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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 277791 volte)
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« Risposta #330 inserito:: Aprile 09, 2013, 05:48:59 pm »

La Lega ora è un partito fin troppo normale

Mappe.

La “festa popolare padana”, quest’anno, è apparsa più triste del solito. Partecipata. Ma non troppo. Perché la Lega si trova di fronte a un paradosso apparente: rivendicare la Padania senza i padani

di ILVO DIAMANTI


SI È "RADUNATA" di nuovo a Pontida, la Lega. Dopo la pausa dell'anno scorso imposta dagli scandali e dalle divisioni interne. Un appuntamento fissato ai primi di febbraio.

Fissato quando Roberto Maroni sperava – e contava – di celebrare un risultato elettorale migliore. Ieri, invece, il segretario, come molti dei relatori che si sono succeduti sul palco, ha dovuto ribadire che «la Lega non è morta». Inoltre, per dimostrare la volontà di gettarsi alle spalle gli scandali del passato, ha mostrato e offerto ai militanti «i diamanti della Lega» – quelli di Belsito. Io, ovviamente, non c’entro...

Maroni, d’altronde, è stato eletto Presidente della Lombardia e la Lega governa, dunque, le tre principali regioni del Nord. Non a caso, il programma maggiormente evocato, in questa manifestazione, rivendica la “macroregione del Nord”. Eppure la “festa popolare padana”, quest’anno, è apparsa più triste del solito. Partecipata. Ma non troppo. Scossa da qualche contestazione – limitata. Anche Bossi, il Padre fondatore della Lega, non ha nascosto la propria insofferenza verso la leadership del partito.
 
Prendendosela – in modo, come di consueto, colorito – con chi dice che «tutto va bene». Non è così, evidentemente. Perché è difficile, ai leader e ai militanti leghisti, nascondere i segni della sconfitta subita alle elezioni politiche di febbraio. Quando, lo rammentiamo,
la Lega ha ottenuto quasi 1 milione e 400mila voti. Cioè: oltre 1 milione e 600mila meno del 2008. Ha, dunque, più che dimezzato la sua base elettorale. Anche in termini percentuali: dall’8,3 è, infatti, scesa al 4,1. La Lega. Si è ridimensionata, soprattutto, nella sua patria. La Macroregione del Nord. Visto che, negli ultimi cinque anni, in Lombardia è diminuita dal 21,6 per
cento al 12,9. In Veneto dal 27,1 al 10,5. In Piemonte dal 12,6 al 4,8. E la “caduta” appare ancor più forte rispetto alle Regionali del 2010, quando la Lega ha conquistato la presidenza del Veneto (con oltre il 35% dei voti) e del Piemonte.

Così, la Lega si trova di fronte a un paradosso apparente – che ho già sottolineato all’indomani del voto. Cioè: rivendicare la Padania senza i padani. Conquistare la guida delle principali regioni del Nord proprio quando i suoi elettori si sono ridotti sensibilmente. Toccando il minimo, in valori assoluti, dal 1992 ad oggi.
 
D’altronde, nei discorsi di Pontida, si sentono gli echi del passato. Le invettive contro Roma e contro lo Stato italiano. L’impegno a trattenere in Lombardia – e sul territorio – il 75% del prelievo fiscale. Promesse e minacce già sentite. Come la rivendicazione federalista. Rilanciata a Pontida. Echeggia da sempre. Con nomi diversi. Indipendenza, devolution, secessione. In altri termini: autogoverno regionale. O meglio: macro-
regionale. Discorsi già sentiti altre volte, in passato. Ma dopo dieci anni di governo quasi ininterrotto – dal 2001 al 2011 – diventa difficile crederci fino in fondo. Prendere questa Lega sul serio. Anche perché, se non si è spezzata ieri (e non si spezzerà neppure domani), appare comunque divisa. Attraversata da tensioni evidenti. Che rendono arduo immaginare la Macroregione del Nord. Non solo perché non è chiaro come si dovrebbe realizzare. Attraverso quali procedure. E quali poteri e competenze dovrebbe assumere. Ma perché, prima ancora, si tratta di una prospettiva complicata per ragioni “politiche”. Visto che i leghisti oggi – più di prima – sono largamente “minoritari”, in queste regioni, dal punto di vista elettorale. E perché, soprattutto, sono distinti e distanti. I governatori, per primi.
 
Cota, governatore del Piemonte: vicino a Bossi. E dunque molto meno a Maroni. Zaia, governatore veneto: in conflitto con Tosi. A sua volta, molto vicino a Maroni. Difficile concepire, su questa base, forme di integrazione istituzionale, fra governi e governatori regionali. E poi, se davvero la macroregione venisse istituita, quale ne sarebbe la capitale? Milano? Cioè: la città governata dalla Sinistra? E Torino e Venezia – ma anche Verona – accetterebbero il ruolo di capoluoghi di secondo livello?
 
Al di là di tutto, resta, però, la questione di fondo. La Lega si è “normalizzata”. In altri termini, si è trasformata in un partito “normale”. Come altri partiti. Più di altri partiti. Perché è radicata sul territorio, dispone di molti iscritti, molte sezioni e molti militanti. E di molti eletti – sindaci, presidenti di Provincia, oltre ai tre governatori. Ciò le garantisce un buon grado di “resistenza”, anche di fronte alle crisi. E le permette di mobilitare ancora molte persone, alle sue manifestazioni, com’è avvenuto ieri. Anche se meno – e sempre più anziane – del passato.

La Lega è, dunque, un partito-più-partito degli altri. Intorno ai suoi parlamentari, ai suoi governatori, ai suoi amministratori: c’è una rete di consulenti e collaboratori molto ampia. Come gli altri partiti, la Lega dispone di un ceto politico professionalizzato. Di una struttura, in parte, burocratizzata. Al tempo stesso, però, oggi appare diversa dal passato. Quando si presentava personalizzata, fondata (da e) su un leader carismatico. Umberto Bossi. Oggi, invece, appare acefala. Perché Maroni non è Bossi. È un leader. Non “il” leader. Il Governatore della Lombardia, ma non il Padre della Padania.

La Lega, infine, è divisa in correnti – Bossiani e Maroniti. Rammenta altri partiti. Del passato più che del presente. L’alleanza con Berlusconi le ha permesso di vincere in Lombardia e di mantenere una presenza significativa a Roma. Ma non ha impedito, anzi ha forse accentuato, il profondo arretramento subito alle recenti elezioni. Ad opera, soprattutto e anzitutto, del M5S. Che ne ha eroso, profondamente, la base soprattutto nel Nordest e nel Nordovest. E ha quasi “espulso” la Lega dalle regioni “rosse”, dov’era cresciuta molto nel 2008. E l’ha rimpiazzata nella rappresentanza dei settori sociali tradizionalmente più vicini. I lavoratori autonomi e dipendenti della piccola impresa. La piccola borghesia artigiana e commerciale.

Il M5S: ha sottratto alla Lega il monopolio della protesta contro il ceto politico. Il ruolo del partito anti-partito. Portavoce del “nuovo” in politica. Perché anch’essa – la Lega – è divenuta un partito sin troppo normale. L’ultimo rimasto, con lo stesso nome, fra i partiti della Prima Repubblica. In un Paese dove il malessere e la rabbia contro lo Stato e i partiti, ormai, non abitano più solo a Nord. Ma dovunque.

(08 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/08/news/la_lega_ora_un_partito_fin_troppo_normale-56165881/
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« Risposta #331 inserito:: Aprile 15, 2013, 11:58:30 am »

Il presidenzialismo preterintenzionale

di ILVO DIAMANTI


Da giovedì prossimo il Parlamento si riunirà, in seduta comune, per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Ancora non sappiamo chi sarà. Sappiamo, tuttavia, che sarà difficile succedere a Napolitano.

Per il modo in cui ha interpretato questa carica. Ma anche per il profondo cambiamento che ha conosciuto il ruolo del Presidente, nell'ultima fase. D'altronde, è sufficiente scorrere l'andamento della fiducia espressa dai cittadini nei confronti dei principali soggetti istituzionali e politici, negli ultimi sette anni. Il credito attribuito al presidente della Repubblica è superiore a tutte le altre istituzioni considerate: dalla Ue allo Stato. Per non parlare dei partiti, la cui considerazione, tra gli italiani, è minima. Peraltro, la distanza, a favore del presidente della Repubblica, è cresciuta notevolmente durante il settennato di Napolitano. Attualmente (Indagine LaPolis, marzo 2013) il grado di fiducia verso il Presidente supera quello verso la Ue di circa 15 punti. Il doppio rispetto al 2007. (Anche a causa del calo della Ue). Mentre il distacco nei confronti degli altri attori istituzionali e politici - lo Stato e i partiti - risulta quasi un abisso. Oltre 50 punti.

Ciò riflette l'accresciuta credibilità del Presidente e la parallela, crescente, in-credibilità degli altri organismi. Eppure, l'elezione di Napolitano era stata accompagnata da polemiche. In un clima politico reso difficile dall'esito del voto del 2006, che rammenta, in qualche misura, quello dello scorso febbraio. Anche allora il centrosinistra, o meglio: l'Ulivo guidato da Prodi, appariva pre-destinato a una vittoria di larga misura. Prevalse, invece, con pochi voti di vantaggio sulla Casa delle Libertà di Silvio Berlusconi. A differenza di oggi, però, non c'era un polo alternativo agli altri, come il M5S di Beppe Grillo, capace di intercettare oltre un quarto dei voti - contro tutto e tutti. Così l'elezione di Napolitano venne accolta come un gesto di arroganza: una scelta imposta da una maggioranza che non era tale. Il Presidente venne etichettato per la sua storia "comunista". Un marchio (ab) usato da Berlusconi per dividere il mondo. Fra i suoi amici e i nemici. I comunisti, appunto. Anche da ciò deriva l'insofferenza verso Prodi. L'unico ad averlo battuto - per due volte. Non a caso, il Cavaliere, nella manifestazione di sabato, ha annunciato che, se venisse eletto Prodi al Quirinale, non esiterebbe ad andarsene dall'Italia. (Per molti elettori, un auspicio più che una minaccia ...)
Napolitano, peraltro, succedeva a Ciampi. Il quale aveva rafforzato l'immagine e la credibilità dell'istituto presidenziale in misura rilevante, dopo le tensioni degli anni Novanta. Segnati da Tangentopoli, dalla caduta della Prima Repubblica e dalla sfida secessionista della Lega.

Napolitano, tuttavia, non ha impiegato molto tempo a riconquistare la fiducia popolare. Già nel novembre 2008, infatti, oltre il 70% degli italiani esprimeva (molta o moltissima) fiducia nei suoi confronti (indagini Demos e LaPolis). Cioè, 12 punti in più, rispetto al momento dell'elezione, un anno e mezzo prima. "Premiato", già allora, per le qualità che ne caratterizzeranno il percorso. A) La capacità di "unire" un Paese diviso. Politicamente e non solo. B) Il ruolo di supplenza, dapprima, e, dunque, di guida in un sistema frammentato e im-potente.

In altri termini, Napolitano offre un riferimento comune a una società dove l'antiberlusconismo si incrocia con l'anticomunismo. Dove la Lega continua a evocare l'indipendenza padana. Dove gli schieramenti sono, a loro volta, attraversati da fazioni e frazioni. Dove, quindi, è difficile ogni maggioranza stabile.

L'occasione definitiva, che ha permesso a Napolitano di rafforzare questo ruolo è, sicuramente, costituita dalle celebrazioni del 150enario dell'Unità nazionale. Nel corso del 2011. Quando il Presidente gira l'Italia, facendosi testimone e sostenitore dello spirito unitario. A cui offre e da cui ricava grande legittimazione. Tanto che, durante l'anno, avvicina e talora supera l'80% dei consensi, fra gli italiani. Un riconoscimento così elevato, tuttavia, riflette anche ragioni "politiche". In primo luogo, la capacità di Napolitano di garantire rappresentanza a un Paese provato dalla crisi. E da un governo debole e poco credibile. In ambito nazionale e internazionale.

Così, l'Italia evolve in una Repubblica quasi-presidenziale. Dove i poteri del Presidente sono dettati e moltiplicati dall'impotenza altrui. Delle istituzioni e degli attori politici più importanti. Il Parlamento, i partiti. I leader. L'esperienza del "governo tecnico", guidato da Mario Monti, ne è la logica conseguenza. È, infatti, il "governo del Presidente". Napolitano, non Monti. Perché è Napolitano che lo sceglie e lo propone. Anzi, lo impone ai principali partiti e al Parlamento. Ed è Napolitano che lo sostiene, gli fornisce il consenso - personale e istituzionale - di cui dispone. Venendone, a sua volta, influenzato. Perché l'andamento della fiducia nel Presidente riflette quello nel governo Monti. Dal 78%, nel novembre 2011, all'avvio del governo tecnico, il consenso declina, seppure in modo non lineare, nel corso del 2012. Al momento delle dimissioni di Monti, a dicembre, scende al 55% e tale resta fino alla vigilia delle elezioni. Per poi risalire un mese dopo, verso metà marzo, fino quasi al 67%. Oggi dispone di un grado di fiducia elevato dalla maggioranza di tutti gli elettorati, salvo i leghisti. Anche dagli elettori del Pdl e del M5S. Secondo i dati di Ipsos, la fiducia nei confronti del Presidente sarebbe ulteriormente cresciuta (circa 5 punti in più nell'ultimo mese). Per la dissociazione di Napolitano da Monti, dopo la "scelta politica" del Professore. Ma, soprattutto, perché il Presidente è tornato a costituire un riferimento unitario - forse l'unico esistente - in un Paese di minoranze incomunicanti, nella società e in Parlamento. Ancor più diviso di prima.

Da ciò il motivo che rende particolarmente critica la scelta del prossimo Presidente. Ancor più di prima. Perché l'Italia è divenuta una Repubblica a "presidenzialismo preterintenzionale". Dove le riforme istituzionali avvengono quasi per caso. Prodotte da pressioni sociali e colpi di mano. Dove le riforme sociali ed economiche vengono spinte dall'emergenza. Per questo occorre scegliere bene il prossimo Presidente. L'unico potere certo in questo Paese incerto. Cercando intese larghe. Se possibile "larghissime". Ma non "basse". E, comunque, non ad ogni costo.

© Riproduzione riservata (15 aprile 2013)

da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-presidente-repubblica-edizione2013/2013/04/15/news/presidenzialismo_preterintenzionale-56650351/?ref=HREC1-2
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« Risposta #332 inserito:: Aprile 30, 2013, 11:35:12 am »

Diventeremo tutti berlusconiani?

MAPPE. Il Cavaliere non fa parte del governo Letta ma la sua presenza è tangibile: incombe di nuovo sulla politica italiana.

E il Pd sembra incapace di liberarsi di questa eredità, anche perché non è riuscito ad affermare una propria identità

di  ILVO DIAMANTI


Diventeremo tutti berlusconiani? Difficile non chiederselo, mentre assistiamo all'avvio del nuovo governo, che oggi otterrà la fiducia.
Berlusconi non ne fa parte. Ma la sua presenza è visibile. Attraverso i ministri della sua "parte". Per primo, il fedele Angelino Alfano.
D'altronde, questo governo rispecchia la prospettiva che egli stesso aveva auspicato e perseguito, fin dai giorni successivi al voto.

Una maggioranza di "larghe intese", che istituzionalizzasse l'alleanza costruita da Napolitano intorno a Monti e ai tecnici, nel novembre 2011.
Oggi quella maggioranza si ripropone, per iniziativa, ancora, del Presidente. Ma si tratta di un governo "politico", per quanto spinto (come nel 2011) dall'emergenza. Alla guida Enrico Letta, leader del Pd. Con il sostegno determinante del Pdl. Oggi, di nuovo il primo partito in Italia, secondo i sondaggi. Mentre il Pd è in caduta. Sceso al di sotto del 25% (secondo Ipsos). Se si votasse presto, il centrodestra "rischierebbe" di conquistare la maggioranza in entrambe le Camere, anche con questa orribile legge elettorale.

Berlusconi, dunque, incombe di nuovo, sulla politica italiana. Come avviene da vent'anni. Eppure sei mesi fa, appena, tutti davano la sua avventura politica praticamente conclusa. I suoi stessi leader (si fa per dire, perché nel centrodestra il leader è uno solo) l'avevano abbandonato. Invocavano le primarie del centrodestra. E si guardavano intorno, alla ricerca di una via di fuga. Io stesso consideravo il "berlusconismo", il modello politico e culturale imposto da Berlusconi, in declino. Non ho cambiato idea. Il berlusconismo interpreta il mito dell'imprenditore del Nord che si è fatto da sé. La promessa del successo possibile per tutti. Narrata attraverso i media e la "sua" televisione. È il "sogno italiano" negli anni della crescita e del benessere. Che egli ha rappresentato anche mentre declinava, negli anni Duemila. Quell'epoca è finita. Arcore e le sue ville in Sardegna non possono più disegnare l'ambiente della sua fiction. E l'immagine degli imprenditori, oggi, non è più associata al "miracolo" economico degli anni Ottanta e Novanta. Ma al dramma del suicidio per disperazione.

Anche il "partito personale", l'invenzione del Cavaliere: da Forza Italia al Pdl, dopo il 2008 ha iniziato a perdere consensi. Dieci anni, o quasi, di governo e di declino economico e sociale ne hanno ridimensionato il consenso. Così alle elezioni recenti il Pdl ha perduto circa 6.300.000 elettori. E si è ridotto a circa metà, rispetto al 2008.

Eppure Berlusconi non è finito. È sopravvissuto al berlusconismo. Meglio dei suoi stessi antagonisti. Oggi in profonda crisi, assai più di lui.

Com'è avvenuto? E perché?

Quanto al "come", direi che Berlusconi ha perso le elezioni ma ha vinto il dopo-elezioni. Perché il Pd, guidato da Bersani, il vincitore predestinato con largo anticipo, in effetti, non ha vinto. Ma ha cercato di agire da vincitore. Come se avesse vinto. Per quasi un mese, ha inseguito il progetto di un governo improbabile. Insieme al M5S di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. I quali non possono governare con i "nemici". I principali partiti della Seconda Repubblica. Dopo aver condotto una campagna elettorale contro di loro. Il Pdl e il Pd senza "l". Non possono. Perché un terzo dei loro elettori provengono da centrodestra e un terzo da centrosinistra. Qualunque scelta, per il M5S, sarebbe lacerante. Per cui ha condotto, sin qui, una guerra di logoramento. Avvicinandosi al Pd, per poi respingerlo. In diretta streaming. Visto che il suo governo ideale è proprio questo. Le "larghe intese" fra i "nemici". Contro cui mobilitarsi. Dentro e fuori il Parlamento. Almeno per ora. Fino a quando, cioè, una parte dei suoi elettori non comincerà a interrogarsi circa l'utilità del proprio voto. Com'è avvenuto in Friuli Venezia Giulia, alle recenti elezioni regionali.

Così Berlusconi, è divenuto, di giorno in giorno, più ineludibile. Impossibile cancellarlo dall'orizzonte politico, per il Pd. Il non-vincitore costretto ad agire "come se" lo fosse. "Come se" potesse decidere con chi governare. Mentre, di giorno in giorno, il ruolo di Berlusconi cresceva. Mentre Berlusconi poteva permettersi atteggiamenti da leader responsabile. Pronto a fare la propria parte. Fino al punto di concedere alla "sinistra" tutte le presidenze. Della Camera e del Senato. Perfino la presidenza della Repubblica (Napolitano non ha mica una storia di destra...). E, infine, la presidenza del Consiglio.

Per il Bene del Paese.

Così Berlusconi ha vinto il dopo-elezioni. E il centrosinistra l'ha perso. Anche se ha ottenuto tutte le cariche più importanti. Perché ha dovuto "arrendersi" al suo avversario storico. Il Pd: per la prima volta, ha formato una maggioranza "politica" con gli uomini del Pdl. Cioè, di Berlusconi. Certo, Enrico Letta ha scelto ministri giovani. Molte donne. Un po' di tecnici di valore. Un po' di politici di nuova generazione. Ma, insomma, lui, Silvio: incombe. E per il Pd conta quanto - e forse più - che per il Pdl. Perché Berlusconi è, ancora oggi, il leader verso cui gli elettori del Pd nutrono maggiore sfiducia: 94%.

La sfiducia verso Berlusconi, l'anti-berlusconismo: sono un marchio impresso nell'identità del centrosinistra fin dalle origini della Seconda Repubblica. Il centrosinistra. Condannato, da Berlusconi, a rimanere comunista. Dopo la caduta del muro e la fine del comunismo. Condannato a restare antiberlusconiano, anche dopo la fine del berlusconismo. Oggi sembra incapace di liberarsi da questa eredità.

Anche e soprattutto perché il Pd non è mai riuscito ad affermare una propria, specifica, identità. È un partito né-né. Né socialdemocratico né popolare. Semmai post. Dove coabitano, senza amore, postcomunisti e postdemocristiani (di sinistra). Un partito im-personale. Che utilizza le primarie per selezionare leader poco carismatici e lasciar fuori quelli più pop (olari). Un "partito ipotetico", ha scritto Eddy Berselli nel 2008. Rassegnato a perdere, anche quando vince - o quasi. Perché coltiva il mito della sconfitta -  e dell'opposizione. In fondo, anche Berlusconi, per il Pd e la Sinistra, è un mito. Negativo, ma non importa. Perché i miti, si sa, non muoiono.

Per non morire berlusconiani, dunque, non c'è alternativa. Occorre costruire un'alternativa: "senza" Berlusconi. "Oltre" Berlusconi. Solo a questa condizione è possibile sopravvivere a Berlusconi. Il Pd, per questo, deve cambiare in fretta. Individuare e comunicare una propria, specifica identità. Con poche parole e una leadership forte. Prima delle prossime elezioni. Non gli resta molto tempo.

(29 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/29/news/mappe_tutti_berlusconiani-57669790/?ref=HREC1-4
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« Risposta #333 inserito:: Maggio 06, 2013, 11:36:13 am »

Il governo ideale per gli italiani

di ILVO DIAMANTI


È SIGNIFICATIVA la rabbia degli italiani contro la "politica". In particolare, contro il governo che ci governa. Contro la maggioranza che lo sostiene. Contro il Parlamento. È significativo il ri-sentimento degli italiani contro i "rappresentanti" e contro le istituzioni che li "rappresentano". Perché, in fondo, è come se gli elettori si ponessero davanti allo specchio. Visto che raramente, come in questa occasione, il Parlamento ne offre una "rappresentazione" fedele. Certo: questa legge elettorale "orrenda" impedisce ai cittadini di scegliere i propri "rappresentanti". Di esprimere un giudizio e un controllo sui singoli parlamentari. Combinato con il bicameralismo perfetto, ostacola ogni maggioranza stabile e autosufficiente. Ma, nell'insieme, la composizione del Parlamento ricalca fin troppo fedelmente gli orientamenti politici degli italiani. I quali si dividono in tre grandi minoranze, non troppo diverse, per misura. Una di Centrodestra, l'altra di Centrosinistra, la terza "al di fuori". Esterna ed estranea. Dove si rifugiano "quelli che non ci stanno". Senza contare un piccolo polo di Centro. Che, in effetti, non conta molto. Perché è stato spinto a Margine, dagli elettori.

In altri termini, se questo Parlamento non favorisce la formazione di una maggioranza politica, non è per colpa di una legge che distorce e deforma le scelte degli elettori. Semmai, al contrario, è perché le riproduce in modo fin troppo fedele. Accentuandone le distanze, più delle affinità.
Così oggi il governo è sostenuto da una coalizione precaria. Perché i partiti e i parlamentari che vi partecipano fanno a gara nel marcare il proprio distacco. Reciproco. Le proprie differenze. Berlusconi e il Pdl: impegnati a promuovere i "propri" prodotti di bandiera. L'Imu sopra tutti. Ma anche a "difendere" i territori critici, per il Leader Imprenditore: la giustizia e le telecomunicazioni. Il Pd: impegnato a dimostrare il proprio impegno, ma senza troppo impegno. Per rispetto verso la responsabilità che spetta ai vincitori  -  che in effetti non hanno vinto  -  le elezioni. E per evitare un nuovo voto ravvicinato, a cui oggi non sarebbe pronto. Infine: il M5S, impegnato a esibire il proprio dis-impegno. Ma con impegno. Come se fossero gli altri a non volerne sapere di lui. E non lui a non volersi confondere e contaminare, con gli altri.

Fuori dal Palazzo, intanto, la piazza rumoreggia. E i cittadini esprimono, in ogni modo, la loro insoddisfazione. La loro rabbia. Ogni gesto di disperazione. Ogni atto di follia individuale. Ogni esplosione soggettiva estrema. Tutto diventa  -  tutto viene interpretato come  -  un segno di ribellione contro la Politica, i Politici, i Partiti, il Parlamento. Lo Stato. E la Politica, i Politici, i Partiti, il Parlamento, lo Stato: diventano  -  a loro volta  -  i mandanti, anzi, i veri responsabili. Di ogni suicidio e omicidio, di ogni aggressione. Di ogni atto disperato commesso da disperati. Per disperazione. Come se noi non c'entrassimo. Come se la colpa fosse solo "loro". Dei Politici, dei Partiti, del Parlamento. Come se questo governo  -  e questa maggioranza che non piace quasi a nessuno (a me di certo no)  -  uscissero dal nulla. Come se questo Parlamento fosse stato eletto "a nostra insaputa".

Non è così. Purtroppo. Il problema, semmai, è che questa legge elettorale orrenda ha prodotto un Parlamento che rispecchia in modo fedele gli orientamenti e le differenze dell'elettorato.
Dove coabitano tre Grandi Minoranze che non si sopportano. Due Soggetti Politici e uno Antipolitico. O meglio: premiato dal voto di molti elettori (due terzi, almeno) per risentimento contro "i partiti". Contro la Casta.

Così oggi si ripropone una scena nota, in Italia. Il "governo nonostante". Subìto perfino dal premier, Enrico Letta. Il quale, ospite di "Che tempo che fa", ieri sera, ha ammesso che "questo non è certo il governo ideale per gli italiani". A torto, perché riflette gli umori degli "italiani nonostante". Ai quali non piace perdere. Ma nemmeno vincere. Perché non amano la concorrenza, né la competizione. Come in economia e negli affari. Tutti liberisti, tutti contro le corporazioni e contro i privilegi di gruppo e di categoria. Tutti contro il familismo. Tutti per il merito. Eppure quasi tutti coinvolti in  -  e tutelati da  -  corporazioni e gruppi. A nessuno verrebbe in mente di escludere figli e parenti dalla successione - nell'azienda e nel mercato del lavoro. In nome del merito. Della società aperta.

Così oggi siamo guidati da un "governo di necessità" perché viviamo in uno "Stato di necessità". Sostenuto da una "maggioranza di necessità". Composto da partiti e politici che non si sopportano. Con un'opposizione "estranea". D'altronde, è dal novembre 2011 che il Paese è governato da un Governo del Presidente. Voluto e garantito da Napolitano. Anche oggi, l'unico presidente possibile.

Per l'incapacità del Parlamento di trovare l'accordo su un altro. Da quasi due anni il Paese è guidato dal Governo del Presidente. Per Stato di Necessità. Anche oggi. Perché il primo garante di Enrico Letta è Napolitano. D'altronde, per quasi cinquant'anni, dal 1948 ad oggi, gli italiani hanno votato liberamente per eleggere le stesse forze politiche. Al governo e all'opposizione. Visto che la Dc ha sempre governato. Con il Pci sempre all'opposizione. Anche se tutte le leggi e le riforme che contano sono state votate all'unanimità. Secondo il modello consociativo. Dove maggioranza e opposizione coesistono e collaborano. Anzi, di più: co-governano. Come nella società, fra i cittadini. Dove tutti sono divisi. Ma anche uniti. Quando serve. Nelle emergenze. Cioè: sempre, visto che in Italia l'emergenza è perenne. Permanente.

Questo governo e questa maggioranza, dunque, sono "rappresentativi". Perché "rappresentano" fedelmente gli italiani. Ai quali piace stare "dentro" e "fuori", al tempo stesso. Al governo, ma senza impegno. D'accordo con Monti, ieri, e con Letta, oggi (secondo i sondaggi, il politico più popolare in assoluto). Perché ci impongono sacrifici che nessun governo "di parte" potrebbe imporre. Ma pronti a prenderne le distanze, appena risulti utile e opportuno. Come ha fatto Berlusconi. Che ha scaricato Monti, quando gli è parso vantaggioso. Gli italiani: un po' Berlusconi e un po' grilli. Di governo e di opposizione  -  secondo il momento. E, talora, un po' di sinistra. Perché "bisogna saper perdere". Ma il problema non è che "la Politica è lontana da noi". Al contrario: è fin troppo vicina. Troppo simile a noi. Questo è il problema. Più facile cambiare la Politica che gli italiani.

(06 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/05/06/news/diamanti_governo-58144673/?ref=HREA-1
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« Risposta #334 inserito:: Maggio 18, 2013, 04:43:36 pm »

La nostra alluvione quotidiana

Ilvo DIAMANTI

Da casa mia, oggi, non riesco a vedere il Pasubio. Ma si indovinano, a fatica, anche i Lessini, che distano pochi chilometri. Avvolti nelle nuvole, tanto basse e scure, tanto dense e pesanti: sembra, quasi, che ci cadano addosso. Invece si sciolgono. E si rovesciano su di noi. Da due giorni piove in modo incessante. Qui, nei dintorni di Vicenza. Come nella Pedemontana veneta. Da Verona a Treviso. Scroscia, scroscia e scroscia ancora. In modo violento. Qualche pausa, breve. E poi riprende. In un giorno e mezzo è caduta tanta pioggia come, mediamente, in due mesi. Così è tornato l'allarme.

Due anni e mezzo dopo l'alluvione del 2 novembre 2010. L'acqua è salita in tutti i torrenti, nelle campagne tra Caldogno e Vicenza. Il Bacchiglione è in piena. Ho appena attraversato i ponti, a Cresole e, poi, all'ingresso di Vicenza, prima di imboccare via S. Antonino. L'acqua gonfia il fiume e sfiora i ponti. I campi, d'altronde, sono allagati, in diversi punti. Vicenza è in stato di emergenza. Le scuole chiuse, molte strade non accessibili. Per precauzione. L'alluvione dell'autunno 2010, inattesa, ha travolto ogni argine e ogni sicurezza.

Così, da allora l'allarme scatta, dopo ogni pioggia più intensa e lunga del solito. Un evento, peraltro, sempre più frequente. Perché è cambiato il clima. Lo diciamo sempre, ma è vero. Le precipitazioni sono sempre più simili a uragani. Qualche volta, a monsoni. Così, negli ultimi tempi è cambiata anche l'attenzione. È cambiato l'atteggiamento delle persone e delle amministrazioni. I torrenti e i fiumi hanno cominciato ad essere considerati come pericoli incombenti. E, dopo decenni di fatalistico immobilismo, sono iniziati lavori di riassetto, lungo il greto dei corsi d'acqua. Me ne sono reso conto anch'io, perché, quando ho tempo, risalgo gli argini del Bacchiglione in bici. Ma da un anno mi riesce sempre più difficile. Perché sono inagibili, bloccati dalle ruspe.

Tuttavia, le opere di riassetto, oggi, non riescono e non possono rimediare a un problema degenerato nel corso degli anni. La riduzione del territorio a una plaga immobiliare. A una campagna urbanizzata e industrializzata. Dove la crisi immobiliare ed economica non ha, ovviamente, ridotto le aree edificate. Le ha rese solamente più deserte.  Ogni piccolo uragano, ogni piccolo monsone, così, rischia di far esondare i corsi d'acqua  -  peraltro numerosi - che attraversano questa zona. Perché il territorio non è in grado di sopportare, né di assorbire le piene improvvise. È una storia, peraltro, nota. Anche altrove, in Italia.  Per restare agli ultimi anni: dalla Maremma alle Cinque Terre, da Orvieto a Genova. A Messina... Dovunque il degrado dell'ambiente si è prodotto e riprodotto senza "argini". Così le tragedie si susseguono, con grande emozione e grande rimozione. Grandi esplosioni polemiche e grandi silenzi colpevoli.

Oggi, nonostante tutto, non si respira il clima di emergenza del recente passato.  Lungo la strada che da Caldogno conduce a Vicenza, sono poche le case che, davanti agli ingressi, hanno disposto i sacchetti di sabbia, per precauzione. I negozi sono aperti, nei garage ci sono ancora le auto. Proseguendo, dopo il ponte del Marchese, sulla destra, dove fino a qualche anno fa c'era l'aeroporto civile "Dal Molin", ora si erge il villaggio militare americano. È sorto in fretta. Imponente. Una piccola Manhattan.  In mezzo al (poco) verde (rimasto). E alle acque. Fra poco verrà popolato dai militari USA, impegnati nelle missioni "di pace" in Medio Oriente. E in Oriente. Con un occhio a quel che avviene nell'(ex)URSS.

Il nostro paesaggio: è cambiato e sta cambiando ancora. Ma noi ci siamo assuefatti. A ogni cambiamento: del territorio, del clima, dello spazio, dell'ambiente. Neppure le alluvioni, ormai, ci spaventano. Né le piccole metropoli che sorgono, in fretta, accanto a noi. Non ci stupiamo più di nulla. Le emergenze sono divenute la normalità. Ed è questo il rischio peggiore, per noi. L'abitudine. Che ci rende ciechi, sordi. E indifferenti.  Senza occhi, senza orecchie. Senza naso. E, purtroppo, anche senza cuore.

(17 maggio 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #335 inserito:: Maggio 21, 2013, 07:11:46 pm »

   
Fenomenologia del renzismo

MAPPE.

I consensi dell'ex rottamatore mescolano elettori dei due poli, boom tra gli anziani e al Nord. 

Gradimento al 64%. Ma piacere a tutti è un rischio

di ILVO DIAMANTI


MATTEO Renzi non si nasconde. Ma non si espone. In questo periodo, è ben visibile. Ma preferisce non "scendere in campo" direttamente. Al Salone del libro di Torino, ieri, ha espresso l'intenzione di andare "Oltre la rottamazione" (titolo del suo libro, pubblicato da Mondadori). Perché si tratta di uno slogan efficace, ma che, al tempo stesso, fa paura. Visto che, osserva Renzi, oggi, in Italia, "il 70% della popolazione è over 40". Così, il sindaco di Firenze oggi frena sulla "questione generazionale", sulla frattura fra vecchio e nuovo, in politica e nella società. Su cui aveva impostato la sua offerta politica, fino alle primarie. Quando aveva ottenuto un risultato rilevante, ma non sufficiente a vincere.

Anzi: lontano da quello ottenuto da Bersani. Anche per questo appare prudente. E, per la successione di Bersani, come futuro segretario del PD, preferisce lanciare la candidatura dell'ex-sindaco di Torino, Sergio Chiamparino.

Resta coperto, Renzi. Teme, ancora, di vincere la competizione dell'audience e di perdere quella politica. Di risultare il candidato preferito "fuori", più ancora che "dentro" il partito. Come nelle precedenti primarie del PD. Così attende. Di rientrare direttamente in gioco quando si tratterà di scegliere non il futuro segretario, ma il candidato Premier. D'altronde,
nell'opinione pubblica continuano ad emergere, nei suoi confronti, orientamenti molto favorevoli. Nell'Atlante Politico di Demos, infatti, il 64% degli elettori valuta positivamente la sua azione politica (con un voto pari o superiore al 6). Primo fra i leader. Avvicinato, a breve distanza, dall'attuale Premier, Enrico Letta. Anch'egli giovane, ma di certo meno polemico verso il ceto politico (non solo del PD). Favorito dall'incarico di governo, sostenuto da intese molto larghe.

LE TABELLE su http://www.repubblica.it/politica/2013/05/20/news/mappe_fenomenologia_renzismo-59188271/?ref=HREA-1

Ciò che colpisce, tuttavia, è la trasversalità del consenso. Anzitutto, sotto il profilo dell'età. È, infatti, evidente come il richiamo alla "rottamazione" non abbia preoccupato gli elettori più anziani. Fra i quali, al contrario, il sindaco di Firenze ottiene il gradimento più elevato (oltre i 65 anni sfiora il 70%). Inoltre, è interessante osservare come egli riesca a sfondare il "confine padano", visto che ottiene il sostegno maggiore (oltre il 70%) proprio nel Nord. Mentre è più debole nel Mezzogiorno (58%). Renzi: gode dei livelli di consenso più elevati fra gli studenti e i pensionati. Fra gli impiegati pubblici. Fra i cattolici praticanti. Mentre è (un po') meno sostenuto dagli operai, dai liberi professionisti, dagli imprenditori. Dalle persone con un basso livello di pratica religiosa. Ma il maggior grado di trasversalità dei consensi nei suoi riguardi emerge in rapporto agli orientamenti di voto. Renzi, infatti, ottiene un giudizio positivo dal 77% degli elettori del PD, ma da oltre l'86% di quelli di Scelta Civica e dell'UdC. È, comunque, molto apprezzato anche dagli elettori di Centrodestra. Dal 70% dei leghisti, da oltre i due terzi della base del PdL. Mentre il suo consenso cala fra gli elettori di SEL e degli altri partiti di Sinistra - anche se si avvicina al 60%. I livelli più bassi di sostegno, nei suoi confronti, si osservano, però, nella base elettorale del M5S e nella zona grigia dell'astensione e dell'indecisione. Anche qui, comunque, egli dispone di un gradimento maggioritario, superiore al 50%.

Renzi, dunque, piace a tutte le principali componenti dell'elettorato. E appare in grado, soprattutto, di superare i tradizionali limiti espressi dal PD. In particolare, sul piano territoriale. Nonostante sia sindaco di Firenze, infatti, Renzi non sembra un leader della "Lega di Centro" - per citare la formula usata da Marc Lazar per definire i DS (e valida anche per il PD, fino alle ultime elezioni). Sicuramente, non subisce il pregiudizio anticomunista, che ha vincolato la crescita del PD, come dello stesso Ulivo. Renzi, al contrario, piace agli elettori di Centro, e perfino di Destra, più ancora che a quelli di Sinistra. Non è un caso che, anche fra i possibili segretari del partito, egli sia decisamente il preferito dagli elettori del PD. Ma perda consensi tra quelli di SEL e della Sinistra (a favore di Barca e di Civati).

Il profilo politico e sociale del consenso a Renzi, dunque, ne sottolinea le ragioni di forza. Ma ne suggerisce anche i possibili limiti. Che in parte coincidono.

Renzi, infatti, si sottrae alla tradizionale frattura fra destra e sinistra. E impone, invece, la questione generazionale, legata al rinnovamento politico. In questo modo, intercetta l'insoddisfazione - diffusa - verso le istituzioni e i gruppi dirigenti di partito. Ponendosi in concorrenza con Grillo e il M5S. Infine, il sindaco di Firenze è tra i più abili nell'impugnare le armi del berlusconismo: la personalizzazione e la comunicazione. Non a caso proprio Berlusconi, come ha ribadito Renzi, anche ieri, ha bloccato la sua candidatura alla guida del governo.

Insomma, Renzi piace un po' a tutti. E questo potrebbe diventare un problema, oltre che un vantaggio. Le stesse basi del suo consenso, inoltre, potrebbero costituire una minaccia, oltre che una risorsa. Renzi, in particolare, rischia di non ancorarsi alle "questioni" e alle "fratture" sociali. Di cui la distinzione fra destra e sinistra è uno specchio. Rischia, dunque, di non dare rappresentanza adeguata ai problemi e alle domande delle principali componenti del mercato del lavoro. Che, in una fase drammatica come questa, si sono rivolte, non a caso, soprattutto al M5S. Infine, non è chiaro a quale alternativa guardi, rispetto al "partito personale" "mediale" e delle " nomenclature", distante dalla società e dal territorio. E oggi dominante.

Anche per questo, probabilmente, Matteo Renzi preferisce "restare fuori" dalle scelte - e dalle polemiche - che riguardano il partito e il governo. In attesa che i tempi maturino - e logorino i suoi concorrenti. (Bersani, che lo aveva battuto alle primarie, si è già "consumato").

Tuttavia Renzi, in questi tempi crudi, rischia. Se non spiega cosa ci sia "oltre la rottamazione". Quali priorità. E quali parole. Se non spiega: come sia possibile imporle. E, soprattutto, cambiare il PD da fuori. Senza conquistarne la guida. Renzi rischia, altrimenti, di arrivare anch'egli logoro. Alla guida di un partito logoro.

(20 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/05/20/news/mappe_fenomenologia_renzismo-59188271/?ref=HREA-1
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« Risposta #336 inserito:: Maggio 31, 2013, 04:08:03 pm »

Il riscatto dei partiti

Mappe.

Pdl e M5S soffrono l'assenza dei leader comunali. Base e tradizione così il Pd vince sul territorio.
Nel centrodestra i soggetti più radicati si sono indeboliti.
Al Sud An si è liquefatta, mentre al Nord la Lega si è disintegrata

di ILVO DIAMANTI


L'esito di queste consultazioni, per quanto ancora provvisorio, è dettato da motivi prevalentemente locali. Dovrebbe, dunque, rammentare ai soggetti politici "nazionali" l'importanza del "territorio". Che tende, invece, ad essere rimosso.

In questa occasione, infatti, hanno vinto, anzitutto, i "partiti" che dispongono di candidati credibili. Di personale, volontari e militanti attivi. Ma anche di tradizioni e valori sedimentati. Sul territorio. Così si spiega, anzitutto, l'affermazione del Pd e del Centrosinistra. Che si sono affermati in 5 comuni capoluogo su 16. E andranno al ballottaggio in altri 10. In posizione di vantaggio anche in alcune città dov'era al governo il Centrodestra. Come Treviso, Imperia, Iglesias, Brescia, Viterbo. E, anzitutto, Roma. Il Centrosinistra si è presentato, in prevalenza, unito. Il Pd, cioè, si è alleato con i partiti di Sinistra. Talora, anche con quelli di Centro. Nel Centrodestra, parallelamente, il Pdl si è alleato con la Lega, nel Nord, e con altre formazioni di Destra. Mentre il M5S si è presentato da solo. Dovunque.

LE TABELLE su http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-comunali-risultati2013/2013/05/29/news/il_riscatto_dei_partiti-59873642/?ref=HREA-1

Il rapporto con il territorio, peraltro, ha ridimensionato le novità emerse alle elezioni politiche di febbraio. Ciò appare chiaro se facciamo riferimento alla "simulazione" pubblicata lunedì. Dove l'esito delle consultazioni amministrative era stato elaborato (dal Laboratorio elettorale LaPolis-Università di Urbino) "come se" si votasse allo stesso modo che alle politiche. La differenza rispetto ai risultati "reali" appare evidente. In particolare, si osserva un ritorno del bipolarismo, che ha caratterizzato la Seconda Repubblica, fino alle recenti elezioni politiche. Riflette il dominio, in queste consultazioni, dei due partiti maggiori e delle coalizioni raccolte intorno a loro. E il contemporaneo arretramento del M5S. Nelle sfide per i sindaci, infatti, il M5S è andato al ballottaggio solo in 3 comuni oltre 15mila abitanti. Mentre, se il voto avesse riprodotto quello dello scorso febbraio, oggi sarebbe in corsa in 53. Quasi dovunque, invece, la sfida si giocherà fra Pd e Pdl. Centrosinistra e Centrodestra. Che si affronteranno direttamente, con i loro candidati sindaci, in gran parte dei 66 comuni (maggiori). Nel complesso, nei Comuni maggiori, il Pd e il Centrosinistra hanno, dunque, ottenuto, sin qui, un esito positivo  -  e imprevisto. Hanno, infatti, eletto 15 sindaci. Il Pdl e il Centrodestra 5 (1 la Lega da sola). Il M5S nessuno. In termini percentuali, il Pd e gli alleati, rispetto alle politiche sono cresciuti di quasi 8 punti, il Pdl e il Centrodestra di circa 5. Il M5S, invece, ne ha perduti quasi 17. Cioè: i due terzi. (Peraltro, in valori assoluti, tutti i partiti hanno subito un arretramento più o meno sensibile  -  visto il calo della partecipazione elettorale.)

Da ciò un "rischio interpretativo": trattare come equivalenti le elezioni politiche e quelle amministrative. Considerare, dunque, il voto locale come "conseguenza" di quel che è avvenuto e avviene a livello nazionale. Interpretare, quindi, il successo del Pd sul Pdl come il differente effetto delle "larghe alleanze" sugli orientamenti degli elettori. E leggere nel risultato amministrativo del M5S la sanzione alle strategie del (non) partito di Grillo in Parlamento. Al suo rifiuto di ogni alleanza. In particolare: con il Centrosinistra.
D'altronde, il dibattito dentro e intorno ai partiti  -  nazionali  -  segue questo schema. Così, nel Pd si festeggia, mentre nel Pdl emergono dubbi e perplessità. Nella Lega si tace. E nel M5S Beppe Grillo se la prende con gli elettori. Ingrati. Che "scegliendo Pd e Pdl hanno imboccato una via senza ritorno".
Ma le scelte di voto alle amministrative e alle elezioni politiche non hanno lo stesso segno. Non sono coerenti, né, tanto meno, conseguenti. Semmai, andrebbero lette in modo inverso. Dal basso verso l'alto. Per sottolineare l'importanza dell'organizzazione politica sul territorio.

Il buon risultato del Pd e del Centrosinistra, dunque, dipende dalla loro capacità di mobilitazione sociale, già verificata alle primarie  -  recenti e passate. Dipende, inoltre, dai candidati sindaci e consiglieri presentati in lista. E dal senso di identità degli elettori, sedimentato nel tempo, riprodotto dalle reti comunitarie e associative. Dipende, cioè, dalla presenza del partito. In ambito territoriale. Dove il Pd c'è ancora. Per quanto indebolito, resiste. Il Pdl molto meno. La sua identità "dipende" da Silvio Berlusconi. E quindi funziona alle elezioni nazionali. Molto meno in ambito locale. Come il M5S, che si riflette nella figura di Beppe Grillo. E, per la comunicazione, si affida alla Rete. Mentre in ambito locale non dispone ancora di persone, militanti, attivisti conosciuti e affidabili. Nel Centrodestra, invece, i soggetti più radicati e organizzati, sul territorio, si sono indeboliti. La Lega nel Nord: dis-integrata. An nel Sud: liquefatta nel Pdl. Così, le elezioni amministrative dimostrano e anzi confermano che i "partiti", come canali di partecipazione e di formazione della classe dirigente, radicati a livello sociale e territoriale: servono. E anche per questo il Centrosinistra governa in tutte le principali città italiane. Ad eccezione di Roma. Fino ad oggi, almeno.

Per questo, occorre cautela nel generalizzare il significato del voto amministrativo. Dare il M5S per "affondato". Il Pdl in difficoltà. E il Pd rilanciato. Come ai tempi delle mitiche primarie. (Guai, soprattutto, se a crederci fosse il gruppo dirigente centrale.)

Tuttavia, questa consultazione avrà, sicuramente, effetti politici nazionali. Contrastanti, però. Rassicurerà la maggioranza di governo. Per ora. Ma nelle prossime due settimane le cose potrebbero cambiare. Sensibilmente. Perché il M5S, presumibilmente, reagirà al clima di "sconfitta" che rischia di avvolgerlo. Perché ai ballottaggi si scontreranno Pd e Pdl. Quasi ovunque. E anzitutto a Roma. I principali alleati di governo. Uno contro l'altro. Alla conquista della capitale e di molte altre importanti città.

Così il significato del voto locale rischia di venire "nazionalizzato". Ricacciando, definitivamente, il "territorio" alla periferia. Di Roma.

(29 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-comunali-risultati2013/2013/05/29/news/il_riscatto_dei_partiti-59873642/?ref=HREA-1
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« Risposta #337 inserito:: Maggio 31, 2013, 11:14:56 pm »

Piazze vuote e astensioni: così in Italia esplode il distacco dalla politica

di ILVO DIAMANTI


IN ITALIA tutte le elezioni hanno un impatto nazionale. Anche quelle amministrative. Regionali e comunali. Cinque anni fa, il successo di Alemanno a Roma, nel ballottaggio, fu, in parte, influenzato dalla vittoria, larga, di Berlusconi e del centrodestra alle politiche, contemporanee al primo turno. Reciprocamente, la sconfitta di Francesco Rutelli costò a Walter Veltroni forse più di quella alle elezioni politiche. Dove il Pd aveva ottenuto oltre il 33%. Un risultato che oggi appare stellare.

Tuttavia, questo turno amministrativo è passato quasi nel silenzio. Politico e mediatico. Piazze semivuote, spazio ridotto in tivù e sugli altri canali. Eppure, i motivi di interesse non mancano. Al contrario. Basti pensare al numero di elettori chiamati a votare: quasi 7 milioni. In 564 Comuni. Fra cui 92 con più di 15 mila abitanti. Infine, o meglio, in primo luogo: Roma. Appunto. La Capitale. La più importante. Governata dal centrodestra. Dopo una lunga stagione di centrosinistra. Oggi è al centro di una competizione quantomeno aperta. Ma non accesa. Il clima del dibattito politico intorno a Roma, tanto più alle altre città al voto, appare tiepido. Quasi freddo. Come quello della primavera invernale che ci avvolge. Per alcune ragioni, importanti per la valutazione dei risultati di oggi.

La prima ragione riguarda il disincanto politico - e antipolitico - del nostro tempo. Sottolineato, in primo luogo, dai tassi di astensione. Che già ieri risultavano elevati e in crescita. Anche se la comparazione
con la precedente consultazione è deviante, in quanto, come abbiamo già ricordato, cinque anni fa si votò contemporaneamente per le elezioni politiche. Che contribuirono - e contribuiscono sempre - a incrementare la partecipazione elettorale. Tuttavia, è indubbio che il distacco degli italiani verso i partiti e le istituzioni sia diffuso anche a livello locale. Anche i sindaci, vent'anni fa protagonisti del cambiamento, oggi appaiono confusi nella nebbia della sfiducia politica.

Il secondo motivo di interesse richiama l'esito delle elezioni di febbraio. È, infatti, inevitabile la tentazione di cercare conferme o smentite al risultato del voto recente. In particolare, per misurare la capacità competitiva del M5S e il grado di tenuta del Pd e del Pdl. Nonostante che le elezioni amministrative siano influenzate da fattori specifici. Per prima: la figura del sindaco e dei candidati locali - noti e attivi nelle città. Inoltre: l'offerta politica, caratterizzata da liste civiche e "personali". Tuttavia, nelle città maggiori, la competizione riflette la struttura emersa alle elezioni politiche di febbraio. Nonostante la frammentazione delle liste e dei candidati sindaci, si delinea, infatti, un confronto prevalentemente "tripolare": fra centrosinistra, centrodestra e M5S. Se il voto in queste amministrative riproducesse i dati delle elezioni di febbraio, dunque, emergerebbe un quadro aperto e contrastato. (Come mostra la simulazione realizzata dall'Osservatorio elettorale del Lapolis-Università di Urbino). Solo in 2 Comuni (superiori a 15 mila abitanti) il sindaco verrebbe eletto al primo turno. Ma in nessun capoluogo di provincia. In tutti gli altri, invece, si andrebbe al secondo turno. Il M5S, in particolare, andrebbe al ballottaggio in 53 Comuni maggiori e in 10 capoluoghi di provincia. Fra cui Roma. Diverrebbe, così, il principale "sfidante" delle due maggiori coalizioni e dei loro partiti di riferimento: Pdl e Pd. I cui candidati, invece, si troverebbero faccia a faccia, al ballottaggio, in 35 Comuni e in 6 capoluoghi di provincia. Dunque: una (per quanto ampia) minoranza.

Naturalmente, meglio ripeterlo, il voto amministrativo è altra cosa rispetto a quello politico. Se n'è già visto un esempio alle elezioni regionali in Friuli. Dove il M5S è uscito ridimensionato. Tuttavia, è difficile anche pensare il contrario. Che le elezioni di febbraio non abbiano alcuna influenza su quel che avverrà in queste amministrative.

Da ciò la cautela con cui i media - e prima ancora gli attori politici nazionali - affrontano questa scadenza. Da un lato, c'è il timore di alimentare, ulteriormente, la sindrome antipolitica, favorendo il M5S. D'altra parte, il Movimento 5Stelle stesso ha i suoi problemi a gestire il successo. A livello nazionale e in Parlamento. Ma anche in ambito locale, dove non è organizzato. E rischia di essere "usato", opportunisticamente, da soggetti politici alla ricerca di un traino. Anche per questo non ha presentato liste in 16 Comuni (maggiori), dove pure aveva ottenuto risultati molto rilevanti.

Tuttavia, la bassa intensità del dibattito dipende, anzitutto, dall'asimmetria delle relazioni politiche a livello nazionale e locale. Fra Pd e Pdl: alleati di governo e antagonisti alle elezioni amministrative. Dovunque.
Il timore che le tensioni elettorali locali producano fratture (nel governo e nei partiti), favorendo il M5S, spinge, dunque, Pdl e Pd, Alfano e Letta, a "sordinare" il confronto.

Così Roma Capitale - politica oltre che nazionale - diventa solo una città al voto. Fra le altre.

(27 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/05/27/news/piazze_vuote_e_astensioni_cos_in_italia_esplode_il_distacco_dalla_politica-59714754/?ref=HREA-1
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« Risposta #338 inserito:: Giugno 07, 2013, 06:44:25 pm »


Le parole per ricominciare

Mappe.

Quelle che ci uniscono: "merito", "uguaglianza", "solidarietà". quelle che ci dividono: "egoismo", "furbizia", "evasione fiscale".

Il nuovo lessico degli italiani di Demos-Coop per la Repubblica delle Idee racconta come parliamo. E cosa vorremmo sentire nei prossimi anni

di ILVO DIAMANTI
   
   
Il Lessico dei Tempi Nuovi, costruito in base a un'indagine di Demos-Coop per la Repubblica delle Idee, in effetti, non sembra proporre idee molto nuove. Conferma, invece, alcuni elementi noti del linguaggio, e quindi della cultura politica dei nostri giorni. E altri, invece, li dissimula. Rendendoli, per questo, più evidenti. Si delinea, cioè, una polarizzazione intorno a valori e riferimenti sociali condivisi oppure "divisi" - che provocano divisione. Adesione oppure distacco. Parole pronunciate da tutti, con tono imperativo, eppure di rammarico. Perché evocano attese perlopiù deluse. O, comunque, eluse. Le pari opportunità alle Donne e le maggiori opportunità ai Giovani; l'importanza da attribuire al Merito ma anche all'Uguaglianza.

Al Futuro e alla Democrazia; all'Unità Nazionale e alla Solidarietà; al Risparmio e alla Cooperazione. Agli imprenditori. E poi al Popolo. Usato come una bandiera, da movimenti e attori politici. Anche se con significati diversi. Visto che è la radice della Democrazia, ma anche del Populismo. Il Popolo. Una parola che ha grande futuro. Soprattutto a Sinistra. Al primo posto nel dizionario del nostro tempo, c'è, però, Papa Francesco. Vettore del consenso e del cambiamento. Riferimento condiviso. Da tutti. A destra ma anche a sinistra. Soprattutto fra le donne.

Nella rappresentazione sociale, appare molto più forte della Chiesa - che pure migliora la propria credibilità, rispetto all'anno scorso. Il riconoscimento attribuito a Papa Francesco conferma l'importanza assunta dalle parole e dalla figura che le impersona. Soprattutto nel passaggio dall'eccesso alla crisi. Il Pontefice, infatti, utilizza parole semplici, quasi banali. Il richiamo ai poveri, agli emarginati, alla bontà e alla tenerezza. L'invito a non rassegnarsi. Può sembrare un catalogo di buoni sentimenti. Che però suscitano larga approvazione. Come molte fra le "parole" che, fra gli italiani, riscuotono maggiore approvazione. Papa Francesco le riassume e personifica tutte insieme. Per questo "piace" a - quasi - tutti.

Per la stessa ragione, all'opposto, in basso a sinistra, incontriamo altre due persone. Altrettanto riconosciute, in Italia. Per motivi esattamente alternativi. Perché "dividono". Silvio Berlusconi e Beppe Grillo. Quanto di più diverso e lontano da Papa Francesco. La loro posizione, in solitudine, in fondo alla mappa dei riferimenti del linguaggio politico, in fondo, è un segno di forza e di distinzione. In modo simmetrico al Papa.

Il Pontefice: apprezzato da tutti. Il Cavaliere e il Comedian: capaci di spezzare il clima di opinione. Di produrre fratture profonde negli atteggiamenti politici degli italiani. Berlusconi: colui che per vent'anni ha diviso il Paese, su base personale. A favore o contro di lui. Grillo, che, di piazza in piazza e sulla Rete - ma anche in Tv, senza andarci mai - ha diviso gli elettori "dai" partiti. Dai politici. I quali, non a caso, si collocano in un'area "ai margini" del linguaggio. Tutti insieme. Partiti e politici, appunto. Ma anche Destra e Sinistra. Federalismo e Grandi intese. Il Presidenzialismo, oggi in questione. Uniti dal disincanto. Si salvano Enrico Letta e Matteo Renzi. Discussi e discutibili, ma non "de-legittimati". I quali si staccano dalle altre parole della politica corrente, risucchiate, invece, dalla corrente dell'antipolitica. Che non piacciono agli italiani.

Comunque, non sono socialmente "riconosciute". Al pari di altri atteggiamenti  -  la furbizia, l'egoismo, l'indulgenza verso l'evasione fiscale  -  che, magari, in privato, vengono accolti e praticati. Senza, però, venire ammessi. Diverso è il caso dell'Islam. Solleva inquietudine, soprattutto, presso i settori della popolazione che "soffrono" maggiormente delle paure "globali". Le persone più anziane e meno istruite, in particolare. L'Islam, tuttavia, è anche motivo di divisione politica. Non a caso è guardato in modo ostile soprattutto
da chi si sente di Destra.

Ci sono poi altre parole, che suscitano sentimenti contrastanti. Richiamano istituzioni e soggetti, progetti e obiettivi molto diversi. In ambito pubblico, religioso, economico ed etico. La Chiesa, lo Stato e l'Unione Europea. La concorrenza, il consumo e il divertimento. I magistrati. Le unioni gay. Occupano uno spazio pubblico di confronto e discussione. Controverso e contrastato. In base alla posizione politica ma anche alla generazione. La concorrenza, il divertimento, le unioni gay (ma anche Grillo), ad esempio: sono - relativamente - più popolari fra i giovani. Il presidenzialismo, la furbizia, il federalismo e la Chiesa: piacciono di più a destra.

Nell'insieme, il lessico degli italiani, descritto dall'indagine di Demos-coop per La Repubblica delle Idee, riproduce le certezze e le incertezze di questa fase di cambiamento - senza orizzonte. Un tempo nel quale ri-emerge il controcanto, già evocato, fra domande deluse e realtà deludente. Tra la richiesta di beni comuni e di comuni virtù, da un lato, e il diffuso malessere prodotto dalla politica e dal senso cinico diffuso, dall'altro. È la fatica di tradurre in fatti quel che si dice. E le parole in effetti.

Anche perché, in questo dizionario, mancano parole di largo uso e consumo, in questa fase, con grande successo. Le abbiamo volutamente escluse, in modo consapevole. Perché evocano violenza e aggressione. Invettiva e disprezzo.

Non l'abbiamo fatto per reticenza o per buona educazione (anche se gli antichi vizi, appresi da giovani, in famiglia e a scuola, non si perdono). Ma perché le parole, nella vita pubblica e privata, sono fatti. Così noi preferiamo "non dirle". Per "ri-cominciare", preferiamo scrivere piuttosto che "de-scrivere" quel che non ci
piace.

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DA - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/firenze2013/2013/06/06/news/mappe_dizionario_futuro-60463360/?ref=HRER3-1
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« Risposta #339 inserito:: Giugno 11, 2013, 05:26:48 pm »

Tutti i perché del caso Italia

E' in edicola Un salto neI voto, nuovo saggio del professore Ilvo Diamanti che ripercorre le vicende che hanno portato all'affermazione del Movimento 5 Stelle alle ultime elezioni nazionali, analizzando la genesi e le prospettive di un fenomeno che ha cambiato lo scenario politico italiano

di SEBASTIANO MESSINA       


Ci sono dei momenti nella vita - dopo la vittoria di Berlusconi del 1994, per esempio, o dopo il risultato-choc di Grillo del 2013 - in cui tu ti fermi, sconcertato, e ti fai tre domande. La prima: cosa diavolo è successo, esattamente? La seconda: ma come è potuto accadere? La terza: perché nessuno l'aveva previsto? Vuoi capire, renderti conto di quello che accade intorno a te, e magari provare a immaginare quello che può capitarti domani, giusto per non arrivarci - ancora una volta - impreparato.

Sull'avvento del berlusconismo è già stato scritto tutto, anche se sono passati quasi vent'anni e ancora non siamo riusciti a liberarci dall'incantesimo che paralizza la democrazia italiana. Anche sulla sorpresa Grillo si è cimentato qualcuno, ma non con il rigore del politologo che mette in campo Ilvo Diamanti con quello che lui definisce "instant-book" ma che è in realtà un saggio lucidissimo e documentato sulle elezioni che hanno cambiato lo scenario politico italiano: si intitola con elegante autoironia Un salto nel voto Laterza, 230 pagine, 15 euro) ed è, come annuncia il sottotitolo, un vero "ritratto politico dell'Italia di oggi".

Un ritratto eseguito da un professore - Diamanti insegna Governo e comunicazione politica all'Università di Urbino, oltre a essere il presidente della Società italiana di studi elettorali e a commentare su Repubblica tutto ciò che si muove sul complicato scacchiere della politica italiana  -  con l'aiuto di Fabio Bordignon, Luigi Ceccarini e altri professori ed esperti. I contorni vengono definiti con precisione neorealista: a dispetto dell'immagine quasi goliardica dell'assalto grillino al Palazzo, i risultati ci consegnano un Movimento 5 Stelle che è un vero partito nazionale. È il primo in 50 province, nota Diamanti, contro le 40 del Pd e le 17 del Pdl (la Lega svetta solo a Sondrio). Non solo, ma il movimento dell'ex comico è ormai un partito di massa, perché è il più votato tra gli imprenditori e i lavoratori autonomi (44 per cento), tra gli operai (38 per cento) ma anche tra i disoccupati (40 per cento) e tra gli studenti (28 per cento). Attenzione dunque, avverte Diamanti, "a considerare il voto delle recenti elezioni come un evento violento ma transitorio, che è possibile riassorbire con strategie tradizionali".

No, siamo davanti a un fenomeno, che ha cambiato lo scenario della politica italiana in modo profondo. Fino a ieri, persino con l'avvento di Berlusconi, la frattura ideologica che tracciava il confine tra uno scheramento e l'altro era quello dell'anticomunismo. Il Movimento 5 Stelle ha imposto una nuova frattura, quella dell'antipolitica (significative le motivazioni di voto dei suoi elettori: solo il 13,3 per cento l'ha scelto perché ha fiducia nel leader, mentre il 30 per cento ha voluto dare "un voto contro i partiti"). Il boom di Grillo ha fatto saltare il bipolarismo, facendo crollare la percentuale dei due maggiori partiti (sommati insieme) al 59 per cento, ben 21 punti al di sotto della soglia minima toccata dal 1994 in poi (l'80 per cento).

Questo è successo, il 24 febbraio. Ma come è potuto accadere? Il libro non ha la pretesa di trovare una risposta definitiva, però indica significativamente un dato: contrariamente a quello che vorrebbe farci credere Grillo, la televisione è stato anche stavolta lo strumento determinante. Il 90 per cento degli elettori l'ha usata "spesso" per avere informazioni sulla campagna elettorale, e il 20 per cento si è servito "solo" di essa. Il web ha avuto un'impennata (+15,8 per cento) come strumento di informazione e di propaganda, ma non a scapito della tv. È ai giornali (-10,7), ai volantini elettorali (-22,3), ai manifesti (-14,9) e persino al porta-a-porta (-8,8) che Internet ha rubato lo spazio.

E arriviamo alla domanda più spinosa, per un politologo come Diamanti. Come mai nessuno aveva previsto che Grillo avrebbe fatto il botto? Perché i sondaggi, tutti i sondaggi, 20 giorni prima delle elezioni stimavano il Movimento 5 Stelle tra il 13 per cento (Piepoli) e il 18,8 (Swg), mentre accreditavano Bersani di una percentuale variabile tra il 33,6 della Tecné e il 37,2 dell'Ispo? Nando Pagnoncelli azzarda una risposta. Con tre spiegazioni. La prima è che molti elettori hanno cambiato idea all'ultimo momento (il 29 per cento a meno di sette giorni dal voto). La seconda è che gli elettori che passavano dal centrosinistra a Grillo erano riluttanti ad ammetterlo. La terza è che ormai nove elettori su dieci si rifiutano di rispondere alle domande dei sondaggisti, e dunque le previsioni sono fondate sulle preferenze del decimo, con quel che ne consegue sulla precisione.
Chi vuol capire, capirà, leggendo il libro. Ma se lo scopo è quello di riuscire a prevedere dove andremo a finire, allora vale l'avvertenza di Diamanti: "Il futuro, di questi tempi, non ha futuro. Meglio non fare previsioni. Il futuro è ieri".

(11 giugno 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #340 inserito:: Giugno 12, 2013, 06:28:22 pm »

La messa è finita

di ILVO DIAMANTI


VENT'ANNI dopo la Seconda Repubblica è finita. Questo mi sembra il senso "politico" di questa consultazione. Che ha le specificità e i limiti di un voto "locale", ma assume comunque un significato politico "nazionale".

LE TABELLE su repubblica

Non solo perché ha coinvolto quasi 7 milioni di elettori, in 564 comuni. Tra cui, 16 capoluoghi di provincia e 92 città con oltre 15 mila abitanti. Ma perché, a mio avviso, conferma la svolta dalle elezioni politiche di febbraio. Segna, cioè, la fine della "rivoluzione" partita vent'anni fa, nel 1993, proprio dalle città. Dove, per la prima volta, si era votato "direttamente" per il sindaco. Quando, prima del ballottaggio, Silvio Berlusconi, "sdoganò" i post-fascisti, annunciando che, se, vi avesse risieduto, a Roma avrebbe votato per Gianfranco Fini. Ma la "rivoluzione" si produsse e riprodusse, soprattutto, nel Nord. In particolare, a Milano. La città di Mani Pulite dove Marco Formentini, candidato della Lega, divenne sindaco. Dove Silvio Berlusconi fondò Forza Italia, il suo "partito personale" e "aziendale". Che l'anno seguente vinse le elezioni politiche. Aggregando Alleanza Nazionale, nel Centro Sud, e la Lega nel Nord. Così Milano conquistò l'Italia. E la "questione settentrionale" divenne "questione nazionale". Il capitalismo popolare, della piccola impresa, rappresentato dalla Lega,
insieme al capitalismo mediatico, finanziario e immobiliare, interpretato da Berlusconi. Conquistarono l'Italia. Complice l'Alleanza Nazionale del Sud.

Vent'anni dopo, quel percorso sembra finito. Il Forza-leghismo (come l'ha definito Edmondo Berselli) ha perduto la sua Bandiera. Il Nord. Il territorio. Il Centrodestra, in queste elezioni, è stato "s-radicato", proprio dove era più "radicato". Nei luoghi della Lega. A Treviso, per prima. La città di Gentilini - e del governatore Zaia. Ma la Lega ha perduto anche nelle città vicine a Verona. Feudo del Nuovo leghismo di Tosi.

Tutto il Centrodestra, però, si è "s-radicato". Ovunque. I dati, al proposito, sono impietosi. Nei 92 comuni maggiori dove si è votato, prima di queste elezioni, il Centrodestra aveva 49 sindaci (di cui 2 la Lega da sola). Nel Nord "padano", in particolare, amministrava 16 comuni maggiori (compresi i 2 della Lega), sui 28 al voto. Oggi la Lega è scomparsa. E il Centrodestra, guidato dal Pdl, ha "mantenuto" solo 14 città maggiori, in Italia, cioè meno di un terzo. E 3 nel Nord. In pratica: è quasi sparito. In questi giorni ha perduto le roccheforti residue. Da ultima, Imperia  -  il feudo di Scajola. Per prima  -  e soprattutto  -  Roma. La Capitale.

Il Centrodestra è affondato anche nel Centrosud e nel Mezzogiorno. Sconfitto a Viterbo, e nei principali capoluoghi siciliani dove si votava.
A Messina, Catania, Ragusa, Siracusa. È questa la principale indicazione "politica" di questo voto "amministrativo": la sconfitta del Centrodestra. Insieme al declino  -  simbolico e politico  -  del territorio. Eppure non è stato sempre così. Cinque anni fa, appena, il centrodestra governava ancora in alcune importanti capitali. A Milano, Palermo, Cagliari. Roma. Ora le ha perdute. Tutte. Cos'è successo, in questi ultimi anni? Ha pesato, sicuramente, il declino dei riferimenti sociali ed economici: l'impresa e gli imprenditori  -  ma anche i lavoratori  -  della piccola impresa.
Il capitalismo finanziario e speculativo. La crisi globale li ha stremati. E li ha posti reciprocamente in conflitto. Inoltre, l'invenzione del Pdl non ha "coalizzato" Fi e An. Li ha svuotati entrambi. Ne ha fatto un solo, unico contenitore "personale". La Lega, invece, si è "normalizzata".
È divenuta "romana". Così, al Centrodestra è rimasta solo l'immagine  -  peraltro sbiadita  -  del Capo. Berlusconi. In ambito politico nazionale. Mentre a livello locale non è rimasto praticamente nulla.

La svolta oltre la Seconda Repubblica è sottolineato dal crescente peso dell'astensione, cresciuta notevolmente, rispetto alle elezioni precedenti.
A conferma che la messa è finita. In altri termini: il voto non è più una fede. Così, occorrono buone ragioni per votare un partito o un candidato.
E, prima ancora, per andare a votare. Negli ultimi vent'anni, il non-voto è stato, in parte, assorbito dal voto di protesta. Intercettato dalla Lega, ma anche da Berlusconi. Canalizzato, alle recenti elezioni politiche, da Grillo e dal M5S. In questo caso non è avvenuto. Al primo e a maggior ragione al secondo turno. Per ragioni fisiologiche  -  non ci sono preferenze da dare, i candidati si riducono a due, molte sfide appaiono segnate. Ma anche perché "non votare", in una certa misura, è un modo per votare. E conta molto, visto lo spazio che gli viene dedicato dagli attori e dai commentatori politici.

Alla fine della Seconda Repubblica, così, riemerge il Centrosinistra. E soprattutto il Pd. Considerato in crisi, dopo il voto di febbraio.
Ma soprattutto dopo-il-dopo-voto. Fiaccato "da" Berlusconi  -  regista delle larghe intese. "Da" Grillo e dal M5S  -  vincitori delle elezioni politiche. In questa occasione, il Pd, insieme al Centrosinistra, ha vinto ovunque. O quasi. In tutte e 16 le città capoluogo. In 21 comuni maggiori del Nord (su 28), 10 (su 12) nelle regioni rosse e in 22 nel Centro-Sud (su 52). Mentre il Pdl si è sciolto e la Lega è scomparsa. Mentre il M5S ha eletto il sindaco a Pomezia - seconda città del MoVimento, per peso demografico, dopo Parma. E va in ballottaggio a Ragusa. In altri termini, "resiste" ed "esiste", ma non avanza, come nell'ultimo anno.

Un altro segno del cambio d'epoca. Perché se il territorio declina, come bandiera, torna ad essere importante come risorsa politica e organizzativa.
E favorisce i "partiti" che ancora dispongono di una struttura e di persone credibili e conosciute, presso i cittadini. In altri termini, il Pd è un partito personalizzato, a livello locale. Ma è diviso e impersonale, a livello nazionale. Gli altri, il Pdl e lo stesso M5S, sono partiti personali in ambito nazionale. Ma senza basi locali. Così la competizione elettorale diventa instabile e fluida, come quel 50% di elettori senza bussola e senza bandiera. Per questo nessuno può né deve sentirsi al sicuro. Non il Pdl, partito personale e senza territorio, gregario di una Persona alle prese con troppi problemi personali. Ma neppure il Pd. Partito personalizzato, sul territorio, ma im-personale, a livello nazionale.

La Seconda Repubblica bipolare fondata "dalla" Lega e "su" Berlusconi: è finita. Ma la Prima Repubblica, fondata "dai" e "sui" partiti, non tornerà.
Da oggi in poi, ogni elezione sarà un "salto nel voto".

(12 giugno 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #341 inserito:: Giugno 17, 2013, 11:14:46 pm »

Nostalgia democristiana

di ILVO DIAMANTI

Agli italiani non piacciono le larghe intese. Ma il "governo di larghe intese" sì. E ancor più il "premier delle larghe intese": Enrico Letta. Questo strano contrasto di opinioni non è facile da spiegare.

Perché appare contraddittorio e, comunque, contro-intuitivo. Però esiste, come sottolineano i sondaggi. Per prima, la rilevazione dell'Osservatorio di Demos-Coop, che risale a una settimana fa. L'alleanza fra centrodestra e centrosinistra: non piace. Meno di un elettore su tre le attribuisce un voto positivo (pari o superiore a 6). Anche e soprattutto nella base del Pd e di sinistra. Mentre è accettata nel centrodestra. Ma in particolare nel Pdl (57%). Eppure questo "governo" dispone di un consenso molto "largo". È, infatti, apprezzato da quasi il 60% degli elettori. Che sale a oltre il 70% fra quelli del Pdl. Ma anche fra gli elettori del Pd. Peraltro, Enrico Letta, personalmente, dispone di un sostegno ancor più ampio.
L'azione del presidente del Consiglio, infatti, è valutata positivamente (con un voto pari o superiore a 6) da quasi i due terzi degli elettori (secondo i più recenti sondaggi di Ipsos).
Si tratta, in questo caso, di un consenso trasversale. Da centrodestra a centrosinistra, passando per il centro. Con "l'astensione" delle opposizioni.

Pare di assistere a un remake del film sul "governo tecnico", interpretato da Mario Monti, l'anno scorso. Diretto dal medesimo regista: Giorgio Napolitano. Il quale, in effetti,
aveva pensato a una riedizione, affidata allo stesso Monti. Se il Professore non si fosse messo in testa di girare il film da solo. Regista e protagonista, insieme.
Con il risultato di venire declassato, immediatamente, al ruolo di comprimario, se non di comparsa. Tuttavia, il governo tecnico e Mario Monti ottennero, per molti mesi, un sostegno elevatissimo. Naturalmente, le differenze, rispetto ad allora, sono profonde. In primo luogo, quello attuale è un governo "politico", guidato da un leader "politico", con una squadra di ministri di cui fanno parte molti "politici". Inoltre: questo governo è stato istituito non alla fine, ma all'inizio della legislatura. Due mesi dopo il voto e dopo due mesi di tentativi, inutili, di costruire una maggioranza politica diversa. Così non sorprende il limitato consenso alle "larghe intese". Soprattutto fra gli elettori del Pd. Che avevano partecipato a una campagna elettorale "contro" il Pdl e Berlusconi. Convinti di (stra) vincere. E, invece, si ritrovano ancora "alleati" con il Pdl. Berlusconi, invece, aveva condotto la sua campagna elettorale soprattutto "contro Monti". Per far dimenticare agli italiani di aver governato dal 2001, quasi ininterrottamente. Per fingere che lui e il Pdl, con il Governo tecnico, non c'entravano. Anzi erano l'opposizione. La vittoria mancata del Pd ha permesso a Berlusconi di rientrare in gioco. Nonostante che alle elezioni politiche il Pdl avesse perso quasi metà dei voti, rispetto al 2008. Per questo, le larghe intese, a Berlusconi, piacciono. Lo ha ribadito anche ieri. Perché gli permettono di contare ancora. Tanto più ora, dopo il disastro delle elezioni amministrative, che evocano la scomparsa del centrodestra sul territorio.

Ma il governo (delle larghe intese) e Letta (Enrico) piacciono di più.
Anche - e soprattutto  -  agli elettori del PD. Per alcune ragioni, che vanno oltre la prima e più banale: Letta è del Pd.

1. Anzitutto, perché, da oltre tre anni, viviamo in uno Stato di Emergenza. Che giustifica anche le scelte "contro-natura" (almeno, sul piano politico). I Governi Tecnici e quelli Politici, sostenuti da (quasi) tutti. Amici e Nemici. Alleati e avversari. Perché lo richiedono la Crisi globale, la UE, le Autorità monetarie internazionali...

2. In secondo luogo, Enrico Letta marca una discontinuità, rispetto ai premier precedenti. Dal punto di vista generazionale. È giovane. E, non a caso, ha posto in testa alla sua agenda di governo la questione del lavoro dei "giovani". Per sottolineare la distanza dal passato. Anche e soprattutto, ripeto, dal punto di vista "generazionale".

3. Peraltro, dal punto di vista "programmatico", ha risposto alla prima "emergenza" espressa dai cittadini. I costi della politica. Attraverso l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Discussa e discutibile, sul piano dell'attuazione. (Io, personalmente, non la condivido, invece, per motivi sostanziali). Ma, dal punto di vista della comunicazione, ha funzionato.

4. La comunicazione, appunto. Questo governo e questo premier riescono a gestirla con efficacia. Si pensi alle misure annunciate per la crescita. Riassunte in un unico testo dal nome suggestivo. Quasi un manifesto: Decreto del "Fare".

Tuttavia, io penso che vi sia dell'altro, dietro a un consenso così elevato per un governo e un premier a capo di una maggioranza che non piace. La definirei: "nostalgia democristiana".
Che attraversa la storia della Repubblica, fin dalle origini. La stagione della Democrazia Cristiana, durata quasi cinquant'anni, ha impresso un marchio indelebile nella memoria degli italiani. Anche dei più giovani. "Quelli che" sono nati e cresciuti "dopo". Quando Dc e Pci non esistevano più. Perché la storia della Prima Repubblica è stata scritta, insieme, dalla Dc e dal Pci. Democristiani e comunisti: alternativi e complementari. Governo e opposizione. Senza alternanza possibile. Alleati, nelle grandi "emergenze"  -  come negli anni Settanta, durante la stagione del terrorismo. Ma, comunque, (com) partecipi di un sistema "consociativo", dove tutte le grandi scelte erano condivise. Come le nomine degli enti e delle istituzioni.
A ogni livello e in ogni ambito.

Il governo guidato da Letta piace a gran parte degli italiani perché rinnova questa memoria. Non solo perché Enrico Letta ha una biografia democristiana  -  e "popolare". E propone, comunque, uno stile politico e di comunicazione che evoca quella tradizione. Ma perché questa strana maggioranza costituisce un rimedio al "disagio bipolare".
Assai diffuso nella Seconda Repubblica  -  fondata su Berlusconi e, appunto, sul bipolarismo. A cui gli italiani non si sono mai rassegnati fino in fondo. Perché non amano vincere.
Ma neppure perdere. Governare da soli. Oppure fare opposizione. Vera. Così le larghe intese non piacciono. Ma il governo di larghe intese sì. Perché permette a tutti  -  destra, sinistra e centro, berlusconiani e antiberlusconiani  -  di governare insieme, ma senza sentirsi coinvolti.

Provvisoriamente. Fino alle prossime elezioni. Quando in molti sperano che nessuno vinca. Come in questa occasione. Per poter governare ancora (quasi) tutti insieme. Ma senza ammetterlo. Perché l'Italia, in fondo, è uno Stato di Necessità. Perenne.

(17 giugno 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #342 inserito:: Giugno 25, 2013, 08:07:15 am »

Perché abbiamo bisogno della politica

di ILVO DIAMANTI

Ormai ci stiamo rassegnando alla precarietà. Alla provvisorietà come condizione stabile. Può apparire un discorso scontato, ma per questo è più significativo.

Perché ci capita di ascoltarlo e di ripeterlo ogni giorno. In automatico. A proposito del lavoro, dei giovani, dell'economia, del mercato. Della politica. Già: la politica. Che offre rappresentanza e rappresentazione agli orientamenti e ai comportamenti pubblici dei cittadini. È il teatro della provvisorietà. Oggi: perché il domani non è pre-visto. In fondo, il governo guidato da Enrico Letta è "a tempo". Non è stato formato per governare fino al termine della legislatura. Ma per fare le riforme necessarie a sbloccare il Paese bloccato. Per mantenere i conti in ordine, rilanciare lo sviluppo. Per rispettare i patti con l'Europa e i partner internazionali. Per riformare la legge elettorale e il bicameralismo, troppo perfetto per permettere governabilità. Per cui non è dato di conoscere quanto durerà il governo. Perché non è possibile sapere quanto tempo richiederà il rispetto di questi impegni. La legge elettorale: nella storia della Repubblica è stata "riformata" solo per via referendaria, nel 1991 e nel 1993. O con un colpo di mano, dal centrodestra, nel 2005. Per impedire a chiunque, dunque all'Ulivo di Prodi, di conquistare una maggioranza vera.

Così è impossibile ipotizzare "quando" si troverà un accordo
largamente condiviso su una legge elettorale che non sia il restyling di quella esistente. E se la durata del governo dipende dalla legge elettorale, non è possibile sapere quanto possa durare. Il lavoro dei saggi serve, come quello dell'analoga commissione istituita da Monti, a "prendere tempo". Tanto le riforme elettorali - tanto più quelle istituzionali - sono e restano una questione politica, più che di saggezza.

Naturalmente un governo serve, all'Italia. Anche se la sua agenda è scritta dalle emergenze. In equilibrio instabile fra consenso interno e vincoli esterni. Fra Iva, Imu e parametri Ue. Difficile, in queste condizioni, immaginare il futuro. Tanto più che il governo si appoggia su forze politiche in sostanziale contrasto fra loro. Berlusconiani e antiberlusconiani. Costretti a coabitare dall'assenza di maggioranze politiche chiare e stabili. In Parlamento e nella società. Anche su questa "provvisorietà" si fonda il potere di Letta. Il punto di equilibrio di una maggioranza in equilibrio instabile. Che deve mantenere l'equilibrio, un giorno dopo l'altro. Per non precipitare. Insieme al governo di questo "Paese provvisorio" (titolo di un saggio profetico di Edmondo Berselli). D'altronde, quale "domani" propongono i partiti maggiori della maggioranza? Il Pd è in attesa delle "primarie". Un partito con una leadership provvisoria. In attesa di Renzi. Il quale deve preoccuparsi - e si preoccupa - di questo. Perché essere considerato un leader senza esserlo formalmente, per un periodo in-certo, logora. Il Pdl. Liquidato dal leader maximo e unico. Silvio Berlusconi. Che ha deciso di ri-fondare - un'altra volta - il proprio partito personale. Tanto più e soprattutto dopo l'insuccesso alle elezioni politiche e la disfatta alle amministrative. Berlusconi, d'altronde, è, per definizione, in una situazione provvisoria. Tra un processo e l'altro. Tra un grado di giudizio e l'altro. Come può organizzare il futuro politico, per sé e per gli altri? Il centro, costruito da Monti e da Casini, non c'è più. È durato fino al voto di febbraio. Poi si è liquefatto. E oggi procede diviso. Anche se è difficile dividere quel che non c'è. Per cui, la maggioranza non ha futuro. Solo un presente.

E l'opposizione? Il M5S è l'attimo. Un non-partito istantaneo. Per linguaggio, comunicazione e modello organizzativo. Si riflette nell'immagine e nelle iniziative del leader. Il M5S. È emerso all'improvviso. Ed è cresciuto in fretta. Troppo. Anche rispetto alle attese di Grillo. Così procede incerto. Un autobus senza una mèta precisa. Molti passeggeri e abbonati, che fino a pochi mesi fa erano saliti in massa, ora scendono. Talora "cacciati" dal conducente. Più spesso, alla ricerca di un altro veicolo con cui viaggiare. Verso non-si-sa-dove.

Per queste ragioni, e non solo, neppure il Parlamento ha una durata pre-stabilita. Perché dipende dalla "missione" della maggioranza - provvisoria - che sostiene il governo. È un Parlamento di scopo, come il governo. Non si sa quanto durerà. Lo stesso Giorgio Napolitano è il simbolo della provvisorietà del nostro tempo. Lui: a quasi novant'anni, di nuovo Presidente. Costretto dall'emergenza. Dall'assenza di alternative. Egli stesso ha dettato l'agenda di questo governo - e, dunque, di questo Parlamento - di scopo. Che deve durare il tempo necessario per affrontare le emergenze - economiche e istituzionali. Giorgio Napolitano: l'uomo dell'Emergenza, non della Provvidenza. Un Presidente di scopo. Per senso del dovere. E per necessità.

Così viviamo tempi provvisori. Di passaggio. Verso non si sa dove né cosa. Sicuramente, senza più futuro. Perché il futuro è stato abolito, dal nostro linguaggio e dalla nostra visione. Finite le ideologie, che sono narrazioni di lunga durata. Oggi tutto è marketing. Storie e slogan. Da rinnovare di continuo. Il futuro: se ne sta fuggendo insieme ai giovani. D'altronde, siamo tutti giovani. Adulti e anziani: non invecchiano mai. Nessuno accetta lo scorrere del tempo. Così i giovani, quelli veri, se ne stanno sospesi. Sono una generazione né-né. Né studenti né lavoratori. In Italia sono oltre due milioni (fonte Istat). Quasi un quarto della popolazione tra 15 e 29 anni. Il livello più alto nella Ue. Secondo Eurostat, inoltre, quasi 700 mila giovani italiani, nel 2012, si sono trasferiti all'estero per lavoro. Per non parlare di quelli che ci sono andati per motivi di studio. E chissà quando e se rientreranno. D'altronde 8 italiani su 10 pensano che i giovani, per fare carriera, se ne debbano andare altrove. Comunque, fuori dall'Italia

È questo il nostro problema più grande, oggi: l'abitudine alla "precarietà". La rimozione del futuro. Perché il futuro è passato. Emigrato. All'estero. E ci ha lasciati qui. Sempre più vecchi, ma incapaci di ammetterlo. Noi, passeggeri di passaggio in questo Paese spaesato: abbiamo bisogno di Politica. Perché senza Politica è impossibile pre-vedere. Progettare il nostro futuro. E senza pre-vedere, senza progettare o, almeno, immaginare il futuro, senza un briciolo di utopia: non c'è Politica. Ma solo "politica". Arte di arrangiarsi. Giorno per giorno.

(24 giugno 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #343 inserito:: Luglio 02, 2013, 12:00:28 am »


La Repubblica dei partiti provvisori

È in corso un cambiamento politico rapido e violento. Come vent'anni fa, tra il 1992 e il 1994.

Eppure fatichiamo ad accorgercene. Probabilmente perché fissiamo l'attenzione sull'istante.

E non vediamo il dopo. Non ce ne (pre)occupiamo.

ILVO DIAMANTI

Ma la semplice osservazione dei fatti politici è sufficiente a descrivere una realtà evidente, quanto elusa. Tutti i partiti e tutti i leader che hanno guidato il Paese negli ultimi vent'anni sono a fine corsa. Fra un anno, al massimo, il sistema partitico sarà diverso. Molto diverso. Cambieranno le sigle, i protagonisti, le alleanze. Lo spartiacque sarà costituito dalle elezioni europee. Perché l'Europa e l'euro già costituiscono temi strategici dei principali partiti. In grado di dividere, tra loro e al loro interno, questa "strana" maggioranza e questa "strana" opposizione. Perché alle elezioni europee i partiti si presenteranno da soli. Ciascuno per sé e contro gli altri. Visto che le elezioni si svolgono con metodo proporzionale. Già, ma quali partiti? E quali leader? L'impressione è che il paesaggio su cui proiettiamo i nostri scenari futuri sia già "passato". Più che ieri. Largamente ridisegnato e, comunque, destrutturato dalle elezioni di febbraio e dal dopo-elezioni.

Partiamo dal centro. Avrebbe dovuto imporsi come il Terzo Polo, intorno a Monti. Con il sostegno dell'Udc di Casini e Fli di Fini. Tutto finito. Durato il tempo di un'elezione. Ora il partito di Monti è stimato intorno al 5%. Ma è in calo. Mentre Fli e perfino l'Udc non possono calare oltre.
Perché sono praticamente spariti. Come i loro leader, d'altronde. In attesa di riaffiorare, ma, per ora, sotto il pelo dell'acqua.

Il centrodestra, gregario di Silvio Berlusconi, fatica a ridefinirsi, a rinominarsi e a riposizionarsi. Il Popolo della libertà è finito. Ha perduto 6 milioni e 300 mila voti, alle elezioni di febbraio. Ma è riuscito a fare la parte del non-sconfitto, perché le attese erano ancora peggiori. E perché il vincitore annunciato, il Pd, in effetti, non ha vinto. Il Pdl ha, però, perduto dovunque alle elezioni amministrative. E si è presentato per quel che è: un partito personale senza territorio e senza persone. Ad eccezione di una: Silvio Berlusconi, il cui peso elettorale, misurato dai voti al partito, si è dimezzato negli ultimi 5 anni. Così Berlusconi stesso oggi annuncia la fine del Pdl e il ritorno a Forza Italia.

Tuttavia, è difficile, anzi, impossibile riproporre la novità del 1994. Più che di Forza Italia 2.0, si tratterebbe di Forza Italia 20 (anni dopo). Berlusconi stesso ha quasi 80 anni. Molti processi e molti scandali sulle spalle. Di sicuro non è più "nuovo". In tempi di rifiuto della politica, lui, più di altri, impersona la politica degli ultimi vent'anni. Comunque, il Pdl è finito. E la "nuova" Forza Italia sarà, comunque, un partito "personale". Inestricabile da Berlusconi. Non è un caso che si parli  -  non da oggi  -  di una successione dinastica. Da Silvio a Marina. Perché, al di là di tutto, quest'area politica è unita dal "patrimonio" - familiare. In senso lato: le imprese, i media, le risorse finanziarie e simboliche. Di cui Marina è erede. Certo più di Alfano, Brunetta o la Santanché.

Intorno a Berlusconi e al suo partito personale, d'altronde, a destra c'è il nulla. O quasi. An è scomparsa e i suoi surrogati  -  come i Fratelli d'Italia  -  non raggiungono il 2%. La Lega, infine, è debole e divisa. Alle elezioni politiche ha perso oltre metà dei voti. Governa ancora Regioni e Comuni. Ma non ha più la sua base. La Padania ha perduto i padani. E non ha più capitali.

Il Partito democratico è impegnato nelle primarie. Ormai da un anno, senza soluzione di continuità. Non ha vinto le elezioni politiche, nonostante le previsioni e le attese. Di tutti. Ha perduto il dopo-elezioni, non riuscendo a imporre i suoi candidati alla presidenza della Repubblica. E ha "subìto" la partecipazione a un governo di scopo  -  alleato con l'avversario di sempre. Certo, ha vinto le amministrative. Ma ciò conferma il distacco fra la base e il gruppo dirigente nazionale. Il Pd: è un partito "impersonale", perché non c'è "un" leader in grado di rappresentarlo tutto e unito. I partiti della Prima Repubblica, da cui origina, gli garantiscono "resistenza", ma non slancio, crescita. Alle elezioni di febbraio si è ridotto al 25% o poco più. Rispetto al 2008 ha perduto 3 milioni e mezzo di voti. Quasi un terzo. Ora, dopo le amministrative, pare risalito al 28%. Ma resta un partito incompiuto. Fra un anno non sappiamo chi ne sarà il leader. E di che consenso disporrà.

Alla sua Sinistra, d'altronde, è rimasto poco. Sel: legata alla figura di Vendola. L'Idv: scomparsa insieme al suo leader, Antonio Di Pietro. Né gli servirà il cambio di segretario a risorgere. Le formazioni raccolte intorno a Ingroia: latitanti e latenti, come il magistrato. Come Rivoluzione civile.

Resta il M5S. Un non-partito fluido. Istantaneo. Composito. Circa un terzo dei suoi elettori afferma di averlo votato per delusione e protesta verso gli altri partiti. I suoi parlamentari sono in costante fibrillazione. È difficile, d'altronde, trovare stabilità "inseguendo" Grillo. Impegnato, a sua volta, a "inseguire", di giorno in giorno e un giorno dopo l'altro, le diverse domande e le diverse tensioni espresse dai suoi elettori. E dai suoi parlamentari. Di certo non è dato di sapere cosa ne sarà in futuro.

Il problema è che si è conclusa la parabola dei partiti personali. Raccolti da - e intorno a - un leader, una persona. Perché il declino dei leader coinvolge i partiti. Perché, comunque, i leader hanno bisogno di partiti. Le televisioni e la stessa rete non li possono rimpiazzare del tutto. I partiti servono. A offrire presenza e visibilità nella società e sul territorio. A organizzare le attività e le decisioni in Parlamento. A fornire prospettive, durata. Oltre la biografia del capo.

Così oggi discutiamo di partiti provvisori e di leader di passaggio. E ci illudiamo di proiettare e progettare gli scenari del futuro. Mentre, in realtà, usiamo foto d'archivio. E prevediamo solo il passato.

(01 luglio 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/01/news/la_repubblica_dei_partiti_provvisori-62165336/?ref=HREC1-5
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« Risposta #344 inserito:: Luglio 03, 2013, 11:54:24 pm »

L'invasione dei fumatori elettrici

E' la moda dell'anno, ma anche un business.

Un modo anche per ridurre la "dipendenza". Ma da ex fumatore dico: "meglio l'astinenza, dà più piacere"

di ILVO DIAMANTI


È la moda dell’anno. Ma anche un business, con effetti visibili dovunque. La sigaretta elettronica. Ha contagiato il popolo dei fumatori. Più di uno su due l’ha sperimentata, secondo un sondaggio dell’ISPO.  D’altronde, basta guardarsi intorno per accorgersi dell’invasione dei “fumatori elettrici”. Li incontri dappertutto. Anche dove non osavano fumare, da tanti anni. Nei treni, nei locali pubblici. Perfino nelle nostre case. Ora hanno ripreso, timidamente. E-fumano, Incerti, in attesa delle reazioni degli altri.

Dovunque, peraltro, sono sorte botteghe di e-cigarette. Nei punti nevralgici di città – grandi, medie e piccole. Ampie vetrine, dove campeggiano e-cigarette di metallo e vetro colorato. Accanto ad essenze di diverso aroma, con differenti gradi di nicotina. Sempre bassi. Talora nulli. È questo, sicuramente, il principale motivo del successo delle sigarette elettroniche. Permettono di fumare senza avvelenarsi di nicotina. O, comunque, assumendone quantità modiche e limitate. Un’alternativa alla rinuncia totale, sempre difficile, per i fumatori.

Perché smettere è difficile. Costa molto. Sul piano psicologico e delle abitudini di vita.  Anche fumare, però, costa molto. Non solo in termini di reddito. Anche di salute. Comunque, inquina la vita, l’ambiente di vita, oltre ai polmoni, propri e altrui. E poi, le dita gialle, l’alito pesante, l’odore di fumo dovunque. In casa, in auto, nei luoghi di vita. I fumatori: ormai sono “socialmente emarginati”. E fisicamente stressati. D’altronde, la mattina, ci si alza incatarrati, la testa un po’ dolente. Eppure, non passa molto tempo prima di accendere la prima sigaretta. Dopo la prima colazione. Anzi, durante. Insieme al caffè.

Parlo per esperienza, come si può cogliere, probabilmente, dalle mie parole. Perché io ho fumato molto e a lungo. Fino a 60 sigarette al giorno. Forti e secche. Tre pacchetti – scritta nera su fondo bianco e rosso. Ho smesso il 4 aprile del 1984. Dopo averci pensato a lungo. L’ho deciso tre settimane prima. Il tempo di smaltire le stecche che avevo da parte. E di prepararmi “dentro”. Poi ho finito con il fumo. Non sopportavo più la mia dipendenza, che mi faceva fumare fumare fumare fumare. E ancora fumare. Anche se, ormai, non mi piaceva più. Non sentivo più il sapore né il gusto della sigaretta. Ma fumavo lo stesso, anche quando non stavo bene, gravato da raffreddori, bronchiti, catarro. Non mi sopportavo più. Così ho smesso. Quasi trent’anni fa: l’ultima sigaretta. Per alcuni giorni non ho dormito. Lo stomaco mi bruciava. Gridava. Alla ricerca di fumo. Per mesi ho faticato a scrivere e perfino a leggere. All’inizio non ne capivo la ragione.  Anche se era evidente: bastava fare attenzione ai tempi. Non riuscivo a tenere la concentrazione per più di un quarto d’ora. Il tempo fra una sigaretta e l’altra.

Appunto. Così ho smesso. E ho riscoperto i gusti e gli odori. Anche l’appetito. Il piacere del cibo. Venti chili in più, in un paio d’anni. Li ho persi dopo il 2003. Negli ultimi dieci anni. Anche in quel caso: ho deciso di smettere. Di mangiare e di bere. Cibi e bevande “sfiziose”. Io sono fatto così: quando decido, cambio vita e abitudini. Spezzo il filo con il passato e il presente. Per sfiducia in me stesso. Perché non riuscirei a “ridurre le dosi”. A moderarmi. A consumare in “modica quantità”.  Meglio smettere del tutto.

Perché la voglia di fumare mi è rimasta. Insieme al piacere della sigaretta dopo cena, magari fuori casa, in strada, magari a tarda sera, a parlare con me stesso. Io sono un fumatore che non fuma. Ma non mi è passato nemmeno per la testa di provare la sigaretta elettronica. Di riprendere l’antica abitudine abolendo il rischio e il danno del fumo. Senza nicotina. È che mi pare - e mi riesce - difficile scindere il piacere dal vizio e dal peccato. Perché il fumo è un male sottile. Che si consuma e ti consuma, una sigaretta dopo l’altra. Ogni volta si rinnova e ogni volta brucia. Ti brucia.

La sigaretta elettronica: è come la birra o, peggio, il whisky senz’alcool. È come i dolci per diabetici: senza zuccheri. Come il decaffeinato. In fondo, i divieti dei locali pubblici, che costringono a fumare fuori, in strada, hanno trasformato i “fumatori” in una comunità deviante. Una setta irriducibile alle regole della Salute Pubblica. E Privata. Così, la e-cigarette è come una trasgressione senza peccato. Un vizio senza rischi. Che fa bene alla salute (ma non è detto). Ma modifica la nostra identità.  La nostra immagine. Di fronte agli altri e a noi stessi. Humphrey Bogart, in Casablanca, con la cicca elettronica appoggiata sulle labbra. Ve lo immaginate?

Per questo, non capisco le sigarette elettroniche e chi le fuma. Meglio l’astinenza. Dà più piacere.

(03 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/07/03/news/l_invasione_dei_fumatori_elettrici-62293027/?ref=HREC2-3
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