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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 277895 volte)
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« Risposta #255 inserito:: Dicembre 15, 2011, 06:16:41 pm »

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L'Italia sfiducia i Tg Rai-Set e cerca libertà su internet

Sempre più si cerca un'informazione indipendente. I tg della tv pubblica e quelli di Mediaset perdono audience. A vantaggio del web.

Ecco il sondaggio Demos-Coop sul gradimento dei media

di ILVO DIAMANTI

DOMANI il Cda della Rai si riunirà in seduta straordinaria. All'ordine del giorno: l'avvicendamento (anticipato) di Augusto Minzolini alla direzione del Tg1. Rinviato a giudizio per peculato, a causa delle spese sostenute con la carta di credito aziendale. Un motivo, per la verità, strumentale. La ragioni vere, infatti, sono altre. Una fra tutte: la fine della stagione governata da Berlusconi, contrassegnata dall'intreccio fra televisione, politica e affari. Che ha tradotto il duopolio Rai-Mediaset nel monopolio MediaRai (o RaiSet, secondo i punti di vista). Così il Tg1, da organo istituzionale, attento agli equilibri politici, si è trasformato nel portavoce del governo. Meglio: del suo premier. Con effetti sensibili: sul piano degli ascolti (penalizzati anche per altri motivi), ma, soprattutto, della "in-credibilità".

Una tendenza confermata dal sondaggio dall'Osservatorio di Demos-Coop pubblicato oggi. La fiducia nel Tg1, presso il pubblico, infatti, oggi si ferma al 50 per cento: 3 punti in meno di un anno fa. Ma nel 2007 (direttore Gianni Riotta) il Tg1 era considerato affidabile dal 69% degli italiani (intervistati). Lo stesso livello, più o meno, del 2002. Insomma: un crollo. Subìto in meno di tre anni. Lo affianca il Tg5, il cui grado di fiducia è intorno al 49%. Cioè: 11 punti in meno del 2007. Il declino della fiducia accomuna, dunque, gli emblemi dell'informazione a reti unificate. Sensibile agli interessi politici (e non solo) del governo.
Colpisce, soprattutto, il Tg1. Pubblico, istituzionale. Tradizionalmente prudente e, comunque, non "fazioso".

Nel 2007 appariva saldamente ancorato al "centro". I suoi estimatori si dividevano equamente tra elettori di maggioranza e opposizione. In seguito è scivolato a centrodestra (oggi: 20 punti sopra il centrosinistra). Ha "tradito" la sua missione. Anche per questo il Tg1 è stato largamente superato, negli indici di fiducia, dal Tg3 (il più apprezzato) e perfino dal Tg2, i cui "pubblici" sono politicamente coerenti con l'identità dei notiziari. La performance più rilevante, però, è stata realizzata dal Tg di La7.

Enrico Mentana ne ha fatto un notiziario prevalentemente dedito alla politica, quando gli altri imboccavano la strada della cronaca, soprattutto nera. Per evitare argomenti scomodi (la crisi economica, soprattutto). Inoltre, ha fatto informazione critica. Così, ha conquistato la fiducia del 52% degli italiani: 6 punti in più dell'anno scorso, ma 17 più del 2007. Ha intercettato un pubblico soprattutto di centrosinistra, imponendosi come una sorta di Tg di "opposizione", quando l'opposizione politica appariva afona.

Un marchio condiviso dall'intera rete, con esiti vantaggiosi. "L'Infedele", di Gad Lerner, è infatti il programma di approfondimento e dibattito politico che guadagna maggiormente negli ultimi anni. Oggi si attesta al 39%: 6 punti in più dell'anno scorso, ma 13 rispetto al 2007. Anche "Otto e mezzo", condotto da Lilli Gruber, ha consolidato i consensi dell'anno scorso: 35%. Cioè 10 punti in più del 2007, quand'era diretto da Giuliano Ferrara, meno affine all'orientamento politico del pubblico. Il canale di riferimento per i programmi di dibattito politico e di inchiesta, tuttavia, resta la Terza rete. "Ballarò", condotto da Giovanni Floris, continua a primeggiare largamente (55% di fiducia). Seguito da "Report", di Milena Gabanelli (48%). Mentre "Porta a Porta", di Bruno Vespa, e "Matrix", di Alessio Vinci, collocati in seconda serata, stazionano più in basso intorno al 40%. Sostanzialmente stabili rispetto al 2010.

Lo stesso grado di fiducia attribuito a "Servizio Pubblico", il nuovo programma di Michele Santoro. Una base di credito molto ampia per un programma "senza rete" (di riferimento), dopo l'uscita (allontanamento?) da Rai 2. Infine, resta alto il livello di gradimento e affidabilità riconosciuto ai pop-talk e ai programmi di satira. "Striscia la Notizia", "Che tempo che fa", "Le Iene". Ma anche "Italialand".

In generale, l'evoluzione del rapporto fra società e informazione, proposta dall'Osservatorio Demos-Coop, mostra alcune tendenze piuttosto chiare.

1. La perdita di spazio della radio ma soprattutto dei giornali in edizione cartacea. Compensata dal ruolo assunto da internet, di cui si serve, quotidianamente, il 39% degli italiani (4 anni fa erano il 25%). Contribuiscono, a questo orientamento, i blog specializzati, ma soprattutto le edizioni online dei quotidiani che dispongono di un pubblico, in parte, specifico rispetto alle edizioni cartacee.

2. L'informazione via internet, peraltro, è ritenuta dagli italiani la più libera e, quindi, la più credibile.

3. L'affermarsi dei canali di informazione continua. Diffusi, fino a ieri, dalle reti satellitari, oggi anche da quelle digitali. È il caso di Sky Tg24 (la più equilibrata, per orientamento politico del pubblico). Ma anche di RaiNews 24. Queste reti godono di un grado di fiducia elevato, se si tiene conto dell'ampia quota di persone che ancora non le conoscono. E dispongono, inoltre, di un pubblico competente.

4. Il principale canale di informazione resta, tuttavia, la televisione, a cui accede, ogni giorno, l'84% della popolazione. Gli italiani, dunque, si fidano poco della tv e per questo, ricorrono ad altri media e altri canali. Quasi tutti, però, continuano a "consultarla". Oltre un quarto di essi, peraltro, si informa "solo" attraverso la tv. Si tratta, per lo più, di donne, anziani, pensionati, con livello di istruzione e ceto sociale medio basso. Queste persone trascorrono davanti allo schermo oltre 4 ore della loro giornata. Oltre ai tg, seguono assiduamente i programmi pomeridiani, che ricostruiscono la "vita" e, soprattutto, la morte "in diretta". Sono politicamente incerti, distaccati. E per questo, strategici dal punto di vista elettorale.

La televisione resta, dunque, uno spazio importante per la formazione dell'opinione pubblica. Nonostante 4 persone su 5 non la ritengano uno spazio "libero e indipendente". E quasi 3 su 4 dubitino che la fine del governo Berlusconi restituisca un sistema radiotelevisivo più aperto e trasparente. Gli italiani, cioè, dubitano che il "berlusconismo" sia davvero finito. Uno scetticismo fondato. Se si pensa all'assegnazione "gratuita" (e senza gara di appalto) a Rai e Mediaset delle nuove frequenze digitali, prevista dal precedente governo. Una scelta che, se confermata, rafforzerebbe il monopolio MediaRai. E indebolirebbe ancora la fiducia nel sistema radiotelevisivo. Questo squilibrio: rende in-credibile l'informazione del servizio pubblico. Va risolto in fretta.

(12 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/12/news/informazione_reti_unificate-26456246/?ref=HREC1-4
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« Risposta #256 inserito:: Dicembre 19, 2011, 04:51:58 pm »

L'aristocrazia democratica tra limiti e virtù

di ILVO DIAMANTI


QUESTA manovra non piace agli italiani, ma la fiducia nel governo  -  e soprattutto nel premier - resta ancora alta. È ciò che emerge dai sondaggi condotti dai principali istituti demoscopici in questa fase. La manovra appare poco equa, per non dire iniqua, alla maggioranza della popolazione.

Nell'insieme ma anche nel dettaglio: considerando i singoli provvedimenti. Soprattutto quelli che riguardano le pensioni, l'aumento dell'Iva e l'Irpef. Nel complesso: troppe tasse e pochi interventi che favoriscano la crescita. Le liberalizzazioni, la patrimoniale; anche gli interventi sui costi della politica e dei politici: rinviati a un secondo momento. Con il dubbio che il rinvio divenga permanente. Come altre volte  -  troppe volte  -  è già successo, in passato.

Nonostante tutto, però, la fiducia nel "governo dei tecnici", fra i cittadini, è ancora molto elevata. Intorno al 50%, se si rilevano solo i giudizi più positivi (come fa l'Ispo di Mannheimer). Superiore al 60% se si calcolano anche le valutazioni comunque "sufficienti" (secondo le stime dell'Ipsos di Pagnoncelli). La fiducia "personale" nei confronti del presidente del Consiglio, peraltro, risulta ancora superiore, di quasi 10 punti percentuali. Certo: rispetto ai giorni della fiducia al governo l'indice di soddisfazione è sceso. Ma il sentimento sociale, allora, era condizionato dal timore  -  per certi versi, dal panico  -  suscitato dai mercati. Dall'impotenza dimostrata dal governo Berlusconi, che ne avevano accentuato ulteriormente l'impopolarità. Ora le paure persistono. E, in aggiunta, è stata varata una manovra "costosa", sul piano sociale. Discutibile e discussa. Accolta dalle proteste del sindacato. Dall'opposizione della Lega e dell'Idv. Sostenuta dal Pd e ancor più dal Pdl con molte riserve. Senza che la credibilità del governo e di Monti sia stata compromessa. Anzi.

Provo a indicare alcuni motivi di questo contrasto.

1. C'è, anzitutto, la percezione del "male necessario". La manovra non piace, ma i mercati  -  meglio: i Mercati  -  e i governi europei più influenti (Bce compresa) la chiedono.
Anzi, la esigono. Va inghiottita come una medicina amara. Poi, prevale fra i cittadini il sentimento del "sacrificio finalizzato". Come negli anni Novanta, quando gli italiani pagarono, senza lamentarsi troppo, finanziarie onerosissime. Per non essere esclusi dalla Ue. Per entrare nell'Unione monetaria. Amato e Ciampi, "responsabili" di quelle manovre, non vennero sfiduciati dai cittadini. Perché erano ritenuti "credibili". Come Monti e i suoi "tecnici", oggi.

2. È questo il secondo motivo. La "credibilità" riconosciuta a persone ritenute in grado di mettere gli interessi del Paese davanti ai propri e a quelli di partito. In grado, anche per questo, di riqualificare l'immagine dell'Italia  -  e degli italiani  -  in Europa (e non solo). Deteriorata fino alla caricatura dall'esperienza precedente.

3. La "credibilità" dei tecnici al governo è enfatizzata dal confronto con i soliti noti. Quelli che governavano prima. Quelli che stanno in Parlamento. I "politici". Mai tanto impopolari come oggi. Il clima antipolitico che pervade il nostro tempo ha agito, cioè, da fattore favorevole per il governo Monti. Gli stessi limiti delle scelte effettuate da questo governo, le marce indietro, i compromessi: vengono imputati ai "politici". Ai partiti e alle lobbies, che legano le mani ai professori. Le resistenze del Parlamento nei confronti del taglio dei vitalizi sono interpretate come un'ulteriore conferma del paradigma antipolitico. Hanno fatto della "casta" il capro espiatorio ideale della frustrazione sociale. Così, mentre la fiducia nel governo resta molto alta, la credibilità dei partiti è scesa ulteriormente. Ai minimi storici. Le stime elettorali, non a caso, premiano ancora il Pd, ritenuto il partito più "coerente" con l'esperienza del governo. Ma registrano anche la tenuta della Lega e dell'Idv: collettori del malumore sociale. A cui sarebbe difficile, però, affidare la missione "costruttiva" di guidare il Paese.

4. Il dibattito parlamentare sulla manovra ha allargato il contrasto fra tecnici e politici, agli occhi dei cittadini. L'immagine del ministro Giarda che legge la dichiarazione del governo, basito e attonito, di fronte a un Parlamento ridotto a una bolgia dalla plateale protesta leghista, è emblematica. Come la replica, pedante e puntigliosa, di Monti. Indisponibile a sentirsi definire "disperato". E impotente, come chi lo ha preceduto. Questione di stile. Ma anche di sostanza. In tempi dominati dalla "politica pop", dove per anni - e da anni - i politici hanno inseguito gli umori sociali, riproducendone vizi e debolezze, in modo iperbolico. Il governo "tecnico" appare, invece, un'icona della "normalità". Dove governano persone grigie (anche quando vanno in tivù). Ma competenti. Più di noi. (Altrimenti perché ci dovrebbero governare?).

Da ciò il paradosso di un governo che, per ora, non paga il prezzo "politico" delle sue scelte "politiche". Perché non sono considerate "politiche". Ma "tecniche". E dunque: ineluttabili. Semmai, condizionate dai "politici". Un governo "premiato" dalla differenza rispetto agli uomini politici e di governo del passato recente. Reclutati in base alla fedeltà. Titolari, agli occhi dei cittadini, di privilegi immeritati. (Se non sono migliori di noi, perché mai dovrebbero godere di trattamenti particolari?)

Naturalmente, questo "stato di emergenza" non può durare all'infinito. Questo governo, composto da tecnici, non potrà "scaricare" a lungo sul Parlamento e sui partiti l'insoddisfazione sociale sollevata dalle conseguenze della crisi. Né la frustrazione prodotta dalle politiche economiche e fiscali. Inoltre, difficilmente potrà promuovere interventi a favore della crescita e delle liberalizzazioni, senza il sostegno del Parlamento e dei partiti. Particolarmente sensibili agli interessi e alle pressioni di categorie sociali grandi ma anche piccole. Per la stessa ragione, gli riuscirà difficile realizzare, se non riforme istituzionali, almeno quella elettorale. Necessaria per restituire ai cittadini un maggiore controllo sugli eletti.
Questa sorta di "aristocrazia democratica". Non può durare all'infinito. Ma può servire. Non solo ad affrontare l'emergenza economica. Ma a restituire fiducia e dignità alle istituzioni.

A rivalutare la competenza, i comportamenti, la credibilità, lo stile come virtù democratiche. E non come meri accessori "tecnici". Di secondaria importanza per la politica e il governo.

(19 dicembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/19/news/aristocrazia_democratica_diamanti-26847173/
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« Risposta #257 inserito:: Gennaio 16, 2012, 11:51:08 am »

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Ilvo DIAMANTI

Tanti auguri da un "tardivo digitale"

Durante queste festività ho ricevuto meno messaggi augurali, rispetto agli ultimi anni. Quasi metà, in confronto all'anno scorso.
Alla ricerca di spiegazioni accettabili, ho escluso subito che possa trattarsi di ragioni che mi riguardano direttamente.
La mia rete di relazioni  -  pubbliche e private  -  è la stessa degli ultimi anni.

Ho pensato, allora, che si stia consumando, rapidamente, la "fine degli auguri". Coerente con la nostra era secolarizzata, senza santi e senza sacro. Ma si tratta di una tendenza in atto da tempo. Perché mai dovrebbe produrre questi effetti proprio ora? Stessa obiezione all'ipotesi che il rito degli "auguri" sia frustrato dalla paura del futuro. L'anno appena iniziato, d'altronde, non promette niente di buono: Ma lo scenario degli ultimi due anni non era molto più rassicurante. E allora perché questo calo improvviso?

Ho trovato una spiegazione più plausibile guardando chi mi sta intorno, per primi i miei figli, "nativi digitali". Protesi a tempo pieno sul loro smartphone. Da ciò l'idea. Che il problema non sia il clima del tempo, sempre più cupo. Né l'esaurirsi della mia, personale, rete di relazioni. Ma il "medium". Il canale attraverso cui corrono gli auguri.

Non mi riferisco agli auguri per via postale. Ormai sono quasi estinti. Li inviano, perlopiù, soggetti e figure istituzionali.
Oltre a qualche persona che dà ancora significato e importanza al messaggio scritto e firmato "a mano". O, ancora, li inviano gli amici artisti, che incidono e imprimono carte raffinate, in poche copie numerate. In effetti, io li apprezzo entrambi. Molto. (Anche se, per pigrizia o per mancanza di tempo, spesso non riesco a ricambiare gli auguri. Tanto meno con biglietti all'altezza.)

Ma si tratta, appunto, di residui del passato. Icone di un'epoca trascorsa, riprodotte da pochi sopravvissuti. Che non si rassegnano ai linguaggi e ai media del tempo.

La gran parte degli auguri, invece, io li invio - e ricevo - via sms ed email. E sconto i problemi, che ho segnalato in altre occasioni. Gli auguri via email sono standardizzati, visto che vengono inviati a mailing list ampie e spesso indifferenziate. Dove coabitano persone affini e diverse. Così, paghi uno e compri 10, 100, 1000. È un meccanismo a palla di neve, che si srotola e rotola. A valanga. Perché ciascuno dei destinatari può reinviare il messaggio  -  spesso una cartolina online, rutilante di colori e di luci - a tutti. Con un clic. Così gli auguri arrivano in fretta dovunque e a chiunque. Come una circolare di servizio, un invito a dibattiti, convegni, spettacoli. In questo modo, ovviamente, si perdono le relazioni ma anche le attenzioni "personali".

Diverso è il discorso degli sms. Anch'essi strumenti standard, inviati spesso ai destinatari in agenda. Un clic e arrivi dappertutto, in un istante. Però gli sms permettono di personalizzare i messaggi  -  anche quelli standard. Basta cambiare di volta in volta il nome, nel testo augurale- Seguendo l'esempio nelle lettere "stampate", dove si scrivono "a mano" il nome del destinatario e la firma.
Così l'sms diventa (quasi) equivalente a una chiamata diretta. Un messaggio "dedicato", dove c'è il "tuo" nome ("Caro Ilvo, tanti auguri..).

Per chiarire che quel messaggio è destinato proprio "a te". A fine sms, la firma di chi l'ha inviato, limitata al solo nome. Così è più diretto, familiare.

Il problema è che, a volte, quel nome non richiama "una" persona nota. Magari, anzi, certamente, lo è. Si tratta di un conoscente che incontri spesso. Un compagno di viaggio o di lavoro. Ma tu hai cambiato cellulare  -  perché hai perduto quello precedente, oppure si è scassato. E non hai salvato l'agenda. Per cui non riconosci il numero. Io, comunque, mi sono trovato di fronte a 3-4 casi di "amici" ignoti. "Un abbraccio e tanti auguri. Roberto". Roberto chi? Ne conosco 5 o 6. E ancora: Filippo, Lucio, Massimo, Giorgio. Chi saranno? Certo, nel dubbio, rispondo subito: "Un affettuoso augurio anche a te, Roberto, , Luca, Paolo... carissimo. A presto. Ilvo". Però l'incertezza resta. E mi rode.

Tuttavia, quest'anno questi casi si sono rarefatti. Insieme agli auguri via sms - dimezzati. Mentre quelli via email sono quasi scomparsi. Come i biglietti postali.

Non per colpa della mia improvvisa impopolarità, né del pessimismo del tempo. Ma per cause di tipo "tecnologico". Perché le email e gli stessi sms sono metodi desueti. Invecchiati in fretta, da un giorno all'altro. Oggi si comunica con Facebook e Twitter. Che permettono di "personalizzare" i messaggi. Perché ti presenti con il tuo profilo. E puoi "postare" foto, video e impressioni da condividere con i "tuoi" amici. In diretta. Oppure "twittare" in un'agorà a cui molti, moltissimi  -  amici e non - hanno accesso immediato. Si è sempre connessi, sempre in contatto. Non c'è bisogno di auguri "dedicati" e inviati a persone specifiche. Fai gli auguri a tutti gli amici e conoscenti in una volta sola. Nella tua pagina. E gli altri ricambiano. Con lo stesso mezzo e allo stesso modo.

Si tratta di una svolta in rapida e continua progressione. Favorita e, anzi, trainata dai nuovi strumenti tecnologici di comunicazione inter-personale. Gli smartphone, i tablet che permettono di accedere direttamente alla propria pagina sui Social Network. Io dispongo di entrambi  -  tablet e smartphone. Oltre che di alcuni PC  -  desktop e portatili. Ma non utilizzo i Social Network. Non per paura o per diffidenza. Ma per prudenza. E per timore. Perché sono "cronofagi" e "cronovori". Divorano tempo. Io ne ho poco. Sempre meno. Anzi, non ne ho più. E non uso le segretarie per sbrigare la corrispondenza. Per comunicare con amici e conoscenti. Me ne occupo da solo. E quando vedo i miei figli eternamente connessi, impegnati a dialogare a tempo pieno e a flusso continuo con non so chi, di qua e di là dell'oceano, su FB, mi passa la voglia.

È certamente per questo che ho ricevuto meno auguri dell'anno scorso. Meno auguri dei miei figli. Per lo stesso motivo l'anno prossimo ne riceverò anche meno. È che sono "tecnologicamente" meno aggiornato. Anzi, attardato. Perfino arretrato. In altri termini: sono più vecchio. Destinato a invecchiare rapidamente. Perché non sono un "nativo digitale". Semmai: un "tardivo digitale". Destinato, in pochi anni, a restare escluso dal rito degli auguri. Eppure, lo confesso, l'idea non mi inquieta. E neppure mi dispiace troppo. Me ne farò una ragione.
 

(03 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/01/03/news/tanti_auguri_da_un_tardivo_digitale-27522937/
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« Risposta #258 inserito:: Gennaio 16, 2012, 03:51:28 pm »

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L'arcipelago della Lega nell'orbita di Berlusconi

La leadership del Carroccio costretta a reinventarsi dopo più di un decennio di stretta alleanza con il Cavaliere.

Così si spiega la libertà di coscienza lasciata sul caso Cosentino.

Ma anche le difficoltà del gruppo dirigente a tornare forza di lotta e non di governo

di ILVO DIAMANTI


La Lega è sempre stata abile ad agitare la bandiera del governo e dell'opposizione, al tempo stesso. Ne ha fatto un fattore di successo.
Ma ora che dal governo è passata all'opposizione sembra soffrire. Costretta a recitare una parte cui non è abituata. Che non le è più congeniale.

Anche per questo l'insofferenza del gruppo vicino a Bossi  -  o che se ne fa scudo, per promuovere i propri interessi - è esplosa, nel corso dell'ultima settimana. Contro Roberto Maroni, il leader che ha spinto il partito lungo la strada  dell'opposizione. "La Lega: unica opposizione al governo Monti", come ha scandito lo stesso ieri sera a Che tempo che fa 1.

Al governo, ma anche al Pdl. E, ovviamente, a Berlusconi. Che è lo stesso. Certo, il tentativo di emarginare Maroni dal partito  -  in pratica: di metterlo fuori  -  impedendogli di partecipare a incontri e iniziative sul territorio risponde anche alla "guerra di successione". Che nella Lega, oggi, appare più aspra rispetto a quella di "secessione".

Tuttavia, il problema principale del Carroccio, in questa fase, è di tipo politico piuttosto che personale. Come tornare alla "lotta" dopo tanti anni di  "governo"? Con un gruppo dirigente  -  centrale e locale  -  che non vi è più abituato? Come riscoprirsi anti-berlusconiani, dopo tredici anni di fedele alleanza con Berlusconi? A una parte significativa del gruppo dirigente leghista, infatti, la strategia di opposizione risulta sopportabile finché viene esercitata contro il governo tecnico. E il suo sponsor: il Presidente della Repubblica. Finché non entra in collisione con Berlusconi e il Pdl. In modo diretto.

Votare contro la manovra finanziaria e contro le politiche del governo, d'altronde, non produce effetti concreti. La maggioranza parlamentare di cui dispone il governo tecnico è larga. Non solo: la Lega fa apertamente quel che molti parlamentari ed elettori del Pdl pensano oppure dicono, senza poter far seguire i fatti alle parole.   

Ma il discorso cambia sostanzialmente quando entrano in gioco gli interessi diretti di Berlusconi e della sua cerchia di fedeli. Come nel caso di Cosentino. Allora la scelta della Lega e di Maroni di fare opposizione "sul serio" diventa lacerante. E insostenibile. Non solo per Berlusconi, ma anche per una parte della Lega. Da ciò il dietrofront di Bossi, costretto dal Cavaliere a cambiare posizione, lasciando "libertà di coscienza" ai leghisti in occasione del voto in Parlamento. Cioè: permettendo  -  e indicando  -  loro di agire diversamente dalla linea imposta da Maroni in Commissione.

Per spiegare questo rovesciamento di atteggiamento si è evocata la capacità di "ricatto" esercitata da Berlusconi nei confronti di Bossi. Tuttavia, non c'è bisogno di richiamare pressioni e interessi personali per spiegare il sostegno di Bossi e di una parte dei parlamentari leghisti alle richieste di Berlusconi. Il fatto è che la Lega appare, da tempo, un'isola dell'arcipelago berlusconiano. La corrente nordista e antistatalista del forza-leghismo (come lo definì Edmondo Berselli).

Un partito che, negli ultimi anni, ha puntato sulla polemica anti-europea e, soprattutto, sulla questione della sicurezza e dell'immigrazione. Riuscendo a crescere molto e in fretta, dal punto di vista elettorale e istituzionale. È la  "terza ondata" (come l'ha definita Roberto Biorcio), durante la quale la Lega, attestata intorno al 4% nel 2006, ha scavalcato l'8% alle politiche del 2008, il 10 %, alle europee del 2009 e il 12% alle regionali del 2010.

Di conseguenza, la Lega si è inserita  -  in modo ampio e rapido  -   nei luoghi di governo, a livello locale e centrale. Ma anche nei consigli  di amministrazione e nelle direzioni di enti statali e locali, fondazioni bancarie, aziende a partecipazione pubblica. È, così, cresciuto un "ceto politico" leghista meno sensibile al richiamo dell'identità e dei valori. E più attento alla logica degli interessi.

Tanto che Maroni, ieri sera, a Fabio Fazio che gli chiedeva quale idea ispirasse la sua azione, ha evocato "la Lega degli onesti". Contrapposta alla "Lega degli intrallazzi e dei conti all'estero". Quella attuale, insomma. Corrotta dal potere.

È, tuttavia, difficile rassegnarsi all'opposizione per un partito che si è insediato  -  e abituato  -  al governo, in molte parti del Nord  -  e ora anche in alcune zone del Centro. È, quindi, difficile, rompere con il Pdl. Con cui è alleata da 13 anni. Senza perdere capacità competitiva alle elezioni. A partire dalle prossime elezioni amministrative (parziali) di primavera. Alle quali, secondo Maroni, (lo ha sostenuto ieri sera da Fazio) la Lega dovrebbe correre da sola. Coerentemente con la sua attuale posizione  politica.

La "terza ondata" ha, dunque, allargato le distanze fra elettori, militanti e dirigenti. Ha favorito il coesistere di un linguaggio di opposizione con  le pratiche di (sotto)governo. Ha, inoltre, reso inattuale e inadeguato il modello carismatico di massa, su cui il partito si è retto fin dalle origini.

Perché il leader storico, Umberto Bossi, stenta ormai a suscitare passione e identificazione personale. La sua malattia gli rende più difficile comunicare. Tanto  più controllare l'organizzazione del partito. Il suo carisma non è più indiscusso né indiscutibile, come un tempo. La sua dipendenza dalla cerchia di politici e familiari che lo circonda appare evidente. E ne indebolisce l'immagine. Mentre è cresciuta la popolarità di Roberto Maroni. (Tanto più dopo l'operazione censoria, di questi giorni.) Anche se non al punto di oscurare l'immagine del Capo.

Dai sondaggi di Demos (giugno-novembre 2011) emerge , infatti, come, il leader preferito, per il 33% degli elettori leghisti, sia Umberto Bossi, per il 29% Roberto Maroni. Tutti gli altri leader, praticamente, non contano. (Calderoli, Zaia, Cota e Salvini ottengono, ciascuno, circa il 3% di preferenze). Da ciò l'impossibilità di imporre "una" leadership.

Così, al gruppo degli amici e dei familiari di Bossi non è possibile emarginare Maroni, come si è visto in questa occasione. Ma è difficile anche per Maroni subentrare a Bossi, senza il sostegno di Bossi  -  o, peggio, contro di lui. D'altronde, gran parte dei sostenitori di Maroni (9 su 10) nutre fiducia in Bossi. Una conferma, come ha osservato ieri Gad Lerner su questo giornale, che si tratta di due figure non alternative e competitive, ma complementari. Il populista e il governativo. Costretti a recitare in ruoli innaturali e contraddittori.

Bossi, la maschera "populista", recita la parte del partner fedele e leale di Berlusconi. Verso cui è cresciuta l'insofferenza dei militanti. Mentre Maroni, il "governativo", recita la parte di leader della "Lega d'opposizione"  -  e, soprattutto, "di lotta".

È francamente difficile immaginare che orientamenti, componenti, leader così diversi e contrastanti possano coesistere  -  ancora a lungo  -   in queste condizioni. Sotto lo stesso tetto.

(16 gennaio 2012) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/16/news/arcipelago_lega-28197969/
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« Risposta #259 inserito:: Gennaio 22, 2012, 10:14:21 am »

Giovani senza luogo e senza età

Ilvo DIAMANTI

I giovani sono la categoria sociale più definita e per questo più in-definita del nostro tempo. Oggetto di una molteplicità di tentativi di catturarli con una formula, una parola, un titolo. E quindi oscurati da una nebbia lessicale e semantica. Io stesso ho partecipato a questo inseguimento, nel passato più o meno recente. Ma ora tutte le definizioni, tutte le formule, tutte le parole, tutti i titoli vertono su un solo aspetto: il lavoro, o meglio, il non-lavoro. E sulla variante della precarietà. D'altronde, l'Istat stima oltre il 30% il tasso di disoccupazione giovanile (che sale al 50% nel Mezzogiorno). Il più alto dell'Eurozona. Le statistiche ufficiali, inoltre, valutano il peso dei lavoratori atipici e irregolari oltre il 30% tra i giovani (e intorno al 15% nella popolazione). Anche se aggiungono - nell'ultimo anno pare che, in Italia, anche il lavoro atipico sia diminuito. E non è una buona notizia, ma il segno - e la conseguenza - della crisi, che sta riducendo l'occupazione di tutti i generi: formale o informale, stabile o flessibile, tipica o atipica che sia.

Per questo, il fenomeno più adatto a raffigurare la posizione dei giovani del nostro tempo, probabilmente, è quello dei "Neet" (l'acronimo che riassume la definizione inglese: Not in Education, Employment or Training). Quelli che "non" lavorano e "non" studiano. E non sono neppure impegnati attività di "formazione" e "apprendistato". Una sorta di  generazione "non". Priva, per questo, di identità. Perché se "non" sei studente e neppure lavoratore, semplicemente, "non" esisti. Resti sospeso nell'ombra. Senza presente né futuro.

Ebbene, i giovani (tra 15 e 29 anni) che si trovano in questa posizione - ambigua e periferica - sono oltre 2 milioni e 200 mila. Il 22%. Pesano particolarmente fra le donne e nel Sud. Ma disegnamo, comunque, un'area multiforme, per profilo socio grafico e motivazionale. Dove coabitano diverse componenti. Soprattutto e anzitutto, giovani "costretti" a restare sulla soglia, in bilico. Perché hanno concluso gli studi e non trovano un lavoro, neppure precario. Giovani che hanno perduto il lavoro  -  più o meno precario  -  e non ne trovano un altro  -  né tipico né atipico. Ma anche giovani che, finiti gli studi, preferiscono guardarsi intorno  -  fare esperienze, viaggiare, fermarsi a pensare - prima di entrare nel mercato del lavoro. Prima, magari, di ri-entrare nel sistema formativo. E altri ancora che preferiscono fermarsi  -  almeno per un poco. In attesa  -  e nella speranza - che qualcosa cambi. Visto che l'offerta del "mercato" non li soddisfa nemmeno un poco. Anzi...

È la generazione del "non". Una "non" generazione. (Ma per carità, non usatela come un'altra definizione. È una "non" definizione). Una generazione "accantonata", provvisoriamente, dagli adulti che non sanno come comportarsi con i giovani. I loro figli. Per quanto possibile, li tutelano e li proteggono. E, al tempo stesso, li controllano, frenano la loro voglia di rendersi autonomi. È una generazione di giovani che faticano a crescere. Perché gli adulti e gli anziani (ammesso che qualcuno sia ancora disposto a dichiararsi tale) li vogliono così: eterni adolescenti. E i giovani - una parte di loro, almeno - si adeguano a questo status. A questo limbo. A questa in-definitezza. Così, un giorno, davanti allo specchio, rischiano di scoprirsi già vecchi.

O meglio: anziani.
Pardon: senza età.
Sospesi. In un tempo senza tempo e in un luogo senza luogo.

Questa Bussola, con qualche variazione, è stata scritta per "UniurbPost" (numero otto, gennaio 2012), magazine online d'Ateneo dell'Università di Urbino "Carlo Bo"

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/01/20/news/giovani_senza_luogo_e_senza_et-28479606/
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« Risposta #260 inserito:: Gennaio 25, 2012, 10:13:00 am »

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I padroncini della mobilità

di ILVO DIAMANTI


È INQUIETANTE, ma anche significativa, la condizione di questo Paese, in questo momento. Paralizzato, letteralmente. Città e autostrade, inagibili. Bloccate dalla protesta dei tassisti e dei camionisti. È significativa del paradosso in cui viviamo. Noi, cittadini globali di un mondo globalizzato, dove le distanze spazio temporali sono vanificate, perché avvengono per via "immateriale". Attraverso la Rete, la comunicazione internautica, satellitare, digitale.

Mentre il movimento delle persone   -  da casa al lavoro, scuola, alla palestra, al cinema (e viceversa)  -  avviene su strade, autostrade, rotaie: vie assolutamente "materiali". Che è facile bloccare, interrompere, ostruire. Con conseguenze devastanti in un Paese, l'Italia, divenuto ormai una grande unica conurbazione. Una grande azienda diffusa, sparsa in larghe aree del Centro e del Nord. Ma anche nel Sud. Un Paese difficile da attraversare, perché occupato, per larghi tratti, da catene montuose. E perché le politiche, almeno fino agli anni Settanta, hanno badato agli interessi dell'industria dell'auto e del trasporto privato assai più che a quelli pubblici. Per questo oggi è divenuta strategica la questione della "mobilità" (come ha osservato, già alcuni giorni fa, Gigi Riva sul "Piccolo"). O, forse dell'im-mobilità. Per questo è difficile capire e adattarsi, molto più di ieri. Perché, nel frattempo, ci siamo abituati a vivere e convivere
con le tecnologie della comunicazione.

Per primi i giovani e le persone più istruite. Ma, progressivamente e rapidamente, anche gli altri. Perché tutti ormai hanno e usano un cellulare, mentre gran parte della popolazione ha un computer e comunica in rete. E molti, moltissimi, vivono in simbiosi con l'iPhone e l'iPad. Stanno in contatto fra loro attraverso i Social Network, esternano il loro pensiero mediante Twitter. Le aziende operano in rete. Così gli enti pubblici, le scuole. Produttori e clienti, professori, studenti e famiglie. In rete. Tutti in movimento, pur restando fermi. E tutti in relazione, pur restando soli. Per questo la protesta dei tassisti e degli autotrasportatori ci ha colti impreparati. Perché, appunto, non ce l'aspettavamo. Di essere vincolati in modo così stretto dalla nostra dimensione fisica. Materiale. Dalle autostrade piuttosto che dalle infostrade. Dalle vie urbane piuttosto che da quelle digitali. Dai tassisti invece che dagli hacker. Non ce l'aspettavamo di venir bloccati a casa o per strada e di scoprirci fermi. Noi che ci immaginiamo sempre in viaggio e sempre insieme agli altri.

È, dunque, un problema di dissonanza cognitiva a rendere difficile comprendere e accettare quel che avviene in questi giorni. Prima ancora di affrontarlo. Al contrario di coloro che ci "bloccano". Tassisti, camionisti, autotrasportatori. Ben consapevoli della nostra "dipendenza" dalle loro azioni e coazioni. Perché controllano il movimento "fisico" personale. E l'economia nazionale. Per loro, il numero non è un vincolo. Non sono "masse" ma le loro lotte hanno effetti di massa. Ventimila tassisti possono bloccare le città. Gli autotrasportatori sono molti di più, visto che in Italia operano circa 90.000 imprese (dati Eurostat), ciascuna con circa 5 veicoli. Facile per loro bloccare l'intero Paese. Non solo gli spostamenti delle persone. Ma  -  anche e anzitutto  -  quelli delle merci, che essi stessi (auto) trasportano. Peraltro, si tratta di un modello di lotta sperimentato, adottato, in passato, da altre categorie, anch'esse addette  -  non a caso  -  alla "mobilità". Il personale delle ferrovie e dei trasporti urbani. I controllori di volo. In grado di bloccare  -  in poche decine  -  l'intero traffico aereo non solo di un Paese. E, ancora, i benzinai. "Padroni" del carburante da cui dipende la nostra mobilità personale.

Si tratta, in gran parte dei casi, di figure professionali che non temono di intraprendere forme di lotta aspre e impopolari. Abituati, come sono, a un lavoro duro e usurante. Loro sì, sempre in viaggio, sulla strada. "Da soli". Sempre in viaggio, sempre in movimento, sempre in rete. Da sempre (i camionisti, prima e più degli altri, hanno costruito una costellazione di CB). Sempre in contatto tra loro. Per esigenze di lavoro, ma anche per combattere la solitudine. Difficile coltivare legami di solidarietà con gli altri in questa condizione nomade. Anche se è loro chiaro quanto gli altri, la comunità, i cittadini dipendano da loro. Dal loro lavoro, dai loro servizi. Essi, d'altronde, hanno sperimentato la loro capacità di pressione da molto tempo e in molti contesti. Per non allontanarci troppo: in Francia, in Spagna e in Grecia. In Italia, però, c'è la complicazione di una rappresentanza frammentata in nove associazioni, quando negli altri Paesi ce ne sono al massimo due. In queste condizioni, il senso di responsabilità sociale e civile, la gravità del momento economico e politico non costituiscono argomenti particolarmente sentiti. Al contrario, il disagio sociale diventa un elemento di pressione politica particolarmente incisivo. In grado di influenzare pesantemente il clima d'opinione e il consenso. E nell'era dell'opinione pubblica, le lotte più efficaci sono quelle che colpiscono non tanto gli imprenditori e i produttori, ma i cittadini e i consumatori. I quali diventano vittime e ostaggi di ogni protesta.

Le liberalizzazioni, peraltro, sono difficili da realizzare e da attuare, da noi più che altrove. Perché cozzano contro una società stratificata e frammentata in un collage di appartenenze professionali e di mestiere, albi, ordini, gruppi, associazioni di categoria. Le liberalizzazioni, cioè, pretendono di slegare i legami di una società legata insieme da mille interessi: i familismi, i localismi, i particolarismi, le eredità. Dove molte persone  -  oltre e prima che "cittadini"  -  si sentono tassisti, farmacisti, camionisti, giornalisti, avvocati, notai, benzinai, politici, artigiani, banchieri, dirigenti, commercianti, commercialisti, consulenti, cambisti... Titolari di interessi di entità molto diversa. Più o meno piccoli, più o meno grandi. A cui, però, non intendono rinunciare.

È difficile immaginare che un cambiamento tanto profondo possa avvenire senza "spargimento di sangue". (Parlo, ovviamente, in modo figurato e metaforico.) E a chi ritenga necessario "slegare" l'Italia  -  per rendere la società più equa e l'economia più aperta  -  la protesta dei Tir e dei tassisti è lì a rammentare che la lotta sarà lunga e dura. Prepariamoci. Ce n'est qu'un début...

(24 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #261 inserito:: Gennaio 30, 2012, 12:03:10 pm »


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Gli italiani di lotta e di governo promuovono Monti e le proteste

Il centro-destra e il centro-sinistra soffrono entrambi di una crisi di rappresentanza.

Gran parte dei cittadini teme la caduta dell'esecutivo per paura di "tornare indietro".

I risultati dell'indagine Demos & Pi

di ILVO DIAMANTI

Gli italiani di lotta e di governo  promuovono Monti e le proteste

VIVIAMO strani tempi. Come, d'altronde, il governo Monti (secondo la definizione dello stesso premier). Tempi instabili e sussultori. Una settimana dopo l'altra, un giorno dopo l'altro: protestano tutti. Tassisti e camionisti, avvocati e farmacisti, benzinai e giornalai, operai e notai. Protestano i Padani e i Forconi. Oltre ai No-Tav. Gli stessi "professori" - e gli studenti - non apprezzano il ridimensionamento dei titoli di studio - e delle lauree. Tutte, non solo quelle conseguite dagli "sfigati", per usare l'eufemismo del viceministro Martone 1.

Non sorprende, quindi, che la maggioranza degli italiani sia d'accordo con le manifestazioni e gli scioperi contro i provvedimenti del governo e le liberalizzazioni. Oltre il 56%, secondo il sondaggio condotto da Demos (per Unipolis) nei giorni scorsi.

LE TABELLE Il giudizio su governo e proteste 2 (su repubblica.it)

Tuttavia, solo una frazione della popolazione (circa il 5%) afferma di avervi partecipato, mentre si dice disposta a parteciparvi una componente, comunque, molto limitata (13%).

D'altra parte, in questo strano Paese, il governo ottiene un consenso largo quanto le proteste contro le sue politiche. Anzi, un po' più ampio, visto che quasi il 58% degli italiani (intervistati da Demos per Unipolis) giudica positivamente l'azione del governo Monti
(con un voto da 6 a 10).

Non solo, ma le liberalizzazioni, nonostante le proteste, continuano ad essere apprezzate dalla maggioranza assoluta della popolazione (secondo l'IPSOS).

Le "ragioni" di atteggiamenti così contrastanti sono diverse ma, perlopiù, molto "ragionevoli".

1. La prima richiama la profonda diversità delle categorie coinvolte dai provvedimenti, che, non a caso, sono valutate in modo differente dai cittadini (come hanno segnalato i sondaggi IPSOS). L'indulgenza verso la protesta dei camionisti e dei tassisti, in particolare, risulta molto superiore rispetto a quella espressa verso i notai, gli avvocati e i farmacisti. Perché si tratta di figure sociali ritenute "popolari", che svolgono attività usuranti.

2. La seconda ragione è stata espressa, con chiarezza, dallo stesso Monti nei giorni scorsi, quando ha osservato che "per decenni si è coltivato e rispettato più l'interesse delle singole categorie che l'interesse generale". Anche se questo duplice sentimento attraversa tutti. Così, l'attenzione all'interesse generale ci fa apprezzare Monti e le politiche del governo, comprese le liberalizzazioni. Ma l'interesse di categoria ci spinge a reagire con insofferenza. Visto che tutti - o, almeno, molti - sono (siamo): tassisti, notai, avvocati, pensionati, avvocati, benzinai, commercianti, camionisti, professori, ecc. (Senza trascurare le differenze sociali, di reddito, posizione, fatica fra queste professioni.) Intendo dire che dentro di noi convivono e confliggono diversi interessi e diverse condizioni. Che dividono l'identità civica e quella di categoria.

3. Da ciò il dualismo di sentimenti che coabitano in noi. Da un lato, il consenso - di proporzioni larghe - verso Monti e verso il governo. Dall'altro, il peso, altrettanto esteso, del dissenso e delle proteste verso le politiche governative. Perché gran parte dei cittadini si rende conto che molte scelte di Monti sono obbligate e necessarie. Anche se criticabili e migliorabili. E gran parte dei cittadini, inoltre, teme la caduta del governo. Non solo per paura di "tornare indietro". Al passato politico che incombe, come una minaccia. Ma perché si rischierebbero la ripresa delle guerre politiche e del conflitto sociale. Tuttavia, ciò non impedisce agli specifici interessi e alle specifiche rivendicazioni - sociali, economiche e locali - di emergere ed esprimersi. In modo talora acceso.

4. C'è, infine, una ragione più generale. Meno evidente e meno evocata, nel dibattito pubblico. Ma forse la più pericolosa - a mio parere. Perché riguarda - e mette in discussione - la nostra stessa democrazia. Se oggi si assiste al proliferare di conflitti e di proteste puntiformi e senza soluzione è anche - soprattutto - perché tra la società, gli interessi e il governo - lo Stato - c'è il vuoto. Non c'è rappresentanza, ma neppure "composizione" e "aggregazione" delle domande e degli interessi. Un mestiere che spetta alle grandi organizzazioni economiche, ma, soprattutto e in primo luogo, ai partiti. I quali hanno "delegato" a Monti i compiti che essi non si sentono in grado di affrontare, anche - forse soprattutto - per timore delle conseguenze elettorali.

Un problema che lacera il centrodestra - particolarmente sensibile al richiamo degli interessi dei lavoratori autonomi e delle professioni. Ma che inquieta anche il centrosinistra, in difficoltà ad affrontare i temi della mobilità (del lavoro). Non è un caso che gli unici soggetti ad agire apertamente sulla scena politica, oggi, siano coloro che "moltiplicano" e amplificano le proteste di categoria, invece di ri-comporle. La Lega, in primo luogo. Ma anche l'IdV e Sel, per quanto in modo reticente.

Ne esce il quadro - in frantumi - di una "democrazia immediata" (per riprendere la definizione del marchese di Condorcet, nella Francia rivoluzionaria del Settecento). In duplice senso.

A) Perché ogni domanda e ogni spinta sociale si rovescia "immediatamente" sulla scena pubblica. Visto che non solo i media tradizionali (per prima la Tv), ma Internet, i cellulari e i palmari, FB e Twitter danno visibilità e rilevanza "immediata" a ogni rivendicazione e a ogni protesta. Mentre ogni rivendicazione e ogni protesta può, comunque, produrre conseguenze pesanti a livello pubblico e sociale, quando sia in grado di interrompere la comunicazione e la mobilità - strade, autostrade, città, aerei, ferrovie.

B) Ma questa democrazia appare, d'altronde, im-mediata, in quanto priva di "mediazioni" e di "mediazione". Per il deficit di rappresentanza politica espresso dai partiti. Per la tendenza e la tentazione di affidare l'unica forma di mediazione ai "media".

Questa democrazia im-mediata e iper-mediata (dai media), al tempo stesso, può, forse, piacere a coloro che celebrano l'antipolitica e auspicano la morte della politica, dei politici e dei partiti. Ma rischia di compromettere le sorti della democrazia rappresentativa.

Fondazione Unipolis si basa su un sondaggio condotto nei giorni 18-27 gennaio 2012 da Demetra (metodo CATI). Campione rappresentativo della popolazione italiana di età superiore ai 15 anni (margine di errore 2.1%). Documentazione completa su www.sondaggipoliticoelettorali.it


(30 gennaio 2012) © Riproduzione riservata
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« Risposta #262 inserito:: Febbraio 11, 2012, 12:16:04 am »

Il Nevone del febbraio 2012 a Urbino

Ilvo DIAMANTI

La nevicata del 1956 non la ricordo. Allora avevo 4 anni, abitavo nella periferia di Cuneo. Ero troppo piccolo e, a mia memoria, nevicava sempre tanto. Comunque, data la mia statura a quell'età, la neve mi pareva altissima. Conservo una foto nella quale, a pochi mesi di vita, fasciato come una crisalide, me ne sto, dritto come un fuso, piantato nella neve. Cosa non si sarebbe fatto, allora, per una foto memorabile! Ricordo molto meglio, invece, la nevicata del 1985. Era gennaio. Mi sorprese a Fiesole, all'Istituto Europeo. Lasciai l'auto lassù e rientrai a casa in treno (abitavo già a Caldogno). Un giorno di viaggio. I treni che arrivavano e ripartivano senza orari previsti e stabiliti.  Ovviamente. Arrivato a Vicenza, ad attendermi c'era un amico. Marco. Mi accompagnò a casa in auto. Nel sedile dietro teneva una pala. Ogni tanto si fermava: a una curva, oppure in un vicolo. Afferrava la pala, scendeva e spianava gli ostacoli. Davanti a casa mia non si vedevano più i muri di recinzione  -  oltre un metro. E neppure il mio cane. Che visse, per qualche giorno, nella scala di accesso al mio appartamento. Dopo allora ricordo altre nevicate. Ma nessuna epica. Le più rilevanti, mi sorpresero a Urbino. Per la posizione e l'altitudine, predisposta a precipitazioni nevose rapide e cospicue. D'altronde, a Urbino, nulla è normale. Ricordo, due anni fa, in febbraio. La neve scese imponente e coprì tutto in fretta. E rammento il rientro, in auto. In silenzio, da solo  -  la neve ti fa sempre sentire solo. E ti avvolge in una cappa di silenzio. Molte ore di viaggio, prima di rientrare a casa.

Niente a che vedere con l'evento di questi giorni, però. La nevicata del febbraio 2012, mese bisestile di un anno bisestile. Il "Nevone", come lo chiamano, da queste parti. Me lo sono perso. Per caso. Fermato da un'influenza, martedì 31 gennaio, mentre mi preparavo per andare a Urbino. Dove mi attendeva una sessione di esami. Ma avevo 38° di febbre. Che sarebbero saliti, nei giorni seguenti. Oppresso da una bronchite che mi faceva sentire chiuso come un palombaro nello scafandro. Per cui mi sono fermato sulla soglia di casa. Sono rientrato e mi sono infilato a letto. Dove sono rimasto per molti giorni. Ho ripreso a uscire di casa solo oggi. Sfatto. Dopo dieci giorni di antibiotici, mucolitici e altri medicinali.

La neve che scendeva copiosa a Urbino l'ho vista  -  e sentita  -  di lontano. Me l'hanno raccontata gli amici e i colleghi. I primi giorni: sorpresi e un po' indignati. Perché i riflettori erano tutti puntati su Roma, paralizzata da qualche centimetro di neve  -  diciamo, al massimo, 15-20. Mentre a Urbino e nei dintorni  -  Urbania, il Montefeltro, l'entroterra di Rimini  -  ne era scesa più di un metro. E molta, moltissima ne sarebbe scesa ancora. Per limitarci alle ultime ore, nella notte e nella prima parte della giornata, è sceso oltre mezzo metro di neve, ancora. E la neve continua a scendere, senza rallentare. Tuttavia, l'atteggiamento dei media è cambiato in fretta. E da molti giorni abbiamo tutti, davanti agli occhi, le immagini di Piazza del Rinascimento e di Piazza della Repubblica, trasformate in alpeggi d'alta montagna. Il Palazzo Ducale, innevato come la Cattedrale di Sant'Isacco, a San Pietroburgo, d'inverno. E l'angolo tra via Raffaello e via Santa Margherita, vicino a casa mia, sepolto da cataste di neve. Altissime. La città ducale sepolta e isolata dalla neve. L'ha narrata Jenner Meletti, alcuni giorni fa, su "la Repubblica", in un viaggio epico (come quello di Paolo Rumiz nei dintorni de l'Aquila). L'hanno documentata, con insistenza, i principali programmi e canali di news. Ma, soprattutto, l'hanno rappresentata, aggiornata e rivisitata, di continuo, gli studenti dell'IFG. La Scuola di giornalismo, che ha sede a Urbino da decenni. Il sito del loro giornale, "Il Ducato" 1, è divenuto un riferimento critico e strategico, per chi abiti a Urbino e ma anche per chi sta altrove, ma sia interessato a quel che avviene, nella città ducale, in questa emergenza.

Gli studenti dell'IFG hanno scoperto, essi per primi, l'importanza e il brivido della "professione" giornalistica. Ancora oggi. Al tempo della Rete. Hanno fatto inchiesta, cronaca, servizio. In una città che non ha un "proprio" giornale. Hanno raccontato e aggiornato l'evolvere della situazione. Un giorno dopo l'altro. Un'ora dopo l'altra. Indicando i punti critici, narrando storie. Hanno operato da rete di comunicazione per la città. E da schermo, amplificatore, oltre che medium, all'esterno. Per l'Italia e il mondo. In questo modo hanno, inoltre, dato risposta al problema su cui si interroga da tempo  -  anzi, da sempre - Urbino. Come molte altre città "universitarie". La relazione e la coabitazione tra Università e Città. Fra la Città degli Urbinati  -  i residenti  -  e la Città degli Studenti, ma anche dei docenti - oltre dei tecnici e degli amministrativi (peraltro, in larga misura urbinati). Visto che gli Urbinati hanno abbandonato (o quasi)  il Centro storico agli Studenti  -  e all'Università. Con tutti i problemi e le tensioni che derivano, per una Città abitata da abitanti temporanei e di passaggio. Anche se un'indagine recente, realizzata dal LaPolis e dal CIRSFIA per l'Università di Urbino, dimostra che la confidenza reciproca, in effetti, è alta. Che gran parte degli urbinati affida all'Università le proprie prospettive future  -  non solo economiche. E gran parte degli studenti considera un vantaggio e un'opportunità vivere e studiare a Urbino. Il Nevone del 2012 ha rafforzato questo legame. Ha visto gli Urbinati e gli Studenti lavorare vicino. Enti locali e Università. Condividere l'emergenza. Con l'intervento "esterno" dei militari, in alcuni momenti critici. Ma a Urbino, lontana dal mondo, la vita è continuata. La gente si è "arrangiata". Insieme agli studenti: hanno spalato neve, liberato stade, aperto varchi. Insieme: ce l'hanno fatta. A rendere agibile la città. Nonostante i supermercati vuoti e i distributori esauriti. Senza lamentarsi troppo.

Gli studenti, l'Università, inoltre, hanno dato occhi e voce a quel che avveniva. Hanno messo in comunicazione le persone e le istituzioni, sul territorio. Mostrando "al mondo" la città, prima e dopo il Nevone. Ne hanno fatto un'icona "ideale". (Che spettacolo la città sotto la neve! Senza auto. Le poche rimaste: invisibili. Sepolte dalla neve.)

Così mi resta il sollievo e un po' di rimpianto. Il sollievo di aver scampato il Nevone del 2012. Di non essere finito sotto la tormenta e sotto la febbre. Il rimpianto di non averlo visto e vissuto di persona. Di non poter conservare memoria di questo evento non come un'immagine - che rimbalza sui media e sulla rete. Ma come un'esperienza eccezionale. Perché Urbino è eccezionale in condizioni normali. Tanto più in condizioni eccezionali.

(10 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #263 inserito:: Febbraio 13, 2012, 11:34:02 am »

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La falsa leggenda dei ragazzi bamboccioni

di ILVO DIAMANTI

La falsa leggenda dei ragazzi bamboccioni Mario Monti (ansa)
NON È CHIARO cosa sia successo ai giovani. Divenuti, all'improvviso, impopolari. Bersaglio di battute acide e ironiche. Da quando, nel 2007, Tommaso Padoa-Schioppa, allora ministro dell'Economia e delle Finanze nel governo Prodi, invitò le famiglie a mandarli fuori di casa.

I  "bamboccioni". Incapaci di crescere, di assumersi responsabilità, di conquistarsi l'autonomia. I giovani. Fino a ieri simbolo del futuro, del progresso, del domani che è già qui. Motore dell'economia: consumo e consumatori. Sono passati di moda, molto in fretta.

Sulla scia di Padoa-Schioppa, nelle ultime settimane, altri "professori" e altri "tecnici di governo" li hanno presi di punta. Un vice-ministro ha definito "sfigati" gli studenti  -  o sedicenti tali  -  che, a 28 anni, non si sono ancora laureati. Mentre il Presidente del Consiglio ha affermato che i giovani devono scordarsi il lavoro fisso a vita. Perché, fra l'altro, è "monotono". E la ministra Cancellieri ha recriminato sui giovani che pretendono "il posto fisso nella stessa città, vicino a mamma e papà".

Così i giovani hanno smesso di rappresentare il "futuro" e sono divenuti simbolo della resistenza al cambiamento e alla modernizzazione. Al pari di altre categorie. I tassisti e i notai. I pensionati e le pensioni. I sindacati e il famigerato articolo 18. I "politici".

I giovani: sono invecchiati in fretta, nella rappresentazione
pubblica. Un freno alla modernizzazione. Nel discorso tecnocratico. Ma anche nella retorica mediale, trainata dai talk show e dall'infotainment. Le loro proteste, nelle scuole e nelle piazze, per questo, vengono etichettate come battaglie di retroguardia. I giovani: gli irriducibili del posto fisso. Eredi del sistema di garanzie ottenute negli anni Settanta. Divenute, oggi, vincoli.

Tuttavia, non è chiaro di cosa siano, davvero, responsabili. Di quali colpe si siano macchiati. I giovani. A guardare dati e statistiche, a leggere le loro storie, molte "accuse" nei loro riguardi appaiono, francamente, prive di fondamento.

I giovani devono scordarsi la monotonia del posto fisso, si dice. E il 30% dei giovani, in effetti, vorrebbe un lavoro sicuro (Demos-Coop, maggio 2011. Un dato analogo a quello proposto da Mannheimer ieri sul Corriere). Ciò significa, però, che il rimanente 70% antepone altri requisiti. Non ritiene il lavoro fisso una priorità. Peraltro il 65% dei giovani occupati (Demos-Coop, maggio 2011) considera il proprio lavoro "precario" oppure "temporaneo". E il 60% pensa che, fra uno-due anni, avrà cambiato lavoro.

D'altronde, il "posto fisso", per loro, di fatto non esiste. Anzi, per molti giovani, non esiste neppure il lavoro. L'Istat, nelle settimane scorse, ha stimato il tasso di disoccupazione giovanile oltre il 30%. Il più alto dell'Eurozona. (Ma è molto più elevato tra le donne e sale al 50% nel Mezzogiorno).

Le statistiche ufficiali, inoltre, valutano il peso dei lavoratori atipici e irregolari oltre il 30% tra i giovani (e intorno al 15% nella popolazione). Ma il fenomeno più significativo è riassunto dai "Neet" (acronimo della definizione inglese: Not in Education, Employment or Training). Quelli che "non" lavorano e "non" studiano. Sono oltre 2 milioni e 200 mila. Sospesi. Sulla soglia, fra studio e lavoro. Senza riuscire a entrare né di qua né di là.

Difficile considerarli "partigiani del posto fisso". Visto che di fisso hanno solo la precarietà. Ma anche l'indisponibilità a lasciare la famiglia e la casa di origine mi pare una leggenda.

Tutti quelli che possono, durante il percorso universitario, se ne vanno lontano. Svolgono un periodo di studi (utilizzando il programma Erasmus) in Università straniere. Svolgono stages, dottorati, corsi di formazione e perfezionamento in diverse città italiane, europee. Americane. D'altronde, 6 persone su 10 ritengono, ragionevolmente, che per ottenere un lavoro adeguato alle proprie competenze e per fare carriera, i giovani debbano andarsene dall'Italia (Demos-Coop, maggio 2011).

Una convinzione che cresce particolarmente fra i più giovani. Alcuni anni fa (Demos 2004), oltre quattro giovani su dieci, residenti nel Mezzogiorno, si dicevano pronti a trasferirsi nel Nord o all'estero, pur di trovare lavoro. Difficile trattare da "bamboccioni" i giovani italiani. Che, al contrario, si sono ormai abituati a una vita da precari, al lavoro "temporaneo". Ma proprio per questo utilizzano la famiglia e la casa di famiglia come una risorsa. Un salvagente. Una stazione di passaggio.

Peraltro, non è facile staccare i giovani da casa, allontanarli dalla famiglia, in un Paese "immobiliare" come il nostro. Dove quasi 8 famiglie su 10 hanno la casa in proprietà. E il 20% ne ha almeno due. Dove il mercato degli affitti è limitato e caro. Basti pensare al costo di un posto letto per gli studenti universitari.

Per questo non è chiaro perché a "liberare" l'Italia dal peso del passato debbano essere proprio loro. I giovani. Quegli "sfigati".

Come se la società e il mercato del lavoro fossero davvero "aperti", regolati dal merito. Non è così. Lo dimostrano molte ricerche. Dalle quali emerge che, secondo 7 italiani su 10, le diseguaglianze sociali dipendono, soprattutto, dalla famiglia e dalle amicizie (Demos per Unipolis, gennaio 2012). D'altronde, lo pensano anche gli imprenditori, cioè, i "datori" di lavoro (Demos per Confindustria, gennaio 2010). I quali, per primi, tendono a riprodursi per via familiare. (Come le "classi dirigenti", d'altronde: professori universitari, giornalisti, politici, liberi professionisti....).

Perché prendersela con i giovani, "questi" giovani? In via di estinzione, dal punto di vista demografico. Perché non hanno futuro: 8 persone su 10 si dicono certe che i giovani non miglioreranno la posizione sociale dei loro genitori. Ancora: il 50% dei giovani (ma di più, tra gli studenti universitari) pensa che sia necessario stipulare un'assicurazione integrativa, perché non disporrà mai di una pensione (Demos per Unipolis, gennaio 2012).

Questi giovani "sfigati". Senza pensione. Per molto tempo, per sempre, faranno un lavoro atipico e precario. Sicuramente non "monotono". E, per pagare il debito pubblico accumulato da decenni, dovranno sopportare grandi sacrifici. Per molto tempo ancora.

Forse, il motivo di tanto accanimento è proprio questo. Perché se il mercato del lavoro è chiuso, il debito pubblico devastante, il sistema pensionistico in fallimento, il futuro dei giovani un buco nero, non è per colpa loro, ma delle generazioni precedenti. Dei loro padri e dei loro nonni. Della generazione di Monti, Fornero e Cancellieri. Della "mia" generazione. Forse è per questo che ce la prendiamo tanto con i giovani.
Per dimenticare e far dimenticare che è colpa nostra.

(13 febbraio 2012) © Riproduzione riservatA
DA - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/13/news/leggenda_bamboccioni_diamanti-29782504/
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« Risposta #264 inserito:: Febbraio 20, 2012, 11:07:59 am »

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Una terza Repubblica contro i partiti?

di ILVO DIAMANTI

NON E' FACILE prevedere che ne sarà dei partiti e del sistema partitico italiano, dopo il governo Monti. (Mi accontento di prevedere il passato. E non sempre mi riesce bene.) Tuttavia, mi sentirei di avanzare un'ipotesi. Facile. Nulla resterà come prima. L'esperienza del governo tecnico, infatti, sta mettendo a dura prova la tenuta dei principali partiti, ma anche  -  soprattutto  -  delle alleanze e delle coalizioni precedenti.

Oggi, d'altronde, appare in crisi la legittimazione stessa dei partiti in quanto tali. La fiducia nei loro confronti è, infatti, scesa a livelli mai toccati in passato (4%: Demos, gennaio 2012). D'altronde, non può essere privo di conseguenze, il fatto che la gestione della crisi sia stata affidata a un governo di "tecnici". Segno dell'incapacità dei partiti di assumere responsabilità  -  di governo ma anche di opposizione  -  di fronte agli elettori. Da ciò deriva la "popolarità" di questo governo (una settimana fa l'Ipsos la stimava intorno al 60%), in grado di prendere decisioni "impopolari". Mentre i partiti sostengono le decisioni del governo tecnico  -  oppure vi si oppongono  -  al "coperto". Dietro le quinte. In Parlamento. Nulla resterà come prima, nei partiti e nel sistema partitico, dopo Monti. Perché questa fase di "sospensione" ne accentua le difficoltà.

Quanto alla dimensione organizzativa e al rapporto con la propria base, basti osservare
quel che sta succedendo nei principali partiti  -  Pdl e Pd. Il Pdl ha avviato una fase congressuale per affrontare il dopo-Berlusconi. Ma ciò che sta avvenendo in numerose province  -  sia del Sud che del Nord (in Veneto e a Vicenza, ad esempio)  -  dimostra quanto il partito sia esposto alle pressioni  -  non sempre lecite  -  di lobby locali. Non a caso il segretario del partito, Angelino Alfano, alcuni giorni fa, ha dovuto precisare  -  e minacciare  -  che "non faremo svolgere i congressi se si riscontrano situazioni gravi, nelle quali non vediamo chiaro".

D'altra parte, nel Pd, le tensioni e le divisioni, a livello nazionale e locale, sono diffuse ed evidenti. E hanno prodotto effetti non desiderati  -  per quanto prevedibili. Soprattutto nella selezione dei candidati alle prossime elezioni amministrative, mediante le "primarie". Le quali continuano ad essere utilizzate "à la carte". Talora a livello di partito, altre volte di coalizione. Con il risultato, in alcuni casi, da ultimo a Genova (e prima in Puglia, a Milano e a Cagliari), di favorire il candidato di un altro partito (seppure alleato). Da ciò il paradosso. Le primarie, "mito fondativo del Pd", secondo Arturo Parisi (forse il primo a concepirle), hanno legittimato leader di altri partiti  -  alleati ma anche concorrenti. E indebolito, di conseguenza, la leadership del Pd nel Centrosinistra. Locale e nazionale.

Ma altrettanto critica appare la questione dei rapporti e delle alleanze tra i partiti. Nell'attuale maggioranza, solo l'Udc e il Terzo Polo appaiono "organici" al governo Monti. Voluto e imposto dal Presidente Napolitano. I principali partiti della maggioranza, Pdl e Pd, considerano questa coabitazione "necessaria", quasi "coatta". Ma incoerente con la loro base elettorale e con la loro storia politica.

Elettori e dirigenti del Pdl, in particolare, vedono il governo Monti come il soggetto che ha "scalzato" il Centrodestra, guidato da Berlusconi. Per questo stesso motivo il governo Monti piace agli elettori del Pd. I quali, tuttavia, ne avversano alcune importanti scelte  -  dalle pensioni al mercato del lavoro e all'art. 18. Le considerano coerenti con le politiche del Centrodestra. Pdl e Pd, inoltre, si vedono "sfidati" dai loro tradizionali alleati  -  la Lega a centrodestra, Idv e Sel, a centrosinistra. I quali, a loro volta, da soli, rischiano di divenire periferici. Alle elezioni amministrative che incombono. Tanto più in quelle politiche, del prossimo anno.

Da ciò emerge una serie di conseguenze rilevanti, in prospettiva futura.

1. Se i partiti della Seconda Repubblica si sono personalizzati, la leadership personale dei partiti si sta rapidamente indebolendo. L'unico leader che mantenga un alto livello di consensi, tra gli elettori, infatti, è Monti  -  intorno al 60%. Tutti i leader di partito, da metà gennaio ad oggi, hanno, infatti, perso consensi e si posizionano molto più in basso.

2. Anche i partiti maggiori, però, hanno perduto consensi. Il Pdl, in particolare, ridotto al 22%. Mentre il Pd, da gennaio (quando aveva superato il 29%), sta declinando, seppure lentamente.

3. Se si valuta la posizione degli elettori sullo spazio politico, però, emerge con chiarezza come la struttura delle coalizioni non sia cambiata. In particolare, la distanza tra gli elettori del Pdl e del Pd si è allargata, per reazione alla coabitazione "coatta".
Tuttavia, i giudizi sulle specifiche questioni politiche e sulle scelte politiche del governo appaiono meno condizionate dall'appartenenza di partito e più dettate dal merito. Quindi meno distanti fra loro.

4. In altri termini, l'esperienza del governo Monti ha ridimensionato la frattura pro-antiberlusconiana. (Anche perché Berlusconi, per ora, se ne sta sullo sfondo.) Ma sta delineando una nuova frattura, o meglio, "distinzione". Pro-antimontiana. Che sta indebolendo i partiti maggiori a favore degli alleati di ieri  -  oggi all'opposizione. Peraltro, incapaci, da soli, di costruire una vera alternativa.

Da ciò la tentazione del Pd e del Pdl: difendersi dalla concorrenza degli alleati  -  oggi all'opposizione  -  con una legge elettorale che renda loro difficile correre da soli. Tuttavia, se i partiti  -  di maggioranza e opposizione  -  non dessero soluzione al loro deficit di rappresentanza sociale e di leadership, difficilmente potrebbero  -  potranno  -  riprendere la guida del Paese. Andare oltre l'emergenza.

Soprattutto se il governo Monti ottenesse i risultati sperati, dal punto di vista economico e istituzionale. Se svelenisse davvero il clima sociale e d'opinione. Allora fra un anno diverrebbe un "soggetto politico" forte. E potrebbe coltivare l'idea di proseguire l'esperienza "in proprio". Oppure, qualcun altro potrebbe occuparne lo spazio, raccoglierne l'eredità. Tecnica ed extra-politica. Cercando autonomamente il consenso elettorale, con il sostegno di una parte, almeno, dell'attuale maggioranza. Dove non mancano coloro a cui non spiacerebbe continuare questo esperimento.
In un Paese che ha conosciuto 50 anni di democrazia bloccata, intorno alla Dc e ai suoi alleati. E che arranca da vent'anni, inseguendo un bipolarismo sin qui ir-realizzato. Si tratterebbe di una Terza Repubblica che, per alcuni aspetti, rammenta e ridisegna la Prima. Con una differenza importante. Non sarebbe fondata "da" e "su", ma "contro" i partiti.

(20 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/20/news/terza_repubblica_partiti-30176429/?ref=HREC1-27
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« Risposta #265 inserito:: Febbraio 28, 2012, 05:42:10 pm »

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C'è democrazia senza i partiti?

La prescrizione di Silvio Berlusconi nel processo Mills fa tornare alla ribalta il ruolo del Cavaliere sulla scena politica.

Ma per ora l'esperienza del governo tecnico non fa male all'ex premier.

Perché gli permette di riorganizzare le fila in un periodo politicamente difficile, per lui e per il Pdl

di ILVO DIAMANTI


Il proscioglimento di Silvio Berlusconi dall'accusa di corruzione nel caso Mills, per prescrizione del reato, ha sollevato, inevitabilmente, polemiche. E un sottile senso di inquietudine. Non solo perché, in questo modo, il Cavaliere è riuscito a sottrarsi, di nuovo, al giudizio.

Ma soprattutto perché ha rammentato a tutti che Berlusconi non se n'è andato, ma è sempre lì. Anzi, qui. Con gli stessi vizi di sempre. Da ciò l'altro motivo di preoccupazione (o, per alcuni, di speranza). Potrebbe rientrare in scena. Da protagonista. Visto che il ruolo di comprimario al Cavaliere non si addice. D'altronde, Berlusconi resta il leader del Pdl. Tuttora il primo partito in Parlamento. E, insieme, la principale forza politica della maggioranza che sostiene il governo Monti.

Tuttavia, anche questa vicenda suggerisce che il vento è cambiato. Che il tempo di Berlusconi e del berlusconismo è finito.

Anzitutto, l'attenzione intorno al caso appare meno accesa rispetto al passato. Quando Berlusconi era il capo del governo o dell'opposizione. Quando era il dominus della scena politica. Il conflitto di interessi che si portava - e si porta dietro - appariva, allora, insopportabile, sul piano pubblico. Oggi è altrettanto intollerabile, ma la posizione politica del Cavaliere, passato dalla ribalta al retroscena, ha sdrammatizzato le tensioni. Peraltro, i principali attori politici (e istituzionali) che sostengono il governo temono episodi e fratture che possano minare la tenuta della legislatura.

Un'eventualità avversata, per primo, da Berlusconi. Al quale conviene che Monti governi almeno fino alla scadenza naturale della legislatura. E magari oltre. Per una ragione su tutte le altre: se si votasse oggi, il centrodestra non avrebbe speranze. Il Pdl (citiamo le stime di Ipsos dell'ultima settimana) galleggia intorno al 22%. L'alleanza con la Lega, inoltre, appare complicata, logorata dal sostegno di Berlusconi al governo Monti. E, comunque, i partiti del centrodestra (Pdl, Lega e Destra), tutti insieme, sono accreditati di poco più del 33% dei voti. Quattro punti meno del centrosinistra (Pd con Idv e Sel).

Ma in una competizione a tre, con il Terzo Polo in campo (stimato intorno al 20%), la distanza fra i due poli principali salirebbe a 10 punti percentuali. Troppi per rischiare il ricorso anticipato alle urne in questo momento. Tanto più perché, da quando ha avuto avvio il governo Monti, il divario fra centrodestra e centrosinistra si è stabilizzato e, anzi, un po' ridotto. Morale: l'esperienza del governo tecnico non fa male a Berlusconi. Gli permette di riorganizzare le fila. In un periodo politicamente difficile, per lui e per il Pdl.

Ma il ritorno di Berlusconi è improbabile soprattutto perché è cambiato il clima d'opinione. Il berlusconismo è fuori moda, inattuale. Come Berlusconi. Verso il quale il grado di fiducia dei cittadini è basso quanto mai, in passato. Poco sopra il 20%. Come i consensi verso il Pdl. Il suo partito "personale".

È arduo, d'altronde, distinguere e dissociare il destino del partito da quello dell'inventore. Lo testimoniano le difficoltà del Pdl in questa fase congressuale. Lacerato da tensioni e accuse interne: di corruzione, tessere false, condizionamenti. A Sud e a Nord. D'altronde: quale identità può assumere un partito identificato "da" e "in" Berlusconi senza Berlusconi alla testa?

Il mutamento del clima d'opinione riflette, a sua volta, il mutamento sociale. Berlusconi ha interpretato e impersonato una fase "affluente" della società italiana. A cui ha imposto, con l'amplificatore dei media, la propria biografia e la propria immagine come riferimenti e modelli. Ha, così, accompagnato e segnato una fase, lunga quasi vent'anni. Ben raffigurata dall'infotainment televisivo. I programmi che mixano informazione e intrattenimento, nei quali ogni distinzione di ruoli è saltata. Politici, cuochi, personaggi della fiction, ballerine, calciatori, veline, criminologi e criminali. Tutti insieme. Appassionatamente. A parlare di tutto.

Quella stagione è finita. La crisi ha spezzato il legame tra immagine e realtà. Ha reso l'immagine in-credibile. Il mondo rutilante e a-morale espresso da Berlusconi è divenuto troppo lontano rispetto al senso comune. I suoi valori: in contrasto con gli interessi degli elettori. Soprattutto e tanto più per quelli, fino a ieri, attratti da Berlusconi. In larga misura appartenenti ai ceti popolari. Si pensi alla crescente impopolarità dell'evasione fiscale, socialmente tollerata, negli anni scorsi  -  e giustificata dallo stesso Berlusconi. Ma guardata - oggi - con ostilità. Perché la crisi ha trasformato la furbizia in un vizio dannoso: per i conti dello Stato e per i bilanci delle famiglie.

La crisi ha, inoltre, delegittimato il modello del politico-senza-qualità. Non migliore di noi ma come noi. Anzi: peggio di noi. Reclutato per meriti estetici, piuttosto che etici. O per fedeltà al capo.

Per questo è difficile  -  a mio avviso improponibile  -  un ritorno di Berlusconi. Il quale è, semmai, alla ricerca di uno spazio nel quale "difendersi". Negli affari ma anche nelle questioni giudiziarie in cui è ancora coinvolto.

Il Paese, d'altronde, ha voltato pagina. L'esperienza di Monti  -  "promossa" da Napolitano - ha rivelato e trainato una domanda di rappresentanza politica diversa. Non parlo dei contenuti della sua azione di governo  -  per alcuni versi discutibili, a mio avviso. Parlo, invece, dello "stile". Che in quest'epoca, è "sostanza". Monti esprime un nuovo modello: il Tecnico che fa Politica. E viceversa: il Politico Competente. Che si misura con i partiti ma non ne fa parte. Ne è fuori e, al contempo, al di sopra. Monti annuncia e interpreta il post-berlusconismo, che si traduce in una sorta di "Populismo Aristocratico". Dove il premier si rivolge e risponde agli elettori direttamente, attraverso i media. In modo sobrio. Mentre i partiti  -  e i loro leader - restano sullo sfondo. Defilati. Monti: è un leader di successo, i cui consensi appaiono in continua crescita. Oggi superano il 60%.

Berlusconi non tornerà: perché il berlusconismo è finito. Ma anche l'antiberlusconismo lo è. Il che induce a spostare le nostre preoccupazioni "oltre" Berlusconi.

In questo Paese: dove i partiti  -  privi di credito  -  contano molto meno dei leader. E dove i leader dei partiti dispongono di un livello di fiducia molto scarso. La questione vera è se sia possibile una democrazia rappresentativa senza partiti.

Io ne dubito. Anzi: lo escludo. Neppure se al berlusconismo succedesse il montismo.

(27 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/27/news/democrazia_senza_partiti-30559326/
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« Risposta #266 inserito:: Marzo 05, 2012, 12:25:31 pm »

Val di Susa, Italia

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di ILVO DIAMANTI

NON SARA' facile sbloccare i lavori della Tav in Val di Susa. Per fattori "ambientali" non indifferenti. Le opere richiederanno anni.
Come realizzarle in un contesto tanto ostile? Ma, soprattutto, perché le strategie adottate dai comitati No Tav hanno imposto la Val di Susa sulla scena nazionale. Costringendo le forze politiche nazionali - e lo stesso governo - a esprimersi, a "prendere parte". E a dividersi, al di là delle attuali alleanze.

La prima e principale ragione di questo "successo" - perché di tale si tratta - riguarda la strategia "mediatica" dei No Tav. Anzi: la scelta dei media come "campo" (utilizzo volutamente la definizione di Bourdieu) del confronto e dello scontro. Ogni loro iniziativa e azione, infatti, produce effetti rilevanti sul piano della comunicazione. Per scelta consapevole.

Quando la protesta si svolge nella valle: la ricerca del contatto diretto con le forze dell'ordine, il tentativo di superare ogni limite e ogni confine "di sicurezza" imposto. Testimoniata e ripresa da telecamere e giornali. Talora con effetti indesiderati, come nel caso delle provocazioni del militante No Tav contro il carabiniere (impassibile, di fronte agli insulti). Ma la protesta ha grande impatto - sociale e mediale - soprattutto quando la scena si trasferisce altrove. In teatri scelti accuratamente. Milano e Roma, in primo luogo. Le Capitali del Paese. Dove sono avvenute iniziative che hanno prodotto grande disagio ai cittadini e all'economia. Il blocco di linee ferroviarie e di autostrade. Manifestazioni in pieno centro, tali da provocare conseguenze clamorose sul traffico e, quindi, sulla vita quotidiana delle persone. Forme di protesta analoghe a quelle condotte nelle scorse settimane dai tassisti e dai camionisti. Che hanno paralizzato per giorni le principali città e alcune tra le maggiori arterie di comunicazione autostradale.

I No Tav hanno agito - continuano ad agire - allo stesso modo. In questo modo le loro proteste sono rimbalzate immediatamente sui media. Non solo sui blog e sui Social Network. Dove le immagini e le ragioni della protesta sono state rilanciate, grazie al sostegno dei movimenti critici e dei circoli antagonisti, che hanno grande confidenza con la Rete. Perché l'Altra Comunicazione non basta ai Comitati No Tav, ai quali interessa molto entrare sui media tradizionali: giornali, radio e soprattutto la tv. Attraverso cui si informa la maggior parte della popolazione (l'83%, secondo l'Osservatorio Demos-coop dicembre 2012). In questo modo, la Val di Susa è uscita dai confini locali ed è divenuta un caso "nazionale".

Ineludibile per i partiti e i soggetti politici più importanti. Tanto più perché l'opinione pubblica, al di là dei giudizi di merito, tende a mostrare comprensione verso le proteste di ceti e settori popolari, com'è avvenuto nei confronti dei camionisti e dei tassisti. E quasi metà della popolazione (il 44%, per la precisione), secondo l'Ispo di Mannheimer (per il Corriere della Sera), approva le rivendicazioni dei No Tav. I quali hanno riprodotto il repertorio della protesta "non convenzionale", condotta dalle categorie "minoritarie". Non solo i blocchi ferroviari, stradali e autostradali. Ma anche le iniziative individuali estreme, condotte da figure sociali altrimenti dimenticate (e dunque invisibili): i disoccupati che salgono sulle gru e i cassintegrati che si trincerano nel carcere dell'Asinara.

I No Tav, cioè, non solo cercano, ma "esigono" l'attenzione dei media. (E per questo hanno manifestato di fronte alla sede di Repubblica). Per far diventare il caso della Val di Susa di "pubblico interesse". In senso letterale: di interesse "del pubblico". Nazionale. A differenza di quel che è avvenuto per il Dal Molin. La nuova base militare americana, alle porte di Vicenza. Concessa - in segreto - dal governo Berlusconi e confermata dal governo Prodi nel 2007. Contro la volontà della maggioranza della popolazione, che partecipò ad alcune manifestazioni di massa. (Ho marciato anch'io, più volte). E votò un referendum, come quello proposto oggi da Sofri. Promosso nel 2008 con il consenso della nuova amministrazione di centro-sinistra (nonostante l'opposizione del Consiglio di Stato). Senza esiti concreti, visto che la base Usa, ora, è praticamente finita. Appariscente e inquietante, nella sua "grandezza" immobiliare. Tuttavia, a differenza della rivendicazione No Tav, il movimento No Dal Molin - tuttora attivo - è rimasto ancorato alla realtà locale. Lontano dagli occhi e dal cuore dell'Opinione Pubblica italiana, lontano dai centri del potere nazionale.

La protesta della Val di Susa, invece, ha rimesso in discussione le decisioni in merito alla Tav. Nonostante il governo e le forze politiche della maggioranza ribadiscano che la Tav verrà realizzata. Nel rispetto degli accordi presi in sede Ue. Tenendo conto dei colloqui e delle discussioni precedenti con i sindaci e i governi territoriali. Tuttavia, queste precisazioni suggeriscono come il caso sia stato comunque riaperto. Perché è "politicamente" e "mediaticamente" rilevante. In una fase, come questa, segnata dalla debolezza dei partiti. E da un governo (sedicente) "tecnico", che ha bisogno di garantirsi il consenso sociale bypassando i partiti. Dunque, riservando grande attenzione ai media.

È significativo, a questo proposito, come i partiti "esterni" alla maggioranza tentino di sfruttare la situazione a proprio favore. A costo di contraddire se stessi. L'Idv sostiene la protesta, anche se Antonio Di Pietro, quand'era ministro dei Lavori pubblici, aveva approvato la Tav. La Lega, al contrario, anche se sta all'opposizione, si associa alla maggioranza. E chiede, anzi, intransigenza contro la protesta dei No Tav. Per motivi tattici, anche in questo caso. Perché il movimento No Tav mette in discussione il monopolio della Lega nella rappresentanza delle rivendicazioni territoriali nel Nord. Anzi, la fa apparire "ostile" verso le domande dei cittadini del Piemonte, governato dalla Lega.

Così, i No Tav e la loro rivendicazione hanno assunto rilievo politico e mediatico nazionale. O viceversa. Il che è lo stesso. Perché la comunicazione - nuova e prima ancora tradizionale: la rete insieme ai giornali e alla tv - è ancora il vero "campo" dove avviene il confronto politico. E mentre gli attori e i leader politici, travolti dall'impopolarità, se ne stanno nascosti nel retroscena oppure passano il tempo nei salotti, sulla ribalta emergono nuovi interpreti. Da un lato: i "tecnici", che usano la "competenza" come risorsa di legittimazione politica e mediatica. Dall'altra: i movimenti e le comunità, impegnati a trasformare storie locali in romanzi popolari di grande impatto emotivo.

(05 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/cronaca/2012/03/05/news/val_susa_italia-30960003/?ref=HREC1-6
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« Risposta #267 inserito:: Marzo 12, 2012, 04:28:40 pm »

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La Repubblica fondata sull'insicurezza

Sempre più italiani si dichiarano preoccupati per il rischio di perdere il lavoro.

E quasi 9 persone su 10 pensano che i giovani occuperanno una posizione sociale peggiore dei genitori.

La crisi del lavoro costringe ad abituarsi all'incertezza. Ipotecando il futuro.

di ILVO DIAMANTI

La Repubblica fondata sull'insicurezza Il segretario della Cgil Susanna Camusso (ansa)
È IL LAVORO la questione intorno a cui ruota il dibattito politico di questa fase. L'articolo 18, il mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali, il futuro dei giovani, il posto fisso, i mammoni.  Angelino Alfano ha indicato al governo tre priorità: "Lavoro, lavoro e lavoro". Apostrofato da Bersani: "L'ha scoperto solo ora (per non parlare delle frequenze tivù)".

Il lavoro e il suo reciproco: il non-lavoro attraggono, dunque, l'interesse degli attori politici e del governo. Ma, forse, non abbastanza rispetto a quanto avviene nella società. La disoccupazione, infatti, è il problema più sentito dai cittadini, in Italia, da almeno due anni, come emerge dai dati dell'Osservatorio sulla sicurezza in Europa (curato da Demos 1, l'Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis), a cui facciamo riferimento in questa Mappa.

Una persona su due, infatti, si definisce "frequentemente" preoccupata  -  per sé e i propri familiari - di perdere il lavoro (gennaio 2012). Circa dieci punti in più rispetto a un anno fa. D'altronde, nel campione rappresentativo della popolazione italiana, il 35% dichiara che, nell'ultimo anno, in famiglia, qualcuno ha cercato lavoro, senza trovarlo. Il 22%, che (in famiglia) qualcuno è stato messo in mobilità o in cassa integrazione. Il 19%, infine, che qualcuno, in famiglia, ha perduto il lavoro. In definitiva, quasi una famiglia su due sta sperimentando gli effetti della crisi sul piano dell'occupazione.

Un problema comune al resto d'Europa, dove si rileva un grado di inquietudine analogo. Con una differenza significativa. L'85% degli italiani ritiene che i giovani, nel prossimo futuro, occuperanno una posizione sociale peggiore rispetto ai genitori. Quasi 10 punti in più rispetto a Francia e Gran Bretagna, ma circa 20 più che in Germania e Spagna.

In altri termini: l'incertezza e la precarietà del lavoro si riflettono nell'incertezza e nella precarietà del futuro dei giovani. Anzi, nell'incertezza del futuro, semplicemente. D'altronde, il 56% degli italiani non vede sbocco a questa crisi. Non riesce a immaginare quando finirà. Certamente non prima di due anni.

Il lavoro  -  incerto, precario e perduto  -  alimenta l'insicurezza economica. Un sentimento che contagia il 73% degli italiani e trascina le altre dimensioni dell'insicurezza. Non a caso le paure relative alla globalizzazione e alla criminalità risultano molto più elevate fra coloro che si sentono maggiormente minacciati dalla disoccupazione.

È come se, insieme all'incertezza del lavoro, fosse cresciuto un diffuso e crescente senso di "insicurezza ontologica", per usare il linguaggio di Zygmunt Bauman. Che, cioè, scuote alle radici il nostro sistema di riferimenti sociali e personali. Mette in dubbio la nostra identità. E ci schiaccia nel presente, lasciandoci senza ancore né legami. Da ciò la differenza da un tempo, quando il lavoro ci forniva relazioni, prospettive, senso. Anche quando era una "materia scarsa", quanto e più di oggi.

Basti pensare alla rappresentazione  -  cruda e disincantata - di Luigi Meneghello, in "Libera nos a Malo": "C'è invece l'espressione 'bisogna', nel senso in cui si dice che morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la 'dòna', per 'el me òmo', per i figli, per i vecchi che non possono più lavorare. Bisogna lavorare, non otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre....". Il lavoro, come necessità. Dura e senza fine. A cui affidare la propria condizione e quella della propria famiglia. Ma anche la propria identità, la propria immagine e il proprio riconoscimento, di fronte agli altri.

Oggi, però, quel modello si è dissolto. Perché se è vero che "lavorare bisogna" occorre aggiungere: "Se possibile". Ma soprattutto "senza certezze e senza continuità". Il che scardina il fondamento stesso della nostra società "laburista". Dove se lavori esisti ed esisti se lavori. Dove le divisioni sociali e politiche si sono formate intorno alla posizione occupata nei rapporti di lavoro. Operai, impiegati, imprenditori. Lavoratori "dipendenti" e "autonomi".

Non è un problema di "lavoro fisso", ma di "lavoro certo". E di professione, a cui si collegano il reddito e la posizione sociale. Ma se il mercato del lavoro e il welfare diventano "liquidi" (per echeggiare ancora Bauman), allora anche il futuro tende a liquefarsi. Allora le relazioni sociali, i valori e, a maggior ragione, i riferimenti politici e istituzionali: tutto diventa liquido e relativo.

E la sindrome dell'insicurezza si diffonde. Non tanto fra i giovani, ma soprattutto fra le generazioni adulte e anziane. I genitori e i nonni. Gli indici più bassi di insicurezza economica, infatti, emergono tra i giovani fra 15 e 25 anni. I più elevati: tra le persone intorno ai 30 anni e, soprattutto di età centrale (45-54 anni). I fratelli maggiori e genitori. Lo stesso si osserva in relazione al futuro dei  giovani. I più pessimisti sono gli adulti e gli anziani. I meno preoccupati proprio loro: i giovani più giovani. Anche se pochi a quell'età lavorano.

Non si tratta di incoscienza giovanile. È che ormai si sono abituati all'in-certezza. All'assenza di luoghi e riferimenti certi. Si sono abituati al lavoro intermittente, assente e perfino alla transizione infinita. Senza stazioni di passaggio e senza destinazioni. Si sono abituati a fare affidamento sui genitori e la famiglia  -  finché dura. E su se stessi. Si sono abituati a un'idea del futuro senza progetti e senza percorsi programmati. Idealisti con realismo. L'angoscia, invece, è tutta nostra. Colpisce la società adulta e anziana. Coloro che hanno impostato la loro vita sul  futuro. E l'idea stessa di futuro sui giovani. Sul passaggio da una generazione all'altra. E sul lavoro  -  e il suo complemento: lo sviluppo, anch'esso sinonimo di futuro.

Ma se il lavoro diventa liquido e in-definito. Senza regole e senza prospettive. Insicuro: senza sicurezza del futuro. Senza "previdenza". Soprattutto per i giovani, intermittenti (nel lavoro) e imprevidenti (senza pensione). Allora, rischiamo di trovarci non solo senza lavoro e senza pensione. Ma senza futuro. E senza presente.
Il problema può, forse, apparire astratto, dal punto di vista "tecnico".  Ma non dal punto di vista"politico". E dal punto di vista "personale" mi inquieta molto.


(12 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/12/news/repubblica_insicurezza-31377643/?ref=HREC1-7
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« Risposta #268 inserito:: Marzo 19, 2012, 10:38:00 pm »

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Un presidente senza partiti

Secondo l'Atlante Politico realizzato da Demos per Repubblica ha fiducia nel governo il 62 per cento, il dato più alto dopo la fase di avvio di novembre. Una eventuale lista Monti sarebbe il primo partito e otterrebbe il 24 per cento dei voti

di ILVO DIAMANTI

SULLA scena politica italiana del nostro tempo si confrontano partiti senza leader (autorevoli) e un leader senza partiti. Quest'immagine è emersa nei primi quattro mesi del governo guidato da Mario Monti. e appare largamente confermata  -  e precisata - dal sondaggio dell'Atlante Politico di Demos 1, realizzato nei giorni scorsi.

1. La fiducia nel governo Monti, anzitutto. Espressa (con un voto pari o superiore al 6) da quasi il 62% del campione della popolazione. Il dato più alto dopo la fase di avvio, in novembre. Insieme all'auspicio, condiviso da circa 7 italiani su 10, che la sua attenzione non si limiti ai temi strettamente economici ma si allarghi a tutte le questioni importanti del Paese. Riforma elettorale, giustizia e sistema radiotelevisivo compresi. Il 27% degli intervistati, inoltre, vorrebbe che Monti, dopo le prossime elezioni, succedesse a se stesso. Indipendentemente dal risultato.

2. Ancora più elevato è il grado di considerazione "personale" verso il Premier e i suoi ministri più conosciuti. Nella classifica dei leader, Monti è saldamente in testa, con il 67% di giudizi positivi (espressi con un voto pari o superiore a 6). Lo seguono (a debita distanza) i ministri Elsa Fornero (51%) e Corrado Passera (49%). Gli altri leader  -  istituzionali e di partito  -  sono dietro. Sensibilmente lontani. Bersani, Alfano, Di Pietro, Vendola, Casini e Fini. Tutti in calo, soprattutto gli ultimi due. (Un segno che il governo e Monti stanno occupando lo spazio del Terzo Polo.) In fondo alla classifica: Berlusconi e Bossi, i leader del precedente governo. Bossi, in particolare, è largamente sopravanzato da Maroni (40%). Nella popolazione. Ma anche nell'elettorato leghista. Tra gli elettori della Lega, infatti, il 50% valuta positivamente Bossi, il 73% Maroni. Segno che il peso di Maroni nella "Lega di opposizione" si è rafforzato ulteriormente.

3. Di certo, oggi è in crisi la legittimità del "politico di professione" mentre si rafforza la credibilità dei "tecnici". Come Monti, appunto. Insieme ai suoi ministri. Oltre il 60% degli italiani, infatti, ritiene i tecnici più adatti a governare rispetto a "politici esperti".

4. È interessante osservare come questi atteggiamenti risentano in misura - ancora - limitata delle valutazioni di merito, nei confronti di specifici provvedimenti. Che sollevano, in alcuni casi, grande insoddisfazione. In particolare, una larga maggioranza di persone si dice contraria a modifiche sostanziali dell'articolo 18. Ma ciò non è sufficiente a modificare in modo sostanziale il giudizio sul governo dei tecnici, sui tecnici e sul Tecnico per eccellenza. Monti. Almeno per ora.

5. L'impopolarità dei leader di partito riflette la  -  e si riflette nella - sfiducia nei partiti (solo il 4% del campione esprime "molta fiducia" nei loro confronti). Dal punto di vista elettorale, tuttavia, non si rilevano grandi variazioni negli ultimi mesi. Il PD si attesta circa al 27% e il PdL al 24%. Insieme arrivano al 50%. Venti punti meno che alle elezioni del 2008. La Lega si conferma al 10%, come l'UdC. L'IdV all'8%. Mentre SEL è più indietro, intorno al 6%. Avvicinata dal Movimento 5 Stelle di Grillo. L'unica opposizione davvero extra-parlamentare. Movimentista. La No Tav come bandiera. Forse anche per questo premiata, in questa fase. L'esperienza del governo Monti ha, dunque, congelato gli orientamenti elettorali, ma li ha anche frammentati. Complicando le alleanze  -  precedenti e future.

6. Il PD, che all'inizio aveva beneficiato dell'esperienza del governo Monti, ora sembra soffrirne. Più dei partiti della vecchia maggioranza di Centrodestra, in lieve ripresa, nelle stime di voto. Gli elettori del PD, d'altra parte, continuano a garantire un alto grado di consenso al governo Monti. (Ha il merito di aver "sostituito" Berlusconi). Tuttavia, nella percezione degli italiani, ha mutato posizione politica. Certo, la maggioranza degli elettori (57%) continua a considerarlo "al di fuori e al di sopra" degli schieramenti politici. Ma una quota ampia e crescente di essi (20%) lo ritiene prevalentemente orientato a centro-destra.

7. Il PD risente, inoltre, del conflitto interno fra i partigiani dell'alleanza con le forze di Sinistra e i sostenitori dell'intesa con il Centro. Ma i suoi elettori appaiono turbati anche dalla tentazione di tradurre l'attuale Grande Coalizione di governo in un progetto più duraturo. Un'ipotesi che, tradotta sul piano elettorale, si fermerebbe al 47%. Cioè, circa 13 punti in meno rispetto ai consensi di cui sono accreditati i partiti dell'attuale maggioranza. Per contro, la Lega salirebbe al 19% e la Sinistra oltre il 33%. A pagare il prezzo più caro di questa ipotetica intesa sarebbe, appunto, il PD. Visto che oltre metà dei suoi elettori si sposterebbe sulla coalizione di Sinistra oppure si asterrebbe.

8. Non sorprende, allora, che, una "ipotetica" Lista Monti in una "ipotetica" competizione con gli attuali partiti, nelle intenzioni di voto degli intervistati, sia accreditata di oltre il 24% dei voti. Il che significa: il primo partito in Italia. Davanti al PdL, che, in questo scenario, otterrebbe il 19%. Il PD, terzo con il 18%, risulterebbe il più penalizzato. Perderebbe, infatti, oltre un quarto della base elettorale a favore della lista Monti. La quale, peraltro, intercetterebbe consensi trasversali. Ma, soprattutto, convincerebbe quasi un terzo degli elettori ancora incerti oppure orientati all'astensione. Sul totale degli elettori: circa il 10%.

9. Naturalmente, si tratta di una simulazione. Influenzata, peraltro, dalla popolarità di Monti in questo specifico momento. Conferma, però, lo scenario delineato all'inizio. Evoca, cioè, una Terza Repubblica che oppone Presidenti e Partiti (come suggerì, alcuni anni fa, Mauro Calise in un saggio pubblicato da Laterza). Mentre il Berlusconismo aveva imposto il modello del "Partito personale", che oggi è in declino, insieme alla Persona che lo aveva incarnato.

10. Il Montismo ne ha modificato sostanzialmente il modello. In particolare, nello "stile personale": ha affermato la Tecnica e la Competenza al posto dell'Imitazione-della-gente-comume. L'aristocrazia democratica al posto della democrazia populista. Tuttavia, Monti non si può definire un Presidente "contro" i Partiti, perché i partiti (maggiori) lo sostengono. Anche se qualcuno scorge, alle sue spalle, l'ombra di un nuovo "Partito personale", egli appare, in effetti, un "Presidente senza partito". Legittimato dal "voto" dei mercati, dal "vuoto" della politica  -  e dalla conferma dei sondaggi. Ma anche dalla sua distanza dai partiti. Il che sottolinea l'ultimo paradosso post-italiano (per echeggiare Eddy Berselli). Una Repubblica dove coabitano due Presidenti forti, molti partiti deboli. E un Parlamento quantomeno fragile. Una Repubblica bi-presidenziale.

(19 marzo 2012) © Riproduzione riservata

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Il Nevone del febbraio 2012 a Urbino

Ilvo DIAMANTI

La nevicata del 1956 non la ricordo. Allora avevo 4 anni, abitavo nella periferia di Cuneo. Ero troppo piccolo e, a mia memoria, nevicava sempre. Tanto. Comunque, data la mia statura, a quell'età la neve mi pareva altissima. Conservo una foto nella quale, a pochi mesi di vita, forse 5, fasciato come una crisalide, me ne sto, dritto come un fuso, piantato nella neve. Cosa non si sarebbe fatto, allora, per una foto memorabile! Ricordo molto meglio la nevicata del 1985. Era gennaio. Mi sorprese a Fiesole, all'Istituto Europeo. Lasciai l'auto lassù e rientrai a casa in treno (abitavo già a Caldogno). Impiegai un giorno di viaggio. I treni arrivavano e ripartivano senza orari previsti e stabiliti.  Ovviamente. Arrivato a Vicenza, ad attendermi c'era un amico. Marco. Mi accompagnò in auto. Nel sedile dietro teneva una pala. Ogni tanto si fermava: a una curva, oppure in un vicolo. Afferrava la pala, scendeva e spianava gli ostacoli. Davanti a casa mia non si vedevano più i muri di recinzione  -  oltre un metro. E neppure il mio cane. Che visse, per qualche giorno, nella scala di accesso al mio appartamento. Dopo allora ricordo altre nevicate. Ma nessuna epica. Le più rilevanti, mi sorpresero a Urbino. Per la posizione e l'altitudine, predisposta a precipitazioni nevose rapide e cospicue. D'altronde, a Urbino, nulla è normale. Ricordo, due anni fa, in febbraio. La neve scese imponente e coprì tutto in fretta. E rammento il rientro, in auto. In silenzio, da solo. La neve ti fa sempre sentire solo. E ti avvolge in una cappa di silenzio. Molte ore di viaggio, prima di rientrare a casa.

Niente a che vedere con l'evento di questi giorni, però. La nevicata del febbraio 2012, mese bisestile di un anno bisestile. Il "Nevone", come lo chiamano, da queste parti. Me lo sono perso. Per caso. Fermato da un'influenza, martedì 31 gennaio, mentre mi preparavo per andare a Urbino. Dove mi attendeva una sessione di esami. Ma avevo 38° di febbre. Che sarebbero saliti, nei giorni seguenti. Oppresso da una bronchite che mi faceva sentire come un palombaro chiuso nello scafandro. Per cui mi sono arrestato sulla soglia di casa. Sono rientrato e mi sono infilato a letto. Dove sono rimasto per molti giorni. Ho ripreso a uscire di casa solo oggi. Sfatto. Dopo dieci giorni di antibiotici, mucolitici e altri medicinali.

La neve che scendeva copiosa a Urbino l'ho vista  -  e sentita  -  di lontano. Me l'hanno raccontata gli amici e i colleghi. I primi giorni: sorpresi e un po' indignati. Perché i riflettori erano tutti puntati su Roma, paralizzata da qualche centimetro di neve  -  diciamo, al massimo, 15-20. Mentre a Urbino e nei dintorni  -  Urbania, il Montefeltro, l'entroterra di Rimini  -  ne era scesa più di un metro. E molta, moltissima ne sarebbe scesa ancora. Per limitarci alle ultime ore, nella notte e nella prima parte della giornata, è sceso oltre mezzo metro di neve, ancora. E la neve continua a scendere, senza rallentare. Tuttavia, l'atteggiamento dei media è cambiato in fretta. E da molti giorni abbiamo tutti, davanti agli occhi, le immagini di Piazza del Rinascimento e di Piazza della Repubblica, trasformate in alpeggi d'alta montagna. Il Palazzo Ducale, innevato come, a San Pietroburgo, la Cattedrale di Sant'Isacco d'inverno. L'angolo tra via Raffaello e via Santa Margherita, vicino a casa mia, sepolto da cataste di neve. Altissime. La città ducale sepolta e isolata dalla neve. L'ha narrata Jenner Meletti, alcuni giorni fa, su "la Repubblica", in un viaggio epico (come quello di Paolo Rumiz nei dintorni de l'Aquila). L'hanno documentata, con insistenza, i principali programmi e canali di news. Ma, soprattutto, l'hanno rappresentata, aggiornata e rivisitata, di continuo, gli studenti dell'IFG. La Scuola di giornalismo, che ha sede a Urbino da decenni.
Il sito del loro giornale, "Il Ducato", è divenuto un riferimento critico e strategico. Per chi abita a Urbino, ma anche per chi sta altrove ed è interessato a quel che avviene nella città ducale, in questa emergenza.

Gli studenti dell'IFG hanno potuto scoprire il brivido della "professione" giornalistica. Ancora oggi. Al tempo della Rete. Hanno fatto inchiesta, cronaca, servizio. In una città che non ha un "proprio" giornale. Hanno raccontato e aggiornato l'evolvere della situazione. Un giorno dopo l'altro. Un'ora dopo l'altra. Indicando i punti critici, narrando storie. Hanno operato da rete di comunicazione per la città. E da schermo, amplificatore, oltre che da medium, all'esterno. Per l'Italia e il mondo. In questo modo hanno, inoltre, dato risposta al problema su cui si interroga da tempo  -  anzi, da sempre - Urbino. Come molte altre città "universitarie". La relazione e la coabitazione tra Università e Città. Fra la Città degli Urbinati  -  i residenti  -  e la Città degli Studenti, ma anche dei docenti - oltre dei tecnici e degli amministrativi (peraltro, in larga misura urbinati). Un rapporto complicato, visto che gli Urbinati hanno abbandonato (o quasi)  il Centro storico agli studenti  -  e all'Università. Con tutti i problemi e le tensioni che derivano, per una Città abitata da abitanti temporanei e di passaggio. Tuttavia, un'indagine recente, realizzata dal LaPolis e dal CIRSFIA per l'Università di Urbino, ha mostrato come la confidenza reciproca, in effetti, sia alta. Come gran parte degli urbinati affidi all'Università le proprie prospettive future  -  non solo economiche. E, d'altronde, gran parte degli studenti consideri un vantaggio e un'opportunità vivere e studiare a Urbino. Il Nevone del 2012 ha rafforzato questo legame. Ha visto gli Urbinati e gli studenti lavorare vicino. Enti locali e Università: condividere l'emergenza. Con l'intervento "esterno" dei militari, in alcuni momenti critici. Ma Urbino, lontana dal mondo, ha continuato a vivere. La gente si è "arrangiata". Ha reagito. Urbinati e  studenti, insieme: hanno spalato neve, liberato strade, aperto varchi. Insieme: ce l'hanno fatta. A rendere agibile la città. Nonostante i supermercati vuoti e i distributori esauriti. Senza lamentarsi troppo.

Ma gli studenti e l'Università hanno, inoltre, dato occhi e voce a quel che avveniva. Hanno messo in comunicazione le persone e le istituzioni, sul territorio. Mostrando "al mondo" la città, prima e dopo il Nevone. Ne hanno fatto un'icona "ideale". (Che spettacolo la città sotto la neve! Senza auto. Le poche rimaste: invisibili. Sepolte dalla neve.)

Così mi resta il sollievo e un po' di rimpianto. Il sollievo di aver scampato il Nevone del 2012. Di non essere finito sotto la tormenta e sotto la febbre. Il rimpianto di non averlo visto e vissuto di persona. Di non poter conservare memoria di questo evento non come un'immagine - che rimbalza sui media e sulla rete. Ma come un'esperienza eccezionale. Perché Urbino è eccezionale in condizioni normali. Tanto più in condizioni eccezionali.

(10 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

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