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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 278340 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Maggio 05, 2008, 10:50:58 pm »

Rubriche » Bussole

Figli di buona famiglia
 

"Giovani di buona famiglia". Così vengono definiti i cinque teppisti che hanno massacrato e ridotto in fin di vita Nicola Tommasoli. Colpevole di non aver voluto "consegnare" loro una sigaretta, dopo regolare intimazione. Giovani ultrà. Ultrà-giovani.

Occasionalmente di estrema destra. Neonazi oppure neofasci. Teste rasate. Un simbolo inquietante, ormai. Al punto da indurmi in tentazione. Io, skin per colpa del tempo che passa; e per eredità genetica. Oggi mi viene voglia di ricorrere alle tecniche tricologiche: un trapianto, una parrucca...

Giovani ultrà di estrema destra. Abituati ad avere uno stadio a disposizione per esibire i loro muscoli, i loro slogan, i loro simboli contro gli altri. I nemici. Gli "altri". Non solo quelli dell'altra parte politica.

Dell'altra parte. Ma "gli altri", in generale. Gli stranieri, i nomadi. Gli ebrei. I deboli. Hanno in spregio le persone "comuni". A cui la violenza non piace. Quelli che la sera, in città, tirano tardi con gli amici. E passeggiano in centro città. Immaginando che possa ancora essere una città. Luogo dove, appunto, passeggi con gli amici. Fumi la sigaretta. Chiacchieri. Luogo di relazioni, insomma. Rete di comunità. Non un agguato politico. Ma un'aggressione "per caso". Chissà: gli aggrediti potevano essere leghisti, magari perfino fascisti. In quel momento erano solo persone comuni. Finite sulla strada di persone extra-ordinarie. Super-uomini in libera uscita.

Giovani di buona famiglia anche quelli che, a Torino, hanno costretto i vigili ripiegare. Dopo averli circondati e aggrediti, qualche sera fa. La notte prima della festa. I vigili impudenti e imprudenti. Pretendevano di multare le auto in sosta dovunque, in Piazza Vittorio Veneto. In pieno centro. Perfino lungo le rotaie del tram. Tanto la notte non circola. Pretendevano, i vigili. Di interrompere la festa infinita. La "movida", come la chiamano adesso. La notte bianca che si celebra ogni fine settimana.

Pretendevano di ostacolare il libero accesso alle auto e ai suv che, ovviamente, sono padroni della notte. (In realtà, anche del giorno). Ovvia la rivolta di questi giovani di buona famiglia contro tanta sfacciata arroganza. Così, a centinaia, hanno costretto i vigili a fuggire. Non senza aver inferto loro qualche colpo, qualche botta. Così, a futura memoria. Certo, in questo caso non li hanno massacrati. Non erano neonazi e neofasci. (Magari, avessero incontrato un nazi che chiedeva loro una sigaretta, sarebbe finita male anche per loro...). Solo ragazzi normali, di "buona famiglia". Si sono limitati ad affermare la legge del controllo sul territorio. Filmando la scena, regolarmente diffusa su "You tube". A scopo esemplare.

Questi "figli di" buona famiglia, tecnologicamente attrezzati ed esperti. Per fortuna: sono nati in tempi molto diversi e lontani da quel maledetto 1968, di cui si celebrano i nefasti, a quarant'anni di distanza. L'eredità di illusioni mancate e di violenze mantenute.

Questi giovani di buona famiglia, invece, non guardano lontano. Non cercano figure e utopie di altri mondi lontani. Il comunismo, Mao, Che Guevara... Semmai - alcuni di essi - guardano più indietro. Riscrivono storie da cui isolano ciò che interessa loro. Il mito della forza. Il seme della violenza. Che coltivano, quotidianamente, esercitando l'odio contro gli altri. Poveracci, accattoni, zingari e stranieri. Clandestini e non.

Perché non conta distinguere, ma categorizzare e colpire "l'altro". Lo stesso che fa paura alla gente comune. Quella che mai si sognerebbe di bruciare un campo nomadi, tantomeno di ammazzare di botte un ragazzo perché non ti dà una sigaretta. Potrebbe essere loro figlio, l'aggredito. E gli aggressori potrebbero essere loro figli.

Giovani di buona famiglia. Quelli abituati a sfogarsi il sabato sera, in discoteca, o nei bar del centro. Nelle piazze e nelle strade. Molti bicchieri e qualche pasticca per tenersi su di giri. Per ammazzare il tempo insieme alla noia. E l'angoscia che ti prende, in questa vita normale, in questa società normale, in questa città normale. Dove i divieti sono comunisti e le regole imposizioni inaccettabili. Dove dirsi "buoni" è un'ammissione di colpa. E la debolezza un vizio da punire.

Giovani di buona famiglia. Genitori che non deprecano questa società senza autorità, senza divieti e senza punizioni. E poi si indignano: di fronte ai divieti e alle punizioni. Alle autorità autoritarie. Quando colpiscono loro e i loro figli. Sempre gli ultimi a sapere. Cadono dalle nuvole, se scoprono cosa combinano, quei loro figli, a cui hanno dato tutto. Senza chiedere nulla. Senza sapere nulla di loro.

Questi genitori di buona famiglia. Ce l'hanno contro questa scuola senza voti. Contro i professori che non si fanno rispettare. Contro i maestri che non sanno comandare. Non sanno punire. Questi genitori. Non capiscono e non accettano: i professori che impongono rispetto, comandano e puniscono. E magari bocciano. I loro figli.

Giovani di buona famiglia. Figli di buona famiglia. Figli di.

(5 maggio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #46 inserito:: Maggio 21, 2008, 05:52:22 pm »

POLITICA MAPPE

La geografia politica di Berlusconi

di ILVO DIAMANTI


BASTA guardare la mappa elettorale del centrodestra per capire perché abbia vinto queste elezioni. E perché sarà difficile, in futuro, batterlo di nuovo. A differenza della coalizione a sostegno di Veltroni, quella guidata da Berlusconi ha una geografia "nazionale". La coalizione di centrosinistra, imperniata sul Pd, riproduce, invece, come sempre, la mappa della sinistra. In particolare: del Pci e dei suoi eredi. Pds, Ds. Il Pd, fino ad ora, non è riuscito ad allargare altrove le radici. E ha intercettato solo una parte degli elettori della SA (intorno al 30%, secondo i flussi elettorali calcolati dall'Istituto Cattaneo con il modello di Goodman, in alcune città del Nord).

Il centrodestra, invece, è ben distribuito. Se consideriamo anche l'Udc e la Destra (in altri termini: i confini della CdL), raggiunge il 59% nel Nord e nel Sud, scende al 53% nel Centro-Sud (Lazio, Abruzzo e Molise), mentre è più debole nelle "regioni rosse". Dove, comunque, totalizza il 43%. Il risultato migliore dal 1996 ad oggi. Simmetricamente, il centrosinistra è forte soprattutto nelle regioni rosse. (55%), ma scende notevolmente (al 39%) sia nel Nord che nel Sud. Nelle zone rosse, peraltro, il centrosinistra, in queste elezioni, consegue il risultato peggiore dopo il 1994.

ANALISI E CARTOGRAFIA DEL VOTO

Tuttavia, il centrodestra non ha un profilo territoriale stabile, nel tempo. Né, al suo interno, appare omogeneo. (Lo hanno messo in luce numerosi studi presentati al convegno nazionale della SISE, che si è svolto nei giorni scorsi a Firenze). La base elettorale della Lega e del PdL, infatti, propone un riassunto fedele del consenso ai partiti di governo durante la prima Repubblica. La Lega, in particolare, ricalca i confini della Democrazia Cristiana, nei primi decenni della Repubblica. Se ci concentriamo sull'elezione del 1948, un vero spartiacque per la nostra democrazia e il nostro sistema politico, la coincidenza appare impressionante. Fra le 13 province in cui la Lega ottiene le percentuali di voto più elevate, nel 2008, 10 sono le stesse in cui la DC, nel 1948, consegue le performance migliori.

Certo: la Lega è molto lontana dalla Dc delle origini. Tanto più da quella dei decenni successivi. Tuttavia, ne eredita il retroterra. Le province periferiche del Nord, costellate di piccoli paesi e di piccole aziende artigiane. Che, in seguito, si svilupperanno, in misura violenta, facendo di quest'area una delle più industrializzate e urbanizzate d'Europa. La Lega nasce lì. E lì si consolida. Alla mediazione con lo Stato, espressa dalla Dc, sostituisce la spinta autonomista contro Roma e contro Torino.

Contro la metropoli dell'economia di grande impresa. Contro la capitale della politica e dei partiti nazionali. La Lega contribuisce al crollo della prima Repubblica, aggredendo, alla radice, la Dc. Che rimpiazza, sul suo stesso territorio. In concorrenza, dopo il 1994, con Forza Italia e, da qualche mese, con il PdL. Tuttavia, questa Italia era e resta "leghista". Da "zona bianca" a "verde". Senza soluzione di continuità. La geografia del PdL, invece, è simmetrica. Centromeridionale. Con alcune roccaforti. Le isole, e soprattutto la Sicilia; inoltre, le province tirreniche del Centrosud, da sempre zone di forza di FI.

Inoltre, la Puglia, in cui è saldamente insediata AN. Un impianto territoriale che evoca i partiti di governo della prima Repubblica negli ultimi vent'anni. In particolare, dopo la prima metà degli anni Settanta. Non è un caso che la mappa del PdL ricalchi, in molti punti, quella dei partiti di governo nel 1992 (Dc e Psi, con il contributo del MSI). La meridionalizzazione del voto del PdL, come quella dei partiti di governo nel 1992, al tramonto della prima Repubblica, dipende in gran parte dall'affermazione della Lega. Che nel 1992 ottiene 3 milioni e 400mila voti, circa l'8,6%. Cioè: più di quel che ha conseguito alle elezioni politiche di un mese fa. A differenza del 1992, ma anche del 1996, in questa occasione la Lega si è presentata insieme ai partiti che, in precedenza, erano suoi avversari.

Tuttavia, il voto leghista resta un voto "autonomo". Alternativo al centrosinistra. Ma diffidente verso il PdL. Il voto dell'alleanza guidata da Berlusconi è completato dal MpA di Lombardo. Definito, da alcuni, la "Lega Lombardo", evocando l'intesa con la Lega Nord, alle precedenti elezioni. Ma anche una certa analogia con la biografia della Lega. Perché intercetta una parte del voto della Dc di un tempo (e, più di recente, dell'UdC). Soprattutto, ma non solo, nella Sicilia occidentale. Una sorta di Lega Sud, insomma, il cui rapporto con lo Stato centrale è altrettanto rivendicativo di quello della Lega. Anche se contiene e propone domande alternative.

Viste insieme, le zone politiche presidiate dai partiti dell'alleanza guidata da Berlusconi delineano una geografia nazionale, forte, soprattutto nel Nord, nel Sud e nelle isole. Con qualche segnale di insediamento anche nelle regioni rosse di centro. In prospettiva storica, evoca la frattura anticomunista, che ha condizionato il sistema politico ed elettorale della prima Repubblica. Il muro di Berlino, cui si è sovrapposto, in seguito, il "muro di Arcore". Questo radicamento di lunga durata suggerisce un rapporto con il territorio molto stretto. Nel Nord, grazie alla presenza della Lega, in passato "partito dei piccoli produttori", oggi "partito della sicurezza". Una tema attraverso cui ha rafforzato l'identità locale. In senso difensivo e chiuso.

Rispondendo, però, a un diffuso spaesamento sociale. La Lega, inoltre, governa in molti comuni. Le stesse "ronde padane" funzionano come una base di "militanti in divisa". Nel Mezzogiorno, PdL e MpA hanno utilizzato l'antica rete di relazioni particolaristiche, talora clientelari. Dopo la crisi dei partiti tradizionali, sono divenute più importanti. E più "libere". Non a caso, negli ultimi anni, è cresciuta la rilevanza del "voto personale", come ha osservato di recente Mauro Calise. Persone e clientele senza organizzazione. Ma ben radicate sul territorio.

Invece, il rapporto del Pd con la società e con il territorio è molto più incerto. Un problema che, come ha sottolineato Rossana Rossanda, affligge anche la sinistra comunista. Non è un caso che, in questa fase, il centrosinistra resista soprattutto nelle "zone rosse", dove ha ereditato le radici sociali e associative, ma anche la cultura politica del passato. Mentre il "nuovo" modello organizzativo del Pd non è ancora chiaro. Le "primarie", come metodo di mobilitazione della società, sono state utilizzate in modo intermittente. Per questo, anche a livello locale, i nuovi quadri faticano ad emergere. Frenati, perlopiù, dai gruppi dirigenti del passato: popolari e diessini; spesso, ex democristiani ed ex comunisti. Quanto al centrodestra, alla coalizione guidata da Berlusconi, le difficoltà che potrebbe incontrare sono implicite nel suo stesso modello di radicamento.

La prima è nella sua struttura territoriale. Il Nord presidiato dalla Lega, mentre il PdL non è mai stato tanto squilibrato a Sud. Dove risiede il 37% dei suoi elettori (il 14% nel Centrosud; il 34% nel Nord senza l'Emilia Romagna). Lega Nord, da un lato, PdL e Lega Sud (MpA), dall'altro, esprimono, però, domande diverse e contrastanti. Federalismo e libertà privata, gli uni. Protezione pubblica e intervento dello Stato, gli altri. In una fase di stagnazione economica e declino delle risorse, potrebbero entrare in conflitto. Come e più che in passato.

La seconda difficoltà sta nella sostanziale differenza rispetto al passato. Agli "antenati". Quando la Dc e i suoi alleati erano cementati da interessi, ma anche ideologie, valori, organizzazione. La coalizione guidata da Berlusconi, invece, oggi ha un solo, insostituibile, punto di equilibrio. Una sola vera colla. Berlusconi. Il quale è, notoriamente, eterno e onnipresente. Ma i miracoli non sempre gli riescono.

(19 maggio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #47 inserito:: Giugno 01, 2008, 05:12:59 pm »

POLITICA MAPPE

Pd e la sindrome del partito-ombra

di ILVO DIAMANTI



NESSUNO avrebbe immaginato, un anno fa, un sistema partitico semplificato come quello uscito dalle recenti elezioni.
Quasi bipartitico, visto che le due forze politiche principali, PdL e Pd, insieme, hanno superato il 70% dei voti (validi). Tuttavia, non è facile prevedere che ne sarà del bipartitismo italiano. Il cui destino dipende dai due partiti che lo hanno prodotto e dai leader che lo hanno guidato. Da PdL e Pd. Da Berlusconi e Veltroni. Anzi, soprattutto da Veltroni e dal Pd. Perché è difficile dubitare della durata di Berlusconi. (E' eterno). Anche se il suo Popolo della Libertà, per ora, resta un'intesa elettorale. Privo di legittimazione da parte degli organismi di Fi e An.

Tuttavia, Fini e soprattutto Berlusconi agiscono come leader di partiti personali, che operano in base a scelte personali, espresse dalle persone che li hanno concepiti, inventati, trasformati e guidati. Berlusconi, il PdL e i suoi alleati, inoltre, hanno vinto le elezioni. Governano. Buoni motivi per "resistere" a lungo.

Diverso e più serio, invece, il discorso per il Pd e per Walter Veltroni. Usciti sconfitti, seppure in modo onorevole. Dopo il voto, affrontano una fase incerta. Comprensibile, per un partito nuovo, guidato da un leader nuovo, che sperimenta un modo nuovo di fare opposizione. Sospettato, da alcuni amici e alleati, di eccessiva disponibilità alla mediazione. Con un leader trattato, fino a ieri, come un nemico. Anzi: il Nemico. Il futuro del bipartitismo (relativo, vista la presenza di altri soggetti politici, come IdV e Lega) dipende, quindi, in gran parte, dalla capacità di Veltroni e del Pd di consolidarsi. Senza perdere la fiducia dei propri elettori, ma allargando il perimetro tradizionale del consenso, che rischia di rendere il Pd, come alcuni malignano, l'ulteriore variante del postcomunismo. Il Pds senza la esse. Dipende, al tempo stesso, dalla capacità di Veltroni e del Pd di chiarire il reciproco rapporto. Fra leader e partito. Di decidere, cioè, cosa sarà il Pd da grande.

A favore di Veltroni, tre indicazioni, che ricaviamo da un sondaggio post-elettorale condotto dal LaPolis (Laboratorio di studi Politici e sociali) dell'Università di Urbino nelle ultime due settimane.

1. C'è una domanda generalizzata di dialogo e collaborazione fra maggioranza e opposizione sui temi topici della riforma delle istituzioni (90%). Questo orientamento non mostra particolari differenze fra schieramenti e partiti. E, nel Pd, coinvolge quasi la totalità degli elettori (94%). Ciò suggerisce che l'attuale politica "costruttiva" di Veltroni disponga di un largo sostegno, anzitutto fra i suoi elettori.

2. Forse anche per questo motivo, Veltroni gode di un consenso trasversale, che supera i confini del Partito Democratico e perfino del centrosinistra. Veltroni, infatti, è il leader maggiormente apprezzato per la sua condotta degli ultimi mesi. Approvata da quasi due terzi degli elettori, nell'insieme. In particolare: dal 93% dei Democratici e dall'80% di quelli dell'IdV-Di Pietro. Ma, soprattutto, da oltre metà degli elettori del PdL e dal 70% di quelli dell'UdC. Per spiegare la simpatia del centrodestra, si potrebbe malignare che verso gli sconfitti si è disposti ad essere indulgenti e generosi. Tuttavia, Prodi, a centrodestra, aveva sempre suscitato diffidenza. Anche quando, alla fine della breve legislatura, appariva politicamente "sfinito". Peraltro, gran parte degli elettori, realisticamente, ritiene che, dopo il voto, Veltroni si sia indebolito. Non solo nei confronti dei leader vincitori. Anche del suo alleato, Antonio Di Pietro. Anche se sconfitto, quindi, Veltroni è apprezzato. Perché considerato principale artefice della semplificazione del sistema partitico. Il leader che, con le sue scelte, ha costretto Berlusconi a "inventare" il PdL, riunificando FI e AN. E a presentarsi, a sua volta, (quasi) da solo.

La fiducia nei confronti di Veltroni, inoltre, rispecchia il "rendimento mediatico" del leader Pd. La sua capacità di affrontare la campagna elettorale e, più in generale, la politica nell'era del marketing e della comunicazione. Veltroni, dunque, piace, come leader. Ai suoi elettori ma anche a quelli di Berlusconi. Da cui ha appreso, in modo egregio, la lezione. Lo stile. Fino a superare il maestro.

3. La terza osservazione ricavata dall'indagine del LaPolis riguarda, direttamente, il Partito Democratico. La cui esperienza è guardata con favore da nove elettori su dieci, nel Pd. Al contrario, solo una frazione residuale (il 4%) pensa che occorra "resettare" il sistema e ripartire da capo. Rilanciando i partiti che lo hanno fondato. DS e Margherita. Tuttavia, questo consenso generalizzato riassume orientamenti distinti e distanti. Infatti, metà dei favorevoli al Pd ammette che, nel costruirlo, siano stati commessi errori significativi. Insomma, ne sono insoddisfatti. Il che sottolinea un certo distacco: fra la volontà - condivisa - di proseguire l'esperienza del Pd; e l'insoddisfazione - diffusa - per il modo in cui è stata, sin qui, realizzata. Questo contrasto, come quello nei confronti dell'immagine di Veltroni - universalmente apprezzata - non deve sorprendere troppo. Riassume il dilemma, irrisolto, su cosa farà, da grande, il Pd. Più in particolare, riflette l'ambiguità sul rapporto fra leadership e il partito. Che riguarda il sistema politico e la democrazia in Italia. Ma, nel Pd, appare più evidente.

In effetti, la campagna elettorale si è svolta seguendo un modello di tipo presidenzialista. Berlusconi contro Veltroni. Come fossimo negli USA oppure in Francia. Una tendenza che Veltroni ha interpretato al meglio. Per qualità personali, ma anche perché ha saputo intercettare la domanda - estesa e trasversale - di semplificare il sistema partitico. Fino a ridurlo a due forze politiche riassunte da due leader. Perché, inoltre, ha cercato di superare la lunga stagione della frattura tra berlusconismo e antiberlusconismo. Passando dalla contrapposizione all'opposizione. Abbattendo il muro di Arcore, eretto dove prima c'era quello di Berlino.

Tuttavia, passate le elezioni, il Pd appare un progetto incerto. Un partito incompiuto. Un partito-ombra all'ombra del governo-ombra. E di un presidente/premier-ombra. Mentre il dibattito politico si svolge, con accenti spesso critici, fra i "leader di una volta". D'Alema, Marini, Parisi, oltre allo stesso Veltroni. Di ciò che avviene in periferia, al centro giungono echi molto fiochi. Di ciò che avviene al centro, in periferia si sa poco. Al centro come in periferia, i "nuovi" dirigenti e militanti, esterni alle tradizionali cerchie di partito, stentano a farsi largo.

Insomma, il Pd oggi esprime un'ambiguità di fondo. E' un partito quasi "presidenziale" mentre il nostro sistema istituzionale non è presidenziale, né semi-presidenziale. Ma parlamentare E non assegna poteri particolari al premier. Inoltre, è un partito "debole" dal punto di vista organizzativo, dell'identità, del rapporto con la società e il territorio. Ma il nostro sistema elettorale è ultraproporzionale e attribuisce ai partiti (meglio: alle oligarchie di partito) un potere elevatissimo. Questa situazione è comune al PdL. Che, tuttavia, ne soffre assai di meno. Per motivi "biografici", visto che Berlusconi l'ha generato e ri-generato, a propria immagine e somiglianza. Per motivi di cultura e tradizione politica: per l'attrazione suscitata, a centrodestra, dal mito dell'uomo forte. A centrosinistra è diverso. Perché Veltroni non è Berlusconi e il Pd non è il PdL. Il PdL senza Berlusconi: non esisterebbe. Veltroni senza il Pd: non può durare.

Ma il Pd non c'è ancora. E il nostro bipartitismo - anche per questo - zoppica.

(1 giugno 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #48 inserito:: Giugno 23, 2008, 10:41:10 am »

POLITICA

MAPPE / Il voto complica il rapporto Chiesa-politica

Sono i cattolici "tiepidi" lo zoccolo duro del Pdl

Il popolo cattolico disperso in politica

di ILVO DIAMANTI


DOPO il voto, le polemiche intorno al rapporto fra Chiesa e politica sembrano meno accese. La netta vittoria del Centrodestra, anzitutto, ha espunto dall'agenda parlamentare i temi etici, che tante polemiche avevano sollevato, soprattutto nel Centrosinistra. Per questo, le materie che hanno ostacolato il breve percorso del governo Prodi (coppie di fatto, fecondazione assistita, eutanasia) probabilmente verranno accantonate. Mentre difficilmente il Centrodestra rivedrà la 194, che regola l'interruzione della gravidanza, come vorrebbero le gerarchie ecclesiastiche. D'altronde, il Pdl ha lasciato solo Giuliano Ferrara a combattere la sua battaglia per la moratoria contro l'aborto. È probabile che, sull'argomento, prevalga la rimozione. Come, in fondo, è avvenuto in campagna elettorale, per tacita, reciproca intesa fra i due maggiori candidati premier.

A Berlusconi, d'altronde, non piace aprire grandi e laceranti discussioni fra gli elettori; i suoi, in particolare. Preferisce dialogare con la gerarchia in modo diretto. A tu per tu. Rassicurando il Pontefice sul sostegno alle famiglie e alle scuole cattoliche. Oppure invitando un vescovo a spendersi affinché la Chiesa permetta ai divorziati di "fare la comunione" (quindi anche, ma non solo, a lui: per evitare il sospetto di una indulgenza "ad personam").

Le posizioni della Chiesa, inoltre, in questa fase non favoriscono una specifica parte politica. Sui temi bioetici e sulla famiglia la gerarchia ecclesiastica è in contrasto con il Centrosinistra. Ma avviene il contrario in materia di sicurezza e di immigrazione. Così, la "questione cattolica", in Italia, non sembra più al centro del dibattito politico. Anche la polemica di Famiglia Cristiana sul ruolo dei cattolici nel PD avrebbe avuto un impatto mediatico assai maggiore qualche mese fa, quando i Democratici erano al governo. Mentre ora sono la minoranza della minoranza.

Tuttavia, è lo stesso risultato elettorale ad aver complicato il rapporto tra Chiesa e politica. Dopo la fine della Dc - il partito dei cattolici - la Chiesa ha scelto di agire in proprio sui temi di maggiore interesse. La gerarchia è intervenuta in modo diretto, insieme a gruppi, circoli e comitati del mondo cattolico. Ha investito con maggiore decisione sulla comunicazione e sui media. Dai quotidiani (L'Osservatore Romano, l'Avvenire, Famiglia Cristiana) alle emittenti radiotelevisive. Sostenuta da intellettuali e media "non" cattolici. Anzi: laici; atei (più o meno) devoti. Raccolti intorno al Foglio di Giuliano Ferrara.

Una "Chiesa extraparlamentare", l'ha definita Sandro Magister in un lucido saggio di alcuni anni fa (pubblicato dall'Ancora del Mediterraneo). Capace di promuovere massicce campagne di opinione. Disposta a "scendere in campo" direttamente, come ha fatto in occasione del referendum sulla procreazione assistita. Questo modello è stato ispirato e guidato dal cardinale Camillo Ruini. Che ieri si è congedato dal ruolo di "vicario" di Roma, dopo quasi 18 anni. Esortando i vescovi, nel commiato, a non essere "sudditi". Di certo non lo sono stati negli ultimi 20 anni. Semmai il contrario.

Tuttavia, questa linea oggi appare in discussione. Per funzionare, esige una Chiesa in grado di orientare, almeno in parte, le scelte elettorali dei cattolici. In modo da premiare oppure punire le forze politiche, in base alla coerenza con le posizioni della Chiesa. Capace, ancora, di influire sulle scelte legislative, attraverso parlamentari "fedeli". Come un "gruppo di pressione" (non diremo "lobby", per non generare equivoci) in grado di esercitare una "pressione" efficace. Ciò non è avvenuto, in questa fase.

Giuliano Ferrara (ancora lui) ha denunciato, dopo le recenti elezioni, l'indebolirsi della presenza dei cattolici e degli esponenti vicini alla Chiesa: nell'attuale governo e nei posti-chiave dei principali partiti. Conseguenza implicita della scelta della Chiesa di non scegliere. Di non schierarsi apertamente. E, semmai, di appoggiare l'Udc di Casini e di Pezzotta. Coltivando una tentazione neodemocristiana. Una critica esplicita alla strategia "extraparlamentare" di Ruini.

Le recenti elezioni, d'altra parte, sottolineano come, dopo la Dc, sia finita anche l'era dell'unità politica dei cattolici. In modo, forse, definitivo. Lo mostrano i dati dell'indagine condotta dal Laboratorio di Studi Politici dell'Università di Urbino (LaPolis) nelle settimane successive al voto (campione nazionale di oltre 3300 casi). I cattolici confermano, come nel recente passato, di essere orientati prevalentemente a centrodestra. Il 34% di coloro che frequentano assiduamente la messa domenicale ha, infatti, votato per Veltroni (il 30% per il PD); il 48% per Berlusconi (il 41% PdL).

Tuttavia, la differenza rispetto al totale dei votanti non è eccessivo. Fra i cattolici praticanti, infatti, il Pd ottiene 3 punti e mezzo in meno rispetto a quanto avviene fra i votanti nell'insieme. Il contrario del PdL. Tuttavia, conviene rammentare che quanti vanno regolarmente a Messa (secondo l'Osservatorio socio-religioso triveneto, diretto da Gian Antonio Battistella e Alessandro Castegnaro) costituiscono una quota di poco inferiore al 30% della popolazione. Per cui, rispetto al risultato ottenuto dal Pd e dal PdL fra i votanti nel complesso, la differenza espressa dal voto dei cattolici praticanti si riduce a circa l'1%
L'Udc, da parte sua, ha effettivamente intercettato una quota di cattolici quasi doppia rispetto al proprio peso elettorale. Il 10% dei cattolici praticanti assidui. Che, però, sul totale dei voti validi, significa non più del 3%. Poco per garantire ai cattolici peso e rappresentanza. Anche perché, comunque, il 90% dei cattolici ha votato diversamente. Dati molto simili emergono da altre ricerche (Itanes, nella parte curata da Luigi Ceccarini; dati Ipsos, nelle analizzati da Paolo Segatti e Cristiano Vezzoni).

Anche per questo riteniamo che i progetti neocentristi volti ad allargare la base elettorale dell'Udc non produrranno effetti significativi. Visto che la presenza radicale nel Pd non pare averne indebolito la capacità di attrarre il voto cattolico. Peraltro, nella base elettorale dei principali partiti (Udc esclusa), i cattolici praticanti costituiscono una porzione significativa, ma minoritaria. E, sui temi sociali ed etici, esprimono posizioni maggiormente vicine alla parte politica di riferimento piuttosto che alla Chiesa.

Semmai, la preferenza per il Centrodestra appare molto più evidente fra i cattolici che esercitano la pratica religiosa in modo saltuario. Una componente, peraltro, ampia degli elettori (circa un quarto del totale), poco sensibile agli insegnamenti ecclesiastici. Animati da grande fiducia nella Chiesa, questi cattolici interpretano e praticano una religione secolarizzata e privatizzata. Più simile al "senso comune" che a una professione di fede esercitata con coerenza.

L'influenza della Chiesa, per essere davvero influente, deve rivolgersi in particolare a questo popolo di "fedeli tiepidi". Peraltro, più tradizionalisti e orientati a destra, sui temi etici ma anche sociali. Tuttavia, la "missione" perseguita da Benedetto XVI non dimostra indulgenza verso il relativismo religioso ed etico. Al contrario, mira a recintare il "campo religioso", tracciando confini chiari fra la verità dei cattolici e quella degli altri. Per questo potrebbe avvenire che la Chiesa abbandoni la via extraparlamentare. Che la gerarchia cattolica concentri la propria pressione (e la propria "missione") sulla politica e i politici. Cattolici e non. Ma, ancor prima, sugli stessi cattolici. Soprattutto, i più "relativi". Per rafforzare il potere di rappresentanza della Chiesa. E, forse prima ancora, per "educarli". Per trasformare la loro fede da relativa in assoluta.

(23 giugno 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #49 inserito:: Giugno 29, 2008, 06:37:02 pm »

POLITICA MAPPE

Quei singolari dolori del giovane Partito democratico

di ILVO DIAMANTI


È DURA, nell'era di Berlusconi III, fare opposizione. Meglio: l'Opposizione. Tanto più Responsabile. Lo sta verificando - con un certo disagio - il Pd di Walter Veltroni, dopo la fine del dialogo. Ne soffrono gli stessi elettori di centrosinistra. Stanchi di battaglie.

Ma, comunque, indisponibili a scambiare collaborazione per rassegnazione. Tanto meno per resa. Nonostante l'esito delle elezioni recenti, però, non tutto gira per il meglio, nella maggioranza di centrodestra. Lo stesso governo ha i suoi problemi. Che si riflettono in un certo raffreddamento dell'opinione pubblica nei suoi riguardi.

D'altronde, non è facile governare in tempi di "stagnazione" economica. Anche se, in campagna elettorale, il premier e il plenipotenziario all'economia, Giulio Tremonti, non hanno promesso miracoli. È difficile immaginare che la frustrazione dei ceti popolari e delle classi medie in declino (dal punto di vista del reddito e della posizione sociale) possa restare, a lungo, sottotraccia. Quando il richiamo ai capri espiatori più consumati degli ultimi vent'anni (Prodi e Visco) smetterà di funzionare, l'insoddisfazione riemergerà. Né crediamo che la Robin-tax possa tacitare a lungo il risentimento popolare. Perché dubitiamo che le banche e i petrolieri - i "ricchi" derubati da Robin Threemountains a favore dei più poveri - non riescano a riprendersi il bentolto.

Prontamente e direttamente: alle pompe o agli sportelli. Così, è difficile pensare che le distanze fra culture e interessi della coalizione non producano, prima o poi (anzi: più prima che poi), tensioni.
Ad esempio, sul tema dell'autonomia, di cui è paladina la Lega. Come nascondere il contrasto implicito nell'abolizione dell'Ici? Che è, sicuramente, un provvedimento popolare, perché riduce la pressione fiscale. Ma è quanto di più aggressivo nei confronti dei governi e delle autonomie locali, perché interviene in modo centralista su una materia di competenza dei Comuni. Ne ridimensiona le risorse e, prima ancora, ne umilia l'autorità. Proprio mentre si discute di federalismo fiscale.

Ancora, come non cogliere, nel pacchetto sulla sicurezza, il medesimo contrasto fra centralismo e federalismo? Visto che la Lega ha mobilitato le sue "ronde padane", in nome dell'autodifesa comunitaria. Mentre, a sostegno dell'ordine in ambito locale, il governo - e in particolare la famiglia AeNnista, rappresentata dal ministro della Difesa La Russa - ha stabilito l'intervento dell'esercito, nientemeno. Segno del potere dello Stato, monopolista legittimo dell'uso della forza a fini speciali.

Inoltre: difficile per i paladini dell'antipolitica - ancora la Lega, ma non solo - accettare la tutela della privacy a' la carte. Vietare la pubblicazione delle intercettazioni e delle denunce dei redditi e, invece, pubblicizzare le consulenze degli enti pubblici e gli stipendi dei dipendenti statali. Significa: la privacy garantita alla casta, ma non ai "dipendenti comuni".
Poi: il contrasto latente, compreso nella vicenda dei rifiuti di Napoli e, in generale, nel sostegno al Mezzogiorno. Sgradito all'opinione pubblica del Nord. Che ha tributato un plebiscito alla Lega. Esattamente come nel Sud è avvenuto al Pdl e al Mpa, la Lega Sud.
Ma, nella maggioranza, restano aperti anche problemi di ordine politico. Soprattutto nel partito maggiore, il Pdl. Che chiamare "partito" è, in effetti, un azzardo. Fin qui, infatti, non risulta che FI e AN abbiano celebrato un congresso di scioglimento e di riunificazione. E dubitiamo seriamente che ciò possa effettivamente avvenire senza conseguenze. Vista la ben diversa consistenza organizzativa e ideologica dei soci fondatori.

Infine e anzitutto: non riusciamo a credere che un'area segmentata da identità tanto distinte e forti, come il centrodestra, possa accettare, di nuovo, questa rappresentanza monopersonale e monocratica. Candidati alla successione, da Tremonti a Fini; leader dall'orgoglio irriducibile, come Umberto Bossi: a far da coro all'ennesimo monologo. Recitato da lui. Pardon: Lui. Silvio I, II e anche III. Impegnato a scrivere l'agenda politica e di governo. In base alle proprie urgenze e ai propri crucci. Quanto fondati e giustificati, non importa. Quel che conta è che oggi immigrazione, sicurezza, Robin-tax e Ici sono postille a un programma che ha un solo argomento, una sola priorità: la questione giudiziaria, che tiene al centro i processi ancora aperti contro Berlusconi. In seconda battuta: le televisioni. Con l'esigenza di salvaguardare l'intera piattaforma di Mediaset da ogni minaccia che giunga dal diritto comunitario, oltre che nazionale. Il centrodestra, così, rischia di ridursi all'ennesima versione del Partito Personale di Berlusconi. Il seguito di FI, allargato, per inclusione, ad altre correnti, più o meno autonome: An, la Lega, Mpa. Difficile che tutto ciò possa durare a lungo senza strappi. Anche se queste tensioni, al momento, risultano poco evidenti agli elettori.

Tuttavia, è indubbio che questa maggioranza e questo governo stiano fornendo ragioni e materie intorno a cui fare opposizione. Per questo appaiono singolari i dolori del giovane Pd, questo partito appena nato, dopo una lunga gestazione. Ma ancora alla ricerca di una missione; e, nel frattempo, di una "via all'Opposizione". Forse perché frenato dall'opzione del Dialogo, utilizzata, in campagna elettorale, per segnare la rottura rispetto al passato. Per spezzare il filo con l'eredità ingombrante dell'Unione di Prodi. Tuttavia, il dialogo è possibile quando esistono un vocabolario comune, regole e convenzioni condivise. Ma se la battaglia personale del premier contro i "giudici rivoluzionari" crea disagio nel centrodestra, figurarsi nel centrosinistra. Eppure è palese come oggi Berlusconi continui a scrivere l'agenda politica del Paese. Della sua maggioranza, ma anche dell'opposizione. Tanto da aver trasferito la sua "vera" opposizione fuori dal Parlamento e perfino dalla politica. L'ha sostituita con i magistrati. Con quelle istituzioni non elettive che non accettano il voto popolare. (Il presidente della Repubblica, per esempio). Ma pretendono di limitarne il potere. Non è casuale la crescita dei consensi all'Idv. A sua volta un partito personale. La LDP: Lista Di Pietro. Presunta e pretesa rappresentazione dei magistrati. In quanto tale, anch'essa icona del (l'anti) berlusconismo.
In Parlamento, d'altronde, i numeri mettono la maggioranza al riparo da ogni possibile rischio. Mentre il percorso del Pd ci sembra incerto. Il "partito" appare in difficoltà nella società e sul territorio. Dove i volontari e i sostenitori appassionati (sono ancora tanti) assistono a dibattiti che li appassionano poco: sulla questione cattolica, sulla collocazione europea (con il Pse o con chi?). Disorientati (e forse irritati) da un dibattito politico esile, ma crudo. Attraversato da polemiche di vertice e divisioni correntizie. Fra modello personale (Veltroni), post-socialista (D'Alema) e unionista (Parisi).

Il Pd: per comunicare la rottura del dialogo - agli avversari e agli amici - minaccia manifestazioni di piazza. Dopo le ferie. Meglio sarebbe, forse, dedicarsi alla costruzione del partito: come rappresentanza, organizzazione e identità. Per il bene dei suoi elettori (delusi, non rassegnati); e per il bene della democrazia - perché non c'è democrazia senza opposizione "politica". Il Pd dialoghi con la società e con i suoi elettori, prima che con il Cavaliere. Tenti di spiegare, con chiarezza: chi è, cosa vuole, quali valori e quali interessi esprime. Quale identità lo sostenga. Per dare senso alla traversata nel deserto, che i suoi elettori sono disposti ad affrontare. (Ne hanno passate tante, nel corso degli anni). Ma a condizione di conoscere cosa c'è "oltre". Al di qua e al di là di Berlusconi.

(29 giugno 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #50 inserito:: Luglio 06, 2008, 09:39:57 pm »

POLITICA - MAPPE

Il Cavaliere scende dal 61,4% al 46,4%, ma il leader Pd fa anche peggio e cade dal 65% al 40,7%. Prodi, due anni fa, era al 59%

Il Paese in piena sfiducia

Crollano Berlusconi e Veltroni

Largo dissenso sul carattere "ad personam" delle iniziative in tema di giustizia

I partiti: fermo il Pdl, cala il Pd. Crescono Idv, Udc e Lega

 
di ILVO DIAMANTI


Tre mesi dopo le elezioni il Paese è tornato alla normalità triste degli ultimi anni. Sprofondato nella sfiducia. Berlusconi non ha fatto miracoli, neanche stavolta. D'altronde, a differenza del passato, in campagna elettorale non li aveva promessi. Né, probabilmente, gli elettori gli avrebbero creduto.

I DATI COMPLETI SU "ATLANTE POLITICO"

Gli italiani non hanno votato per lui, il Pdl e la Lega sulla "fiducia". Ma per "sfiducia" nei suoi avversari. Nell'Unione che aveva governato, faticosamente, per neppure due anni. Tre mesi dopo il voto la nebbia è ripiombata e ha avvolto tutto e tutti. Veltroni e il Pd, che nelle stime elettorali scivola indietro. Ma anche Berlusconi e il governo. Verso il quale esprime fiducia il 44% degli elettori. Quindici punti in meno (ripetiamo: 15) rispetto al gradimento ottenuto dal deprecato governo Prodi esattamente due anni fa. Tre mesi dopo il voto, come oggi. Certo, nel luglio 2006 Prodi aveva "monetizzato" alcuni importanti successi, politici e non: a) il referendum che aveva bocciato le riforme istituzionali volute dalla precedente maggioranza di centrodestra; b) la soddisfazione suscitata dal decreto Bersani sulle liberalizzazioni; c) infine, la vittoria della nazionale italiana ai mondiali di calcio in Germania. Un patrimonio di fiducia che il governo Prodi avrebbe dissipato in fretta, a partire dalla legge sull'indulto, poche settimane dopo. Tuttavia, due anni fa, l'Unione aveva vinto le elezioni quasi per caso, mentre il centrodestra di Berlusconi, tre mesi fa, ha conseguito un trionfo. Ciò nonostante, nel Paese è tornata la sfiducia di sempre.

Quattro le ragioni, suggerite dal sondaggio.
1. In primo luogo, l'insoddisfazione verso le prospettive dell'economia nazionale e familiare: mai così elevata, mai così diffusa negli ultimi tre anni.

2. Poi, l'insicurezza, sottolineata dal sostegno popolare ai provvedimenti del governo sull'immigrazione clandestina e sull'impiego dell'esercito. A nostro avviso (lo abbiamo già scritto) inefficaci, prima ancora che inaccettabili. Ma, comunque, graditi ai più, perché intercettano le paure diffuse nella società. Tuttavia - come dimostrano i dati del sondaggio - rispondere alle paure alimentandole ulteriormente, non genera consenso. Ma il contrario.

3. La contrarietà espressa da gran parte dei cittadini verso i progetti annunciati e, in parte, avviati dal governo: per limitare le intercettazioni telefoniche nelle indagini, per bloccare i procedimenti giudiziari (cosiddetti) minori, per re-introdurre l'immunità a favore delle alte cariche dello Stato. Queste iniziative hanno suscitato un ampio dissenso, principalmente per quattro ragioni: a) perché molti le hanno considerate "ad personam"; finalizzate, cioè, a risolvere i problemi "personali" del premier prima di quelli "generali" dei cittadini; b) la sospensione dei processi, in particolare, è apparsa, per taluni versi, una sorta di mini-indulto; e, per questo, in contrasto con l'insicurezza diffusa; c) perché evocano l'idea, il sospetto di privilegi di "casta", utili, soprattutto, al ceto politico.

4. In definitiva, queste iniziative hanno alimentato il sentimento antipolitico: fattore decisivo nel deprimere il consenso verso le istituzioni e la classe politica, in generale; e, in particolare, verso il governo di centrodestra e il premier. Perché, a differenza di pochi mesi fa, oggi "governano". Appunto.
 
Walter Veltroni

Questo clima politico si traduce fedelmente nelle intenzioni di voto. Ne escono, infatti, rafforzati i partiti che più di tutti gli altri interpretano e amplificano il sentimento antipolitico. La Lega, da un lato, ormai vicina al 9%. La Lista Di Pietro (Idv), dall'altro, proiettata oltre il 7%. Parallelamente, tutti i leader politici subiscono un calo di fiducia, In particolare Walter Veltroni. Il quale ha perduto oltre venti punti nel gradimento degli elettori, rispetto a due mesi fa. Quando era "il più amato di tutti". Apprezzato, in modo trasversale. Ora, invece, dopo la fine del dialogo, il suo gradimento fra gli elettori di centrodestra è crollato. E ha subito una flessione anche nella base elettorale del Pd. Dove in pochi, tuttavia, ne mettono in discussione il ruolo e la leadership.

D'altronde, Veltroni e il Pd, oggi, si trovano ad agire in una posizione sicuramente scomoda. Il muro di Arcore non accenna a crollare; e gli impedisce di penetrare al centro, dove l'Udc non si limita a presidiare il suo pezzetto di mercato elettorale, ma lo allarga. Mentre è insidiato da Di Pietro, artefice di una opposizione intransigente. Si presenta come leader del Partito dei Magistrati. Trasformati, di nuovo, in protagonisti politici. Anzitutto, da Berlusconi: che ne ha fatto il Nemico. A cui non piegarsi. Anzi da piegare. Per questo, il calo di consenso per il governo e il premier non avvantaggia il Pd, il quale, anzi soffre. Nelle stime elettorali scende sotto il 30%. Stretto fra le difficoltà del dialogo e la pressione delle componenti che rivendicano un'opposizione più radicale.

In questa stagione, solcata da profondi conflitti istituzionali, tuttavia, nessuno si salva.
Per fare riferimento ai due principali antagonisti: la fiducia nel Presidente del Consiglio supera di poco il 40%; quella verso i magistrati si ferma ancor più in basso: intorno al 35%. Si assiste, cioè, a un gioco a somma negativa, nel quale la fiducia nella democrazia e nelle sue istituzioni declina. Degrada. Solo il Presidente della Repubblica resiste. Apprezzato da quasi tre italiani su quattro. Perché, come prima di lui Ciampi, Giorgio Napolitano, in un periodo buio della nostra Repubblica, alla maggioranza degli italiani appare come un "gancio". Un'ancora. A cui aggrapparsi, per non "perdersi" in questo Paese senza bussole, senza appigli e senza sponde. Dove latitano riferimenti certi e condivisi.

D'altra parte, la strategia del dialogo, promossa da Veltroni e accolta da Berlusconi in campagna elettorale, dopo il voto si è rapidamente consumata, nonostante gran parte degli elettori continui a ritenerla necessaria. Mentre il bipartitismo sembra molto più relativo. Neppure il bipolarismo di un tempo regge. Non c'è più un Paese diviso in due. Visto che le divisioni politiche e antipolitiche attraversano i due schieramenti, dall'interno. Soprattutto il centrosinistra. Per il quale la manifestazione promossa, martedì prossimo, da MicroMega a sostegno dei magistrati e contro Berlusconi costituisce, certamente, una sfida. Condivisa, senza condizioni, da una minoranza, per quanto significativa: 2 elettori su 10, in generale; quasi 3 fra quelli del Pd. Ma oltre 4 nella base dell'Idv. La maggioranza degli elettori di centrosinistra, invece, ne approva la sostanza, non la forma. In altri termini: vorrebbe attendere, cercare altre vie e altre strade, per fare opposizione, prima di affidarsi alla piazza. O ai magistrati.

In questo Paese confuso, dove coabitano a fatica una maggioranza delusa, un'opposizione divisa e istituzioni deboli, è forte la tentazione di fuggire. O almeno di cambiar canale. Voltare pagina. Dimenticare la politica e l'antipolitica passando direttamente al gossip.
Ma non ci accorgeremmo della differenza.

(6 luglio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #51 inserito:: Luglio 13, 2008, 12:20:43 pm »

POLITICA MAPPE

Il regime mediocratico

di ILVO DIAMANTI


Da Silvio Berlusconi a Sabina Guzzanti, passando per Beppe Grillo: il percorso della democrazia italiana sembra essersi compiuto. Oltre la democrazia del pubblico e dell'opinione. Fino alla "mediocrazia".

La definiamo così non per evocare "mediocrità", che per noi è una virtù democratica, quando riassume passioni timide, distacco, moderazione. Intendiamo, in questo modo, echeggiare il potere dei "media". Che hanno imposto alla politica non solo il linguaggio, lo stile: anche le regole e i modelli di organizzazione. Infine, gli attori. Naturalmente, sappiamo che l'intreccio fra media, comunicazione e politica ha una storia lunga e globale, costellata di esempi illustri e per nulla "mediocri". Basti pensare a Ronald Reagan, modesto attore in età giovanile, ma presidente Usa fra i più importanti del dopoguerra. Oppure, a Terminator, al secolo Arnold Schwarzenegger, attuale governatore della California. Però in Italia l'intreccio risulta più stretto che altrove. Si è realizzato in modo tanto rapido che quasi non ce ne siamo resi conto. Era l'inizio dei burrascosi anni Novanta. Dai partiti di massa, ideologici, organizzati, radicati sul territorio si è passati a partiti senza società, organizzati al centro e fragili in periferia. Ma soprattutto: personalizzati, influenzati dalle logiche della comunicazione e del marketing. Una sorta di populismo mediatico, il cui inventore indiscusso e insuperato è Silvio Berlusconi. Creatore di un partito di successo, Forza Italia, ma, al tempo stesso, della seconda Repubblica. Di cui è divenuto il principale riferimento e discrimine ideologico: da accettare o rifiutare. Senza riserve. Padrone del principale gruppo televisivo privato. Ha imposto e "venduto" sul mercato politico se stesso e il proprio partito come un prodotto. La cocacola o il ferrero-rocher. Dopo di lui, la televisione è divenuta il principale luogo di partecipazione e di identità politica.

Ancora oggi, d'altronde, gli elettori di centrodestra preferiscono l'informazione di Mediaset, gli elettori di centrosinistra quella della Rai. Per tradizione e fedeltà. Anche se le differenze fra le reti sono ormai sottili e l'informazione di Mediaset, in alcuni casi, è più di "sinistra" di quella offerta dalla Rai. Non è detto - e, a nostro avviso, non è vero - che la tivù sia il luogo principale - se non l'unico - in cui si formano (peggio: si plasmano) le opinioni degli elettori. Però è una convinzione radicata e condivisa, soprattutto nel ceto politico. Senza distinzione di parte e di partito. Anche nel centrosinistra. Dove i partiti tradizionali, usurati dal punto di vista ideologico e organizzativo, hanno inseguito il modello inventato da Berlusconi, spostando il loro baricentro dal territorio al video, dall'organizzazione alla personalizzazione, dalle ideologie al marketing, dalle idee agli slogan. In pochi anni, diventa spettacolo dove si rappresenta lo spettacolo della politica.

Il centrosinistra, in questa scena, si è tuffato a capofitto. Sconta il problema iniziale dell'inesperienza. Ma si è abituato in fretta, affollando ogni rete e ogni programma. A ogni ora. Da "Uno Mattina" alle "Notti" di Vespa e Mentana. La competenza del sistema comunicativo è, quindi, divenuta un requisito importante per la carriera politica. Non a caso i consiglieri più influenti di Berlusconi sono due professionisti del sistema mediatico: Gianni Letta e Giuliano Ferrara. Anche il centrosinistra si è rivolto all'ambiente del giornalismo televisivo, da cui ha selezionato, con alterno successo, parlamentari italiani ed europei, ma anche sindaci e governatori.

L'immagine e la confidenza mediatica hanno pesato anche nella scelta del candidato premier. Anche per queste ragioni Rutelli nel 2001 e lo stesso Veltroni nel 2008 sono stati chiamati a sfidare Berlusconi. Certo, entrambi politici di (medio o) lungo corso, provenivano da un'esperienza amministrativa di successo, come sindaci di Roma. Veltroni, inoltre, è segretario del Pd, votato alle primarie da milioni di elettori. Tuttavia, in entrambi i casi, la capacità di comunicare ha contribuito in misura importante alla loro scelta.

La parabola della mediocrazia, a sinistra, è precipitata negli ultimi anni, con lo sconfinamento dei comici e degli attori satirici: dai teatri e dagli schermi alle piazze. Da attori di satira ad attori politici, tout-court. È il caso di Sabina Guzzanti, esploso in occasione della recente manifestazione dei girotondi, a Piazza Navona. Di cui è stata protagonista assoluta. Insieme a Beppe Grillo, leader di un movimento d'opinione, che ha assunto misure di massa e attraversa tutti i partiti. L'ascesa politica dei comici e dei satirici, a sinistra, ha diverse ragioni. Vi ha contribuito, per primo, Silvio Berlusconi, che li ha indicati - e legittimati - come "nemici". Decretandone, in alcuni casi, l'espulsione dai media. Ma gli attori satirici sono divenuti leader politici soprattutto perché trascinati dalla deriva mediatica del centrosinistra. D'altronde, sul piano della comunicazione, in tivù ma anche nelle manifestazione pubbliche, Pecoraro Scanio, Diliberto o Franceschini come possono competere con Sabina Guzzanti? O con protagonisti della scena teatrale come Moni Ovadia, il nobel Dario Fo o Franca Rame (peraltro, già parlamentare)? Per non parlare di Beppe Grillo. Non c'è partita. C'è, infine, la difficoltà di fare opposizione. Visto che la sinistra radicale è scomparsa e quella riformista appare fin troppo timida. Allora le piazze si trasformano in teatri dove si rappresenta lo spettacolo dell'opposizione "indignata". Perché questi sanno (e debbono) fare i comici e i protagonisti della satira. Scrutare e denunciare i vizi della politica. Del nemico e - a maggior ragione - dei presunti amici.

Per questo a Piazza Navona, martedì scorso, non poteva andare diversamente. Sabina Guzzanti e Beppe Grillo sanno suonare le corde del sentimento e del risentimento popolare. Sanno fare scandalo e notizia. Interpretare al meglio lo spettacolo dell'indignazione. Altro che Di Pietro e Furio Colombo. Tuttavia non si tratta solo e semplicemente di satira, come pretenderebbero alcuni fra gli organizzatori e fra i leader (sedicenti) politici (veri) presenti alla manifestazione. Troppo semplice. Troppo facile. Lo ha chiarito bene Sabina Guzzanti, nella lettera inviata al Corriere della Sera: "Chiunque parli a un pubblico fa politica". Non solo, ma "il discorso di un comico può essere molto più politico di quello di un politico". Ha ragione. È il suo intervento ad aver impresso il segno politico alla manifestazione di Piazza Navona. È lei la protagonista di quell'avvenimento.

Nella mediocrazia, d'altronde, il centro della scena è, inevitabilmente, occupato dai "mediocrati". Con effetti spiacevoli e sfavorevoli per le componenti riformiste del centrosinistra. 1) Perché la buona satira non è riformista, ma rivoluzionaria. Non accetta la mediazione: è intransigente e, oggi, antipolitica. Ma l'antipolitica scoraggia e delude soprattutto gli elettori di sinistra. 2) Perché fra Berlusconi, Grillo e la Guzzanti; fra Berlusconi, Veltroni e Rutelli: in un regime mediocratico, non c'è partita. Il primo è il padrone, l'impresario. Gli altri: attori o apprendisti. D'altronde, nell'era della "democrazia del pubblico", l'unico a battere Berlusconi, per due volte - o meglio: una volta e mezza - è stato Romano Prodi. Anticomunicativo e antitelevisivo. Perché i media, l'immagine, la tivù, in politica, contano, ma non sono tutto. C'è bisogno d'altro. Presenza nella società, organizzazione. Identità. Speranza. Ma questa sinistra, divisa fra coraggiosi e indignati, fra dialogo senza opposizione e opposizione senza dialogo: rischia di rimanere solo senza speranza.

(13 luglio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #52 inserito:: Luglio 15, 2008, 10:13:28 pm »

Rubriche » Bussole

Ex voto, un dibattito al passato

Ilvo Diamanti


 Le riforme istituzionali al pari di quelle elettorali sono sempre state scritte su pressione esterna. Sulla spinta di emergenze, ricatti, calcoli di opportunità. Almeno dopo la fase costituente. Fra il 1991 e il 1993, in particolare, molte riforme sono state fatte (in fretta) per fare fronte alla crisi della prima Repubblica. Spinte dall'onda del dissenso popolare provocata dai referendum.

Si è poi aperta la stagione delle riforme federaliste, per rispondere all'insoddisfazione del Nord e all'azione della Lega. Infine, nell'autunno 2005 il centrodestra ha delineato un pacchetto di riforme istituzionali - prontamente bocciate dal referendum che si è svolto nel giugno dell'anno seguente. Mentre è rimasta in vigore la legge elettorale disegnata dal ministro Calderoli (che ebbe a definirla una "porcata". Né, per una volta, saremo noi a contraddirlo). Un proporzionale con premio di coalizione, calcolato su basi diverse alla Camera (in ambito nazionale) e Senato (regionale).

Venne approvato in fretta e furia, insieme ad altre riforme (riguardanti la devolution, il bicameralismo i poteri del premier e del Presidente della Repubblica). Per rinsaldare il patto che legava i partiti della CdL, fra loro e con i propri "mercati elettorali". Nel caso della legge elettorale, però, c'era un ulteriore motivo. Contrastare il successo del centrosinistra, ritenuto dai sondaggi largo e largamente annunciato. Particolarmente ampio nella competizione maggioritaria di collegio, su cui si fondava il precedente sistema elettorale.

In altri termini: il "porcellum" di Calderoli serviva a ridimensionare il vantaggio dell'Unione e, comunque, a complicare vita al governo, dopo il successo elettorale scontato e annunciato. Nella realtà, produsse effetti opposti. Favorì il centrosinistra, che ottenne una larga maggioranza in seggi, alla Camera, nonostante avesse prevalso di poche migliaia di voti. Mentre al Senato conquistò ottenne una maggioranza parlamentare risicata, che gli impedì, di fatto, di governare. Avendo, però, ottenuto meno voti del centrodestra.

Alle recenti elezioni, sappiamo quel che è successo. Veltroni e il Pd hanno scelto di correre da soli. O meglio in compagnia del solo Di Pietro. E Berlusconi, dopo aver "allargato" FI ad AN, lo ha seguito, riducendo la cerchia delle alleanze alle due Leghe: Nord e Sud (MpA). Questa volta, il risultato ha garantito a Berlusconi e alla coalizione che lo sosteneva una maggioranza ampia e sicura, in entrambe le Camere. Ciò gli permette di governare con sufficiente tranquillità. Gli unici problemi gli possono venire dall'interno: dai partiti della coalizione. Oppure dall'esterno: dalle difficoltà imposte dalla situazione economica, dall'insicurezza. Ma, si sa, questi problemi non possono essere risolti dalla legge elettorale. Mentre pare che le borse e i mercati stentino a obbedire alle regole e ai desideri del Cavaliere. Anche se ci stanno pensando.

Per questo il dibattito - teso e quasi lacerante - che si è aperto nel Pd, sul sistema elettorale da adottare, pare degno di miglior causa. L'alternativa fra sistema tedesco, spagnolo, francese, inglese e americano. Fra proporzionale, uninominale secca di collegio, maggioritario a doppio turno e quant'altro. Ci sembra sostanzialmente accademica. Tutta interna al Pd, alle sue fondazioni, ai suoi specialisti. A politologi, costituzionalisti, giuristi. E, al tempo stesso, irrilevante e sostanzialmente priva di interesse per le forze politiche della maggioranza. Più attente semmai ad alcune riforme istituzionali, che chiamano in causa i poteri del premier e del presidente oltre al federalismo.

D'altronde, Berlusconi ha vinto in modo largo. Perché il distacco fra Pdl e Pd era ampio: oltre da 4 punti. Il risultato della Lega lo ha dilatato ancora, portandolo fino a 9-10 punti. Nulla, comunque, può far prevedere, nel breve periodo, un avvicinamento tale da far sospettare il sorpasso del Pd. Per cui non c'è motivo, per Berlusconi, di cambiare sistema elettorale. Questo, visti i risultati, gli va benissimo.

Certo, un ripensamento oppure la disperazione potrebbero indurre il gruppo dirigente del centrosinistra a tornare sui propri passi. A riprendere, magari in modo diverso, la via dell'Unione; le alleanze larghe con tutti quelli che ci stanno. In fondo, in questo modo ha vinto le elezioni del 2006, seppure di misura (minima). Tuttavia, c'è da dubitare che ciò avverrebbe di nuovo. Non solo perché le lacerazioni sono difficili da ricucire, soprattutto quando producono effetti tanto irreparabili (la scomparsa della Sinistra dal Parlamento e, in misura rilevante, anche tra gli elettori). Anche perché condizioni simili al 2006 difficilmente si riproporranno. Il centrodestra diviso e depresso (Berlusconi escluso). E il centrosinistra, al contrario, capace di coinvolgere, oltre ai tradizionali alleati, compagni di strada impensabili. Casalinghe, consumatori, pensionati, leghe regionaliste. Soggetti (per così dire) politici che si presentarono con proprie liste, attratti dalla prospettiva di "vincere le elezioni", saltando sul carro vincente; guadagnando una frazione, per quanto piccola, di risorse e di poteri. Non capiterà più. Come pare difficile eufemisticamente , com'è ovvio) immaginare il ritorno nell'Unione di Mastella e dell'Udeur. D'altra parte, a considerare i sondaggi, la distanza fra le coalizioni che si sono presentate alle elezioni del 2008 è ormai superiore a 11 punti percentuali. Ma se si considerano le coalizioni del 2006 la differenza diventa abissale. 13-14 punti.

D'altronde, anche se l'alleanza di centrodestra è frastagliata, le divisioni interne profonde, come nel precedente governo Berlusconi, è difficile immaginare fratture irreparabili. Non sono avvenute allora, perché oggi? Il fatto è che a destra c'è un padrone, a sinistra molti piccoli leader concorrenti. Nessuno in grado di comandare. Di imporsi agli altri. Con le buone o le cattive. Per questo non c'è motivo di cambiare. Per Berlusconi. Questa legge gli permette di prevalere comunque. Interpretata in modo "semplificato" e maggioritario, come alle recenti elezioni del 2008. Oppure in modo proporzional-maggioritario, come il porcellum del 2006. Il vincolo di coalizione gli permette di giocare la parte di unica colla e unico "capo" possibile del centrodestra. E impedisce alle spinte "autonomiste" interne alla coalizione (esercitate dalla Lega, per esempio) di produrre frazionismo o, peggio, scissioni. Ormai, nella Casa delle Libertà, il "porcellum" di Calderoli è divenuto un animale domestico. Berlusconi ne ha fatto quasi una legge "ad personam".

Con la differenza che altri - in questo caso - l'hanno concepita e scritta. Lui si è limitato ad adattarla alle proprie esigenze. Per questo, il conflitto acceso sulla legge elettorale investe e divide soprattutto - forse solo - il centrosinistra. E in particolare il Pd. Al quale converrebbe, almeno, approfittare del dibattito a fini interni, per rivedere le regole delle primarie e delle consultazioni in vista del prossimo (??) congresso.

(15 luglio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #53 inserito:: Luglio 20, 2008, 08:08:08 am »

Rubriche » Bussole

Ilvo Diamanti

Ex voto, un dibattito al passato


 Le riforme istituzionali al pari di quelle elettorali sono sempre state scritte su pressione esterna. Sulla spinta di emergenze, ricatti, calcoli di opportunità. Almeno dopo la fase costituente. Fra il 1991 e il 1993, in particolare, molte riforme sono state fatte (in fretta) per fare fronte alla crisi della prima Repubblica. Spinte dall'onda del dissenso popolare provocata dai referendum.

Si è poi aperta la stagione delle riforme federaliste, per rispondere all'insoddisfazione del Nord e all'azione della Lega. Infine, nell'autunno 2005 il centrodestra ha delineato un pacchetto di riforme istituzionali - prontamente bocciate dal referendum che si è svolto nel giugno dell'anno seguente. Mentre è rimasta in vigore la legge elettorale disegnata dal ministro Calderoli (che ebbe a definirla una "porcata". Né, per una volta, saremo noi a contraddirlo). Un proporzionale con premio di coalizione, calcolato su basi diverse alla Camera (in ambito nazionale) e Senato (regionale).

Venne approvato in fretta e furia, insieme ad altre riforme (riguardanti la devolution, il bicameralismo i poteri del premier e del Presidente della Repubblica). Per rinsaldare il patto che legava i partiti della CdL, fra loro e con i propri "mercati elettorali". Nel caso della legge elettorale, però, c'era un ulteriore motivo. Contrastare il successo del centrosinistra, ritenuto dai sondaggi largo e largamente annunciato. Particolarmente ampio nella competizione maggioritaria di collegio, su cui si fondava il precedente sistema elettorale.

In altri termini: il "porcellum" di Calderoli serviva a ridimensionare il vantaggio dell'Unione e, comunque, a complicare vita al governo, dopo il successo elettorale scontato e annunciato. Nella realtà, produsse effetti opposti. Favorì il centrosinistra, che ottenne una larga maggioranza in seggi, alla Camera, nonostante avesse prevalso di poche migliaia di voti. Mentre al Senato conquistò una maggioranza parlamentare risicata, che gli impedì, di fatto, di governare. Avendo, però, ottenuto meno voti del centrodestra.

Alle recenti elezioni, sappiamo quel che è successo. Veltroni e il Pd hanno scelto di correre da soli. O meglio in compagnia del solo Di Pietro. E Berlusconi, dopo aver "allargato" FI ad AN, lo ha seguito, riducendo la cerchia delle alleanze alle due Leghe: Nord e Sud (MpA). Questa volta, il risultato ha garantito a Berlusconi e alla coalizione che lo sosteneva una maggioranza ampia e sicura, in entrambe le Camere. Ciò gli permette di governare con sufficiente tranquillità. Gli unici problemi gli possono venire dall'interno: dai partiti della coalizione. Oppure dall'esterno: dalle difficoltà imposte dalla situazione economica, dall'insicurezza. Ma, si sa, questi problemi non possono essere risolti dalla legge elettorale. Mentre pare che le borse e i mercati stentino a obbedire alle regole e ai desideri del Cavaliere. Anche se ci stanno pensando.

Per questo il dibattito - teso e quasi lacerante - che si è aperto nel Pd, sul sistema elettorale da adottare, pare degno di miglior causa. L'alternativa fra sistema tedesco, spagnolo, francese, inglese e americano. Fra proporzionale, uninominale secca di collegio, maggioritario a doppio turno e quant'altro. Ci sembra sostanzialmente accademica. Tutta interna al Pd, alle sue fondazioni, ai suoi specialisti. A politologi, costituzionalisti, giuristi. E, al tempo stesso, irrilevante e sostanzialmente priva di interesse per le forze politiche della maggioranza. Più attente semmai ad alcune riforme istituzionali, che chiamano in causa i poteri del premier e del presidente oltre al federalismo.

D'altronde, Berlusconi ha vinto in modo largo. Perché il distacco fra Pdl e Pd era ampio: oltre da 4 punti. Il risultato della Lega lo ha dilatato ancora, portandolo fino a 9-10 punti. Nulla, comunque, può far prevedere, nel breve periodo, un avvicinamento tale da far sospettare il sorpasso del Pd. Per cui non c'è motivo, per Berlusconi, di cambiare sistema elettorale. Questo, visti i risultati, gli va benissimo.

Certo, un ripensamento oppure la disperazione potrebbero indurre il gruppo dirigente del centrosinistra a tornare sui propri passi. A riprendere, magari in modo diverso, la via dell'Unione; le alleanze larghe con tutti quelli che ci stanno. In fondo, in questo modo ha vinto le elezioni del 2006, seppure di misura (minima). Tuttavia, c'è da dubitare che ciò avverrebbe di nuovo. Non solo perché le lacerazioni sono difficili da ricucire, soprattutto quando producono effetti tanto irreparabili (la scomparsa della Sinistra dal Parlamento e, in misura rilevante, anche tra gli elettori). Anche perché condizioni simili al 2006 difficilmente si riproporranno. Il centrodestra diviso e depresso (Berlusconi escluso). E il centrosinistra, al contrario, capace di coinvolgere, oltre ai tradizionali alleati, compagni di strada impensabili. Casalinghe, consumatori, pensionati, leghe regionaliste. Soggetti (per così dire) politici che si presentarono con proprie liste, attratti dalla prospettiva di "vincere le elezioni", saltando sul carro vincente; guadagnando una frazione, per quanto piccola, di risorse e di poteri. Non capiterà più. Come pare difficile eufemisticamente , com'è ovvio) immaginare il ritorno nell'Unione di Mastella e dell'Udeur. D'altra parte, a considerare i sondaggi, la distanza fra le coalizioni che si sono presentate alle elezioni del 2008 è ormai superiore a 11 punti percentuali. Ma se si considerano le coalizioni del 2006 la differenza diventa abissale. 13-14 punti.

D'altronde, anche se l'alleanza di centrodestra è frastagliata, le divisioni interne profonde, come nel precedente governo Berlusconi, è difficile immaginare fratture irreparabili. Non sono avvenute allora, perché oggi? Il fatto è che a destra c'è un padrone, a sinistra molti piccoli leader concorrenti. Nessuno in grado di comandare. Di imporsi agli altri. Con le buone o le cattive. Per questo non c'è motivo di cambiare. Per Berlusconi. Questa legge gli permette di prevalere comunque. Interpretata in modo "semplificato" e maggioritario, come alle recenti elezioni del 2008. Oppure in modo proporzional-maggioritario, come il porcellum del 2006. Il vincolo di coalizione gli permette di giocare la parte di unica colla e unico "capo" possibile del centrodestra. E impedisce alle spinte "autonomiste" interne alla coalizione (esercitate dalla Lega, per esempio) di produrre frazionismo o, peggio, scissioni. Ormai, nella Casa delle Libertà, il "porcellum" di Calderoli è divenuto un animale domestico. Berlusconi ne ha fatto quasi una legge "ad personam".

Con la differenza che altri - in questo caso - l'hanno concepita e scritta. Lui si è limitato ad adattarla alle proprie esigenze. Per questo, il conflitto acceso sulla legge elettorale investe e divide soprattutto - forse solo - il centrosinistra. E in particolare il Pd. Al quale converrebbe, almeno, approfittare del dibattito a fini interni, per rivedere le regole delle primarie e delle consultazioni in vista del prossimo (??) congresso.

(15 luglio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #54 inserito:: Luglio 21, 2008, 07:17:59 pm »

POLITICA MAPPE

Due Destre, due Italie


di ILVO DIAMANTI


Le tensioni che scuotono il centrodestra tendono ad essere svalutate. In particolare le schermaglie fra Bossi e Berlusconi, a cui ci siamo abituati da decenni. Frequenti, talora aspre, ma non producono mai veri strappi. Se si eccettua la frattura avvenuta nel lontano 1994, pochi mesi dopo la formazione del primo governo Berlusconi. Ma quella era un'altra epoca.

Meglio, quindi, non equivocare. L'alleanza durerà a lungo. Tuttavia, la convivenza non sarà facile e neppure quieta, perché oggi sotto lo stesso tetto abitano due destre. Divise dalla geografia, dai valori, dagli interessi rappresentati. Che è assai più difficile del passato comporre. "Colpa" della semplificazione prodotta da Berlusconi, il quale, per rispondere al Pd e a Veltroni, ha allargato il suo "partito personale". Ha "inventato" e imposto il Pdl, associando Fi e An. Ma non l'Udc, che, anzi, è stata spinta fuori dall'alleanza.

Il successo della Lega, in fondo, risponde alla nascita di una nuova destra. Che, soprattutto nel Nord, appare fin troppo "romana", nazionalista, protezionista, per non produrre una reazione popolare. Come nel 1996. Quando la Lega ottenne un consenso molto ampio anche perché sfidò Fi e An, alleati nel Polo. Figurarsi oggi che sono dentro a un unico partito.

Il centrodestra, si è, dunque, "bipartitizzato". Diviso fra due soggetti politici distanti, per alcuni importanti aspetti. Anzitutto, dal punto di vista geopolitico. La Lega ha sfondato nel Nord, in prevalenza a spese del Pdl. Il quale ha conseguito il maggior grado di crescita elettorale nel Mezzogiorno e nelle Isole. Soprattutto in Sicilia. Tra le province dove ha ottenuto i migliori risultati, solo una è del Nord. Imperia, feudo di Scajola. Nel Lombardo-Veneto, invece, è cresciuto il peso della Lega. L'Italia del Pdl è, quindi, uno stivale rovesciato, la cui principale zona di forza è divenuta la Sicilia. Tanto più dopo le performance straordinarie ottenute alle amministrative di giugno. Ne emerge un partito dallo sguardo strabico sui problemi e sulle domande degli elettori. Che hanno, in effetti, orientamenti diversi, messi in evidenza dai sondaggi. (In questa sede ne utilizziamo due, condotti da Demos e La Polis).

Gli elettori della Lega appaiono, infatti, maggiormente ostili agli immigrati e all'euro; più lontani dallo Stato e più disponibili ad aumentare l'intervento privato nei servizi pubblici. Ma soprattutto: rivendicano federalismo. Come progetto, ma anche come parola magica, che evoca "indipendenza". Simmetricamente, gli elettori del Pdl dimostrano maggiore domanda di intervento dello Stato, soprattutto (ma non solo) con funzioni di "ordine pubblico" (attraverso l'impiego dell'esercito nelle zone più insicure), sono prudenti nel richiedere la privatizzazione dei servizi, hanno maggiore fiducia nei confronti delle organizzazioni di grande impresa.

Il Pdl, quindi, presenta un mix di orientamenti socioculturali che ne riflette l'impianto elettorale, prevalentemente centromedionale. E ciò lo distanzia dalla Lega. Il che rende difficile, al governo, delineare una politica comune e coerente. Perché federalismo fiscale e protezione pubblica sono rivendicazioni difficili da conciliare, nonostante la capacità creativa del "tremontismo". Tanto più in questa fase contrassegnata da ristrettezze di bilancio, vincoli internazionali, stagnazione globale.

In questa destra bipartitica tende a indebolirsi anche il ruolo di Silvio Berlusconi. Perché non è solo il premier: è il leader del Pdl. Il partito più forte della coalizione, dal punto vista elettorale. Ma non dal punto di visto politico. In quanto, senza la Lega, neppure il Pdl dispone della maggioranza in Parlamento. Non può vincere alle elezioni. Perché, inoltre, senza l'Udc, mancano ammortizzatori che assorbano gli strappi, dal punto di vista politico, ma anche del linguaggio e della comunicazione.

Ben diversa era la situazione nel precedente governo, quando il premier Berlusconi guidava Forza Italia. Il partito principale di una coalizione frastagliata, di cui Fi era colla e, al tempo stesso, cornice. La Casa comune di persone e posizioni difficilmente compatibili. Forza Italia teneva insieme il Nord leghista e il Sud di An e dell'Udc. Il Pdl è un'altra cosa. Molto diverso dalla Lega, per orientamenti e valori. Geografia. Così Berlusconi per la Lega è anzitutto il leader del Pdl, l'Altro Partito del centrodestra. Con cui è necessario convivere. Ma da cui occorre guardarsi e smarcarsi. A questo serve la costante pressione esercitata da Bossi nei confronti del Cavaliere. Trattato come un amico sempre più inaffidabile, perché ossessionato dai magistrati (e dalle donne), stressato da una sindrome da assedio, preoccupato, in modo quasi isterico, dai "fatti propri".

Un alleato necessario, da richiamare di continuo al rispetto dei patti. Perché antepone le proprie emergenze personali a quelle geo-politiche, che interessano maggiormente la Lega. Nello stesso tempo, Bossi, come nella migliore tradizione del passato, si abbandona sempre più spesso a invettive contro il Sud e i professori. Meglio: i professori del Sud. Un distillato dei "nemici della Lega". Ma, soprattutto, un modo di segnare i confini del suo territorio di caccia, contro i nemici e gli amici.
Peraltro, le due destre sono inevitabilmente attraversate da tensioni, che le scuotono anche dall'interno.

È, infatti, lecito chiedersi se An abbia scelto di sciogliersi definitivamente così, senza neppure segnare dei confini. Perdendo memoria e identità, senza rimpianti. Se il suo leader Gianfranco Fini abbia, a sua volta, accettato di interpretare un profilo politico talmente basso da risultare quasi invisibile. In cambio di una successione alla guida del Pdl ancora molto incerta. Può darsi, però, che i leader di An, a livello locale e centrale, cerchino, abbastanza presto, di far valere il loro "mestiere", il loro peso organizzativo. Per contare di più. Che lo stesso Fini cambi stile. Magari solo per orgoglio personale. Per non apparire il n. 3 della coalizione. Magari il n. 4, contando Tremonti. Si accenderebbe, allora, qualche tensione in più.

La nascita del Pdl, però, sta generando conflitti soprattutto nel Nord. Dove i governatori della Lombardia e del Veneto, Roberto Formigoni e Giancarlo Galan, si trovano ad affrontare una duplice sfida. 1) Con la Lega, che li considera concorrenti e occupanti "abusivi" di regioni a cui vorrebbe imporre la propria bandiera e i propri uomini. 2) Con il loro stesso partito. Divenuto assai più centralista, romano e meridionale di Forza Italia.

Per questo Galan vagheggia Forza Veneto. Un soggetto politico regionalista. E sostiene l'ipotesi di una Euregio Alpeadria, che appare palesemente alternativa al Nord della Lega e al baricentro centromeridionale assunto dal Pdl. Mentre Formigoni tende a marcare le distanze dalle politiche del governo, in nome degli interessi della sua regione e del "modello lombardo". Da ciò i conflitti, anche violenti, fra i due governatori e i leader della Lega, ma anche del Pdl e del governo. A livello nazionale e locale. Ne è prova la discussione accesa, esplosa di recente fra Formigoni e Tremonti sulla ripartizione dei fondi per la spesa sanitaria.

Chi, nel centrosinistra, "investe" su queste divisioni e profetizza l'implosione del centrodestra, però, non deve farsi troppe illusioni. Troppo larga la maggioranza. Troppo stretta - e divisa - l'opposizione. E troppo deludenti e frustranti le esperienze dei precedenti governi di centrosinistra. Gli italiani, anche se ve ne fosse l'occasione, si troverebbero, comunque, di fronte a una alternativa strana. A un bipolarismo singolare, che oppone due destre a tre-quattro sinistre. Sarebbe un bel dilemma.

(21 luglio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #55 inserito:: Luglio 25, 2008, 11:18:44 pm »

POLITICA BUSSOLE

Maledetti professori

di ILVO DIAMANTI


IL "PROFESSORE", ormai, primeggia solo fra le professioni in declino. Che insegni alle medie o alle superiori ma anche all'università: non importa. La sua reputazione non è più quella di un tempo. Anzitutto nel suo ambiente. Nella scuola, nella stessa classe in cui insegna. Gli studenti guardano i professori senza deferenza particolare. E senza timore. In fondo, hanno stipendi da operai specializzati (ma forse nemmeno) e un'immagine sociale senza luce. Non possono essere presi a "modello" dai giovani, nel progettare la carriera futura. Molti genitori hanno redditi e posizione professionale superiori. E poi, la cultura e la conoscenza, oggi, non vanno di moda. E' almeno da vent'anni che tira un'aria sfavorevole per le professioni intellettuali. Guardate con sospetto e sufficienza.
Siamo nell'era del "mito imprenditore" . Dell'uomo di successo che si è fatto da sé. Piccolo ma bello. E ricco. Il lavoratore autonomo, l'artigiano e il commerciante. L'immobiliarista. E' "l'Italia che produce". Ha conquistato il benessere, anzi: qualcosa di più. Studiando poco. O meglio: senza bisogno di studiare troppo. In qualche caso, sfruttando conoscenze e competenze che la scuola non dà. Si pensi a quanti, giovanissimi, prima ancora di concludere gli studi, hanno intrapreso una carriera di successo nel campo della comunicazione e delle nuove tecnologie.

Competenze apprese "fuori" da scuola. Così i professori sono scivolati lungo la scala della mobilità sociale. Ai margini del mercato del lavoro. Figure laterali di un sistema - la suola pubblica - divenuto, a sua volta, laterale. Poco rispettati dagli studenti, ma anche dai genitori. I quali li criticano perché non sanno trasmettere certezze e autorità; perché non premiano il merito. Presumendo che i loro figli siano sempre meritevoli.
Si pensi all'invettiva contro i "professori meridionali" lanciata da Bossi nei giorni scorsi. Con gli occhi rivolti - anche se non unicamente - alla commissione che ha bocciato "suo figlio" agli esami di maturità. Naturalmente in base a un pregiudizio anti-padano. I più critici e insofferenti nei confronti dei professori sono, peraltro, i genitori che di professione fanno i professori. Pronti a criticare i metodi e la competenza dei loro colleghi, quando si permettono di giudicare negativamente i propri figli. Allora non ci vedono più. Perché loro la scuola e la materia la conoscono. Altro che i professori dei loro figli. Che studino di più, che si preparino meglio. (I professori, naturalmente, non i loro figli).

Va detto che i professori hanno contribuito ad alimentare questo clima. Attraverso i loro sindacati, che hanno ostacolato provvedimenti e riforme volti a promuovere percorsi di verifica e valutazione. A premiare i più presenti, i più attivi, i più aggiornati, i più qualificati. Così è sopravvissuto questo sistema, che penalizza - e scoraggia - i docenti preparati, motivati, capaci, appassionati. Peraltro, molti, moltissimi. La maggioranza. In tanti hanno preferito, piuttosto, investire in altre attività professionali, per integrare il reddito. O per ottenere le soddisfazioni che l'insegnamento, ridotto a routine, non è più in grado di offrire. Sono (siamo) diventati una categoria triste.

Negli ultimi tempi, tuttavia, il declino dei professori è divenuto più rapido. Non solo per inerzia, ma per "progetto" - dichiarato, senza infingimenti e senza giri di parole. Basta valutare le risorse destinate alla scuola e ai docenti dalle finanziarie. Basta ascoltare gli echi dei programmi di governo. Che prevedono riduzioni consistenti (di personale, ma anche di reddito): alle medie, alle superiori, all'università. Meno insegnanti, quindi. Mentre i fondi pubblici destinati alla ricerca e all'insegnamento calano di continuo. Dovrebbe subentrare il privato. Che, però, in generale se ne guarda bene. Ad eccezione delle Fondazioni bancarie. Che tanto private non sono. D'altra parte, chissenefrega. I professori, come tutti gli statali, sono una banda di fannulloni. O almeno: una categoria da tenere sotto controllo, perché spesso disamorati e impreparati. Maledetti professori. Soprattutto del Sud. Soprattutto della scuola pubblica. E - si sa - gran parte dei professori sono statali e meridionali.

Maledetti professori. Responsabili di questa generazione senza qualità e senza cultura. Senza valori. Senza regole. Senza disciplina. Mentre i genitori, le famiglie, i predicatori, i media, gli imprenditori. Loro sì che il buon esempio lo danno quotidianamente. Partecipi e protagonisti di questa società (in)civile. Ordinata, integrata, ispirata da buoni principi e tolleranza reciproca. Per non parlare del ceto politico. Pronto a supplire alle inadempienze e ai limiti della scuola. Guardate la nuova ministra: appena arrivata, ha già deciso di attribuire un ruolo determinante al voto in condotta. Con successo di pubblico e di critica.

Maledetti professori. Pretendono di insegnare in una società dove nessuno - o quasi - ritiene di aver qualcosa da imparare. Pretendono di educare in una società dove ogni categoria, ogni gruppo, ogni cellula, ogni molecola ritiene di avere il monopolio dei diritti e dei valori. Pretendono di trasmettere cultura in una società dove più della cultura conta il culturismo. Più delle conoscenze: i muscoli. Più dell'informazione critica: le veline. Una società in cui conti - anzi: esisti - solo se vai in tivù. Dove puoi dire la tua, diventare "opinionista" anche (soprattutto?) se non sai nulla. Se sei una "pupa ignorante", un tronista o un "amico" palestrato, che legge solo i titoli della stampa gossip. Una società dove nessuno ritiene di aver qualcosa da imparare. E non sopporta chi pretende - per professione - di aver qualcosa da insegnare agli altri. Dunque, una società senza "studenti". Perché dovrebbe aver bisogno di docenti?

Maledetti professori. Non servono più a nulla. Meglio abolirli per legge. E mandarli, finalmente, a lavorare.

(25 luglio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #56 inserito:: Agosto 04, 2008, 11:36:24 am »

POLITICA MAPPE

La generazione perdente che va a destra

di ILVO DIAMANTI


RIFONDAZIONE Comunista è implosa. Prima alle elezioni politiche del 13 aprile, dove è rimasta esclusa dal Parlamento. Poi, al congresso, dove si è divisa in due pezzi quasi uguali, a sostegno dei candidati alla segreteria: Vendola e Ferrero, il vincitore.

Anche se, in effetti, il partito è assai più frammentato, perché, fin dalle origini, raccoglie molteplici componenti dell'opposizione radicale di sinistra. Una galassia ai margini del sistema politico. "Minoranza", per definizione e per vocazione. Ma, anche per questo, uno dei riferimenti politici più significativi per i giovani. I quali hanno di fronte un futuro aperto.

Amano le utopie. Pensano che sia possibile afferrare i sogni. Raggiungere "l'isola che non c'è". E cercano, inoltre, di definire la propria identità tracciando confini netti fra se stessi e gli altri. Contro padri e padroni. Per questo molti giovani hanno guardato alle posizioni più radicali della sinistra (ma anche della destra) con maggiore passione rispetto alle altre generazioni.

Oggi, però, ciò non avviene più. L'implosione (l'eclissi?) di Rifondazione Comunista è un segno, ma non il solo, del distacco dei giovani dalla sinistra. Non solo radicale, anche moderata. Si tratta della fine di un ciclo breve, che durava dall'inizio di questo decennio (millennio). Da quando, cioè, i giovani erano tornati a votare a sinistra, dopo circa trent'anni. Passata la vampata del Sessantotto, infatti, si erano raffreddate in fretta le speranze di cambiamento che avevano mobilitato ampi settori della società e, in particolare, i giovani. Frustrate dalle utopie del terrore, negli anni Settanta. Dal crollo dei muri e delle ideologie, negli anni Ottanta. Infine, in Italia, dalla fine della prima Repubblica e dei soggetti politici che l'avevano accompagnata.

Dopo la stagione dei movimenti era emersa una generazione "senza padri né maestri" (per citare il titolo di un saggio di Luca Ricolfi e Loredana Sciolla), che si era rifugiata nella "vita quotidiana" (come evoca un altro testo, scritto da Franco Garelli). La domanda di cambiamento era defluita altrove, soprattutto nella partecipazione volontaria. Un fenomeno diffuso, cresciuto a contatto con i problemi di ogni giorno.

Così i giovani erano divenuti "invisibili". Confusi nell'ambiente sociale e locale. Pur diventando appariscenti sui media. Consumatori ed essi stessi consumo. Bersagli e attori di ogni campagna pubblicitaria. Protagonisti di serial e reality televisivi. Politicamente, si erano spostati al centro. Oppure "fuori" dalla vita politica. A sinistra, invece, erano rimasti i loro genitori. Quelli della mia generazione, che nel Sessantotto avevano intorno a 18 anni. Nati dopo la fine della guerra, nei primi anni Cinquanta.

A metà strada, fra noi e i nostri figli, una "generazione perduta", come l'ha definita Antonio Scurati in un suggestivo (auto) ritratto pubblicato sulla Stampa. Nata alla fine degli anni Sessanta. Mentre la "rivoluzione" bruciava e si consumava altrettanto rapidamente. Nel 1989, vent'anni dopo, scrive Scurati, nella notte in cui cadde il muro "finì un'epoca della politica, ma per la mia generazione non n'è mai iniziata un'altra. Non a sinistra, quanto meno".

Infatti, fino alla conclusione del secolo, la classe d'età orientata a sinistra più delle altre è progressivamente invecchiata, da un decennio all'altro. I ventenni del Sessantotto. I trentenni negli anni Settanta. I quarantenni negli anni Ottanta. I cinquantenni negli anni Novanta. E via di seguito. Una generazione di nostalgici, che votano allo stesso modo, un po' per speranza, un po' per abitudine.

Solo dopo il 2000 i giovani sono tornati a sinistra. Soprattutto i "più" giovani. I miei figli. I fratelli minori di Scurati (se ne ha). In particolare gli studenti. Per diverse ragioni. La comune condizione di incertezza li ha resi inquieti. Una generazione senza futuro. La prima, nel dopoguerra, ad essere convinta (con buone ragioni) che non riuscirà, nel corso della vita, a migliorare la posizione sociale dei propri genitori. Poi, l'attacco alle torri gemelle e la guerra in Iraq. La globalizzazione economica e politica. Hanno alimentato l'insicurezza e il senso di precarietà, soprattutto fra i giovani. Che hanno "una vita davanti". Ma quale?

Li hanno spinti a mobilitarsi e a manifestare (soprattutto gli studenti). Anche per sentirsi meno soli. I (più) giovani, infine, hanno maturato una competenza comunicativa e tecnologica diffusa. Capaci di stare in contatto fra loro, senza limiti di spazio e tempo. Di sperimentare linguaggi nuovi, inediti e largamente incomprensibili agli adulti. Sono divenuti una tribù. Mischiati agli adulti, eppure separati da essi.

I (più) giovani. Quelli nati negli anni Ottanta, al tempo della caduta del muro. Quelli che non avevano conosciuto il Sessantotto, il terrorismo, la Dc e il comunismo. Quelli per cui CCCP è un gruppo di rock progressivo e Berlino una città di tendenza. Si sono spostati a sinistra. Perché dall'altra parte c'era Berlusconi. Il padrone dei media. Icona del potere nel mondo della comunicazione. A cui opporsi. Perché dall'altra parte c'erano gli amici di Bush e della guerra, ma anche i sostenitori del lavoro flessibile. Così, alle elezioni del 2001 e in quelle del 2006 i giovani hanno votato massicciamente a sinistra. Soprattutto, ripetiamo, gli studenti e i giovani con una carriera di studi più lunga.

Oggi questa stagione sembra conclusa. Era emerso anche nei sondaggi pre-elettorali, ma in misura minore a quanto si è poi verificato. Infatti, alle elezioni del 13 aprile 2008 (Sondaggio Demos-LaPolis, maggio 2008, campione nazionale di 3300 casi) appena il 31% dei giovani (fra 18 e 29 anni) ha votato per (la coalizione a sostegno di) Veltroni. Il 49%, invece, per Berlusconi.

Una distanza larghissima, superiore a quella registrata fra gli elettori in generale. Alle "estreme" dello schieramento politico, invece, la distanza fra le parti si è annullata; anzi, quasi invertita. Il 3,2% dei giovani ha votato per la Sinistra Arcobaleno, poco più (oltre il 4%) per la Destra di Storace. Una tendenza ribadita, peraltro, dal voto degli studenti. Anche fra loro la coalizione a sostegno di Berlusconi ha superato il centrosinistra di Veltroni, seppure con uno scarto più ridotto: 42% a 37%. Mentre la Destra radicale è, a sua volta, più avanti della Sinistra Arcobaleno: 6% a 4%. Vale la pena di aggiungere che Di Pietro, fra i giovani, dimostra scarso appeal. Anzi: il suo peso elettorale è più ridotto che nel resto degli elettori.

Quasi una svolta epocale, insomma. Naturalmente, la spiegazione più facile è prendersela con loro. I giovani. Sospesi fra precarietà e un mondo di veline e amici, sarebbero stati risucchiati in un nuovo riflusso "conservatore". Vent'anni addietro, a un osservazione del genere, Altan faceva replicare a Cipputi: "Mi devo essere perso il flusso progressista...". Per capire il deflusso dei giovani verso la destra e il non-voto, però, è più semplice soffermarsi sullo spettacolo offerto dalla sinistra, riformista e radicale. Il Pd, attraversato da divisioni personali e di corrente. Intorno ai soliti nomi: Veltroni, D'Alema, Rutelli. Marini.

Rifondazione: segmentata da fazioni e frazioni. Alcune che "pesano" il 3-4% in un partito stimato intorno al 2%. Pochi accenni, risaputi, evidenti a tutti. Sufficienti a comprendere perché la Sinistra non possa aiutare i 30-40enni della "generazione perduta" a ritrovarsi. Tanto meno i giovani - e gli studenti - a identificarsi. Si sentono una "generazione perdente". Perché dovrebbero affidare il proprio destino, la propria rappresentanza a una classe politica "perdente" di professione?

I dati citati in questo articolo sono disponibili
su www.repubblica.it
e www.demos.it

(4 agosto 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #57 inserito:: Agosto 13, 2008, 10:53:30 am »

Ilvo Diamanti

Rubriche » Bussole

La scoperta dell'Ossezia


Non si è capito molto, in Italia, della drammatica crisi che ha scosso la Georgia in questi giorni. I nostri occhi, d'altronde, sono puntati quasi esclusivamente sul cortile di casa. E ci riesce difficile capire anche quel che avviene intorno a noi. Perché siamo un Paese complicato, con una scena politica labirintica e fantasmatica. Ma anche perché non abbiamo un'idea chiara dei confini. Esterni e, ancor prima, interni.

L'abbiamo scritto tempo fa, in una precedente "bussola": dovremmo studiare e insegnare meglio la geografia, nelle nostre scuole. Serve: almeno quanto la "buona condotta". Invece, io continuo a incontrare colleghi (professori universitari) che mi decantano la qualità della vita e dell'ambiente in Umbria. Perché sono convinti che Urbino, dove io insegno e - per una buona parte dell'anno - vivo, sia in Umbria. E quando li smentisco, con un po' di tatto, succede che alcuni si correggano. E spostino Urbino in Toscana. Poco male. Tanto la geografia, in Italia, conta poco. E si studia poco. Con la scusa che cambia di continuo. Fra province e regioni che sorgono ogni anno. Con la scusa che tanto c'è la globalizzazione. I confini non contano. Con internet, i cellulari, le distanze spazio-temporali si annullano. Se vuoi raggiungere una meta, basta usare un navigatore satellitare. Ti guidano dovunque. Anche se ti costringono a itinerari strani e, talora, ti conducono in un luogo diverso dal previsto. Ma tanto, in un mondo senza geografia non c'è alternativa. Devi essere guidato.

Pochi, d'altronde, conoscono il linguaggio e la scrittura del territorio. Per cui è difficile comprendere cosa e perché stia capitando in Georgia. Perché la Russia vi sia intervenuta in modo tanto violento. Lo sconcerto, inoltre, si trasforma in vertigine di fronte alla scoperta dell'Ossezia e dell'Abkhazia. Perché, ad eccezione dei lettori abituali di liMes, quasi nessuno fino ad oggi sospettava dell'esistenza di queste entità. Nel caso dell'Abkhazia, peraltro, è perfino sconveniente nominarne gli abitanti, in pubblico.

Tuttavia, la geografia non è mai stata così importante, proprio perché non è mai stata incerta, aperta, mobile come oggi. Senza più muri certi e invalicabili a tracciare divisioni. Nell'era della comunicazione senza confini: i confini e i contesti - locali e nazionali - sono divenuti di nuovo essenziali. Lotte sempre più dure si combattono nel nome di un nome. E di un "dove". Per conquistare un'identità territoriale. Un nome legato a un dove. Per potersi chiamare osseti oppure (ci si perdoni) abkhazi. Anche se dietro a queste rivendicazioni ci sono, spesso, altri interessi e altri poteri. Altre potenze. La Russia, in questo caso, intenzionata a ostacolare l'intesa della Georgia con l'Occidente. E con gli Usa. E a mantenere saldo il controllo su aree strategiche dal punto di vista dell'energia (petrolio, gas). La Russia, impegnata a ricostruire l'Impero, dopo il crollo del sistema sovietico.

Ma in Italia la geografia e la geopolitica sono assenti: nella scuola, nel senso comune e dalla cultura politica. Come dimostra il dibattito di questi giorni. Fra il comico e il grottesco. La sinistra tace. Afasica. Reticente e imbarazzata come su - troppi - altri argomenti. Berlusconi è impegnato a mettere d'accordo gli amici George W. e Vladimir. Per telefono, dalla sua residenza reale di Villa Certosa. Ricorrerà alla proverbiale capacità di tessere relazioni informali. La "diplomazia della barzelletta", come l'ha definita Edmondo Berselli. Ma dovrà, prima, convincere la Lega, che, per bocca di Calderoli, ha invitato il governo a schierarsi con la Georgia e contro l'aggressione della Russia. Però, anche l'Ossezia del sud denuncia l'aggressione della Georgia; da cui, insieme all'Abkhazia, rivendica l'autonomia. D'altronde, entrambe - Ossezia e Abkhazia - sono, di fatto, Repubbliche indipendenti (con il sostegno attivo e interessato della Russia).

Tuttavia, la Lega ha sempre avuto un atteggiamento eclettico sui conflitti che mirano a ridisegnare la geografia e i confini. Come nelle sanguinose guerre balcaniche dello scorso decennio. Quando si è schierata apertamente per Milo%u0161evi%u0107. Dalla parte della Serbia e contro il Kosovo. Forse per ostilità verso gli albanesi. O, più probabilmente, verso la Nato, l'Europa e gli Usa. Garanti dell'unità nazionale dell'Italia e dunque nemici della Padania. Ma erano altri tempi e la Lega era all'opposizione di tutti. Ai margini del sistema politico italiano. Mentre oggi sta al governo e si è convertita a un atteggiamento realista. Tuttavia resta il dubbio. Quando Bossi alza il dito medio contro l'inno di Mameli. E, quindi, contro l'unità nazionale. Quando rammenta che quel dito è sempre levato. Intende ribadire, marcare con forza che anche la nostra geografia è provvisoria. Che siamo un Paese provvisorio. Che l'Italia non esiste. O meglio: a Nord c'è la Padania, mentre l'Italia comincia sotto il Po. Sempre più a Sud, però. Perché anche in Emilia Romagna e nelle Marche si levano forti i richiami alla liberazione: da Roma e dagli stranieri che ci invadono. Espressi e amplificati dal crescente successo elettorale della Lega. La Padania, cioè, si espande. E l'Italia si riduce.

In Italia non c'è una comune idea della geopolitica internazionale né dell'interesse nazionale. Tanto meno in questa maggioranza di governo. Anche per questo il nostro peso sulla scena globale è così leggero. E mentre Berlusconi è intento a telefonare agli Amici, Sarkozy negozia e conclude un accordo fra Presidenti.

Il fatto è che l'Italia è confinata ai confini del mondo; e i suoi stessi confini interni sono mobili. Ipotetici e negoziabili. Come il numero delle province, che cresce di anno in anno. E' unita dalle sue divisioni. Divisa dai suoi miti unificanti (presto cancelleremo anche Garibaldi). La sua classe politica e intellettuale è, in gran parte, incapace di scrivere una storia comune. Anzi, ne contesta i pochi elementi condivisi. Perché dovrebbe credere e riconoscersi nella geografia? Per muoversi e orientarsi basta un navigatore satellitare.

(13 agosto 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #58 inserito:: Agosto 18, 2008, 04:21:07 pm »

POLITICA MAPPE

"Il Presidente" del Nord

di ILVO DIAMANTI



Umberto Bossi non parla mai a caso. Neppure quando esagera. Neppure quando poi si corregge. E capitano spesso entrambe le cose. Soprattutto a Ponte di Legno, dove, da decenni, trascorre le ferie estive. Usa il tradizionale "discorso di Ferragosto" per annunciare le campagne d'autunno. O più semplicemente, per riposizionare la Lega al centro del dibattito politico nazionale. Come ha fatto in passato, quando, proprio a Ponte di Legno, ha anticipato e quindi sostenuto la "battaglia per l'indipendenza padana". In altri anni, ha, invece, polemizzato con la Chiesa. Nemica della secessione. Ogni anno un'invenzione. Così, negli anni Novanta l'estate è divenuta una stagione "politica" leghista. Sfruttando il vuoto informativo, mentre le altre forze politiche andavano in ferie oppure si dedicavano alle feste di partito, la Lega si mobilitava. E dava materia interessante ai giornali e ai giornalisti. Che la seguivano in massa. Poi, per alcuni anni, dopo l'eclissi elettorale di fine millennio e, soprattutto, dopo la malattia di Bossi, anche la Lega ha rispettato il periodo feriale. Ponte di Legno è divenuto un luogo di riposo. E di convalescenza, per il leader e la Lega. Oggi, insieme a Bossi e alla Lega, anche Ponte di Legno è tornata ad essere una capitale politica estiva. Controcanto di Villa Certosa. Per questo la promessa di Bossi, di "restituire l'Ici ai Comuni", appare importante. Perché suggerisce le preoccupazioni e, al tempo stesso, le strategie future della Lega. Dal punto di vista esterno, ma anche interno. Né il chiarimento avuto con Tremonti cambia la sostanza del discorso.

1) Anzitutto, c'è una preoccupazione "sostanziale" e progettuale. L'abolizione dell'Ici è popolare, fra i cittadini, perché si tratta di una tassa in meno per oltre il 70% degli italiani, proprietari di casa. Tuttavia, l'Ici è un'imposta comunale, applicata e incassata dai comuni. La principale fonte di autofinanziamento per le casse sempre più esauste delle amministrazioni locali. Abolirla per programma, farne il manifesto elettorale, è, sicuramente, servito al Pdl. Ma per la Lega era e resta un non-senso. Un partito che si presenta come il portabandiera dell'autogoverno locale: come può farsi complice di un atto che sottrae agli enti locali il principale e più sostanzioso strumento di autofinanziamento? È una contraddizione in termini. Che Bossi oggi cerca di sciogliere. Così, a Ponte di Legno, ha chiarito che il federalismo fiscale non può riguardare solamente le Regioni, ma deve interessare anche i Comuni. Per i quali gli oneri di fabbricazione e l'Ici costituiscono la principale risorsa. D'altronde, la Lega è insediata al governo di centinaia di comuni di taglia piccolissima, piccola. Ma anche media e grande. Come Verona, Treviso, Varese. Alle elezioni di aprile 2008, inoltre, si è imposta come primo partito in oltre 800 comuni (su circa 4000, al di sopra del Po; Aosta e Bolzano escluse). E nei piccoli e medi comuni del Nord pedemontano (più che padano), dove la Lega è più forte, il peso delle case in proprietà è massimo.

2) C'è, poi, la preoccupazione di Bossi di smarcare se stesso e la Lega dal Pdl di Silvio Berlusconi. Inventore dell'abolizione dell'Ici fin dalla campagna elettorale del 2006, quando l'aveva estratta, come un coniglio dal cappello, nel secondo, decisivo "faccia a faccia" in tivù con Prodi. Bossi, dopo la rappacificazione del 1999, ha sempre sostenuto, in modo fedele, l'amico Silvio. A Ponte di Legno, però, ha ribadito che non si tratta di una fiducia illimitata. Fine a se stessa. Ma fondata su solide basi di interesse. E lascia intendere che altre occasioni per ribadire la propria autonomia non mancheranno, in futuro. Soprattutto oggi che l'amico Silvio è divenuto leader di un nuovo partito, in cui è cresciuto notevolmente il peso del Sud e delle componenti più stataliste e assistenzialiste (AN).

3) Sullo sfondo, si intravede l'ipotesi - in realtà molto ipotetica - di un'intesa con il Pd. Che, a sua volta, governa in molti comuni del Centro-Nord. Sensibile alla proposta di reintrodurre l'Ici, sul tema del federalismo fiscale si è già dichiarato disponibile al confronto e a negoziare proposte comuni. Tuttavia, per la Lega, l'apertura a sinistra in questo momento costituisce soprattutto - se non solo - un mezzo per distinguersi e per esercitare pressione nei confronti del Pdl. Semmai, la Lega oggi ha interesse a presentare se stessa come opposizione "nel" governo. L'unica possibile, viste le difficoltà in cui si dibatte l'opposizione "al" governo. Cioè, il Pd e la sinistra.

4) Non vanno, infine, trascurate le ragioni "interne" alla Lega. Una, già anticipata, riguarda la preoccupazione di rispondere ai propri amministratori locali, ai propri sindaci. Pressati dalle richieste crescenti dei cittadini, mentre risorse e (auto)finanziamenti calano. Ma c'è un'altra ragione, forse più importante. Riguarda l'identità. La Lega negli ultimi anni, negli ultimi mesi, si è caratterizzata sempre più come soggetto "securitario". Attraverso le campagne sugli (e, spesso, contro gli) immigrati e i rom. Non è un caso che il suo uomo di governo più popolare e rappresentativo, oggi, sia Roberto Maroni, ministro degli Interni. Che proprio nei giorni scorsi ha ribadito l'efficacia dei provvedimenti in materia di immigrazione e criminalità comune. Rivendicando l'importanza dell'uso dell'esercito. Peraltro, fra gli amministratori della Lega, oggi i più popolari sono, forse, Flavio Tosi, sindaco di Verona, e (l'antesignano) Giancarlo Gentilini, (pro)sindaco di Treviso. Idealtipi del borgomastro che promette "ordine e polizia". Interpreta la domanda di sicurezza come risposta alle paure. L'identità locale come difesa "dagli altri". Rivendicare la restituzione dell'Ici, il federalismo fiscale, levare il dito medio contro l'inno di Mameli (al di là delle precisazioni storico-filologiche regalate da Bossi a Ponte di Legno) significa rilanciare la "Lega per l'indipendenza padana", annebbiata dalla "Lega degli uomini spaventati". Dare evidenza alla Lega dei Comuni e (prossimamente) delle Regioni, eclissata dalla Lega delle ronde.

Non bisogna, ovviamente, attendersi lacerazioni o strappi - e neppure fratture significative - su questi argomenti, nei prossimi mesi. Tuttavia, il discorso di Bossi a Ponte di Legno serve a rammentare tre cose, utili a immaginare il futuro politico italiano: a) Bossi è tornato e comanda la Lega; b) la Lega è alleato fedele di Berlusconi, ma oggi pesa molto più che nel 1994 e nel 2001: lo farà pesare; c) in questo governo e in questa maggioranza il fattore geopolitico è destinato a contare sempre più. Soprattutto in vista dell'annunciata, definitiva confluenza di FI e An nel Pdl. La Lega è (e vuole interpretare) il Nord, mentre il Pdl gravita sul Centro-Sud. La Lega abita nel Lombardo-Veneto, mentre il baricentro del Pdl è diviso fra Roma e la Sicilia. Inutile attendersi il Big Bang, in futuro. Però, forse, un Little Bang...

(17 agosto 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #59 inserito:: Agosto 24, 2008, 06:25:30 pm »

POLITICA MAPPE

Italia, condominio degli estranei

DI ILVO DIAMANTI


NON è facile percepire quanto sia cambiato il mondo intorno a noi, in poco tempo. Non il Mondo. Ma il "piccolo" mondo che ci circonda. Il territorio. Il nostro paese, la nostra città, il nostro quartiere, le case e le strade vicino a casa nostra. E' avvenuto tutto in fretta, negli ultimi anni, anzi, negli ultimi decenni. I nostri occhi si sono abituati a vedere scomparire gli spazi, l'orizzonte. Si sono abituati a non vedere. Per cui "non" vediamo più, senza rendercene conto.

D'altronde, la casa è una vocazione nazionale. L'Italia: Paese di piccoli paesi, un Paese di compaesani (come lo ha definito, con una formula felice, il sociologo Paolo Segatti). Ha sempre inseguito il mito della "casa". Luogo e, al tempo stesso, simbolo di una società centrata sulla famiglia. Dove le case si trasmettono per via generazionale, dai genitori ai figli. Una società, per questo, "stabile", quasi immobile, anzi: immobiliare (abbiamo detto, in altre occasioni). Per cui la dilatazione edilizia non ci ha spaventati. Ci è sembrata naturale. Una casa per ogni famiglia. E per ogni figlio, se possibile. Non ci siamo accorti, anche per questo, del cambiamento intorno a noi. E, comunque, ci siamo abituati. L'abbiamo percepito come un costo necessario.

D'altronde, tutto ha un prezzo e non si può pretendere di conquistare il benessere, se non la ricchezza, senza rinunciare a qualcosa. Un pezzo di paesaggio, un frammento di ambiente, un metro di territorio, un po' d'aria, un angolo di orizzonte. E, via via, una cerchia di relazioni personali e sociali, una scheggia di vita quotidiana. Fino a ritrovarsi racchiusi in una nicchia, da soli in mezzo agli altri. Non vorremmo replicare la ballata del ragazzo della via Gluck. Lamentare che "là dove c'era l'erba ora c'è... una città". (Anche se la nostalgia è un vizio che conviene, a volte, coltivare).

Ci interessa, tuttavia, segnalare che il processo immobiliare, negli ultimi due decenni e soprattutto negli ultimi anni, ha assunto una velocità cosmica e un'estensione devastante, quanto gli effetti che ha prodotto. In Italia più che altrove. Secondo le valutazioni di Maria Cristina Treu (Presidente del CeDaT - Centro di Documentazione dell'Architettura e del Territorio del Politecnico di Milano), negli anni Novanta (dati Eurostat) le costruzioni, in Italia, hanno sottratto all'agricoltura circa 2.800.000 ettari di suolo. Ogni anno si consumano 100.000 ettari di campagna (il doppio della superficie del Parco Nazionale dell'Abruzzo). D'altra parte "l'Italia è anche il primo paese d'Europa per disponibilità di abitazioni; ci sono circa 26 milioni di abitazioni (di cui il 20% non occupate), corrispondenti a un valore medio di 2 vani a persona".

Ragionando sui dati Eurostat di Germania e Francia (come ha osservato l'economista Giancarlo Corò), emerge che negli anni Novanta l'Italia ha urbanizzato un'area più che doppia di suolo rispetto alla Germania (1,2 milioni di ettari) e addirittura 4 volte quello della Francia (0,7 milioni di ettari). I riferimenti statistici più recenti (Cresme/Saie 2008) sottolineano come questa tendenza, negli ultimi anni, abbia conosciuto una ulteriore, violenta accelerazione. Dal 2003 ad oggi, infatti, sono state costruite circa 1.600.000 abitazioni (oltre il 10% delle quali abusive). Per contro, è noto che, da vent'anni, la popolazione in Italia non solo non è cresciuta ma è, al contrario, calata sensibilmente. E solo negli ultimi anni ha dato segni di ripresa, grazie al contributo degli immigrati. Il nostro Paese si è, dunque, urbanizzato in modo ampio, rapido, violento.

Ma per ragioni che solo in parte - limitata, peraltro - si possono ricondurre alla "domanda sociale". All'evoluzione demografica, ai cambiamenti negli stili e nell'organizzazione della vita delle persone. Semmai è vero il contrario: gli stili e l'organizzazione della vita delle persone hanno subito mutamenti significativi e profondi in seguito alla rivoluzione immobiliare del nostro territorio. Anche se si tende a dimenticarlo, visto che l'attenzione si è concentrata altrove: sulle conseguenze economiche e finanziarie del fenomeno a livello globale. Visto che la casa e l'edilizia, dopo essere state, per anni, il principale motore della crescita, da qualche tempo si sono trasformate nel principale motore della crisi. In Italia, peraltro, i comuni hanno finanziato la loro "autonomia" e fronteggiato il calo dei trasferimenti dello Stato soprattutto con gli oneri di fabbricazione e la fiscalità legata alla casa (l'Ici).

Le aree destinate a edilizia privata, le zone artigianali, commerciali, industriali si sono moltiplicate. Senza limiti. Senza troppi vincoli. Ci hanno guadagnato in molti. Immobiliaristi e banche. Gli enti locali. Ma anche molti privati (impresari, ma anche proprietari di terreni). Così, abbiamo consumato in fretta il territorio, l'ambiente e, negli ultimi tempi, lo sviluppo e i risparmi. Ma anche (soprattutto, vorremmo dire) la società. Che esiste dove, quando e se ci sono relazioni, associazioni, luoghi e occasioni di incontro. Proprio quel che si è perduto in questi anni, nelle stesse zone dove esistevano e resistevano legami di comunità radicati e solidi. Come nel Centronord e soprattutto nella pedemontana del Nord e nel Nordest: aree policentriche, disseminate di piccoli paesi. Provate a girarle facendo attenzione ai cartelli che fiancheggiano le strade. Molti dei quali annunciano che lì vicino sta sorgendo, oppure è sorto, un "villaggio Margherita" oppure Quadrifoglio, un "quartiere Europa" o Miramonti.

Tanti insediamenti grandi o piccoli, disseminati di palazzi, villette a schiera, appartamenti di varia metratura, garage interrati. Intorno: prati un po' esangui, strade e rotonde. Rotonde, rotonde e ancora rotonde. Magari una pista ciclabile. Al centro una piazza - veramente finta - attrezzata con panchine e magari un prato. Perlopiù ridotta a parcheggio, dove i bambini non giocano e gli adulti non si fermano a parlare. Accanto: altri quartieri e altri villaggi nuovi. Sorgono senza seri progetti di integrazione, socializzazione. Senza politiche finalizzate a costruire relazioni sociali, oltre agli immobili. Né ad alimentare la vita pubblica, oltre alla rendita privata. Località artificiali, dove confluiscono migliaia e migliaia di persone. Migliaia e migliaia di estranei. Di stranieri, immigrati: anche se sono veneti, lombardi, marchigiani. "Italiani veri": da generazioni e generazioni. Ma in realtà: apolidi. Abitanti del "villaggio Margherita" e del "condominio Europa".
È così che siamo diventati un paese di stranieri. Individui poveri di relazioni, sempre più soli e impauriti. Che passano la gran parte del loro tempo in casa. Con scarsi ed episodici contatti con il mondo circostante.

Principale fonte di conoscenza del mondo: la televisione. Comunicano con gli altri attraverso i cellulari e - i più competenti - le e-mail. Abituati a relazioni senza empatia, frequentano i centri commerciali, non solo per "consumare" ma per uscire di casa, per incontrare gente. Si tuffano nelle notti bianche, negli eventi di massa. Dove gli altri sono "folla" e restano "altri". Estranei. Questo ci pare il problema principale, oggi. La scomparsa della società, sostituita da un'opinione pubblica pallida. Artificiale. Atomizzata. Non "Opinione", ma "opinioni", raccolte dai sondaggi, rappresentate "dai" e "sui" media. Più che "opinione pubblica": pubblico. Spettatori. Persone senza città. Non-cittadini.

(24 agosto 2008)

da repubblica.it
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