indebitato, è arrivata la crisi e so­no rimasto a metà. Chi glielo spiega ora alle banche che sono un innovato­re e che dovrebbero aiutarmi?». Molti per resistere alla crisi si sono stretti a difesa della loro nicchia, si sono iper-specializzati nel produrre un par­ticolare tipo di rulli o di tubi e così hanno allontanato il pericolo cinese. Ma anche loro sanno che il commer­cio mondiale sta cambiando e per i Piccoli affacciarsi sul mondo sarà doppiamente difficile perché stavolta non basterà vendere ai tedeschi biso­gnerà conquistare clienti in India e in Cina. Come vendere vasi a Samo. Ba­sterà prenotare un aereo e munirsi della mitica valigetta?

Dario Di Vico

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« Risposta #28 inserito:: Novembre 29, 2009, 03:10:39 pm »

IL CASO DI SAFILO E DI MOLTI ALTRI

Se la finanza spegne il lavoro

Un oscuro brac­cio di ferro tra gli olandesi del­la Hal e i posses­sori di obbligazioni sta bloccando il passaggio di mano e il salvataggio della Safilo, uno dei maggiori produttori mondiali di oc­chiali. Così l'azienda vene­ta rischia il fallimento mentre la vera discussio­ne da fare in questi giorni dovrebbe vertere sulle strategie industriali, sulle licenze, i brand, la rivisita­zione delle politiche com­merciali e distributive fin qui (malamente) seguite. E invece no, a decidere il futuro dell'azienda e degli 8 mila dipendenti (all'in­circa un terzo degli addet­ti Fiat Auto in Italia) sarà il tornaconto di un fondo straniero e/o quello di un gruppetto di investitori in­ternazionali.

Il caso Safilo precipita in un momento della Grande Crisi nel quale un po' tutti sono portati a sot­tolineare quanto sia velo­ce nei recuperi la finanza e quanto sia lenta l'econo­mia reale nel ripartire. Per carità, sarebbe da sciocchi rendersene conto solo og­gi, la novità però è che nel frattempo la sensibilità dell'opinione pubblica è mutata. Basta chiederlo a coloro che rilevano umori e orientamenti degli elet­tori. I finanzieri stile Gor­don Gekko del film «Wall Street» oggi appaiono fi­gure totalmente estranee allo spirito del tempo. Del resto più passano le settimane più diventa chiaro che l'uscita dalla crisi comporterà un dima­grimento forzoso della ca­pacità produttiva dell'in­dustria italiana. Forse ne­gli anni della crescita si è investito troppo e male, gettando il cuore oltre l'ostacolo e non si sono te­nuti nel debito conto i pro­fondi cambiamenti della domanda dovuti all'econo­mia globale. Ma, pur am­mettendo gli errori, non si può permettere che la selezione avvenga casual­mente, senza che nel frat­tempo siamo stati capaci di elaborare criteri che ci permettano di discernere se una azienda vada mes­sa in condizione di conti­nuare la sua attività oppu­re convenga lasciarla anda­re al suo destino. Prenden­dosi carico del solo futuro dei suoi addetti.

La finanza, per quanto egemonizzata da una cul­tura orientata al breve ter­mine, in passato ha sapu­to scommettere sui vinci­tori anche aspettando il giusto. Amazon non ha prodotto profitti nei pri­mi cinque anni, e senza gli gnomi che hanno cre­duto in Google o in Skype non ci saremmo giovati di alcune straordinarie inno­vazioni. Ma sono esempi di buona finanza bilancia­ti da una ricca casistica di segno contrario. Anche la debole ripresa italiana avrebbe bisogno di una finanza d'accompa­gnamento. Prendiamo an­cora una volta il destino dei distretti industriali, quelli che solo qualche an­no fa ci venivano invidiati da mezzo mondo. Quanto c'è da fare nelle Sassuolo e nelle Lumezzane d'Italia per innovare, per introdur­re nuovi strumenti di fi­nanziamento, per cercare soluzioni avanzate come le reti di impresa? Tanto, sicuramente tanto. In quanti ci stanno lavoran­do? In pochi, dannatamen­te in pochi. Ed è in questa contraddizione che la ri­flessione sul caso Safilo aggiunge una nota d'ama­ro. Ci dividiamo quasi quotidianamente tra otti­misti e pessimisti, basta un bollettino dell'Ocse più o meno sbilanciato nell'una o nell'altra dire­zione per accendere il falò delle dichiarazioni, ma non stiamo assolutamen­te costruendo il nostro fu­turo. Purtroppo sembra che non ci interessi.


Dario Di Vico
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« Risposta #29 inserito:: Dicembre 22, 2009, 04:23:13 pm »

Il rilancio della domanda

I mercati e la strada fiscale per aiutare i redditi


Stiamo come sistema-Paese facendo abbastanza per non trovarci spiazzati dal cambiamento di gerarchia dei mercati?
Stiamo aspettando anche noi il nostro Godot. Vuoi perché gran parte del sistema produttivo vive sulle esportazioni vuoi per i vincoli di finanza pubblica che ci hanno impedito significative manovre di stimulus, l'uscita dalla recessione per l'Italia è legata — più che per altre economie—alla ripartenza del commercio internazionale. Guai però a cullarsi nell'illusione di una sorta di automatismo: i nostri tradizionali partner commerciali riprendono a correre e per noi tornano a fiorire come per incanto ordini e commesse.

Purtroppo per l'industria italiana la mappa dell'interscambio globale sta cambiando ancor più velocemente di quanto pensassimo nel pre-crisi. L'editoriale dell'Economist di questa settimana lo sostiene con forza. La domanda nei Paesi ricchi resta debole mentre i Paesi emergenti, come Cina, India e Indonesia non hanno di fatto nemmeno conosciuto "la grande recessione" e ciò apre tutta un'altra serie di contraddizioni. Ma il cambio di scenario visto dall'Italia vede una domanda imporsi sulle altre: stiamo come sistema-Paese facendo abbastanza per non trovarci irrimediabilmente spiazzati dal cambiamento di gerarchia dei mercati? Senza aver nessuna voglia di far polemiche a basso costo la risposta è (purtroppo) no.

Bisogna andare in quei Paesi e occorre farlo sia come sistema sia come imprese, stavolta in forma più o meno associata tra loro. Il mito dell'imprenditore con la valigetta non è al passo con i tempi. Guardiamo, dunque, all'evoluzione della domanda internazionale ma non possiamo dimenticare chi vive — nell'industria e nei servizi—sui consumi interni. Come sostengono le organizzazioni di rappresentanza del commercio e dei servizi, per loro la crisi può rivelarsi molto più lunga e devastante. Scartata anche quest'anno l'idea di detassare le tredicesime resta però sul tappeto la necessità di aumentare, in un tempo che non sia indefinito, il reddito a disposizione delle famiglie.

Il ministro Giulio Tremonti nell' incontro che ha avuto la scorsa settimana con le parti sociali si è espresso in maniera ferocemente critica nei confronti dell'attuale sistema fiscale, a suo giudizio tarato sulla società italiana del Novecento e dunque arrivato al naturale capolinea. Il ministro ha riproposto il libro bianco elaborato nell'ormai lontano '94 e ha anche disposto che venisse ripubblicato sul sito del ministero dell'Economia. Pressoché negli stessi giorni il segretario del principale partito d'opposizione, Pier Luigi Bersani, incontrando le associazioni degli artigiani ha sostenuto l'abolizione degli studi di settore.

Senza voler fare sintesi o somme improprie tra i due pronunciamenti, è abbastanza evidente che — pur con percorsi differenti — governo e opposizione sono giunti a una conclusione simile. Va messa mano al sistema fiscale per renderlo più moderno, più snello e più equo. L'invito di chi queste vicende le osserva dall'esterno ma con una forte senso di preoccupazione circa il futuro del sistema produttivo italiano, la sua competitività e la capacità di imporsi di nuovo sui mercati internazionali, non può che essere uno: mettetevi al lavoro, ciascuno rispettando il proprio ruolo. Perché nel mondo post-crisi un Paese come l'Italia non potrà più permettersi di assomigliare agli scandinavi solo per i vizi (la tassazione alta) e non per le virtù (la qualità dei servizi pubblici).

Dario Di Vico

22 dicembre 2009
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