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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 277748 volte)
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« Risposta #360 inserito:: Novembre 19, 2013, 05:01:02 pm »

Morto un Pdl se ne fa un altro

di ILVO DIAMANTI
18 novembre 2013

Oggi più che mai occorrerebbe andare oltre il Porcellum. Per favorire la formazione di maggioranze coerenti e stabili e rafforzare il legame fra elettori ed eletti. Mentre, oggi più che mai, si assiste allo sfarinarsi dell'intero sistema partitico. A partire dal Centrodestra. Dove il Partito Personale di Silvio Berlusconi, il Pdl, è imploso. La ri-fondazione forzista (20 anni dopo) ha, infatti, prodotto la fondazione di un nuovo soggetto politico. Ncd: il Nuovo centro-destra.

Così, dalla divisione del Pdl, il Popolo di Silvio, sono emersi due popoli. I Berlusconiani Ultrà, guidati da Daniela Santanché, da un lato. I Diversamente Berlusconiani, guidati da Angelino Alfano, dall'altro. Gli uni (sedicenti) duri. Gli altri (sedicenti) moderati. Reciprocamente ostili e distanti. E insofferenti. Eppure entrambi "fedeli" al Capo.

Non fosse davvero aspro e lacerante il conflitto tra le due fazioni, almeno sul piano dei rapporti personali, vi sarebbe da sospettare un gioco delle parti. Fra componenti berlusconiane di lotta e di governo. Destinate, in caso di elezioni, a tornare insieme, come ha previsto lo stesso Berlusconi. Quasi una strategia di marketing e di marchi, come nell'offerta delle reti tv, per raggiungere diversi settori di mercato. Per stare sempre al governo e beneficiando, al tempo stesso, della rendita di op-posizione. (Lo ha suggerito Enzo Cipolletta in una nota per l'agenzia InPiù).

D'altronde, il Porcellum spinge a costruire coalizioni ampie, le più ampie possibili, fra soggetti diversi. Più diversi che mai. Così, per vincere le elezioni, si creano alleanze che rendono difficile, in seguito, governare. Come dimostrano le legislature successive all'avvio del Porcellum. Dal 2006 a oggi. Attraversate da tensioni endemiche. Il virus della decomposizione ha contagiato anche la coalizione di centro. Vista la frattura tra Sc e l'Udc. Vista la scissione di Sc, dove alcuni parlamentari, guidati da Mauro, si sono staccati. Per riunirsi, forse, all'Udc. O, forse, ai "diversamente berlusconiani" di Alfano. Allargando, per paradosso, il peso di Berlusconi in Parlamento. Ma anche in prospettiva elettorale.

Sull'altro versante, nel Pd, le primarie non sembrano aver prodotto i benefici effetti di un anno fa. Quest'anno, d'altronde, non si tratta di eleggere il candidato premier della coalizione, ma il segretario del partito. Tuttavia, è difficile per qualsiasi partito, anche il più solido e coeso (e il Pd di questi tempi sicuramente non lo è), "sopravvivere" a oltre un anno di primarie, quasi ininterrotte. Perché le primarie accentuano, necessariamente, le divisioni interne, fra leader e componenti (correnti?). Tanto più se vengono adottati diversi modelli di competizione, che corrispondono a diversi modelli di partito. I congressi, che riflettono le logiche dell'appartenenza e dell'organizzazione "locale" dei vecchi partiti di massa. E le primarie, appunto, che evocano una logica maggioritaria e presidenzialista.

In questo modo, la scelta del segretario e degli organismi dirigenti del Pd rischia di avvenire attraverso spinte dissociative, più che associative. Indebolendo il leader, invece di rafforzarlo. D'altronde, D'Alema ha affermato all'Unità che Renzi non può - e non deve - vincere in modo troppo netto. Perché non deve "pensare di impadronirsi di un partito che in una certa misura lo osteggia".

Da ciò il contrappunto. Il centrodestra, Nuovo e Vecchio, si divide ma, in prospettiva elettorale, sembra in grado di ri-unirsi e di allargare la sua capacità di attrazione. Potremmo dire: morto un Pdl se ne fa un altro. Mentre il Pd si mobilita per eleggere il nuovo leader. Ma, al tempo stesso, si preoccupa di non rafforzarlo troppo.

Per questo, mai come oggi, sarebbe necessaria una legge elettorale in grado di contrastare la de-composizione in atto. Spingere al bipolarismo, se non al bipartitismo. Legittimare il leader della coalizione. Offrire agli elettori maggiori possibilità e poteri nella scelta degli eletti. I progetti in campo non mancano. Fra tutti: il doppio turno alla francese (proposto, di recente, da Giovanni Sartori insieme a Piero Ignazi e altri politologi); oltre al ritorno al Mattarellum, imperniato sull'uninominale di collegio. (Abolendo, magari, la quota proporzionale.) Si sente, altresì, parlare di ritorno al proporzionale. Un rimedio, come ha sostenuto Roberto D'Alimonte (sull'Espresso), peggiore del male. Tuttavia, dubito che il Parlamento riesca a produrre una nuova legge, diversa dal Porcellum. Anche se costretto dalla Corte Costituzionale, che, d'altronde, non mette in discussione il Porcellum in quanto tale - non potrebbe. Ma la soglia oltre cui fare scattare il premio di maggioranza, per la coalizione vincente.

D'altronde, le leggi elettorali, nel dopoguerra, sono state "cambiate" solo per via extra-parlamentare, attraverso i referendum popolari (nel 1991 e nel 1993). Oppure con un colpo di mano, come nell'autunno 2005. Quando la maggioranza di Centrodestra, allora al governo, in vista delle elezioni dell'anno seguente, propose e impose, in fretta e furia, il Porcellum. Non per vincere le elezioni: non sarebbe stato possibile. Ma per impedire all'Ulivo di prevalere largamente, come sarebbe avvenuto con il Mattarellum. E, soprattutto, per ostacolare il futuro governo. Perché il Porcellum impone la costruzione di aggregazioni ampie, anzi: le più ampie possibili. Tra partiti e partitini diversi. Più numerosi e diversi possibili. E a tutti, anche ai più piccoli, attribuisce poteri di veto e di ricatto. I listini bloccati, infine, non danno agli elettori possibilità di scelta, ma accentuano il potere dei dirigenti di partito sugli eletti.

Così, è difficile cambiare questa legge. Perché il Porcellum è per tutti il "male minore". Oggi, infatti, nessun partito è in grado di "vincere" da solo. A destra, sinistra e al centro: sono aumentate le divisioni e i personalismi. Lo stesso M5S, con questa legge, in Parlamento, può condizionare gli altri partiti, "costretti" a governare tutti insieme. Ma può, al tempo stesso, tenere insieme i propri parlamentari. Che, fuori dal M5S, difficilmente verrebbero ri-candidati.

Infine, istituire un nuovo e diverso sistema elettorale, aprirebbe le porte a nuove elezioni, eventualità temuta da tutti. Partiti e parlamentari di ogni schieramento, eletti da pochi mesi e, in maggioranza, alla prima nomina.
Per queste ragioni, nonostante i richiami del Presidente, nonostante i proclami politici e nonostante l'urgenza, ritengo improbabile, per non dire impossibile, che venga approvata una nuova legge elettorale "per via parlamentare". Perché questi partiti e questo Parlamento sono figli del Porcellum. Come potrebbero uccidere il padre?

http://www.repubblica.it/politica/2013/11/18/news/morto_un_pdl_se_ne_fa_un_altro-71243568/?ref=HREC1-5
© Riproduzione riservata 18 novembre 2013
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« Risposta #361 inserito:: Dicembre 04, 2013, 11:54:24 am »

Nel Paese tutto cambia ma tutto resta uguale

Testa a testa tra Pd e centrodestra, Ncd vale il 5 per cento, M5S al 21per il sondaggio Demos

di ILVO DIAMANTI

02 dicembre 2013

Otto mesi dopo le elezioni politiche non è cambiato niente, in Italia. Almeno, dal punto di vista degli orientamenti di voto. Permane, infatti, un equilibrio instabile fra tre grandi minoranze. Minoranze che interferiscono reciprocamente. In Parlamento e nel Paese.

È la principale indicazione che emerge dal sondaggio di Demos, pubblicato oggi sulla Repubblica. Il Centrosinistra e il Centrodestra: appaiati, poco oltre il 30%. Il M5S sopra il 21% e in lieve crescita. Il Centro, invece, ridotto in uno spazio quasi residuale. Intorno al 5%. Dopo il voto, però, è cambiato il sistema partitico. Nel Centrosinistra si è riaperta la questione, irrisolta, della leadership. Mentre il Centro si è ristretto e, al tempo stesso, diviso. Pochi voti e tanti leader: Monti, Casini, Mauro... Ma le novità più importanti sono avvenute a Centrodestra. Il Pdl non c'è più. È tornata Forza Italia. Per reazione, è sorto un Nuovo Centro Destra, intorno ad Alfano e ai ministri. "Destra Repubblicana", l'ha definita Eugenio Scalfari. L'esito principale di questa scomposizione è che i due partiti post-Pdl, insieme, hanno recuperato quasi 6 punti percentuali, rispetto allo scorso ottobre. Allargando la base elettorale del Pdl anche rispetto alle scorse elezioni di febbraio. In altri termini, secondo la logica proporzionale, 1: 2=1,3.

Certo, conteggiare insieme due partiti divisi, esito di una scissione, è discutibile. Tuttavia, sono entrambi figli dello stesso padre, Silvio Berlusconi. E la legge elettorale li spinge - o meglio: li costringe - a tornare insieme, in caso di nuove elezioni. Per non rischiare, in caso contrario, di perdere. Entrambi.

È, semmai, interessante osservare come FI, da sola, non abbia perduto consensi rispetto al Pdl, due mesi fa. Quando la frattura di Alfano si era già consumata, in Parlamento. Al contrario. Oggi è quasi al 21%. Mentre il Ncd ha conquistato uno spazio elettorale significativo, ma limitato. Poco sopra il 5%. I suoi elettori provengono per oltre il 50% dal Pdl e per quasi il 10% dal Centro (Monti e Udc). Attratti da un comune richiamo: autonomia da Berlusconi ma contro la Sinistra. La separazione ha, peraltro, marcato in modo evidente l'identità politica dei due elettorati: l'Ncd spostato a centro-destra, FI molto più a destra.

Ciò che distingue maggiormente i due partiti, però, è il giudizio sul governo. Fra gli elettori di Ncd, infatti, si osserva la quota più ampia di giudizi positivi (dopo i Centristi): 70%. Oltre il doppio di quel che emerge fra gli elettori di FI: 33%. Il dato più basso, ad eccezione del M5S (23%). I due partiti post-Pdl, così, ripropongono un'anomalia normale nella politica italiana.

Recitano, cioè, il doppio ruolo: di governo e di opposizione. Come hanno fatto la Lega e lo stesso Berlusconi, per decenni. Senza bisogno di dividersi. Il rapporto con il governo spiega, in parte, anche la tenuta di FI. Che oggi beneficia della rendita di opposizione a Letta. In declino di fiducia, nelle ultime settimane. L'andamento delle intenzioni di voto, rilevate nel corso del sondaggio, mostra, infatti, un aumento dei consensi per FI dopo l'uscita dalla maggioranza (martedì 26 novembre). Il Centrodestra, in questo modo, dopo essere stato in svantaggio per mesi, si avvicina al Centrosinistra e, praticamente, lo raggiunge. Entrambi allineati fra il 32 e il 33%. Così Berlusconi rilancia la strategia adottata, con successo, nella recente campagna elettorale. Caratterizzata dalla polemica contro Monti, leader di Scelta Civica e, in precedenza, premier del governo tecnico. Sostenuto da una maggioranza di "larghe intese". Come quella del governo guidato da Letta. Bersaglio, non da oggi, delle critiche di Berlusconi e FI. Che cercano, in questo modo, di allontanare ogni responsabilità delle scelte fatte - e non fatte - negli scorsi mesi. Negli scorsi anni. Per intercettare, a proprio favore, il clima d'opinione del Paese. Avvelenato dalla crisi economica. Sfavorevole a ogni istituzione e a ogni attore politico.

A Centrosinistra, il Pd ha perduto consensi rispetto a ottobre (circa 3 punti). Ma resta il primo partito, (29%). Anche se i congressi e la campagna delle Primarie per il segretario non sembrano aver prodotto, fino ad oggi, lo stesso entusiasmo del passato. D'altronde, c'è un vincitore annunciato: Matteo Renzi. Un po' a disagio, nella parte. Lui: è un outsider di successo. Oggi non recita il ruolo dello sfidante, ma dello sfidato. In mezzo a due figure diverse. Cuperlo, evoca la tradizione e l'organizzazione politica, radicate sul territorio. Civati, invece, compete con Renzi sul suo stesso piano. La giovinezza e la capacità mediatica - esibita, con grande efficacia, nel "faccia a faccia" su Sky.

Più in generale, pesa la delusione per la vittoria mancata alle elezioni politiche. Contro le attese suscitate dalle Primarie di un anno fa.

Così è arduo, domenica prossima, immaginare una partecipazione ampia come nelle precedenti occasioni. Potrebbe non essere un male. Costringerebbe il nuovo segretario a considerare il Pd un partito ipotetico (per citare Berselli): da (ri) costruire. A considerare la fiducia degli elettori: un obiettivo da ri-conquistare. Accettando la sfida del M5S. Che ieri, a Genova, ha di nuovo riempito la Piazza, per un nuovo V-Day. In nome dell'impeachment di Napolitano. L'ultimo riferimento istituzionale dotato di fiducia, fra i cittadini. Un nuovo passaggio della marcia contro i partiti e le istituzioni condotta negli ultimi anni. Con successo, visto che, secondo il sondaggio di Demos, il M5S continua a mantenere un livello di consensi superiore al 21%. Più di quanto segnalassero le stime elettorali pochi giorni prima del voto di febbraio. Peraltro, il M5S dispone di una base "fedele" più ampia di quel che si potrebbe pensare. Visto che il 60% di quanti l'hanno votato alle elezioni oggi confermerebbero la loro scelta. Ma la fedeltà verso Grillo e il M5S suona come la misura dell'in-fedeltà verso gli altri partiti e verso le istituzioni. Verso la democrazia rappresentativa. In un Paese che, dopo mesi di "larghe intese", appare diviso assai più che condiviso.
 
© Riproduzione riservata 02 dicembre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/12/02/news/nel_paese_tutto_cambia_ma_tutto_resta_uguale-72466138/?ref=HREA-1
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« Risposta #362 inserito:: Dicembre 11, 2013, 11:19:25 am »

Cambiamento e partecipazione
Ecco perché ha vinto Renzi

Cuperlo votato dagli over 65, Civati dai giovanissimi. I dati emergono dall'indagine condotta da C&LS.
Circa 3600 interviste, coordinate dalle Università di Cagliari e Milano, durante le primarie, fuori dai seggi

di ILVO DIAMANTI
   
LE PRIMARIE del Pd hanno garantito a Matteo Renzi un successo ampio e netto — quasi il 70% dei consensi. Legittimato da una mobilitazione larga quanto inattesa. Circa 3 milioni. Più o meno come nel 2009 e nel secondo turno dell’anno scorso. Quando, però, si trattava di primarie di coalizione per scegliere il candidato premier del Centrosinistra. Un’affluenza tanto ampia non era scontata.

Due settimane fa, infatti, la quota di elettori del Pd e del Centrosinistra che dichiarava l’intenzione di partecipare alle primarie era, di circa un terzo, inferiore alle occasioni precedenti (Sondaggio Demos). Effetto, soprattutto, della delusione, in seguito al risultato delle elezioni di febbraio. Quando il centrosinistra non è riuscito a vincere, nonostante la mobilitazione e le attese alimentate dalle primarie svolte in novembre. Invece, anche in questa occasione, molti elettori hanno messo da parte disincanto e frustrazione.

Così, per una volta di più, domenica sono tornati ai seggi allestiti dal Pd. Ci hanno ripensato per diverse ragioni. Anzitutto, il vizio della partecipazione. La convinzione democratica. La convinzione che la “volontà popolare” sia importante. E vada sostenuta comunque. Nonostante tutto. Tanto più se avviene “di persona”. E permette di incontrare — e, prima ancora, discutere con — altre persone. In tempi nei quali la “partecipazione” è stata sostituita dalla televisione. Oppure dalla rete. A cui, però, molti non accedono. Mentre quelli che sono “connessi” — in numero, peraltro, crescente — comunicano senza incontrarsi “di persona”. Così, alla fine, molti “delusi” hanno ceduto alla convinzione “democratica”. In entrambi i sensi: alla partecipazione democratica — offline — promossa dal Partito Democratico. Al quale è stata concessa un’altra occasione. Per realizzare, davvero, il cambiamento. E per cambiare — esso stesso. Come ha sottolineato Romano Prodi, per spiegare la sua “sofferta” decisione di votare, dopo aver annunciato, in precedenza, che non l’avrebbe fatto (con molte ragionevoli ragioni).

Ad alimentare la partecipazione ha contribuito, in misura importante, la competizione tra i candidati. Accesa, malgrado l’esito apparisse largamente scontato. Nell’insieme, ha dato l’idea di un “cambio di generazione”. La diversa storia politica personale dei due “sfidanti” di Renzi ha, infatti, integrato e allargato l’offerta politica proposta agli elettori. All’interno e all’esterno del Pd. Come emerge, in modo particolarmente chiaro, dai dati dell’indagine condotta da C&LS. Circa 3600 interviste effettuate (e coordinate dalle Università di Cagliari e Milano) durante le primarie, fuori dai seggi, presso un campione nazionale significativo. Mettono in evidenza, anzitutto, le differenze generazionali degli elettori dei tre candidati. Pippo Civati, infatti, raccoglie i suoi consensi soprattutto fra i più giovani (circa il 30% fra 16 e 34 anni), Gianni Cuperlo fra i più anziani (35% oltre i 65 anni). Matteo Renzi, invece, attinge, in modo trasversale, da tutti gli strati d’età. Non a caso, visto che rappresenta la larga maggioranza della base del Pd — coinvolta e potenziale.

Per questo, però, il contributo di Cuperlo e Civati è utile a Renzi e al Pd. Perché i due sfidanti intercettano componenti, per quanto delimitate, molto diverse e lontane fra loro; difficili, soprattutto, da saldare insieme. Cuperlo: il retroterra dei partiti tradizionali. Civati: gli elettori insoddisfatti della politica, che guardano “oltre” il Pd.

D’altra parte, quasi metà degli elettori di Cuperlo (il 48%) è composta da iscritti al Pd, mentre più di tre quarti di quelli di Renzi e di Civati si dichiarano non-iscritti. Le differenze fra i candidati appaiono evidenti dagli orientamenti politici. Gli elettori di Cuperlo sono concentrati a centrosinistra e a sinistra (90%, distribuiti quasi equamente tra le due aree dello spazio politico), quelli di Civati soprattutto a sinistra (57%). Dove si colloca una componente significativa di elettori di Sel. Renzi, invece, è saldamente ancorato a centrosinistra (50% dei voti), ma attinge consensi anche al centro (18%). Nella sua base, non per caso, appare ampia (31%) la quota dei cattolici praticanti.

Gli elettori delle primarie si differenziano anche negli atteggiamenti verso il governo guidato da Letta. Coerentemente con l’orientamento dei candidati. Oltre il 60% degli elettori di Cuperlo esprime un giudizio “favorevole”. La stessa quota di “contrari” che si osserva tra quelli di Civati. Mentre la base di Renzi appare, di nuovo, equamente divisa. Ciò significa, però, che quasi metà dei suoi elettori valuta negativamente l’azione del governo. Il che costituisce un segnale significativo — e preoccupante — per Letta e per la sua maggioranza.

D’altronde, per gli elettori del Pd che hanno votato alle primarie, la scelta di Renzi appare un investimento esplicito in vista delle elezioni. Non a caso, il 94% dei partecipanti al voto delle primarie si dicono convinti che Renzi sia in grado, più di ogni altro candidato, di battere il Centrodestra alle prossime elezioni. Lo pensano, in larghissima maggioranza, anche gli elettori di Cuperlo (80%) e, ancor più, di Civati (90%).

Ciò chiarisce il significato di un’affluenza tanto estesa. E di un consenso così ampio a favore di Renzi. A sinistra e a centrosinistra. Vincere e durare. Senza governi tecnici. Senza larghe intese. Ma, piuttosto, con una maggioranza larga. Perché partecipare, stare con gli altri, insieme ad altre persone: fa bene. Fa stare bene. Ma, almeno ogni tanto, bisogna vincere. E governare. Per la stessa ragione, c’è da credere che questo risultato renda Matteo Renzi più impaziente. Determinato a marcare la sua volontà di “cambiamento”, com’è apparso chiaro fin dalla composizione della sua segreteria. Ma, al tempo stesso, reso inquieto dal dubbio — e dal timore — che, in tempi incerti come questi, il tempo — anche il suo tempo — passi in fretta.

© Riproduzione riservata 10 dicembre 2013

http://www.repubblica.it/politica/2013/12/10/news/voglia_di_cambiare_e_partecipazione_quel_mix_che_ha_incoronato_renzi_cuperlo_votato_dagli_over_65_civati_dai_giovanissimi-73183674/?ref=HREA-1
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« Risposta #363 inserito:: Dicembre 16, 2013, 11:00:46 pm »

Il  Paese stanco che non  crede più a tg e talk show

Mappe.
Indagine Demos-Coop: l'Italia delusa si rifugia nei social network. Nello scambio tra televisione e potere, la paura cresce sempre più, si moltiplica. Anche la satira non diverte più

di ILVO DIAMANTI
Gli italiani continuano a informarsi, in larga maggioranza, seguendo la tivù. Anche se ne hanno sempre meno fiducia e usano, in misura crescente, la Rete. Perché la considerano il canale più libero e indipendente. E permette loro di informarsi navigando tra diversi media. È il ritratto che si scorge scorrendo i risultati della VII Indagine di Demos-Coop su "Gli italiani e l'informazione". Otto persone su dieci, infatti, affermano di informarsi quotidianamente in televisione, il 47% su Internet.

LE TABELLE

Sei anni fa, coloro che utilizzavano Internet erano poco più della metà (25%), mentre il seguito della tv era più elevato di 7 punti. Si tratta di una tendenza chiara, precisata dalla tenuta della radio (circa il 40%) e dalla riduzione significativa dei giornali. Oggi, sostanzialmente sullo stesso livello di un anno fa (25%), ma in calo di 5 punti rispetto al 2007. La popolazione italiana, dunque, si serve sempre più e sempre più spesso della Rete, come fonte di informazione diretta, ma anche per accedere ad altri media, in particolare i giornali. Due navigatori di Internet su tre (e quasi metà sulla popolazione intervistata) affermano, infatti, di leggere regolarmente i quotidiani online. Reciprocamente, i giornali (e i notiziari radio-tv) si connettono alla Rete, attraverso edizioni online e digitalizzate. Inoltre, utilizzano i Social Network, in particolare Twitter, come canale diretto con i leader e gli opinion maker.

Questa evoluzione è favorita dalla rapida diffusione delle tecnologie di comunicazione. Nell'ultimo anno, non a caso, la quota di coloro che si collegano a Internet mediante i cellulari oppure i tablet è cresciuta sensibilmente. Di 20 punti: dal 37% al 57%.

Tuttavia, la tv resta ancora, di gran lunga, il riferimento più frequentato. Come si è visto alle ultime elezioni politiche. Le più "televisive" della storia, nonostante la diffusione della Rete.

Eppure, come si è detto, la tv gode di un grado di fiducia limitato. Solo due persone su dieci la considerano un medium davvero indipendente e libero. Peraltro, gran parte dei programmi di informazione televisivi appare in calo di credibilità. I tg, soprattutto. Il Tg3 (56,7% di valutazioni positive) e il Tg1 (52,4%) continuano ad essere i più accreditati, fra gli italiani. Ma subiscono, entrambi, un declino. Particolarmente rilevante, nel caso del Tg1, rispetto al 2007. Come, d'altronde, il Tg2. Il calo di fiducia colpisce, a maggior ragione, le testate giornalistiche delle reti Mediaset. Il Tg di La7, invece, segna un aumento di credibilità, rispetto al 2007, ma, per la prima volta dopo tanti anni, arretra, seppur di poco, rispetto al 2012. Gli unici tg che registrano una crescita costante, anche nell'ultimo anno, sono quelli sulle reti all news. Rai News24 e Sky Tg24. Insomma, l'informazione tivù ha perduto e sta perdendo credito, in misura diversa, un po' dovunque. La stessa tendenza coinvolge i programmi di approfondimento e i talk legati all'attualità politica e sociale. Molti, fra i più conosciuti e considerati, fino ad oggi, subiscono un brusco calo di fiducia. Ballarò, Servizio Pubblico, Otto e mezzo, In mezz'ora: pérdono tutti intorno ai 4-5 punti, nella valutazione degli italiani (intervistati). Solo Report, un programma di inchiesta, e Piazza Pulita, un talk di battaglia, fanno registrare una crescita di consensi significativa. Così, Ballarò si conferma primo, nella graduatoria della fiducia. Ma, per la prima volta, da quando viene condotta l'indagine di Demos-Coop, il talk condotto da Giovanni Floris condivide il primato. Con Report, appunto. Il programma di Milena Gabanelli.

Perfino i talk satirici e l'infotainment suscitano minore confidenza. Il grado di fiducia verso Striscia la Notizia, in particolare, nell'ultimo anno, è sceso di 5 punti e di 2 quello verso Che tempo che fa, il talk condotto da Fabio Fazio. Mentre le Iene tengono. E Crozza contribuisce agli ascolti di Ballarò. Così, i programmi pop-talk e di satira politica si allineano, tutti, intorno al 50% di gradimento. Nessuno svetta sugli altri.

È come se, in tivù, l'informazione, l'approfondimento, la stessa satira, suscitassero interesse, ma anche stanchezza. E un po' di fastidio. Probabilmente perché la crisi, economica e politica, è difficile per tutti. Sentirne parlare non conforta. Produce, anzi, un senso di malessere che ha contaminato, in qualche misura, anche i media.

D'altronde, gran parte della popolazione sceglie i tg e i programmi di informazione in base alle proprie preferenze politiche. Il pubblico di centrosinistra dimostra fiducia per il Tg3 e il Tg di La7. Il quale risulta, in assoluto, il più apprezzato dagli elettori del M5S. D'altra parte, il Tg di Mentana è quello che ha riservato maggiore spazio e attenzione a Grillo e al M5S, ben prima del voto di febbraio. Gli elettori di centrodestra, invece, guardano con fiducia i tg delle reti Mediaset. E gli elettori di centro si fidano soprattutto del Tg1 e di Rai News 24. Come in passato, dunque, gli italiani, nella tv, cercano conferma alla loro identità politica.

Da ciò, la crescente sfiducia verso l'informazione televisiva. Se, infatti, il legame fra orientamento politico e consumo televisivo appare stretto, allora il clima di distacco e di ostilità verso la politica, che si respira nella società, non può non coinvolgere anche la televisione. Principale, quasi unico, "campo di combattimento" della politica italiana. Ma ciò genera un circuito vizioso. Così, paura e sfiducia, nello scambio tra pubblico e televisione, si rafforzano reciprocamente. È l'Italia del disgusto politico e dei forconi. Prima che sia troppo tardi, qualcuno dovrebbe interrompere questo inseguimento senza fine. Ma è difficile che ciò avvenga per iniziativa del pubblico. Della società. E ho il sospetto che neppure i media, in particolare la tivù, siano disposti a cambiare una programmazione. Che garantisce ancora ascolti, anche se usurata. Così è probabile che lo "spettacolo" continui. Con gli stessi format. Con gli stessi effetti sul "pubblico". Tutti insieme: sfiduciati e scontenti. Fino al collasso del clima d'opinione. Che, in effetti, sembra ormai prossimo.

© Riproduzione riservata 16 dicembre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/12/16/news/mappe_paese_stanco_non_crede_a_tg_e_talk-73708417/?ref=HRER1-1
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« Risposta #364 inserito:: Dicembre 24, 2013, 06:03:41 pm »

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Nel paese dei mille Forconi

di ILVO DIAMANTI
   
Il "tempo dei Forconi" segna un altro passaggio della crisi della nostra democrazia rappresentativa. Tanto più esplicito ed evidente perché amplificato dal ri-sentimento sociale prodotto dalle crisi: economica e politica. I Forconi. Esprimono il senso di deprivazione relativa alimentato dalla percezione del declino.

NON si tratta solo di perdita del lavoro e del reddito. Ma dell'insicurezza pesante che pervade quanti, nel passato recente, erano saliti, faticosamente ai piani medi della scala sociale. I lavoratori autonomi. L'Italia dei lavori, appunto. Che non ha mai avuto una vera rappresentanza organizzata. I Forconi: colpiscono i punti nevralgici del Paese. Il sistema delle comunicazioni e della mobilità. Bloccano strade e autostrade. E generano grande disagio con uno sforzo, relativamente, limitato. I Forconi. Non sono un "movimento", orientato da obiettivi comuni.

Diversamente dal M5S, che è un non-partito organizzato, presente alle elezioni e in Parlamento. Dunque: un partito. I Forconi.

Non sono una "rete", che collega esperienze diverse. Ogni iniziativa che tenti di unificarne l'azione, come la manifestazione di Roma della settimana scorsa, ne mostra i limiti. Perché non sono in grado di coalizzare i diversi luoghi e i diversi attori della protesta. Né, tanto meno, di riassumere i diversi motivi di disagio e rivendicazione in una piattaforma comune. I Forconi. Ri-producono molte manifestazioni e molte immagini. Quanti sono i luoghi e i protagonisti della protesta. Camionisti, artigiani, allevatori, contadini. Lavoratori autonomi diverse aree, di vari e diversi lavori.

Alcuni li hanno definiti una "moltitudine", echeggiando una formula coniata da Antonio Negri, per evocare "un insieme di singolarità", capaci di antagonismo. Non rappresentabili. Se non fosse che, in effetti, i "Forconi" hanno una "rappresentazione", riassunta dal nome con cui sono conosciuti. Ereditato dalle proteste contro le accise, in Sicilia, nel 2012. E oggi attribuito a tutti coloro che protestano, in tutta Italia. Indipendentemente dal luogo e dalla professione. E dallo specifico motivo di disagio espresso. Non a caso, al proposito, si è parlato di "jacquerie" (come ha fatto, alcuni giorni fa, Barbara Spinelli). Echeggiando le sollevazioni spontanee dei contadini francesi, nel XIV secolo.

Ma il termine stesso, "Forconi", costituisce, appunto, una "rappresentazione" unificante. Che evoca la rabbia popolare. Contro il "potere". Indefinito e indeterminato, quanto la moltitudine che protesta. È questa la ragione che, oggi, rende così rilevante  -  e inquietante  -  la mobilitazione dei "Forconi". Il fatto è che dà evidenza  -  rappresentazione  -  alla sfiducia di gran parte della popolazione contro "tutti" i soggetti della rappresentanza. I politici e partiti. Il Parlamento e le amministrazioni locali. L'Europa. Lo Stato. I "forconi", dunque, sono pochi. Differenti e divisi. Eppure godono di grande consenso. Secondo un sondaggio Ipsos (per Ballarò) il 29% degli italiani ne condivide obiettivi e forme di lotta. Il 49% solo gli obiettivi. In altri termini: 8 italiani su 10 condividono le ragioni dei forconi.

Anche se non il modo in cui le manifestano. D'altronde, ieri anche il Papa ha espresso l'invito a "dare un contributo senza scontri e violenza.". Ma Papa Francesco è l'unico che oggi si possa permettere di dare "buoni consigli". Perché è l'unica figura pubblica che disponga di una base di fiducia estesa. Anzi: larghissima (quasi il 90%). Tutte le altre autorità, tutte le altre istituzioni  -  locali, nazionali e internazionali  -  godono di un credito limitato. Spesso bassissimo. E in calo costante. Dallo Stato, al Parlamento, alla UE. Ne ha risentito perfino il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in particolare dopo la rielezione. Oggi, infatti, la quota di italiani che esprime (molta-moltissima) fiducia nei suoi riguardi è sotto il 50%. Sicuramente elevata, ma 5 punti in meno rispetto a un anno fa. Per questo i Forconi sono tanto popolari, in Italia. Perché rendono visibile la sindrome di cui soffre il Paese. La sfiducia. Verso le istituzioni e i soggetti politici. Ma non solo.

Gli italiani (oltre 6 su 10, Demos dicembre 2013) non si fidano neppure delle persone che incontrano, con cui hanno relazioni. Insomma, non si fidano e basta. Tanto che, alla fine, la sfiducia è diventata una risorsa  -  la principale  -  da spendere in politica e nella rappresentanza. Non a caso, l'indulgenza verso i Forconi è tanto ampia. Anche fra coloro che, in fondo, ne sono fra le cause (e i bersagli). Sindacati e associazioni imprenditoriali. Colpiti, pesantemente, dalla sindrome della sfiducia (lo ha rammentato ieri Eugenio Scalfari). Per la stessa ragione, paradossalmente, i Forconi sono divenuti protagonisti del fenomeno contro cui protestano. La politica come spettacolo.

Lo spettacolo della politica. Da qualche settimana, i loro leader appaiono dovunque, in TV. Perché la sfiducia è, mediaticamente, attraente. Contribuisce ad alzare l'audience dei programmi, anche se ne abbassa la credibilità. D'altronde, i cittadini, o meglio, gli spettatori, quando guardano i talk politici e le inchieste di denuncia, si incazzano. Si "sfiduciano" ulteriormente. Ma, nonostante tutto, insistono a seguire e a inseguire questi programmi. La Rete, d'altra parte, contribuisce a rafforzare questo sentimento. Visto che la sfiducia verso le istituzioni e i partiti sale fra coloro che utilizzano internet con più frequenza (Sondaggio Demos-Coop sull'Informazione, dicembre 2013).

Per questo la protesta dei Forconi segna un punto critico, per la nostra democrazia. Non per la misura (circoscritta) di chi ne è coinvolto direttamente. Ma perché rivela, in modo aperto, quanto sia profondo, in Italia, il deficit della rappresentanza.

L'assenza di canali e soggetti capaci di "rappresentare" e di "organizzare" le domande e i problemi della società, dei territori e delle persone. In mezzo a una società dissociata e anomica, popolata da individui mobi-litati solo dalla sfiducia. Così, non resta che gridare, inveire e insultare. Per sfogare la nostra rabbia. La nostra frustrazione. Non contro il potere, ma contro chi lo dovrebbe esercitare. E contro noi stessi. Il Paese dei forconi: è un Paese impotente.
 
© Riproduzione riservata 23 dicembre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/12/23/news/nel_paese_dei_mille_forconi-74303355/?ref=HREC1-3
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« Risposta #365 inserito:: Dicembre 25, 2013, 04:06:34 pm »

Verso una democrazia ibrida

Siamo a un passaggio critico, tra diversi tipi e modelli di democrazia rappresentativa. Tra diversi tipi e modelli di partito. E tra diversi tipi e modelli di comunicazione e di opinione pubblica. D'altronde, la relazione fra partiti, opinione pubblica e democrazia è molto stretta. Quasi inestricabile. Ebbene, oggi assistiamo a trasformazioni profonde, che coinvolgono i principi del modello di democrazia rappresentativa dominante - da molti anni. Mi riferisco alla "democrazia del pubblico", come l'ha definita Bernard Manin. Un modello che, ormai da vent'anni, ha superato e sostituito la "democrazia dei partiti" (di massa). Nella "democrazia del pubblico", com'è noto, i partiti tendono a personalizzarsi, anzi, diventano macchine al servizio delle persone. Perlopiù, di "una" persona. L'ideologia e l'identità declinano, a favore della fiducia (nella persona). La partecipazione sociale e l'organizzazione sul territorio vengono rimpiazzate, progressivamente, dalla comunicazione. In particolare: dalla televisione. I leader e i partiti, di conseguenza, per conquistare gli elettori, coltivano l'immagine e curano il linguaggio. E si servono, per questo, di professionisti di marketing politico e di sondaggi. Così, i cittadini diventano "pubblico", spettatori. Entità demoscopiche da intervistare e analizzare. E il voto diventa (più) fluido.

In Italia questo modello ha assunto formato e caratteri del tutto diversi rispetto ad altrove. Per la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Imprenditore mediatico - ma anche pubblicitario - dominante, non solo su base nazionale. Tutti l'hanno imitato, a modo loro e con le risorse di cui disponevano (o "non" disponevano). Hanno, cioè, inseguito la personalizzazione, la mediatizzazione, il marketing. Per alimentare la "fiducia"  -  e dunque l'audience  -  del pubblico. Non a caso il Centrosinistra, che ha radici nei partiti di massa, , è sempre rimasto piuttosto "impersonale". E, in un'arena di partiti personalizzati oppure personali, si dimostrato, per questo, poco competitivo.

In questa fase, tuttavia, la "democrazia del pubblico" sta cambiando in fretta. E mostra molti segni di logoramento. Perché i suoi stessi elementi costitutivi appaiono in rapida e profonda trasformazione. Sulla spinta, davvero violenta, della crisi economica, che ha lacerato i legami con le istituzioni e con gli attori politici, ma anche fra le persone. Peraltro, lo spazio della politica è divenuto un campo dove si confrontano partiti senza società e, dunque, leader senza partiti. In rapporto diretto con il pubblico attraverso la televisione. Così, il legame di fiducia fra leader, partiti e società si è  consumato. E la crisi economica l'ha logorato ulteriormente. Il marketing politico e la comunicazione hanno, di conseguenza, cambiato segno, elaborando messaggi e immagini centrati non più sulla fiducia, ma nel suo opposto. La sfiducia verso gli altri  -  leader, partiti, politici...
Da ciò, l'onda populista del nostro tempo, che rovescia  la "sfiducia popolare" contro i leader politici. I quali, a loro volta, si rivolgono, direttamente, al "popolo" indistinto, in modo diretto e im-mediato. O meglio, mediato dai media. E lo arringano. Aizzano il popolo, meglio, il "pubblico" contro gli altri leader. Contro i "politici". Dunque, anche contro se stessi, alimentando un gioco a somma negativa, che investe l'intero sistema politico e dei partiti. L'intera democrazia rappresentativa.

Tuttavia, la "democrazia del pubblico" è stata coinvolta e trasformata anche dall'irrompere e dal diffondersi della Rete. Da Internet e i Social Media, usati, in modo crescente, come canali di comunicazione e di partecipazione politica.

La rete, infatti, è tra i fattori di successo delle mobilitazioni che hanno investito numerose aree, ben oltre l'Europa: gli USA e, negli ultimi anni, il Nord Africa. Con effetti "rivoluzionari" (come nelle Primavere Arabe). In Italia, la rete ha permesso ai nuovi movimenti di "organizzarsi", con risultati rilevanti, nell'ultimo decennio. Inoltre, ha fornito le basi per l'affermazione di Grillo e del M5S, negli ultimi anni.

I "nuovi media", in particolare, hanno permesso a esperienze locali e sociali periferiche di connettersi, al di fuori del controllo "verticale" dei soggetti politici e dei media tradizionali. Hanno favorito, inoltre, il coinvolgimento e l'intervento diretto, a livello soggettivo, di un'area ampia di persone. Per questo, la rete ha costituito il riferimento per un modello diverso e alternativo di partecipazione politica. Ma anche di democrazia. In nome della dis-intermediazione. Contro i "corpi intermedi". E, quindi, in nome della democrazia diretta. Rivendicata, esplicitamente, da Grillo come argomento polemico "contro" i partiti, il parlamento. Attori e istituzioni della democrazia rappresentativa. E, ancora, contro giornali e giornalisti. Tutti coloro che pretendono di parlare, informare, decidere "per conto" e "al posto" dei cittadini.

Tuttavia, la Rete, la partecipazione attraverso i Social Media non ha rimpiazzato del tutto i media tradizionali e, in particolare, la televisione.  Soprattutto in ambito politico. Lo abbiamo potuto verificare anche alle elezioni recenti. Per alcune ragioni evidenti.

Anzitutto, la Rete è accessibile e frequentata da un'area crescente di persone, ma c'è ancora un settore ampio che ne resta fuori. Pari quasi a metà della popolazione.  In particolare,  un quarto degli elettori si informa "soltanto" attraverso la televisione. Così, per "vincere" le elezioni oppure per conquistare un consenso largo intorno a un progetto, un problema, un'iniziativa occorre, comunque, andare "oltre" la Rete. Usare la televisione.
La televisione, inoltre, continua a dettare gli standard dell'immagine e del linguaggio. Comunque, i Social Media, Twitter, Facebook dialogano in contatto costante con i media tradizionali. Per prima la tivù. E viceversa. Una convergenza espressa dalla Social TV. Alle ultime elezioni, il maggiore traffico di tweet è avvenuto in occasione della presenza di Berlusconi a Servizio Pubblico, ospite di Santoro e di Travaglio. D'altronde, twitter è utilizzato soprattutto dalla cerchia degli opinion maker. Per fare e scambiare opinioni, appunto.

Lo stesso rapporto fra Grillo e la televisione risulta, quantomeno, ambivalente. Perché Grillo è molto presente in tivù, anche se non ci va direttamente. I suoi comizi, i video del suo blog: entrano direttamente nel circuito televisivo. Perché la sua presenza fa audience.
Peraltro, attraverso la Rete vengono promosse manifestazioni e  mobilitazioni tradizionali, nelle piazze e nelle strade. Come ai tempi dei partiti di massa. Con la differenza che oggi si trasferiscono immediatamente sui media tradizionali. In tivù, sui giornali. Com'è avvenuto e  avviene nelle iniziative organizzate da Grillo e dal M5S.

Per questo ci troviamo di fronte a una comunicazione politica "ibrida", che scavalca i confini tra Rete, tv, giornali, tra nuovi e vecchi media. E li incrocia, reciprocamente. Secondo una "logica" che Andrew Chadwick - e prima ancora  Nestor Canclini, in prospettiva antropologica - hanno spiegato in modo chiaro.
Quel che è certo, è che la Rete e i suoi attori hanno modificato le forme della partecipazione e della democrazia, accentuando e orientando le principali spinte "oltre" la democrazia del pubblico. Perché, di certo, la Rete ha dato voce all'insoddisfazione popolare, ne ha amplificato i toni, allargato i confini. Non solo, ma ha fornito canali e spazio alle manifestazioni di protesta direttamente rivolte "contro" le istituzioni e gli attori della democrazia rappresentativa. Partiti e politici, per primi. Si pensi alla protesta dei "forconi".  Ancora: ha rafforzato le logiche e le azioni di "contro-democrazia", per echeggiare la definizione di Pierre Rosanvallon. Volte, cioè, a controllare e a contrastare, se necessario, i centri di governo e di decisione, in nome di una democrazia fondata sulla "sfiducia nel potere".

Per questo conviene parlare di "democrazia ibrida". Perché sta trasformando in profondità i tratti del modello precedente. La democrazia del pubblico. Di cui si riconoscono ancora i principali elementi, ma sensibilmente ridisegnati. Perlopiù, in negativo.

I partiti, per primi, si trasformano in anti-partiti. O in non-partiti. Antagonisti dei partiti in quanto tali.
Al posto dei leader, si affermano gli anti-leader. Antagonisti rispetto a tutti i partiti e ai dirigenti di partito, come Grillo. Che agiscono e re-agiscono attraverso mobilitazioni  -  sociali e mediatiche come i V-Day. Oppure "rottamatori", come Renzi, legittimati dal rito di massa delle primarie.
Nel complesso, oggi i leader sono imprenditori politici che utilizzano la sfiducia, più che della fiducia. Perché la sfiducia è la principale risorsa del consenso. In nome di un cambiamento radicale che investe i partiti dall'interno oppure dall'esterno.

La "democrazia ibrida" che stiamo attraversando denuncia la crisi della democrazia rappresentativa. Apertamente sfidata dalla democrazia diretta. E propone una miscela di elementi vecchi e nuovi, che si combinano a fatica. Così che diventa difficile capire e vedere quel che succederà domani.

Il testo propone alcuni fra i principali passaggi della Lectio Magistralis, dal titolo "Democrazia ibrida", tenuta da Ilvo Diamanti in occasione del Convegno annuale dell'Associazione di Comunicazione Politica e della rivista ComPol (Università degli Studi di Milano, 12-13 dicembre 2013)
 

(13 dicembre 2013) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/12/13/news/bussola_13_dicembre-73484942/
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« Risposta #366 inserito:: Gennaio 06, 2014, 06:23:11 pm »

Ilvo DIAMANTI
06 gennaio 2014
   
L'esordio di Renzi alla segreteria del Pd ha fatto rumore. Sollevato polemiche. Ma per motivi lateralmente politici. Piuttosto: di stile, linguaggio, costume. Per la battutaccia riservata a Fassina (video). Per la pausa-panino targata Eataly. Così si è parlato di partito "padronale". Evocando l'esempio di Berlusconi.

Scandaloso, per la sinistra. Il clamore delle polemiche sottolinea quanto la battuta di Renzi sia stata inopportuna, oltre che infelice. Visto che, in un momento tanto significativo, ha spostato l'attenzione in direzione indesiderata, per il segretario. Tuttavia, molte critiche appaiono fuori luogo. Fuori centro. Mostrano la difficoltà di comprendere quanto è avvenuto e sta avvenendo, nella politica italiana. In particolare, il (pre) giudizio nei confronti di Renzi, di essere un "berluschino", un nuovo, piccolo Berlusconi. Usato, da (centro) sinistra, come un'accusa. Un insulto. Più che un'accusa, è la conferma della difficoltà, nella sinistra, di capire cosa sia successo negli ultimi vent'anni. Renzi non è un leader berlusconiano, ma, semmai, postberlusconiano. Come i tempi in cui viviamo.

Il post-berlusconismo. Un'epoca che risente ancora dei modelli e dei valori interpretati da Berlusconi. Anche se oggi sono resi inattuali dalla crisi. Tuttavia, l'esperienza di Berlusconi ha impresso sulla politica un segno indelebile. Ha imposto la comunicazione sull'organizzazione, i media sulla partecipazione. Ha portato all'estremo la personalizzazione, attraverso l'invenzione del suo "partito personale". Insomma, ha imposto la "politica come marketing". Un modello, peraltro, già affermatosi altrove, in Europa e negli Usa. Anche se Berlusconi ne ha accentuato i caratteri. Perché ha potuto sfruttare le sue risorse mediatiche e imprenditoriali. Senza vincoli - istituzionali e sociali.

Vent'anni di berlusconismo, peraltro, non sono passati invano. Tutti i principali soggetti politici ne hanno seguito e imitato il modello. Si sono mediatizzati e personalizzati, seguendo le logiche della politica come marketing. Ovviamente, senza gli stessi esiti e gli stessi risultati di Berlusconi. A sinistra, in particolare, il Pd è stato frenato dalla sua storia, dalle sue tradizioni, dalle sue radici, piantate nella Prima Repubblica. E ciò gli ha permesso di evitare la fine degli altri imitatori del modello berlusconiano. Da Di Pietro a Fini a Monti. Le cui biografie politiche personali si sono concluse insieme ai partiti.

Tuttavia, il Pd è stato condizionato dal suo passato. Chiuso nel recinto delle zone rosse. Incapace di esprimere una leadership condivisa, perché storicamente diviso in correnti e personalismi (come hanno mostrato Mauro Calise e Marco Damilano, nei loro saggi pubblicati da Laterza). Fino all'esito delle elezioni politiche del 2013. Quando il Pd non ha vinto, anche se Berlusconi ha perso. Quando la domanda di cambiamento si è tradotta nel successo del M5S, che ha raccolto il voto "contro": Berlusconi, Monti. Ma anche, e soprattutto, "contro" il Pd e la Sinistra alternativa.

Da lì è partito Renzi. Un leader post-berlusconiano in un Paese post-berlusconiano. Dove Berlusconi è "imprigionato" in casa. Ma conta ancora, perché siamo tutti post-berlusconiani, cresciuti o invecchiati in una società educata dai suoi media. E influenzata dai suoi valori. Che Berlusconi non ha inventato. Ma ha riprodotto e rilanciato, attingendo al senso comune. In un Paese dove la sinistra è stata sempre minoranza e l'anticomunismo un sentimento maggioritario. Renzi, per questo, a mio avviso, non intende riformare, ma andare oltre il Pd dei "sinistrati " (per echeggiare Edmondo Berselli). Oltre l'eredità dei partiti di massa. Gli interessa costruire il Post-Pd, modellato intorno al Capo, mentre la Sinistra (e ancor più il Centro) è sempre stata un'area affollata da molti capi, in reciproca contesa. Da ciò il metodo-slogan della rottamazione. Rozzo ma efficace, nel descrivere l'intenzione di liberarsi del passato, sottolineata dalla formazione di una segreteria "giovane", per marcare il salto di generazione politica.

La riunione della segreteria di sabato, in fondo, riproduce i riti e la simbologia della rottura con il (e della rottamazione del) passato. La scelta della sede, in primo luogo. Firenze. La città di cui è sindaco Renzi. Un passaggio dal significato geopolitico chiaro: da Roma a Firenze. La capitale politica, cioè, si sposta nella città del segretario del post-Pd. Per marcare la distanza da Roma, simbolo del potere politico, contro cui è montata la sfiducia di gran parte dei cittadini. Ma la scelta di Firenze sottolinea anche la distanza dal governo centrale, guidato da Letta. Dalle larghe intese, ormai ridotte all'asse fra il Pd e quel che resta degli altri (ex-Pdl e centristi in ordine sparso). Riunire la segreteria del Pd a Firenze, dettare le priorità in merito alla legge elettorale, alle questioni bioetiche e del lavoro, significa spostare l'asse geopolitico del governo. Spingere Roma alla periferia. Ancora: riunire la segreteria a Firenze, per Renzi, significa marcare una prospettiva simbolica e progettuale. A favore del Sindaco d'Italia. Lontano dai Palazzi del Potere e dei Privilegi. Più vicino alla "gente comune". Un leader (e un partito) che si muove in bici, lavora senza staccare, dalla mattina presto fino alla sera. Senza pause,
giusto il tempo per un panino (anche se griffato).

Il post-Pd interpretato da Renzi, in questa prima uscita, è, dunque, un partito post-berlusconiano, lontano dall'eredità del passato - ma anche dal presente. Perché il Pd del passato e del presente è incapace di vincere. Il Post-Pd immaginato da Renzi è un soggetto politico modellato sulla persona del leader. Renziano, appunto. Il Partito del Capo (titolo di un recente saggio di Fabio Bordignon pubblicato da Maggioli). È impensabile che possa procedere senza fratture. Con un gruppo dirigente divenuto, in gran parte, renziano per opportunità, più che per convinzione. E senza strappi con il governo di Roma. Visto che il vero governo si è trasferito a Firenze.

Da ciò "il" problema. Se sia possibile costruire un soggetto politico "su basi personali ", rinunciando all'insediamento organizzativo e territoriale, oltre che alla tradizione ideologica del Pd. Ma senza disporre delle risorse mediali ed economiche, "su basi personali". Se sia possibile costruire un soggetto post-berlusconiano senza essere Berlusconi.

© Riproduzione riservata 06 gennaio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/01/06/news/mappe_renzi_leader_post_partito-75210248/?ref=HREC1-19
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« Risposta #367 inserito:: Gennaio 11, 2014, 11:31:08 am »

La civiltà delle cattive maniere

 Quegli insulti a Bersani: il problema non è solo internet

    Polemiche sugli insulti

Ilvo DIAMANTI

Non bisogna sorprendersi troppo dei messaggi truci rivolti a Pierluigi Bersani, dopo l'emorragia cerebrale. Mentre, in sala operatoria, i medici intervenivano per salvargli la vita. In rete, si sono affollati gli appelli e gli auguri. Che muoia! Lui e quelli come lui. I politici. Quelli che godono di privilegi smisurati e immeritati in ogni momento della vita. Tanto più e soprattutto nel momento dell'urgenza e della necessità personale. Che muoiano tutti. Anche lui. Bersani. Non importa che sia una persona perbene, mite, educata. In fondo, uno sconfitto. Uscito da un anno di sconfitte. Tanto peggio. Deve morire anche lui.
 
Non ci si deve sorprendere. È il clima del tempo. Anti-politico. Incattivito contro quelli che abitano il Palazzo. Reso più cattivo dalla crisi, che colpisce le persone, le famiglie. Annulla il futuro. Fa fuggire i giovani (che se lo possono permettere). E allora che muoiano tutti, quelli del Palazzo, che godono di cure particolari. Sempre. Mentre gli altri, la "gente comune", in punto di vita o di morte, affondano nel banale e nell'anonimo quotidiano.

Allora, non ci si deve sorprendere dei messaggi truci che corrono in rete. Di fronte alla vita e alla morte. Oggi la rete permette a tutti, comunque: a molti, di esprimersi in modo diretto, feroce, spesso (ma non sempre) anonimo. Mentre ieri gli stessi discorsi giravano, in misura molto simile.  Ma Nel privato, lontano dal pubblico. In casa, nei dialoghi con familiari e amici, davanti alla TV. Oppure nei bar, nelle osterie. Non su InterNet, ma davanti a una bottiglia di CaberNet.

È la civiltà delle cattive maniere. Incattivita da questi tempi cattivi. Nei quali l'immagine e la popolarità di alcuni fa sentire più acuta l'in-visibilità di tutti gli altri. La grande maggioranza delle persone. In questi tempi cattivi, per apparire, per fare audience, bisogna dire cose cattive. Gridare atrocità. Tempi cattivi, incattiviti dalla politica che, per prima, alimenta la sfiducia. E i talk politici più seguiti, in TV, alimentano, a loro volta, la sfiducia degli spettatori. Ma non perdono ascolti. Perché la sfiducia fa audience.

In questi tempi cattivi, i politici in difficoltà  -  pubblica o privata - diventano bersagli ideali del (ri)sentimento popolare. Liberato sulla rete. Senza rischi. Come allo stadio. Dove la curva  -  senza volto -  erutta invettive orrende, amplificate dai media. Dalla rete.

Tempi cattivi, in cui per diventare visibili, conviene dire cose cattive in modo cattivo. Non bisogna sorprendersi, allora, dei messaggi feroci che rimbalzano in rete all'indirizzo di Bersani. Certo: neppure far finta di nulla. Restare indifferenti. Però, basta attendere. Avere pazienza. È solo questione di tempo. La civiltà delle cattive maniere, promossa e sospinta dai media e dalla rete: presto, renderà innocuo l'insulto stesso. Ogni insulto, sommerso dalla melma degli insulti, diverrà un rumore di fondo fastidioso. Indifferente e, anzi, dannoso ai fini dell'audience e del gradimento mediatico.

Così, per conquistare ascolti e visibilità, per essere diversi, per scandalizzare, non resterà che tornare alle buone maniere.

(07 gennaio 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/01/07/news/la_civilt_delle_cattive_maniere-75332933/
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« Risposta #368 inserito:: Gennaio 14, 2014, 05:14:31 pm »

La civiltà delle cattive maniere

 Quegli insulti a Bersani: il problema non è solo internet
    Polemiche sugli insulti

Ilvo DIAMANTI

Non bisogna sorprendersi troppo dei messaggi truci rivolti a Pierluigi Bersani, dopo l'emorragia cerebrale. Mentre, in sala operatoria, i medici intervenivano per salvargli la vita. In rete, si sono affollati gli appelli e gli auguri. Che muoia! Lui e quelli come lui. I politici. Quelli che godono di privilegi smisurati e immeritati in ogni momento della vita. Tanto più e soprattutto nel momento dell'urgenza e della necessità personale. Che muoiano tutti. Anche lui. Bersani. Non importa che sia una persona perbene, mite, educata. In fondo, uno sconfitto. Uscito da un anno di sconfitte. Tanto peggio. Deve morire anche lui.
 
Non ci si deve sorprendere. È il clima del tempo. Anti-politico. Incattivito contro quelli che abitano il Palazzo. Reso più cattivo dalla crisi, che colpisce le persone, le famiglie. Annulla il futuro. Fa fuggire i giovani (che se lo possono permettere). E allora che muoiano tutti, quelli del Palazzo, che godono di cure particolari. Sempre. Mentre gli altri, la "gente comune", in punto di vita o di morte, affondano nel banale e nell'anonimo quotidiano.

Allora, non ci si deve sorprendere dei messaggi truci che corrono in rete. Di fronte alla vita e alla morte. Oggi la rete permette a tutti, comunque: a molti, di esprimersi in modo diretto, feroce, spesso (ma non sempre) anonimo. Mentre ieri gli stessi discorsi giravano, in misura molto simile.  Ma Nel privato, lontano dal pubblico. In casa, nei dialoghi con familiari e amici, davanti alla TV. Oppure nei bar, nelle osterie. Non su InterNet, ma davanti a una bottiglia di CaberNet.

È la civiltà delle cattive maniere. Incattivita da questi tempi cattivi. Nei quali l'immagine e la popolarità di alcuni fa sentire più acuta l'in-visibilità di tutti gli altri. La grande maggioranza delle persone. In questi tempi cattivi, per apparire, per fare audience, bisogna dire cose cattive. Gridare atrocità. Tempi cattivi, incattiviti dalla politica che, per prima, alimenta la sfiducia. E i talk politici più seguiti, in TV, alimentano, a loro volta, la sfiducia degli spettatori. Ma non perdono ascolti. Perché la sfiducia fa audience.

In questi tempi cattivi, i politici in difficoltà  -  pubblica o privata - diventano bersagli ideali del (ri)sentimento popolare. Liberato sulla rete. Senza rischi. Come allo stadio. Dove la curva  -  senza volto -  erutta invettive orrende, amplificate dai media. Dalla rete.

Tempi cattivi, in cui per diventare visibili, conviene dire cose cattive in modo cattivo. Non bisogna sorprendersi, allora, dei messaggi feroci che rimbalzano in rete all'indirizzo di Bersani. Certo: neppure far finta di nulla. Restare indifferenti. Però, basta attendere. Avere pazienza. È solo questione di tempo. La civiltà delle cattive maniere, promossa e sospinta dai media e dalla rete: presto, renderà innocuo l'insulto stesso. Ogni insulto, sommerso dalla melma degli insulti, diverrà un rumore di fondo fastidioso. Indifferente e, anzi, dannoso ai fini dell'audience e del gradimento mediatico.

Così, per conquistare ascolti e visibilità, per essere diversi, per scandalizzare, non resterà che tornare alle buone maniere.

(07 gennaio 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/01/07/news/la_civilt_delle_cattive_maniere-75332933/
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« Risposta #369 inserito:: Gennaio 18, 2014, 05:13:20 pm »

Le virtù democratiche della sfiducia digitale

Ilvo DIAMANTI

Non è la prima volta che mi capita. Di essere letto in senso contrario o, almeno, diverso dalle intenzioni. Capiterà ancora. Eppure mi ha sorpreso un poco di vedermi, da qualche giorno, catalogato fra i nemici della rete da alcuni specialisti del settore. Perché fatico a entrare in una parte che mi è estranea.

Vero: il titolo della mia Mappa dello scorso 14 gennaio evoca “la sfiducia digitale”, particolarmente elevata fra i giovani-adulti (25-35 anni) e, soprattutto, fra coloro che utilizzano la rete come “mezzo” di partecipazione politica. Quanto alla sfiducia nelle istituzioni e nei partiti, è un dato consolidato. Anche (e di più) fra i militanti informatici. I Cives.net.

D’altra parte, i partiti - per primi - hanno fatto e continuano a fare molto per meritarsi tanta sfiducia. E per indebolire il consenso verso la democrazia rappresentativa. Che, nel corso del tempo, ha subìto una metamorfosi profonda. Da ultimo, si è trasformata in “democrazia del pubblico” (per citare Bernard Manin). Personalizzata e mediatizzata. Im-mediata. Istantanea.

Leader e popolo, pardon, pubblico, uno di fronte all’altro. Ma a senso unico. Perché il pubblico non può re-agire. Contro questo modello muove la “democrazia della rete”. Per usare le parole di Nadia Urbinati in un recente volume (del Mulino): come “reazione della democrazia in-diretta, o via web, contro quella indiretta” (mediata dai partiti e dai giornalisti). Anche se i dubbi sull’effettiva capacità della democrazia in-diretta di realizzare i suoi fini restano. Come mostra, da ultimo, il referendum del M5S sull’abolizione del reato di clandestinità. Convocato e votato in fretta, senza possibilità di discussione e di confronto. Né di verificarne con rigore il risultato. Il che rivela i limiti dell’Agorà trasferita nella rete. A cui non tutti possono accedere. Perché oltre un terzo della popolazione non frequenta ancora la rete. Dove, inoltre, discutere e confrontarsi risulta complicato. Senza dimenticare il problema, non risolto, dei rapporti fra la rete e il potere - economico e politico (una questione su cui si è esercitato lo sguardo scettico e acuminato di Evgeny Morozov).

La rete, dunque, non è la causa del malessere che affligge la democrazia rappresentativa. Raffigurato da Colin Crouch, con una formule suggestive, ma poco “definitive”: la “post-democrazia”. Che descrive (e stigmatizza) una situazione simile alla “democrazia del pubblico”. Senza partecipazione. Ridotta a un rito. Tuttavia, il “malessere democratico” persiste e, anzi, si acuisce. Nonostante la democrazia in-diretta, fondata sulla e dalla rete. Che, dunque, non ne è la causa, ma neppure la soluzione.

Tuttavia, non era mia intenzione riflettere sul rapporto fra democrazia e rete, sulla democrazia-della-rete. Ma, più semplicemente, interrogarmi sulle ragioni che alimentano la sfiducia – non solo politica - nella rete.   La mia risposta, al proposito, è duplice.

In primo luogo: la rete non favorisce relazioni “empatiche”. La “community” non coincide con la “comunità”. In quanto non prevede contiguità, compresenza, coabitazione. I navigatori della rete (me compreso) intrattengono molti contatti – frequenti - ma restano fisicamente “lontani” fra loro. Sempre insieme e sempre più soli. Peraltro, la rete favorisce l’incontro fra amici e seguaci, attira Like e Follower. Ma non promuove il dialogo, il confronto fra persone di diversa opinione.

In secondo luogo, la “sfiducia” – politica - in rete si alimenta perché Internet è divenuto un terreno di lotta “contro” la politica - tradizionale. Contro quel che resta dei partiti. Perché, inoltre, sulla rete e nei Social Network, come ho già detto, la comunicazione trasferisce sentimenti e valutazioni in im-mediate. Senza mediazioni. E, dunque, più esplicite.

Anche per questo la “sfiducia politica” è divenuta una risorsa della competizione politica. Ne ha fatto uso Grillo. Ma anche Renzi, agitando la clava – retorica – della “rottamazione.

Tuttavia, la sfiducia non è, necessariamente, un “vizio”. In particolare, rispetto alla politica e la democrazia. Nella tradizione liberale, al contrario, costituisce una virtù “pubblica”. Come annota Benjamin Constant (nel 1829): “Ogni buona Costituzione è un atto di sfiducia”. In quanto deve tutelare e garantire i cittadini dalle ingerenze dello Stato e degli altri poteri. Così la Rete, insieme ad altre forme di mobilitazione e di associazionismo, favorisce la vigilanza civica nei confronti del potere. E contribuisce a promuovere, quella che Pierre Rosanvallon definisce la “controdemocrazia”. È la “democrazia della sorveglianza”, attraverso cui la società, nell’era della sfiducia, esercita poteri di “controllo e di correzione”, più che di “governo e direzione”.  E questo è il suo limite.

Se poi non si riesce ad essere felici, bisogna farsene una ragione. Non si può pretendere più sfiducia (digitale) e, insieme, più democrazia, senza pagare qualche prezzo.

(18 gennaio 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/01/18/news/le_virt_democratiche_della_sfiducia_digitale-76245722/?ref=HRER2-1
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« Risposta #370 inserito:: Gennaio 20, 2014, 11:24:12 pm »

Mappe - I due leader extraparlamentari

di ILVO DIAMANTI
20 gennaio 2014
   
È DA oltre vent’anni che si cerca e si promette di riformare la Repubblica. Con effetti deludenti. Perché le riforme — quelle elettorali per prime — sono sempre state fatte su spinta dei referendum o con colpi di mano. L’unica riforma costituzionale effettivamente realizzata riguarda il titolo V della Costituzione, approvata dal Centrosinistra alla vigilia delle elezioni del 2001. Per testimoniare la propria fede federalista.

L’attesa “riformatrice”, negli ultimi anni, si è, quindi, concentrata sulla legge elettorale. Sul Porcellum, approvato dalla maggioranza di Centrodestra, guidata da Berlusconi, nell’inverno del 2005. Per ostacolare la vittoria annunciata dell’Unione di Centrosinistra, guidata da Prodi, alle elezioni dell’anno seguente. Più in generale, per impedirle di governare. Perché il Porcellum, per vincere, “costringe” a costruire coalizioni ampie ed eterogenee. Così, l’attenzione politica e dell’opinione pubblica si è rivolta alla legge elettorale. Causa prima della frammentazione e, inoltre, del degrado della classe politica. Eletta in liste bloccate, senza possibilità di controllo da parte degli elettori.

Non a caso, gli sforzi di Matteo Renzi, subito dopo essere stato eletto segretario del Pd, si sono orientati in questa direzione. Ri-scrivere la legge elettorale. Riformata, di fatto, dalla Corte Costituzionale, che ha abolito il premio di maggioranza, le liste bloccate e le candidature multiple. Di più: Renzi ha condotto il percorso “riformista” per via extra-parlamentare. Negoziando, direttamente, con il principale leader dell’opposizione, Silvio Berlusconi. I due leader: entrambi fuori dal Parlamento. Nel caso di Berlusconi, perché condannato in via definitiva per frode fiscale. Il negoziato, peraltro, è avvenuto nella sede del Pd. Al di là dei giudizi di merito, il metodo stesso assume, sul piano simbolico, un significato molto chiaro. Sancisce un contesto bi-personalizzato, nel quale il Capo del Post-Pd negozia direttamente con l’Imprenditore di Fi. Sulla base di progetti elaborati — e negoziati — dai tecnici di sua fiducia, insieme a quelli di Berlusconi. Ignorando il lavoro dei Saggi nominati dal Governo. L’esito, annunciato “prima” della presentazione al partito, di oggi, e della discussione in Parlamento, che partirà lunedì prossimo, è chiaro dal punto di vista della comunicazione, assai più che dei contenuti. E degli effetti.

Dal confronto fra i due leader, è emerso, anzitutto, un sistema elettorale di tipo spagnolo (almeno, a parole); dunque, un proporzionale con effetti maggioritari. Sulla base di collegi piccoli, liste bloccate “corte”. In grado, così, di saldare il rapporto fra elettori ed eletti e, al tempo stesso, favorire i partiti maggiori. Rafforzato, nel progetto di Renzi, da un premio “nazionale” (alla coalizione vincente) e da uno sbarramento (per ora, al 5%. L’8% per i partiti non coalizzati). Inoltre, i due leader hanno delineato un nuovo assetto istituzionale, in cui il Senato diventa, di fatto, Camera delle autonomie. Non eletta dai cittadini, ma, probabilmente, dagli eletti a livello locale. E, quindi, ridotta nei numeri, nei poteri (non voterà più la fiducia al governo). E nei costi. Questi appaiono i contorni della Repubblica provvisoria, tracciati dai leader dei due principali partiti. Ma soprattutto da Renzi. In sede extraparlamentare. In attesa dell’esame parlamentare.

Per questo, è difficile scindere il giudizio politico da quello sul merito istituzionale. È evidente che Renzi ha imposto il proprio primato. Sul governo oltre che sul partito. (Ma anche su Berlusconi, rientrato in gioco grazie a lui.) Il Leader del Post-Pd ha agito come Capo del governo. O forse, del post-governo. La cui maggioranza, ora, è coerente con le larghe intese originarie. Perché coinvolge direttamente Berlusconi. D’altronde, se vediamo le stime di voto più recenti (sondaggio Demos di alcuni giorni fa), è chiaro come l’asse fra Renzi e Berlusconi abbia una base elettorale solida. Il Pd è, infatti, valutato intorno al 34% e Fi al 22% (in altri termini, più del Pdl alle recenti elezioni). Insieme, superano largamente la maggioranza assoluta, fra gli elettori. Mentre i partiti di governo, insieme, non raggiungerebbero il 50%.

Naturalmente, è impensabile immaginare una maggioranza per le riforme alternativa rispetto a quella di governo. Per questo è probabile che, intorno alla legge elettorale, si possano trovare soluzioni accettabili per gli altri alleati. Per primo, il Ncd. Tuttavia, più dei contenuti, a Renzi interessano la capacità e la rapidità delle riforme, in un Paese dove le riforme sembrano impossibili. Se non con percorsi biblici.

Peraltro, per marcare l’efficacia riformatrice si affida al linguaggio. Alle “etichette”. La proposta attualmente in discussione evoca la Spagna, ma è italiana. È un post-porcellum. Un proporzionale con premio di coalizione e sbarramento. Con un numero di collegi molto più ampio e listini “corti”. Ma in Spagna non c’è bisogno di alleanze né di premi, perché il sistema è bipartitico. Mentre lo sbarramento al 3% serve a “calmierare” i collegi più ampi (Madrid e Barcellona). Più delle leggi, infatti, contano gli attori politici, la società civile. E i sistemi elettorali producono, spesso, effetti diversi da quelli previsti. Il Mattarellum, ad esempio, nel 1993 venne delineato immaginando un paese diviso in tre: la Lega al Nord, la Sinistra al Centro e i Popolari (postDc) al Sud. Poi arrivò Berlusconi… Vent’anni dopo, per questo, occorre attenzione nel ri-scrivere la Costituzione e le leggi elettorali. Il federalismo, il bicameralismo e il Porcellum (in salsa spagnola). Le leggi fondative della Repubblica vennero scritte dall’Assemblea Costituente, in circa un anno e mezzo di confronto e discussione, tra persone di orientamento diverso e opposto. Il nostro proporzionale, che oggi non funziona, ha funzionato bene nel dare rappresentanza a tutti principali attori e settori di un Paese diviso. Uscito dalla guerra (e da una guerra civile). Oggi i tempi sono molto diversi. Ma non possiamo ignorare il problema della nostra democrazia rappresentativa. Il distacco, l’estraneità, che spinge un quarto degli elettori “fuori” dal voto. E indirizza un quarto dei voti verso il M5S. Cioè: contro i partiti della Seconda Repubblica. Per scrivere le regole della Terza Repubblica, compreso il sistema elettorale, Renzi deve fare i conti anche con questa parte dell’Italia. Con questa Italia. Non solo con la sinistra del Pd. Non solo con i “piccoli partiti. Non solo con Berlusconi e Forza Italia. Deve misurarsi con l’Italia dei delusi. Con l’Italia di Grillo. Fino in fondo. Disponibile, per questo, ad affrontare la sfida referendaria. Consapevole che nessuna legge può colmare il vuoto della politica.

© Riproduzione riservata 20 gennaio 201

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/01/20/news/mappe_-_i_due_leader_extraparlamentari-76418746/
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« Risposta #371 inserito:: Gennaio 26, 2014, 11:28:25 pm »

Lo sguardo sul mondo di Carlo Mazzacurati: alla giusta distanza, ma con passione

Ilvo DIAMANTI

Non è facile parlare di Carlo Mazzacurati ora che non c'è più. Perché mi era facile fino a poco tempo fa, parlare con Carlo. Una consuetudine facile e gratificante. Un piacere. Fisico, emotivo e intellettuale. Perché ci univano i valori e i riferimenti. A livello sociale, personale, culturale. Era un piacere. Parlare di tante cose. E sentirlo narrare. Suggestivo nel racconto. Con le parole e con le immagini, nei suoi film e nei suoi documentari. Nelle sue storie, dove le persone e i paesaggi si equivalgono. Perché il paesaggio é un personaggio, nelle sue narrazioni svolte con la macchina da presa. Il Nordest, soprattutto. Raccontato senza enfasi. Ne era incapace. Senza indulgenza. Fuori dai luoghi comuni.

A lui piaceva il Nordest nascosto. Lontano dalla retorica. Il Veneto che respira ancora, accanto alle galassie immobiliari e di piccole imprese. I paesi e gli spazi aperti sul delta del Po. Dove ambientare e narrare storie di vita e di morte. Di straordinaria normalità e di ordinaria drammaticità. Come in Notte italiana. Il suo primo film, che ho amato e conosciuto prima di conoscere lui. Anche se, quando ci siamo incontrati, complici amici comuni, è come lo avessi conosciuto da sempre. Perché è come i paesaggi e i personaggi dei suoi film. Come nella Giusta distanza, un saggio straordinario sul metodo attraverso cui guardare e leggere il mondo intorno a noi. Un metodo di cui Carlo ha fatto uno stile di vita. La giusta distanza. I legami forti e gli affetti, la famiglia per prima. Gli amici. E poi la distanza dai salotti, dai circuiti che contano. Carlo è sempre stato marcato dalla sua provincialità. Voluta e vissuta. Tra i suoi luoghi di vita. Tra Padova e Bolgheri.

Eppure la giusta distanza non gli impediva di coinvolgersi e di spendersi. Anzi, lo incitava a prendere parte. Oltre le convenzioni e oltre i luoghi comuni. Perché lui, Mazzacurati, è conosciuto come un grande narratore di storie del Nordest. Anzi: del Nordest. Ma il suo Nordest è lontano e diverso da quello della retorica leghista e anti leghista. Non è la piccola patria del micro capitalismo possessivo, dei poareti divenuti siori, dei capannoni e dei campanili schierati contro Roma Ladrona. Il suo Veneto echeggia quello di Meneghello, Rigoni Stern e Zanzotto. Che egli ha raccontato, fatto parlare, insieme a Marco Paolini.

A Carlo piaceva la quotidianità, le storie che diventano storia. La periferia che entra nel mondo. Perché provincialità non significa provincialismo. E i confini esistono per delimitare la tua identità e, al tempo stesso, per poterli superare. Soprattutto in nome di una "buona causa". Come quella del Medici per l'Africa, il Cuamm. L'Associazione padovana che promuove è organizza la presenza di medici e personale sanitario negli ospedali di zone difficili dell'Africa. Un ponte fra il Nordest e l'Africa. Il Nordest in Africa. Fuori da ogni luogo comune. Oltre ogni stereotipo, che vorrebbe il Veneto e i veneti egoisti e localisti. Contro tutto ciò, l'esperienza del Cuamm, raccontata da Mazzacurati, testimonia la normalità dell'impegno. Osservata e proposta "alla Giusta distanza".

È la lezione che ho appreso in tanti anni trascorsi accanto a lui. E ora che se n'è andato già mi manca molto. E mi mancherà di più in seguito. Impossibile dimenticarlo. Sostituirlo. Anche perché la sua presenza continuerà a farsi sentire. Nel paesaggio sociale, oltre che naturale, che mi circonda. Che io osservo con quella "Giusta distanza" e "passione", che ho appreso da lui.

(23 gennaio 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/01/23/news/lo_sguardo_sul_mondo_di_carlo_mazzacurati_alla_giusta_distanza_ma_con_passione-76731350/
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« Risposta #372 inserito:: Gennaio 27, 2014, 04:38:54 pm »

Letta e Renzi, quasi nemici

di ILVO DIAMANTI
   
È DIFFICILE raccontare la politica con le tradizionali categorie dell'analisi politica. Della politologia. Osservare quel che avviene oggi come fosse ieri, non dico ieri l'altro. Perché oggi anche ieri è passato. Il Passato.

Perfino i partiti personali, il partito del Capo (tratteggiati da Mauro Calise e Fabio Bordignon) rischiano di invecchiare in fretta. Raccontare la politica, oggi, significa, infatti, parlare delle Persone e dei Capi. "Senza" i partiti. Personali o impersonali: non importa. Così le cronache riguardo alla complessa vicenda della legge elettorale si riassumono nel rapporto personale - e contrastato - fra Renzi e Letta. Matteo ed Enrico. Quasi amici. O meglio: quasi nemici (come pensa quasi metà degli italiani, secondo un sondaggio Ipsos). Uniti o, forse, divisi, dalla comune appartenenza a un "partito ipotetico" (per echeggiare Edmondo Berselli). Il Pd. Un "quasi partito".

Matteo ed Enrico. Così vicini eppure così lontani. Appartengono a generazioni contigue, ma non comunicanti. Letta: ha quasi cinquant'anni. Ha fatto politica fin da giovane, perché i partiti, quando aveva vent'anni, c'erano ancora. La Dc, in particolare, dove ha "militato" fin da piccolo. E dove ha imparato la politica come arte della mediazione e del compromesso. Certo, negli anni Ottanta i partiti di massa stavano perdendo le masse per strada. Resistevano le classi dirigenti. Quella stagione è definitivamente crollata nel 1989. Insieme al muro di Berlino. Insieme al referendum del 1991 "contro" la preferenza multipla e "contro" la partitocrazia. Letta, dunque, è un post-democristiano. In seguito: popolare, ulivista, democratico. Affezionato al voto di preferenza. A trent'anni era già al governo. Dove è rientrato in successive occasioni. Fino ad oggi. Premier di un governo che dispone di una maggioranza parlamentare incerta e di una minoranza elettorale certa. Espresso da un partito, in parte ostile. E diviso. Ipotetico.

Anche perché è guidato da un Capo che del partito non si occupa più di tanto. Renzi: eletto segretario, due mesi fa, alle primarie, con una maggioranza travolgente. Dopo essere stato sconfitto giusto un anno prima da Bersani. Portabandiera di un partito "vero". Radicato e cresciuto nel secolo delle ideologie e della partecipazione di massa. Ultimo atto della storia della Prima Repubblica, a cui la sinistra italiana è rimasta fedele. Fino, appunto, alle elezioni di febbraio. Quando è divenuta evidente l'impotenza di un partito impersonale di fronte ai partiti personali vecchi e nuovi: Pdl e M5S. E ai loro leader. Berlusconi e Grillo. Diversi e opposti, ma entrambi leader senza partiti. Oppure non-partiti, come Grillo ha definito il M5S.



Così, dopo il voto, il Pd si è arreso a Renzi. Che ha accettato di guidarlo per non averlo contro. Anche se lui, ai partiti - tradizionali o riformati - non ci crede proprio. Questione di generazione politica. Se Letta ha "quasi" cinquant'anni, Renzi ne ha "quasi" quaranta. Quando è crollato il muro, Renzi aveva appena finito le medie. E i partiti erano nella bufera. Delegittimati e deboli. Pochi anni ancora e sarebbero stati travolti da Tangentopoli. Così, Berlusconi "scendeva in campo". E occupava il vuoto politico lasciato dai partiti. Con le sue televisioni, i suoi esperti di mercato, le sue risorse, il suo stile di comunicazione. Imponeva il modello della "politica come marketing". Accanto al suo partito personale. Renzi, allora, era appena divenuto maggiorenne. I "movimenti politici giovanili" appartenevano alla storia del passato. Come i partiti, la Resistenza. E il Risorgimento. Nel 1996, Renzi diventava partigiano del Partito dell'Ulivo (non "dei partiti"), alternativo al Partito personale di Berlusconi. Prodiano, insomma. Mentre Letta entrava nel primo governo Prodi, come ministro. Il più giovane della storia della Repubblica. Enrico e Matteo, Matteo ed Enrico.

Così vicini eppure così distanti e diversi. Per storia, tradizione, stile. Separati in casa. D'altronde, la Casa comune attualmente non c'è. Il Pd rammenta, piuttosto, un campeggio, come quelli degli scout, dove Matteo si è formato. Molte tende con molte persone. Pochi confini. Itinerari e programmi decisi giorno per giorno. Il gusto della scoperta. L'importanza del Capo che decide e indica il percorso. D'altronde, è ciò che oggi chiede e si attende il Paese. Quasi il 70% degli italiani, infatti, è d'accordo con l'opinione secondo cui, in questo clima di confusione, "ci vorrebbe un uomo forte alla guida del Paese" (Sondaggio Demos, gennaio 2014).

Un Uomo Forte. Una formula inquietante, vista la nostra storia. Ma non ce n'è motivo. Perché coloro a cui piace questa idea non mettono in discussione la democrazia ("il migliore dei sistemi possibili", per quasi i tre quarti di essi), ma, piuttosto, i partiti e il Parlamento. Cioè: gli attori della democrazia rappresentativa. Incapaci di decidere. E di generare passione. Per questo la vicenda della legge elettorale diventa importante. Perché chiama in causa il "principio" della Democrazia rappresentativa. Il voto. Matteo, coerentemente con lo spirito del tempo, recita la parte dell'Uomo Forte. Intende, cioè, segnare la fine della Seconda Repubblica e avviare l'era post-berlusconiana con il consenso (la sottomissione?) di Berlusconi. Attraverso una riforma che intende (e deve) realizzare in fretta. Perché prima e più dei contenuti contano il risultato e i tempi. Il messaggio. L'immagine di Matteo, l'Uomo Forte in grado di decidere, in pochi mesi, ciò di cui si parla senza esito da molti anni. Il Partito, per questo, diventa un mezzo. È il post-Pd, senza bandiere. Al suo servizio. Anche il governo, il Parlamento, devono seguire Matteo. Difficile che ciò possa avvenire senza tensioni e senza strappi. Che "gli altri (piccoli) capi" del Pd (e non solo) si accodino. Ma, soprattutto, che Letta si adegui. È una questione di ruolo e di cultura politica. Ma, prima ancora, di storia e di profilo personale. Così Enrico cercherà di disseminare il percorso di Matteo con trappole e intoppi. Per ritardarne la marcia. Visto che il tempo è la risorsa simbolica dell'Uomo Forte. E Matteo vuole fare in fretta. Per questo, nei prossimi giorni, attendiamoci altre tensioni. Altri conflitti. Enrico e Matteo. Quasi nemici. Ne resterà soltanto uno.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/01/27/news/letta_renzi_quasi_nemici-77009788/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_27-01-2014
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« Risposta #373 inserito:: Febbraio 03, 2014, 04:53:56 pm »

La fine dell'Italia del ceto medio. La piccola borghesia si sente povera

Mappe. Così la crisi ha fatto inceppare l'ascensore sociale

di ILVO DIAMANTI
   
È finita un'era, in Italia. Ha segnato la società e l'economia e, quindi, anche la politica. È l'era dei ceti medi, che ha marcato la crescita del Paese, dopo gli anni Ottanta. Quando lo sviluppo economico ha cambiato geografia e localizzazione produttiva.

Dalle grandi fabbriche delle metropoli del Nord si è spostato nelle piccole aziende del Nordest - e dell'Italia centrale. Giuseppe De Rita, con il suo linguaggio immaginifico, negli anni Novanta, aveva definito questa tendenza: "cetomedizzazione". Un processo antropologico, oltre (e più) che socioeconomico. Si spiega attraverso "l'innalzamento di coloro i quali erano alla base della piramide e lo scivolamento di una parte della vecchia elite". In altri termini, a partire dagli anni Ottanta, si è assistito al declino della borghesia urbana e industriale, peraltro, in Italia, tradizionalmente debole. E al parallelo affermarsi di una piccola borghesia, diffusa nel mondo delle piccole imprese e del lavoro autonomo. Distante e ostile rispetto allo Stato e alla politica. Educata ai valori della competizione individuale e, meglio ancora, dell'individualismo possessivo, per citare Macpherson. Questa realtà socio-economica si è trovata, a lungo, sprovvista di rappresentanza. Non gliela potevano, certamente, dare i partiti di massa della Prima Repubblica, DC e PCI. Integrati nello Stato e nel sistema pubblico. Nelle reti comunitarie del territorio. Nel sistema assistenziale.

… Grafici su repubblica.it

La "cetomedizzazione" ha, invece, trovato risposta dapprima nella Lega Nord. Nata e cresciuta, appunto, lungo la linea pedemontana, dove, fin dagli anni Ottanta, si è affermato lo sviluppo di piccola impresa. Sul solco della Lega e nel vuoto di rappresentanza lasciato dai partiti della Prima Repubblica si è proiettato, Silvio Berlusconi. Che ha offerto ai ceti-medi: volto, linguaggio. Identità. Berlusconi: l'Imprenditore in politica. Che fa politica. Al posto dei politici di professione. Contro di loro. Trasforma la politica in marketing. Il partito in impresa. La propria impresa in partito. Berlusconi: ha dato rappresentanza alla neo-borghesia, con basi e radici nel Lombardo-Veneto. Condividendo la "missione" della Lega. Anche se, alla fine, ha garantito soprattutto se stesso e i propri interessi. Berlusconi: ha trasformato il ceto medio nella "società media", il "pubblico" con cui comunicare e a cui fornire identità attraverso i media. Mentre gran parte degli italiani confluiva nell'ampio e indistinto bacino dei "ceti medi". Ancora nel 2006 quasi il 60% della popolazione (indagine Demos-Coop) si auto-collocava tra i ceti medi. Il 28% nelle classi popolari (i ceti medio-bassi). Il 12% nelle classi più elevate. L'Italia media aveva radici profonde impiantate nel Nord e basi solide tra i lavoratori autonomi e i liberi professionisti (questi ultimi, però, posizionati più in alto). Anche il 60% degli operai, allora, si sentiva "ceto medio".

Poi è arrivata la crisi. Economica e politica. Ha scosso, con violenza, le basi del ceto medio. Ne ha indebolito la condizione e, al tempo stesso, il sentimento, l'auto-considerazione. Ne ha accentuato il senso di vulnerabilità. Lo stesso, d'altronde, è avvenuto altrove. Anche negli USA, come mostrano le indagini di PEW Research Center, la quota di coloro che si identificano fra i ceti medi dal 53% nel 2008 cala al 44% nel 2014. Poco più di quanti si (auto) posizionano nei ceti più bassi: 40%. Quasi il doppio rispetto al 2008. Anche e forse soprattutto per questo motivo Obama ha promosso il suo piano di incentivi all'occupazione e all'economia. Tra cui l'innalzamento delle retribuzioni minime di alcune categorie di dipendenti federali. Per alimentare i consumi, ma anche per contrastare il senso di deprivazione relativa che spinge verso il basso le aspettative di mobilità sociale.

In Italia, però, questo processo è avvenuto in modo molto più rapido e sostanziale. L'ascensore sociale, in pochi anni, si è inceppato. E oggi la maggioranza assoluta degli italiani ritiene di essere discesa ai piani più bassi della gerarchia sociale (Sondaggio Demos-Fond. Unipolis). Coloro che si sentono "ceti medi" sono, infatti, una minoranza, per quanto ampia. Poco più del 40%. Così, l'Italia non è più cetomedizzata. È un Paese dove le distanze sociali appaiono in rapida crescita. Tanto che l'85% della popolazione (sondaggio Demos-Fond. Unipolis) oggi ritiene che "le differenze fra chi ha poco e molto siano aumentate".

Non è un caso che questa dinamica abbia coinvolto, in modo particolarmente intenso, le basi e il terreno originario della neoborghesia. I lavoratori autonomi: meno del 40% di essi si considera "ceto medio". Oltre il 50%, invece, si percepisce di classe medio-bassa. La stesse misure si osservano nel Nord. La cui distanza sociale, rispetto al Mezzogiorno, sotto questo profilo, appare molto ridotta. Anzi, il peso di coloro che si auto-posizionano in fondo alla scala sociale, nel Nordest (55%) - "patria" della neo-borghesia autonoma - è superiore rispetto al Sud (53%). Gli operai, infine, sono tornati al loro posto. In fondo alla scala sociale (63%).

È il declino dell'Italia media e cetomedizzata. Segna il brusco risveglio dal "sogno italiano" interpretato dal berlusconismo. Poter diventare tutti padroni (almeno, di se stessi). Ciascuno nel proprio piccolo (o nel proprio grande). Mentre le questioni territoriali sembrano svanire. E si sente parlare sempre meno della Questione Settentrionale, ma anche di quella Meridionale. Così, per la prima volta nella storia della Repubblica, si afferma una forza politica, i cui consensi sono distribuiti in modo omogeneo in tutto il territorio italiano. Alimentati e unificati dalla sfiducia verso lo Stato e verso la politica. E dalla delusione sociale. Non è un caso che, tra le principali forze politiche, il M5s sia quella dove si osserva la maggiore quota di elettori che si identificano con i ceti più bassi (quasi il 60%) e, per contro, la minore quota di chi si sente ceto medio (39%).

Il declino del ceto medio lascia un Paese senza sogni, incapace di sognare. Dove le distanze sociali hanno ripreso a crescere, mentre il territorio affonda nelle nebbie. Soprattutto il Nordest, capitale della neoborghesia autonoma.
Il declino del ceto medio, in Italia, definisce - e impone - una questione "nazionale" che nessuna riforma elettorale potrà risolvere.
 
© Riproduzione riservata 03 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/03/news/la_fine_dell_italia_del_ceto_medio_la_piccola_borghesia_si_sente_povera-77561594/?ref=HRER2-1
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« Risposta #374 inserito:: Febbraio 10, 2014, 05:06:05 pm »

Matteo pié veloce e i tempi lunghi della politica

di ILVO DIAMANTI
   
SONO passati poco più di due mesi dall’elezione di Matteo Renzi alla guida del Pd. E non è ancora chiaro cosa intenda fare, il segretario, nel futuro che incombe. Se continuare, ancora a lungo, in questo ruolo, oppure indurre Enrico Letta a farsi da parte.

Indurlo a spostarsi, magari, ad altro incarico, preferibilmente fuori dall’Italia — per assumerne l’incarico di premier.
Oppure spingere verso elezioni anticipate. Dipenderà, sicuramente, anche dall’esito della marcia a tappe forzate condotta per realizzare le riforme istituzionali. La riforma elettorale, per prima. Poi quelle costituzionali, che richiedono procedure più complesse. Verranno approvate anch’esse dal Parlamento. Con ragionevole rapidità. Perché viviamo tempi veloci.

E Renzi è l’uomo dei tempi veloci. Dei fatti veloci. D’altronde, agli italiani, questo atteggiamento piace. Non per caso Renzi, oggi, è, di gran lunga, il più apprezzato fra i leader. Politici e istituzionali. Quasi il 60% degli elettori (secondo Ipsos) gli attribuisce un voto da 6 in su. L’85%, fra gli elettori del Pd. Ma lo valuta positivamente anche quasi uno su due tra gli elettori degli altri partiti (Pdl e M5s compresi). In altri termini: Renzi dispone di un consenso “trasversale”. Più di ogni altro leader in Italia. Il suo consenso “personale”, peraltro, si trasferisce sul partito. Dal 25%, ottenuto alle elezioni di un anno fa, è risalito ampiamente, nelle stime di voto (secondo Demos, oltre il 33%). Peraltro, è il partito verso il quale gli elettori di forze politiche “concorrenti” mostrano maggiore simpatia (33%).

Naturalmente, questi caratteri, oltre che punti di forza, potrebbero costituire dei rischi, se non dei limiti. Come avevamo osservato anche in passato (nel maggio 2013), tratteggiando una fenomenologia del renzismo. Un sentimento esteso. Da destra a sinistra, passando per il centro. Allora, come ora, il problema mi pareva e mi pare lo stesso. Troppe simpatie rischiano di non attecchire, di non radicarsi. Di non consolidarsi, perché fin troppo “personalizzate”. E di sollevare, invece, troppe attese. Che, se disattese, potrebbero, a loro volta, provocare delusione.

La personalizzazione stessa del consenso potrebbe, a sua volta, indebolire il Pd. Soprattutto se il leader si impone oltre i confini del partito. Come sta facendo Renzi. Che agisce in proprio, da solo, attento a marcare la propria specificità. Come leader del post-Pd. O meglio (peggio?): leader senza partito. Perché un partito è, comunque, una “parte”, mentre lui si rivolge a tutti. Tutti. Come alle primarie, nelle quali votano non gli iscritti ma gli elettori — reali e potenziali. D’altronde, alla Convention della Leopolda 2013, come in altre occasioni, Matteo Renzi non ha voluto bandiere di partito. Le insegne e i vessilli del Pd. Rottamati. Renzi: interpreta la parte del leader im-politico. Perfino antipolitico. Lui, il Rottamatore dei leader e degli attori politici: della Prima e della Seconda Repubblica. Non guarda in faccia a nessuno. Destra e sinistra non gli interessano. Tanto meno il centro. Che, non a caso, è scomparso.

D’altra parte, alle elezioni di un anno fa, si è affermato il M5s. Un soggetto politico nuovo, con un’identità politica e una geografia prive di specificità. Intercetta voti a destra — un terzo — a sinistra — un terzo — e il resto — ancora un terzo — da “fuori”. Dai delusi della politica. E poi, ha preso voti dovunque, in modo omogeneo. Nord, Centro e Sud. Ecco: neppure Renzi ha una geografia e neppure uno spazio politico. Tantomeno un’ideologia. O meglio, la sua ideologia è la velocità. È il leader dei tempi veloci. Dei fatti veloci. Perché questo è un tempo veloce. Che rende insopportabili i tempi lunghi della politica italiana. Incapace di decisioni.

La Prima Repubblica: quasi cinquant’anni senza alternanza. Stessi partiti e stessi leader, stessi parlamentari. Al governo e all’opposizione. La Seconda Repubblica, fondata da Berlusconi sulle macerie di Tangentopoli, ha dato l’impressione del cambiamento. Berlusconi. Ha tradotto e riassunto i fatti in parole. E in immagini. Più che l’uomo dei “fatti”, è l’uomo che dice di fare. Vent’anni in attesa di riforme costituzionali, istituzionali e poi economiche e sociali. Annunciate, proclamate. E sempre eluse, deluse. Oppure imposte con colpi di mano. Fino a costruire questa bizzarra Repubblica preterintenzionale. Fondata sul caso e sui veti.

Per questo i “fatti” in sé, per questo la “velocità” in sé: marcano fratture rispetto al passato. Renzi ne ha colto il segno e lo interpreta, con piena convinzione e in modo convincente. Non è l’uomo della Provvidenza, che evoca il futuro, un disegno definito e condiviso. Ma dell’Urgenza. Perché il futuro è “adesso”, come recita il suo slogan in occasione delle Primarie del 2012. Renzi. Assistito dai “suoi” consiglieri e dai “suoi” tecnici, tratta direttamente con l’anziano leader dell’opposizione. Anche se indagato e condannato. Non importa. Anzi, meglio. Tra lui e Berlusconi, nel confronto: non c’è partita. Renzi. Costringe governo e Parlamento a (in) seguirlo. Ad adeguarsi ai suoi tempi. Veloci. E se c’è contrasto con il capo del governo, suo compagno di partito, meglio. Così appare più evidente la sua autonomia da tutti. I contenuti e gli effetti delle riforme, in realtà, sono importanti, ma neanche troppo. L’importante è “fare” le riforme. In tempi veloci. Dopo anni di discussioni inutili. D’altronde, fra pochi mesi si vota. Per l’Europa. Dunque, anche per l’Italia. Per — o contro — il post-Pd di Renzi. Perché in Italia non ci sono voti che non abbiano risvolti politici interni.

Due mesi dopo la sua elezione, dunque, Renzi agisce come “il” Capo. Del governo oltre che del post-Pd. Egli è dovunque e comunque. Affiancato — e assecondato — dall’opposizione. Perché Grillo e il M5s, in fondo, echeggiano e moltiplicano lo stile renzista. La loro mobilitazione continua e martellante, fuori e soprattutto dentro il Parlamento, rende difficile cogliere motivi e contenuti. Così, appaiono protagonisti di un happening neo-futurista. Permanente. E, più che presente, istantaneo.
Ecco, io penso che il successo di Renzi rifletta questo clima e questa domanda di senso in tempi senza senso. Renzi. È l’uomo dei tempi veloci in questi tempi veloci. Tanto veloci che anch’io, lo ammetto, mi sento in ritardo.

© Riproduzione riservata 10 febbraio 2014

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