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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 278646 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Settembre 05, 2010, 09:56:17 am »

L'identità divisa: se la mia banca minaccia la mia squadra

Ilvo Diamanti


Le squadre di calcio e le banche: due riferimenti importanti dell'identità, in tempi di crisi delle identità. Per quel che riguarda il calcio, è noto. Metà degli italiani tifano per una squadra, il 18% in modo militante. Tra i tifosi, la metà tifano contro un'altra squadra, diversa dalla loro. Proprio come nella politica ai tempi belli. Tra i più giovani, peraltro, il tifo calcistico conta più di ogni altra fede, compresa quella religiosa. Insomma, il calcio offre solide ragioni di appartenenza. Com'è noto. Mentre immagino che l'appartenenza "bancaria" possa sollevare molti più  dubbi e qualche ironia. D'altronde le "banche" sono tra gli organismi che suscitano maggiore diffidenza. Difficile attendersi altro, dopo gli scandali e le crisi in cui sono state coinvolte negli ultimi anni.

Tuttavia, occorre fare attenzione e distinguere. Se solo 2 italiani su 10 esprimono molta o abbastanza fiducia verso le "banche in generale", oltre metà di essi nutre fiducia verso la "propria" banca. Verso l'agenzia dove ha depositato i "propri" risparmi. Verso i funzionari e gli esperti che consulta spesso, per avere informazioni e consigli. D'altronde, non potrebbe essere altrimenti, verso coloro a cui affidi i tuoi risparmi, i tuoi mutui, i tuoi investimenti e i tuoi fondi, piccoli o grandi che siano. In un Paese dove la quota dei risparmiatori tra le più alte del globo. Forse la più alta. Perché da noi  il risparmio è ancora
considerato un valore e il debito un peccato (e un rischio). Così, può succedere che  si generino conflitti di identità, che attraversano e dividono le stesse persone. Visto che ciascuno di noi ha molte appartenenze, molte identità (religiose, politiche, territoriali, di genere e di generazione). E costa  impegno a tenerle insieme. A farle coabitare, soprattutto quando diventano contraddittorie.

Ad esempio, essere rossoneri e di sinistra allo stesso tempo. Non è facile. Ed è divenuto difficile, per me, far convivere i due riferimenti dell'identità  di cui ho parlato prima. La banca e la squadra di calcio. Mi spiego. Io, come sanno alcuni che mi leggono e tutti quelli che mi conoscono, sono molto bianconero. Juventino. Dall'infanzia e forse dapprima. Come molti immigrati e i figli di immigrati che vivono (vivevano) nella provincia piemontese. I torinesi veri, invece, tifavano e tifano Toro. Questione di "integrazione": i gruppi sociali periferici, per integrarsi, cercano canali diretti e "vincenti". Una giustificazione ex post: io non mi sono mai chiesto perché sono juventino. Lo sono e basta. Anche se da qualche tempo - io e la Juve -  non vinciamo più. Anzi. Dopo il passaggio in serie B e l'illusione breve di un rapido ritorno ai fasti del passato, arranchiamo. Alla ricerca dei successi perduti. Con molta delusione. Il nostro peso fra i tifosi, intanto, sta calando. Difficile tifare per chi perde. Mentre è in crescita il tifo nerazzurro. Non sospettavo che fossero così numerosi. Ma da qualche tempo mi trovo circondato da interisti. Effetto band wagon, in una certa misura. Perché il carro dei vincitori è sempre carico. (Unica, triste, consolazione: l'Inter ha rubato alla Juve anche lo scudetto della squadra più odiata. Me lo sarei tenuto volentieri).

Ma il malessere che mi accompagna non accenna a declinare. Penso alla campagna del calcio-mercato appena conclusa. Nella quale abbiamo cambiato quasi tutti, dal Direttore sportivo e dall'allenatore in giù. Se ne sono andati tanti. Alcuni mi piacevano molto. Diego e Giovinco, non li avrei ceduti mai. Mentre sono arrivati giocatori costosi di cui prima sapevo poco (Krasic: chi è costui?). Mentre di altri, arrivati gratis, mi sfuggiva l'esistenza (Rinaudo: sarà un brasiliano?). Ho assistito, ancora, a fatti che, in passato, non avrei mai immaginato. Giocatori che hanno rifiutato il passaggio alla Juve. Per fedeltà ai colori (Di Natale, ma anche Burdisso). Mentre altri, come Borriello e Kaladze, non sono arrivati, pare, per scelta personale. Di interesse: economico ma anche di competitività. Evidentemente, oggi la Juve, per un giocatore ambizioso, ha meno appeal della Roma e dello stesso Genoa. Anche se tra Grosso e Kaladze (uno scontro fra titani) mi tengo Grosso. E tra Borriello e Amauri non vedo distanze enormi (a meno che non si metta sul piatto Belen, che però, mi dicono, da molto tempo  veleggia altrove).

Tuttavia, non nego di essere a disagio. Con me stesso. Perché io sono un correntista Unicredit. Ho miei risparmi depositati nell'agenzia di Isola Vicentina, dove abitavo al tempo dei miei primi stipendi. Mi hanno sempre trattato bene, con riguardo e attenzione. Ieri e anche oggi. Eppure, un poco, mi disturba che Burdisso e Borriello siano stati ingaggiati dalla Roma  -  invece che dalla Juve  -  grazie al consenso e alla garanzia finanziaria di Unicredit. Proprietaria, di fatto, della Roma. O meglio, del suo debito enorme. Mi disturba. Non perché ci tenessi molto a Borriello (a Burdisso un po' di più). Ma perché la mia identità ne esce contrastata. Come posso affidarmi a una banca che combatte contro il mio tifo? Che usa (anche) i miei soldi (una goccia nell'oceano, lo so) contro di me? Come posso restare, al tempo stesso, bianconero e  di Unicredit senza sentirmi dissociato? Il conflitto fra banca e tifo. Da matti. Un non-problema, del tutto inesistente, diranno tutti (o quasi). Un altro segno di questi tempi tristi, senza fede e senza ideologia, senza politica e senza valori. Però una cosa è certa: io la squadra non la cambio.

(02 settembre 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2010/09/02/news/bussola_juventus-6694804/?ref=HREC1-3
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« Risposta #181 inserito:: Settembre 05, 2010, 10:11:18 pm »

MAPPE

La dottrina Zen del Cofondatore

di ILVO DIAMANTI

C'E' ATTESA per quel che dirà Gianfranco Fini a Mirabello. Oggi, nel discorso di chiusura della festa Tricolore. Un'occasione singolare e significativa. Dove si celebra la tradizione della Destra dissolta nel contenitore politico di Berlusconi. Fini: fondatore e ultimo presidente di An, erede di Almirante. Il cofondatore del PdL. E oggi Grande Antagonista. Il Nemico di Silvio Berlusconi, che non sopporta l'opposizione, le contestazioni, le correnti.

All'interno del «suo» partito. Berlusconi e i «suoi» – consulenti, discepoli, assistenti – vorrebbero che, infine e finalmente, si esponesse. E divenisse, infine e finalmente, il capo di un nuovo partito. Leader dei futuristi. Oppure si opponesse alle condizioni poste da Berlusconi. I 5 punti. Così potrebbe, infine e finalmente, cacciarlo via. Meglio: Fini si porrebbe automaticamente fuori. Dalla maggioranza. Così il Padrone del Pdl potrebbe elaborare una strategia. Decidere, infine. Se andare a nuove elezione e quando. Come e con chi. Oppure tentare di convincere una parte dei parlamentari di Fli a rientrare a casa. (Lui sa essere generoso con gli amici, come ha rammentato ieri).

Non a caso, Berlusconi – e i suoi giornali – agitano sondaggi che danno Fli, il partito di Fini, intorno al 2%. Cioè: quasi nulla. In realtà, altri sondaggi gli attribuiscono almeno il doppio di quei consensi: tra il 4 e il 5%. Meno di qualche mese fa. Ma non poco, visto che Fini da mesi è «fermo» e il partito è solo un'ipotesi. Una voce. Mentre il Pdl è valutato intorno al 30%, come in luglio (e alle regionali) e la Lega continua a crescere. Al di là del 10-11%. Peraltro, non è possibile fare stime, in assenza di un'offerta politica chiara. Senza sapere cosa farà Gianfranco Fini. Con chi si presenterà il suo ipotetico partito, se davvero nascesse? Da solo contro tutti? Con il NMC (Nuovo Mitico Centro)? Oppure con la SAA-B (Santa Alleanza Anti-Berlusconiana)?

Di certo Fini, personalmente, preferirebbe il Centrodestra. Perché il suo bacino elettorale di provenienza e di vocazione è lì. Lui si considera un neo-gollista, un uomo della Destra democratica e liberale. Presidenzialista e laico. Ma Berlusconi, ovviamente, non lo vorrebbe mai con sé. E lui, Fini, non vorrebbe mai stare con Berlusconi. Troppo profonda l'ostilità personale. Da tempo. Si sa. Fini non ha mai sopportato che Berlusconi lo tenesse, eternamente, in panchina. Insieme a Casini. Ad attendere una successione senza garanzie né scadenze. Tantomeno ha sopportato le interferenze con la sua vita personale. Da parte dei media amici di Berlusconi. Così, le ragioni politiche e quelle private si sono mischiate. D'altronde, questa è una democrazia personale e personalizzata. Dove i fatti privati sono pubblici e viceversa. Non a caso Fini è stato al centro di una campagna, martellante e quotidiana, per gli affari della sua compagna; o meglio: del fratello e della famiglia Tulliani. Almeno 30-40 prime pagine. Piene. Anche se, dopo la saga berlusconiana (moglie, affari, amiche, amici, residenze estive e invernali, ragazze, escort e quant'altro), è difficile che qualcosa possa davvero scandalizzare gli italiani.

D'agosto, poi, sotto l'ombrellone. Con le notizie e le foto che rimbalzano tra le riviste di gossip e di infotainment, la stampa d'informazione e Dagospia. Diventa quasi un tormentone estivo, a uso di un popolo mitridatizzato. Per questo, oggi c'è attesa. Che Fini parli, dica, decida. Faccia lui. Qualcosa di chiaro. Uno strappo o un segno di buona volontà. Dichiarandosi indisponibile o leale verso il programma dettato da Berlusconi. Tuttavia, è altamente improbabile – diciamo pure: impossibile – che Fini faccia qualcosa di tutto ciò. Liberando Berlusconi dall'incertezza che lo logora. Infine e finalmente. Molto più facile che decida, come fin qui, di stare fermo. In tutti i sensi. Fermo: nel suo ruolo istituzionale. Disponibile a sostenere il programma, ma non contro la Costituzione, non contro la legalità. Disponibile a restare non solo nella maggioranza, ma perfino nel PdL, da cui non se n'è mai andato. Ma fermo. Sui principi e sulle regole.

Più reticente sui contenuti – che lo potrebbero «schierare» in modo deciso. Fermo. Senza reagire, più di tanto, neppure agli attacchi personali e agli scandali cresciuti intorno a lui. D'altronde, la fiducia personale nei suoi confronti è calata, ma resta ancora elevata. Certo, è cresciuta al centro e a sinistra, ma, a destra, Fini continua a godere di un buon livello di simpatie. Non fosse altro che per nostalgia. Per cui è guardato – con attenzione ma anche timore – da Casini, Rutelli, perfino da Bersani. E, nel centrodestra, da Bossi e dai leader leghisti. I quali, dopo tanti attacchi, nelle ultime settimane, hanno iniziato a manifestare stima nei suoi confronti. Bossi, in persona, si è proposto di ricucire i rapporti con Berlusconi. E, nei giorni scorsi, ha garantito per lui: Fini non farà strappi. Una svolta che non deve sorprendere.

Fini e i finiani – finché restano nella maggioranza – indeboliscono il Pdl e Berlusconi 2 volte. Perché gli levano parlamentari e voti. Perché lo rendono più vulnerabile nel Sud. Bossi e la Lega, peraltro, non possono accettare che Berlusconi dialoghi con l'UdC. Che ridurrebbe la forza contrattuale della Lega nella coalizione. Tanto più che il bacino elettorale dell'UdC, nel Nord, è coerente (ex DC) e dunque concorrente con quello della Lega. Per questo, oggi, l'unico ad agitarsi, nervosamente, è proprio Berlusconi. In bilico. Non può decidere. Qualsiasi scelta rischia di danneggiarlo. E non vuole essere lui a dare alibi agli altri. Ad aprire la crisi. A cacciare Fini. Magari per ragioni di «conflitto di interessi». Per questo a Fini conviene muoversi (e muovere) molto. Ma rimanendo Fermo. Secondo i principi della dottrina Zen.


(05 settembre 2010)

http://www.repubblica.it/politica/2010/09/05/news/fini_zen-diamanti-6769405/?ref=HREA-1
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« Risposta #182 inserito:: Settembre 10, 2010, 10:35:15 am »

IL LIBRO

La bella economia, testamento di Berselli

L'ultimo saggio per una società più giusta

Nel libro scritto durante la malattia l'intellettuale scomparso ad aprile affronta il futuro del capitalismo.

Con una ricetta sorprendente.

di ILVO DIAMANTI



Prima di lasciarci, pochi mesi fa, Edmondo Berselli ha scritto questo saggio, denso e acuminato. Diverso, in qualche misura, diverso dai suoi libri precedenti.

Dagli articoli che ha continuato a pubblicare, fino alla fine. Diverso, perché "essenziale", nello stile e nei contenuti. Mentre Berselli ha coltivato  -  per metodo e filosofia  -  l'essenzialità dell'inessenziale. Occupandosi di sport, musica, gossip, vita quotidiana. In modo strettamente contestuale alla cultura (sedicente) alta, alla politica, all'economia, alle imprese, agli affari. Scivolando fra Liga (bue) e Lega, tra i Post-italiani e Forza Italia, fra "il più mancino dei tiri" (di Mariolino Corso) e gli svarioni dei "sinistrati" (politici). Attraverso uno stile in-imitabile. Dove, appunto, nulla è divagazione. E tutto lo è. Perché, in questo "paese provvisorio", nulla è essenziale. Quanto il fatuo. Ebbene, in questo saggio Berselli sceglie uno stile asciutto. Ma, come sempre, vitale. Forse perché la vita, mentre scriveva, lo stava lasciando. E lui lo sapeva, anche se mai  -  mai  -  si è arreso. E mai  -  mai  -  ha rinunciato a vivere. Cioè a scrivere. Fino in fondo. Ma il tempo stringeva e, complice (come sempre) sua moglie Marzia, ha colpito al cuore una questione che gli stava a cuore  -  da sempre. L'economia giusta, che distribuisce le risorse in modo "equo". Dove le differenze di reddito e di condizione non sono abissali come adesso. "Nella società fordista veniva considerato equo che il presidente o l'amministratore delegato di una grande impresa guadagnasse trenta volte lo stipendio di un usciere. Oggi, o soltanto fino a ieri, si considerava normale che il reddito del grande manager ammontasse da tre a quattrocento volte la retribuzione di un impiegato di basso livello". Berselli ricostruisce  -  con approfondita cura analitica, bibliografica e critica  -  l'ascesa e il declino dell'"economia giusta", come ideale e progetto. Partendo da Marx e Leone XIII per giungere fino ad oggi. Ma traccia anche la parabola  -  molto più rapida  -  della "economia libera" (e iniqua). Una superstizione di successo. All'origine di leggende, fiorite e sfiorite in fretta. Con esiti devastanti, per le borse, le banche e i mercati globali. E per una moltitudine di poveretti, divenuti ancor più poveri.

Il saggio di Berselli è un atto di accusa spietato. Verso il liberismo monetarista che ha venduto illusioni, spacciando superstizioni per verità ("i soldi che generano soldi", a prescindere dall'economia). Ma anche verso il riformismo socialdemocratico e democratico-cristiano. Verso i soggetti  -  politici e culturali  -  che hanno immaginato la "società giusta", cercando di progettare e di realizzare l'economia sociale di mercato, che lega insieme impresa, individuo, comunità. E Stato. Ma poi si sono arresi al "pensiero unico" del monetarismo, quasi senza combattere. Oggi il turbo-capitalismo e il globalismo finanziario sono bersaglio di critiche spietate. Da parte della sinistra, della Chiesa (Berselli cita, al proposito, i ripetuti interventi di Benedetto XVI). E perfino di esponenti della destra (?) di governo (si pensi a Tremonti). Le alternative, però, non si vedono. I profeti dell'economia sociale e i critici della superstizione monetarista oggi appaiono disarmati.

Berselli offre, al proposito, due spiegazioni controcorrente. E impopolari. Come nel suo stile.

La prima è "culturale". "I maestri latitano, di questi tempi. Sono dispersi anche gli ideologi, quegli intellettuali che avevano la formula per tutto, per qualsiasi problema e soluzione di problema". Cioé: mancano le idee e gli idealisti. Manca, in altri termini, la "cultura politica". Senza la quale la politica stessa diventa sterile.

La seconda spiegazione è conseguente. Per progettare un'alternativa occorre mettere in discussione una convinzione comune alle socialdemocrazie e al neoliberismo. A Confindustria e a molti esponenti della sinistra. L'idea della "crescita", condizione irrinunciabile di sviluppo e benessere. Ebbene, scandisce Berselli, a conclusione del saggio, non è "più" così. Al contrario: "Dovremo abituarci ad avere meno risorse. Meno soldi in tasca. Essere più poveri. Ecco la parola maledetta: povertà. Ma dovremo farci l'abitudine". D'altronde, l'alternativa è tra impoverirsi senza ammetterlo, peggio: senza accorgersene. Oppure affrontare il declino del benessere, l'impoverimento (se vogliamo usare una formula meno aspra, la "minore ricchezza") in modo consapevole. In modo "giusto".

È l'ultima lezione di un intellettuale vero (che sentendosi definire tale si ritrarrebbe inorridito). Edmondo Berselli. Non ha mai temuto di sfidare le convenzioni e i luoghi comuni.
In questi tempi pesanti, senza ironia e senza vergogna, ci mancano (personalmente: molto) il suo sguardo leggero, il suo anticonformismo ironico e autoironico. Le sue idee, destinate a far discutere a lungo. Come questo saggio, che non va considerato una "eredità". Un lascito postumo. Ma un contributo "vivo" e attuale al dibattito sul nostro futuro. 

(10 settembre 2010) © Riproduzione riservata

http://www.repubblica.it/economia/2010/09/10/news/il_testamento_di_berselli_per_una_societ_pi_giusta-6926764/?ref=HREC1-8
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« Risposta #183 inserito:: Settembre 13, 2010, 04:00:37 pm »

Atlante politico

Sondaggi: Il Pdl sotto il 30% a sinistra i giochi sono aperti

Sfiducia record per il premier. Nel centrosinistra cresce la concorrenza. E la Lega comincia a logorarsi.

L'Udc tiene ma non cresce e non pare in grado d'imporre l'alternativa di Centro

di ILVO DIAMANTI


L'ORIENTAMENTO degli italiani, in questa fase, appare piuttosto disorientato. Riflesso del disordine che attraversa il sistema politico. Il sondaggio dell'Atlante politico di Demos condotto nei giorni scorsi fornisce, al proposito, molte tracce interessanti.

E una chiave di lettura: l'origine del disordine è, soprattutto, Silvio Berlusconi. Da 16 anni punto di riferimento  -  attrazione e divisione - del sistema partitico e degli atteggiamenti sociali. Oggi appare in difficoltà, insieme al PdL. Non solo in Parlamento, dove i numeri non garantiscono più la maggioranza (certa) alla maggioranza. Anche fra gli elettori. Il PdL, infatti, aveva conquistato il 37% alle elezioni del 2008.

Ora, nelle stime di voto, è sceso appena sotto al 30%. Così il Pd, attestato un poco oltre il 26%, in questa corsa all'indietro fra i partiti maggiori, ha ridotto il distacco. Lega e IdV, gli alleati-concorrenti, non si sono rafforzati. La Lega si mantiene intorno all'11%. Ma, rispetto alla precedente rilevazione di giugno, appare in lieve calo. Mentre i consensi all'IdV, negli ultimi mesi, si sono ridotti in modo vistoso (circa 3 punti rispetto a giugno). Il fatto è che sul mercato elettorale si sono affacciati altri leader e partiti, che, secondo l'Atlante, ottengono consensi crescenti. Fini, Vendola e Grillo. FLI, SEL, il Movimento 5 stelle.

Così il gioco politico è divenuto più competitivo. E, come abbiamo detto, più instabile. Prima causa, il declino elettorale del PdL e il parallelo appannarsi dell'immagine di Berlusconi. La cui condotta, in questa fase, è giudicata almeno "sufficiente" (con un voto pari o superiore a 6) dal 37,6% degli italiani. Si tratta della valutazione peggiore nella storia di questo governo: 5 punti meno di tre mesi fa, 10 rispetto alla rilevazione dello scorso febbraio.

I dati dell'Atlante di Demos suggeriscono, al proposito, alcune spiegazioni.

1. Le difficoltà del PdL e di Berlusconi, in questo momento, riflettono, anzitutto, la crescente sfiducia nel governo. Oggi ha l'approvazione del 30% degli elettori: 11 punti meno di tre mesi fa. Il minimo da quando è cominciata la sua esperienza. Certo, neppure l'opposizione gode di buona salute. Ma questa non è una novità. Semmai un'aggravante, per la maggioranza. Peraltro, anche il giudizio nei confronti delle politiche del governo è negativo. Soprattutto riguardo alle tasse, al federalismo ma in particolare alla disoccupazione. Vero fattore di depressione sociale. Migliore appare il giudizio sull'azione di contrasto alla corruzione (forse per "merito" delle dimissioni di alcuni ministri) e alla crisi economica. Ciò giustifica il consenso verso Tremonti. Il quale ha perduto oltre 6 punti di gradimento negli ultimi mesi, ma resta, comunque, il più apprezzato, tra i leader politici. Molto più del premier.

2. Il sostegno a Berlusconi e al PdL è complicato anche dal conflitto con Fini e con FLI. Certo, Fini ha perduto molta della fiducia di cui disponeva in passato. Ma è, comunque, ancora molto popolare (41,7% di giudizi positivi). E la sua formazione politica, il FLI, nelle stime elettorali, ha superato il 6%. Attingendo voti da centro-sinistra, ma anche da destra. Dove intercetta il consenso di molti "vecchi" elettori di AN che non hanno mai accettato l'ingresso nel PdL. Il partito del premier, dunque, paga la delusione dei settori più tiepidi della propria base e il disamore dei nostalgici di AN. Non a caso, il PdL pare tornato al livello di consensi elettorali ottenuti nel 2001 da Forza Italia. Da sola.

3. Sulla sfiducia verso il premier e il principale partito di governo pesa anche la sensazione di instabilità politica, in un momento particolarmente grave per l'economia. Infatti, la maggioranza (per quanto ridotta) degli elettori pensa  -  realisticamente  - che la legislatura finirà prima della scadenza. Per colpa di Berlusconi.

4. Parallelamente, si percepisce un certo fastidio per il divario abissale tra i problemi della società (soprattutto il lavoro) e i temi del dibattito politico - imposti dal governo e dal premier. La polemica con Fini, il conflitto infinito con la magistratura. Verso cui, non a caso, cresce sensibilmente la fiducia dei cittadini. Mentre il consenso nei confronti del Presidente Napolitano (80%) testimonia quanto sia ampia, nella società, la domanda di stabilità e di moderazione. In questa fase precaria ed esagerata.

5. La Lega, per la prima volta dopo tanto tempo, perde qualcosa nelle stime elettorali. La tecnica di presentarsi come partito di opposizione e di governo, praticata dalla Lega con grande abilità, forse, comincia a logorarsi. E a logorare. D'altronde, è difficile partecipare a un governo impopolare senza venirne, in qualche misura, contagiati. Chiamarsi dentro e fuori, a seconda del momento. Reclamare il voto un giorno sì e l'altro anche. Senza far seguire alle minacce comportamenti coerenti. Rischia di far perdere credibilità. Anche il federalismo, evocato e invocato, dalla Lega. Non si sa quando e se arriverà. Ed è visto come un pericolo da metà del paese. Il Sud. Dove la Lega non prende voti. Ma il PdL sì.

6. Questo clima di instabilità coinvolge anche il resto dello schieramento politico. L'Udc tiene. Ma non cresce. Non pare in grado di imporre l'alternativa di Centro. Perché il Centro, da solo, non è ancora alternativo. Costruire il Partito della Nazione, insieme a FLI, API e altri soggetti, come ha annunciato Casini, potrebbe allargare la concorrenza, invece dei consensi.
Anche a Centrosinistra il gioco è aperto. Soprattutto a Sinistra. Dove il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo e il Sel di Nichi Vendola fanno concorrenza soprattutto a Di Pietro. Il quale, per la prima volta, dopo molti anni, perde consensi, nelle stime elettorali.

7. Nel centrosinistra, la competizione si è aperta anche per quel che riguarda la leadership. Bersani, tutto sommato, tiene. Ma in testa alle preferenze degli elettori di Centrosinistra oggi troviamo Vendola e Chiamparino. Praticamente alla pari. A ridosso di Tremonti (anch'egli candidato alla leadership. Del Centrodestra). Un buon segnale in vista delle primarie annunciate, in caso di elezioni. Se saranno primarie vere...
In generale, come diceva qualcuno prima di noi, c'è grande disordine sotto il nostro cielo. Annuncia grandi cambiamenti. Non è detto che le cose, in seguito, andranno meglio. Ma peggio di così ci pare francamente difficile.
 

(13 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #184 inserito:: Settembre 20, 2010, 09:13:52 am »

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L'eterno ritorno dal trasformismo

di ILVO DIAMANTI

VIVIAMO tempi di grande cambiamento. Di grande trasformazione. Anzi: trasformismo. E dunque di grande continuità, nel Paese di Depretis, del Gattopardo, della Dc e del "consociativismo". Dove da settimane si assiste al tentativo di formare un nuovo gruppo parlamentare, che entri nella maggioranza di governo. Il reclutatore è l'onorevole Nucara, (sedicente) repubblicano (col tempo, si sa, le antiche sigle, anche le più gloriose, perdono significato), su incarico del premier.

Il quale, per primo, aveva sollecitato la transumanza di parlamentari di altri gruppi verso la maggioranza. Garantendo riconoscenza e ricchi premi. Cioè, la ricandidatura e la rielezione. Magari qualche carica di sotto-governo. Alcuni parlamentari contattati parlano di altri incentivi, più concreti e diretti. Insomma, si è aperto una sorta di mercato. Anzi, forse esiste da sempre, visto che pressioni del genere pare ce ne siano state anche al tempo del governo Prodi. Il premier, riferendosi alle nuove reclute, ha obiettato che non si tratterebbe di pentimento  -  o di trasformismo. Le conversioni più numerose, infatti, riguarderebbero parlamentari già eletti con la maggioranza. In questo caso, però, non si capirebbe perché vi sia bisogno di reclutarli. Se non perché nel centrodestra sono confluiti gruppi locali e personali, uniti da interessi puramente elettorali. Oggi, però, il gruppo dei "responsabili"  -  così si definiscono, con molta autoironia inconsapevole, i convertiti  -  è divenuto utile, per neutralizzare l'azione di Fini e Fli. I quali appaiono, al premier, "irresponsabili". Anzi: "dissennati", come li ha definiti sabato. Anche se sono alleati del Pdl e di Berlusconi. Fino a prova contraria.

Insomma, siamo in uno "Stato di confusione". Fondato sul "voto di scambio". Così, Arturo Parisi e Gianfranco Pasquino, oltre 30 anni fa, definirono la conquista  -  e l'acquisizione  -  degli elettori attraverso l'offerta di benefici individuali. Solo che oggi il "voto di scambio" si è trasferito dalla società al Parlamento, dove si pratica e si professa apertamente. Non vogliamo, in questa sede, fare esercizio di sdegno. Peraltro utile e salutare, in tempi nei quali lo sdegno sembra divenuto un atteggiamento démodé. Ci interessa invece indicare, succintamente, i fattori che hanno accelerato la trasformazione trasformista del Parlamento.

1. La prima causa riguarda, ovviamente, il sistema politico italiano. Incapace di generare maggioranze stabili, in grado di governare. E opposizioni forti, in grado di proporre e garantire l'alternativa. La coalizione di centrodestra guidata da Berlusconi ha conquistato la maggioranza parlamentare più ampia nella storia della seconda Repubblica. Non è bastato, se due anni dopo è alla caccia di nuovi deputati e senatori. Per bilanciare Fini, peraltro eletto nel partito di maggioranza relativa, il Pdl, che non c'è più. Non lo dice solo Fini. La pensa così circa un terzo dei suoi elettori, secondo i quali sarebbe meglio tornare ai partiti di prima: Forza Italia e An (Sondaggio Demos, 7-10 settembre, 1176 casi).

2. Il premier, peraltro, non ha intenzione di aprire la crisi. Teme che si formino altre maggioranze a sostegno di altri governi (cosiddetti tecnici). Ma soprattutto teme il voto anticipato. Così, invece di ri-conquistare gli elettori, preferisce conquistare nuovi parlamentari. Con il voto di scambio.

3. Ovviamente, questo gioco è reso possibile dalla debolezza dell'opposizione. Non riesce a fare opposizione a questa iniziativa e, in genere, all'azione di governo. Nella fase di maggior divisione del Pdl e di Berlusconi, non trova di meglio che dividersi a sua volta.

4. Tra i fattori più importanti di questa degenerazione c'è, sicuramente, l'assenza del principio di "responsabilità" degli eletti. I quali non sono e non saranno mai chiamati a "rispondere" direttamente e personalmente del proprio operato. Questa legge elettorale ha abolito ogni tipo di legame fra eletti ed elettori. Non ci sono le preferenze, non ci sono collegi uninominali, dove il rapporto con il territorio e la società è diretto. Il destino dei parlamentari è in mano ai leader e alle segreterie nazionali. A cui spetta la costruzione delle liste. Naturalmente bloccate.

5. È, inoltre, difficile dimenticare la debolezza dei valori, dei programmi, dei progetti su cui si fondano i partiti. Ridotti, perlopiù, a oligarchie distanti dalla società. O ad aggregati al servizio di un leader. Privi di fondamento dal punto di vista sociale, territoriale e dell'identità. Per chi ne fa parte, i vincoli etici e di rappresentanza rischiano di contare meno degli interessi e delle convenienze personali.

Questa fase di trasformazione trasformista produce alcune conseguenze significative. Ne indichiamo due.
a. La prima agisce sul piano civico e sociale. Gli italiani: non hanno mai avuto grande fiducia nella politica e nei politici, nello Stato e nelle istituzioni. Questa deriva trasformista non fa che accentuare questo atteggiamento. Non ci si scandalizza quasi più di nulla. In particolare, si è affermata la convinzione che tutto sia lecito, pur di governare. Che le maggioranze si possano fare e disfare a piacimento. È solo questione di prezzo. Che le elezioni non servano. Tanto poi, in Parlamento, tutto si fa e si disfa. Maggioranze e partiti. Al di fuori di ogni responsabilità politica e personale. È solo questione di prezzo.

b. La seconda richiama direttamente l'ambito politico. Questo mercato dei parlamentari, nel caso il governo dovesse cadere, giustifica la ricerca di maggioranze diverse. Magari a sostegno di governi tecnici e di emergenza. (Lo ha affermato anche Casini a Sky, intervistato da Maria Latella.)

Infine, una considerazione.
Se il Parlamento rappresenta i cittadini, se la maggioranza di governo rappresenta la "volontà popolare". E se la rappresentanza, in fondo, è come uno specchio. Allora è meglio che lo specchio vada in mille pezzi. In altri termini: occorre cambiare questa legge elettorale, che alimenta l'irresponsabilità degli eletti. Con ogni mezzo. Per non perdere gli occhi e l'anima guardandosi allo specchio.

(20 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #185 inserito:: Settembre 27, 2010, 04:02:45 pm »

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Un governo che non fa ma che "dice" di fare

di ILVO DIAMANTI

"A questo punto è cambiato tutto. Nessuno può pensare che il quadro politico resti a lungo lo stesso". Per Gianfranco Fini si è tratto di un vero e proprio "day after". Il videomessaggio di sabato è stato vissuto come un momento di passaggio.

È sottinteso che i politici sono gli altri: nemici e traditori, perché lui - si sa - non è un politico, ma un imprenditore. Che fa politica da 17 anni, ma per il bene comune. Il Premier parla come se intorno a lui nulla fosse accaduto, in questi due anni e mezzo. Un silenzio rotto da scandali e polemiche, che si susseguono senza soluzione di continuità. Ultimo atto, per ora, le dichiarazioni di Fini sull'appartamento di Montecarlo. Video-registrate e trasmesse sul web. Fini, in verità, non ha chiarito molto, circa le vicende che lo riguardano. Ha ribadito la propria buona fede e ha inveito, a sua volta, contro lo spettacolo della politica. Deprimente. (Nessuno, davvero, che ammetta di farne parte). Pronto a dimettersi, se le accuse nei suoi confronti venissero confermate. Fini si è scagliato, anch'egli, contro l'aggressione mediatica. Solo che, in questo caso, si tratta dei media vicini al Premier e al governo.

Sorprende, quindi, che il Premier rivendichi il silenzio, come stile di lavoro, mentre intorno a lui il rumore si fa sempre più forte. D'altronde, più che "fare", questo governo "dice". E i fatti che, in questi due anni e mezzo, ha esibito, come esempi di concretezza ed efficacia, sembrano, in molti casi, ancora "da fare". Rammentiamo. Il governo ha usato, come prove di "rendimento" della propria azione, le emergenze affrontate. Associate a luoghi noti. Devastati. Città sconvolte. Paesaggi stravolti. Napoli sepolta dall'immondizia. L'Aquila distrutta dal terremoto. E poi, la crisi economica. La disoccupazione in crescita. Anche in questo caso: un'emergenza concreta, visibile, come gli operai senza lavoro e le imprese che chiudono. Questioni drammatiche, puntualmente risolte.

Oggi gli stessi luoghi ritornano. Ma offrono un'immagine poco diversa da allora. Napoli ancora sepolta dai rifiuti. Le discariche stracolme, i camion bruciati. All'Aquila, gli abitanti che protestano per una ricostruzione che tarda a venire (o partire?). Un anno e mezzo dopo la tragedia, la città è ancora disseminata di rovine. Molti residenti: confinati altrove. Gli scandali hanno gettato sospetti pesanti sulla Protezione Civile. Mentre la confusione aumenta. Al punto da indurre il sindaco dell'Aquila, Cialente, vicecommissario vicario alla ricostruzione, a dimettersi. In polemica con la sovrapposizione di nomine e i ritardi negli interventi. Provocando la reazione di Berlusconi. Che ha definito la scelta di Cialente inopportuna. Contraria alla filosofia del "fare" che ispira il Premier. Costretto, invece, a dire e a polemizzare. Contro il sindaco di una città-simbolo. Contro i media che non ammettono e non "dicono" quanto di buono abbia fatto il governo. E contro Confindustria, che per bocca della presidente, Emma Marcegaglia, ha affermato di aver quasi perduto la pazienza. Perché è venuta "l'ora di agire". Dopo tante parole: dal governo si attendono i fatti. E Bossi le replica che "in questo Paese molti parlano e pochi sanno cosa fare". Appunto.

A metà legislatura, si parla molto dei fatti. Ma è difficile capire a cosa ci si riferisca. Anche perché i luoghi di cui si discute, si sono spostati altrove. Lontano dall'Aquila e da Napoli. Oggi le polemiche si concentrano su altre città, che evocano altri problemi. Montecarlo e Santa Lucia. Che non è un quartiere di Napoli, ma un'isola (e uno stato) dei Caraibi. Se ne occupano i politici - e i media - della maggioranza per incalzare Fini, presidente "abusivo" della Camera. Indegno e traditore. A capo di una corrente, forse un partito. Che, tuttavia, appartiene alla maggioranza. Fino a prova contraria.

Così, il dibattito politico, da mesi, insiste su un appartamento che un tempo era di An. Acquistato non si sa da chi. Forse dal cognato di Fini. Forse no. Mentre prima tutto girava intorno al tema delle intercettazioni. Sgradite al Premier. Al "governo del fare", alla maggioranza silenziosa - che "fa in silenzio" (ma, in compenso, parla anche troppo al telefono). E non si perde in polemiche sterili. Ma va alla conquista di nuovi volti e nuovi voti in Parlamento. Per rendere ininfluente il sostegno di Fli. Perché altrimenti la maggioranza, questa maggioranza, rischia di non essere tale. Cioè: maggioranza. Ma questa maggioranza, la più larga della storia della Seconda Repubblica (ma, al tempo stesso, divisa come le precedenti), due anni dopo le elezioni, si interroga, un giorno sì e l'altro anche: se sia il caso di aprire la crisi, di votare di nuovo. Altrove, quando il governo arranca e "dice" di fare - invece di fare piuttosto che dire. Quando spende tante parole per dire che preferisce il silenzio. Quando trascorre il tempo a dividersi e a combattersi all'interno. Normalmente, l'opposizione avanza. Ci guadagna. Sfidata, semmai, da soggetti antipolitici. Qui, però, non avviene. L'opposizione la fanno Fini e Confindustria. Tuttavia, il Centrosinistra deve rassegnarsi alle elezioni. Non tarderanno troppo. Perché - per usare le parole del Premier - la politica è un disastro, la stampa nemica e Fini un traditore. E non c'è peggiore opposizione di quella amica. Per cui il Centrosinistra, l'Ulivo, oppure il Centro-Sinistra-con-il-trattino, a seconda degli scenari, si deve preparare. Presto. Deve provare a scrivere una nuova legge elettorale - con chi ci sta. Se è possibile. E se non lo fosse, deve, comunque, costruire un'alternativa credibile. Al di là dei programmi e dei progetti, al di là delle critiche al governo e al Premier (per quello ci sono già i loro alleati): basterebbe proporre una leadership condivisa. Un candidato comune. Presto. Sappiamo bene che non è poco. Che siamo monotoni. Ma a noi non dispiace ripeterci, se è utile. E non ci rassegniamo. A questa narrazione irreale della realtà.

(27 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #186 inserito:: Ottobre 04, 2010, 12:03:59 pm »

L'ANALISI

Alla sinistra della delusione

di ILVO DIAMANTI


A SINISTRA del centrosinistra i consensi crescono. Ormai si aggirano intorno all'11%. Più che di una novità, si tratta di un ritorno. Alle elezioni politiche del 2006, infatti, le formazioni a sinistra della sinistra (da qui: Sinistra) avevano, infatti, superato il 10%. In termini assoluti: circa 3 milioni e 900mila voti. Alle consultazioni del 2008, però, quest'area si riduce al 3%. Tutti compresi: Rc, Comunisti Italiani, Verdi, più le nuove formazioni uscite dai Ds dopo la nascita del (e la confluenza nel) Pd. Il che significa: 7 punti percentuali e 2 milioni e settecentomila voti meno del 2006. Più che un calo: un tracollo. Le cui ragioni sono diverse e, in parte, note.

1. In primo luogo, la strategia del Pd di Veltroni, che  -  come Berlusconi - interpreta il bipolarismo in senso bipartitico - o quasi. Da un lato il Pdl insieme alla Lega, dall'altro il Pd alleato con l'Idv di Antonio Di Pietro. La legge elettorale, che premia la coalizione vincente, spinge molti elettori della Sinistra  -  per non "sprecare" il voto  -  a scegliere il Pd e (in maggior numero) l'Idv. Ma, soprattutto, ad astenersi.

2. La Sinistra, inoltre, paga la posizione ambigua assunta durante il governo Prodi. Sempre in bilico tra maggioranza e defezione.

Rispetto al 2006, il Pd cresce di 2 punti e, in termini assoluti, di neppure 200 mila voti. Mentre l'Idv supera il 4% e aumenta di 700 mila voti. In sintesi: dal bacino elettorale di centrosinistra scompaiono circa 2 milioni di elettori di Sinistra.

Oggi, due anni dopo, la Sinistra sembra ritornata oltre il 10%. Rifondazione e i Comunisti Italiani, in realtà, non vanno oltre  il 2%. Ma Sinistra e Libertà (Sel), guidata da Nichi Vendola, raggiunge il 5%. E il Movimento 5 Stelle, ispirato da Beppe Grillo, supera il 4%. Si tratta di tendenze rilevate dai principali istituti demoscopici. Parallelamente, i maggiori partiti di centrosinistra appaiono in difficoltà. Il Pd sembra sceso sotto la soglia critica del 26%. Anche l'Idv, però, ha smesso di crescere e si è attestata intorno al 6-7%.

Il ritorno della Sinistra, trainato da SeL e dal Movimento 5 Stelle, sembra favorito, soprattutto, da due motivi.

a. Hanno, entrambi, una (sola) leadership: forte e personalizzata, anche se espressa da figure molto diverse. Nichi Vendola ha una lunga storia politica e di partito. Viene dalla Figc, ha militato nel Pci e in Rc. È presidente di Regione. Mentre Beppe Grillo è un outsider della politica. Uomo di spettacolo, anch'egli una lunga esperienza alle spalle. Entrambi figure di "rottura". Vendola, comunista e omosessuale, ha fatto della sua diversità un elemento "normale", perché non esibito. Ma per questo più provocatorio, politicamente. Ha ulteriormente legittimato la sua "diversità" sfidando il gruppo dirigente del Pd che non lo voleva candidato alla guida della Puglia. Grillo, da tempo, agisce "in proprio". Al tempo stesso attore e predicatore, riempie le piazze e i teatri, mettendo in scena la denuncia all'establishment politico, economico e finanziario. È un grande comunicatore. Come Nichi Vendola, in grado di parlare al "popolo". Non solo di sinistra.

b. Entrambi dispongono di un'efficiente comunicazione post-politica (per citare Berselli). Condotta attraverso Internet, accompagnata da mobilitazioni tematiche. Grillo: riferimento di una rete di blog e MeetUp tra le più frequentate al mondo. Promuove manifestazioni affollate e di grande visibilità. Da ultimo, la Woodstock 5 Stelle che si è svolta a Cesena una settimana fa. Vendola: a sua volta, ispiratore di una lunghissima e frequentatissima catena di blog e di pagine su Facebook. La sua Fabbrica (echeggia quella di Prodi) è diffusa sul territorio nazionale.

c. Entrambi  interpretano la personalizzazione mediatica della politica, imposta da Berlusconi. In modo, ovviamente, antagonista. Non indulgono alle mediazioni politiche e linguistiche. Non ne hanno bisogno (per ora).

d. Entrambi i partiti  dispongono di una base di militanti e di elettori molto diversa da quella del Pd e di Idv. Più giovane e istruita, maggiormente addensata nei centri urbani. Quanto a Sel: spostata a Sud.

Peraltro, le differenze tra i due soggetti sono significative. Nichi Vendola considera il centrosinistra la sua "casa". Il Pd l'interlocutore naturale. E gli elettori del Pd, peraltro, lo guardano, a loro volta, come un possibile leader della coalizione. Mentre il Movimento 5 Stelle ha, come riferimenti, i comitati del No (Tav, Dal Molin, Global, ecc...). Oltre a settori sociali apertamente anti-politici (ammesso che il termine abbia un significato). Non a caso, quasi un terzo dei suoi simpatizzanti si pone "fuori" dallo spazio Destra/Sinistra. Non a caso, peraltro, alcuni "militanti" di 5 Stelle si sono resi protagonisti di contestazioni clamorose durante la Festa nazionale del Pd, a Torino.

Questo scenario pone, peraltro, significativi problemi: ai principali partiti di Centrosinistra ma anche a quelli della Sinistra.

1. Sel e 5 Stelle appaiono pericolosi concorrenti per l'Idv. A sua volta, un partito personale  -  o, almeno, molto personalizzato. Che ha fatto dell'antagonismo a Berlusconi il distintivo.

2. Al Pd, invece, l'esempio della Sinistra  rammenta ciò che gli manca, in questa fase difficile. Anzitutto, una  -  "una" - leadership personale forte e condivisa. Poi: temi chiari  -  "chiari" - intorno a cui comunicare la proposta politica. (Per comunicare in modo efficace, occorre sapere "cosa" comunicare.) Ancora: un'organizzazione aperta e flessibile. In grado di  mobilitare. Perché "personalizzazione" non significa scomparsa delle persone e della società.

3. Quanto alla Sinistra, il problema principale riguarda la "tenuta". 5 Stelle viaggia sulla rete. Sel è strutturata per esperienze diffuse, ma ancora poco radicate. E presenti soprattutto nel Sud. Per garantirsi stabilità, però, occorre stare sul territorio. Le mobilitazioni fondate sul No (-B) non bastano. Talora (come quella Viola, di sabato) neppure mobilitano troppo.

4. C'è, infine, la questione delle alleanze. Riguarda tutti: Sinistra e Centrosinistra. Oggi e soprattutto domani. Quando (presto, immaginiamo) si andrà a  nuove elezioni. Con quali alleanze? Perché se il Centrodestra è diviso, il resto dello spazio politico rischia di esserlo molto di più. Con questa legge elettorale: premessa di sconfitta sicura. Gli spazi  -  e i seggi  -  rischiano di ridursi per tutti. Anzitutto per il Pd. Ma il Centrosinistra e la Sinistra sono disponibili a cercare e a costruire alleanze, tra loro e, se necessario, con i partiti di Centro e la "Cosa" di Fini? La questione, probabilmente, non interessa Grillo e 5 Stelle. Ma avrebbe conseguenze anche per loro. Fare  -  comunque, apparire -  un'opposizione sterile, come il Pd in questa fase, è frustrante. Ma la tentazione  -  diffusa nella Sinistra - di fare opposizione "a prescindere", non per vincere e governare. Alla lunga  -  e forse anche alla breve  -  logora. E rischia di fare apparire la Sinistra - ai suoi stessi elettori - "inutile".

(04 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #187 inserito:: Ottobre 21, 2010, 11:11:42 pm »

Paura del silenzio

Ilvo Diamanti

Ieri ho partecipato al funerale di un amico di famiglia. Se n'è andato dopo una malattia lunga e penosa, per sé e per i propri cari. La Chiesa era molto affollata, visto il giorno e l'ora. Nei paesi, d'altronde, la gente si conosce bene. I riti che scandiscono vita e morte sono ancora seguiti. Un segno di coesione sociale. Comunque, un tentativo di riprodurre la comunità. A fine cerimonia, mentre la bara attraversava la Chiesa, spinta dai necrofori, è scattato l'applauso. Immancabile. Ormai, fa parte, anch'esso, della cerimonia. È un rito. L'applauso dopo la morte, nell'ultimo tratto di percorso prima della sepoltura. Invece del silenzio di un tempo: un applauso lungo. Quasi caloroso, per smorzare il clima rigido. E grigio. È come non ci fosse più indulgenza per il silenzio. Neppure di fronte alla morte. Nessuna tolleranza, neppure per la tristezza. Occorre sopirla in fretta, rompere il silenzio. Con l'applauso. Che, certo, fa sentire l'affetto dei presenti ai familiari. Ma serve anche e, forse, soprattutto, a consolare gli altri. Noi. Incapaci di sopportare il silenzio e la tristezza. Così ci immerge in mezzo ai suoni e al fragore. Dovunque e in ogni momento del giorno. Anche quando si cammina: le cuffie e l'iPod ci isolano dagli altri. Sperduti nella musica che gira intorno.

La morte, il dolore: diventano accettabili solo come spettacolo. Come avviene, da giorni, per il caso della povera Sarah Scazzi. Su cui tutti si interrogano Davanti alla tv. Aprendo i giornali. A ogni ora del giorno. La morte altrui:
esorcizzata trasformandola in un feuilleton. Un'inchiesta noire, a cui milioni di persone assistono in diretta. Minuto per minuto. Entrano nella casa dell'assassino  -  presunto. Scrutano nel volto dei parenti delle vittime. Si interrogano sui moventi e sui movimenti. La "morte in diretta" (e  -  più ancora - "in differita", come ha scritto Aldo Grasso) permette a tutti di esorcizzare la morte. Lo "spettacolo del dolore" permette a tutti di esorcizzare il dolore. Così, la televisione diventa "la nuova terra del rimorso" (per citare Francesco Merlo). Dove il rimorso è un'eco debole e lontana.  Un suono sottile in mezzo al rumore. Dove il dolore privato genera inquietudine. Per cui viene "messo in scena": diventa pubblico. Esibito in mezzo a persone che diventano, a loro volta, "pubblico". Così, in Chiesa, alla fine del rito funebre, si applaude.  Per paura del silenzio. Lo spettacolo è finito. Andate in pace.

(21 ottobre 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2010/10/21/news/paura_del_silenzio-8313760/?ref=HRER3-1
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« Risposta #188 inserito:: Ottobre 25, 2010, 05:25:14 pm »

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Tv, la "vita indiretta" degli italiani a picco la fiducia in Tg1 e Tg5

Secondo il sondaggio Demos-Coop sull'informazione vanno bene Sky e La7.

Ballarò il talk show più affidabile.

Il 55% pensa che il peso di Berlusconi sui media danneggi la libertà

di ILVO DIAMANTI


ORMAI è difficile distinguere fra media, politica e vita reale. È quasi un luogo comune. Tuttavia, è inevitabile, soprattutto in questi giorni. Mentre infuria il dibattito sulla censura ai programmi e ai giornalisti in televisione. Sui giornali-partito oppure al servizio dei partiti (personali). Mentre imperversa lo spettacolo quotidiano del dolore. Il sondaggio annuale sugli "italiani e l'informazione", condotto dall'Osservatorio Demos-Coop, d'altronde, offre una raffigurazione perfino "spettacolare" di questo Paese sospeso tra realtà e rappresentazione.

Ne isoliamo gli aspetti, a nostro avviso, più significativi.
1. Il primo riguarda, non a caso, il ruolo (ancora) dominante della televisione. Oltre 8 italiani su 10 continuano, infatti, a informarsi quotidianamente in tivù, attraverso i canali nazionali. È stabile, rispetto all'anno scorso, la quota di persone - una su tre - che ricorre regolarmente ai quotidiani. Lo stesso discorso vale per internet. Mentre gli ascoltatori assidui della radio non solo tengono, ma crescono perfino un poco (43%: tre punti in più). Dunque, si profila uno scenario stabile. Nell'insieme, però. Perché all'interno si colgono cambiamenti molto significativi.
2. La variazione più evidente rispetto allo scorso anno coincide con il sensibile calo di fiducia subìto dai maggiori telegiornali di Rai e Mediaset. Ormai condividono lo stesso destino, come una sola, unica impresa: MediaRai. La fiducia verso il Tg 1 si attesta al 53%. Cioè, 10 punti meno di un anno fa, ma addirittura 16 rispetto al 2007. Il Tg 5 considerato "affidabile" dal 49% degli italiani: 8 in meno dell'anno scorso. Anche gli altri telegiornali di MediaRai calano. Ad eccezione del Tg 3, che mantiene un consenso molto elevato (63%) e, ancor più, dei Tg regionali Rai. I più apprezzati.

Cresce, invece, il gradimento verso i Tg de La 7 (ora diretto da Mentana), Sky e Rai news 24 (quest'ultima, presumibilmente, trainata dal Tg 3, che spesso ne diffonde le edizioni). Il che spiega, in parte, l'andamento deludente dei principali notiziari di MediaRai, confermato anche sul piano degli ascolti Auditel. La concorrenza è favorita anche da altri fattori. Sky e La 7, in particolare, sono ritenuti, non a torto, meno condizionati politicamente. Il posizionamento politico penalizza, inoltre e non a caso, soprattutto il Tg 1, la cui identità, presso il pubblico, appare sensibilmente cambiata. Era al centro, anzi: il Centro. Un Tg ecumenico. Oggi, invece, appare sempre più spostato verso destra. Visto che ottiene il massimo della fiducia tra gli elettori del Pdl e della Lega. Il "nuovo centro", invece, appare Sky Tg 24. Anche se occupa uno spazio più ridotto. Come quello politico, d'altronde.

3. Al contrario dei notiziari, i programmi di dibattito e approfondimento politico e sociale non sembrano soffrire. Ballarò si conferma la trasmissione più affidabile per gli italiani. Ma Anno Zero, di Michele Santoro, nell'ultimo anno, ha visto crescere molto il gradimento del pubblico. Come, d'altronde, Report di Milena Gabanelli. Trasmissioni apprezzate soprattutto dal pubblico di centrosinistra, rivelano il paradosso di questo Paese, schifato dalla politica, che, tuttavia, sente bisogno di politica. E si rivolge, per questo, alla televisione. Non a caso, cresce il gradimento dei due programmi de La 7: Otto e mezzo, condotto da Lilli Gruber (6 punti in più nell'ultimo anno, addirittura 11 negli ultimi tre) e L'Infedele di Gad Lerner (anch'esso 6 punti in più nell'ultimo anno). Contribuiscono al successo della rete, dettato, soprattutto, dal ruolo attribuito all'informazione. Porta a Porta e Matrix vedono scendere, di poco, la fiducia nei loro confronti. Forse perché si tratta di programmi spostati, sempre più, in direzione dell'infotainment.
Un terreno battuto, in modo esplicito, da altre trasmissioni, che, anzi, antepongono l'intrattenimento e, talora, la satira. Con risultati molto significativi. Striscia e le Iene, ma anche il salotto di Fazio risultano molto graditi e ottengono ascolti super. Il che precisa ulteriormente il paradosso precedente. La politica e i politici sollevano il disprezzo ma anche l'interesse popolare. Fanno spettacolo. Raccontano i fatti nostri (e vostri).

4. Oggi, d'altronde, è difficile anche distinguere tra spettacolo e vita. Nell'omicidio di Sarah Scazzi, in particolare, i confini sono invisibili. La scena, ormai, è unica. Confusa. Affollata da personaggi numerosi e indistinti. I familiari e i congiunti della vittima, insieme a quelli dei presunti assassini e complici. Insieme ai conduttori e ai sedicenti opinionisti dei programmi del pomeriggio e della seconda serata. Poi i giornalisti. Gli inviati ad Avetrana. Embedded. Parte delle stessa rappresentazione. Certo: i programmi del pomeriggio hanno un pubblico ben definito. Donne, casalinghe, anziani e pensionati. Quelli che passano più di 4 ore davanti alla tivù ogni giorno. Ma abbiamo l'impressione che Avetrana sia divenuta teatro di uno spettacolo su cui tutti gettano lo sguardo, con attenzione diversa e intermittente.

5. L'importanza della tivù non deve fare dimenticare le trasformazioni prodotte dalle nuove tecnologie della comunicazione. Internet, i Social Network, Twitter e Facebook, Skype. D'altra parte, il 40% degli italiani - soprattutto giovani e istruiti - è, ormai, connesso quotidianamente in rete. Dove si informa, chatta, compra, vende, partecipa, "si mostra". È la comunità in Rete, che forza i confini della società ridotta a una platea di spettatori.

6. Eppure, mentre si assiste all'avvento dei nuovi media, il sondaggio dell'Osservatorio Demos-Coop sottolinea l'importanza dei media "tradizionali". Magari "innovati" e ibridati dalle nuove tecnologie, come avviene per i quotidiani online. Il che riproduce - e ripropone - l'immagine dell'Italia come un Paese, anzi: un "paese" raccolto davanti alla tivù. Dove si mette in scena lo spettacolo della vita, del dolore e del divertimento, della politica e della compassione. A cui tutti, o quasi, vorrebbero - e cercano di - partecipare. Se non da protagonisti, almeno da comparse. Di cui tutti si sentono parte. Per questo anche noi, come il 55% degli italiani, riteniamo che la posizione dominante di Berlusconi sui media danneggi la libertà di informazione. E, come il 62% degli intervistati, pensiamo che condizioni la vita politica nazionale. Tuttavia, siamo convinti che non basteranno leggi e regole nuove a ridimensionare l'influenza del Cavaliere. Perché viviamo in un paese mediale plasmato da lui. Pensiamo di assistere alla vita in diretta. E invece viviamo una vita indiretta.

(25 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #189 inserito:: Novembre 01, 2010, 11:58:25 am »

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L'Italia che si aggrappa alla famiglia

E' l'unico ammortizzatore sociale

di ILVO DIAMANTI

SENZA famiglia: cosa sarebbe l'Italia? Eppure, al di là delle promesse e dei proclami, continua ad essere dimenticata dalla politica e dalle politiche. Anche se resta il principale attore e ammortizzatore sociale. Pensiamo al lavoro. O meglio: al non-lavoro, che sta assumendo proporzioni preoccupanti. Soprattutto fra i giovani. Il tasso di disoccupazione giovanile, infatti, in Italia, supera il 26%: 6 punti più della media europea (dati Eurostat). Ma nel Mezzogiorno un giovane su tre è senza lavoro.

Diciamo cose note, non solo agli esperti. Non a caso, in Italia, la disoccupazione è in testa all'agenda dei problemi, secondo oltre metà della popolazione (Demos per Osservatorio europeo sulla sicurezza, settembre 2010). Eppure, il grado di reazione e di protesta sociale è ancora limitato. Soprattutto fra i giovani. Niente a che vedere con la Francia, dove l'innalzamento dell'età pensionabile da 60 a 62 anni ha provocato un ciclo di scioperi ampio e generalizzato, che paralizza il Paese da settimane.  Coinvolgendo i lavoratori di ogni settore, ma anche numerosi studenti  -  soprattutto dei licei. Preoccupati non tanto delle pensioni, ma del proprio incerto futuro. D'altronde, in Francia e ancora più in Italia, le prospettive dei giovani sono inquietanti. Per riprendere un'osservazione di Edmondo Berselli (nel saggio "L'economia giusta", pubblicato da Einaudi), "si è interrotto il ciclo galbraithiano, quel processo che permetteva a
ogni generazione di migliorare la propria condizione rispetto a quella precedente". Oggi, infatti, circa il 60% degli italiani ritiene, realisticamente, che i giovani avranno una posizione sociale peggiore rispetto a quella dei genitori.

Eppure i giovani non si ribellano. E neppure i loro genitori. Certo: la società è scossa da una sfiducia cronica.  Profonda e generalizzata. Verso tutto e tutti. Politica e politici, governo e opposizione, banche e banchieri, sindacati e associazioni di categoria. Stato e istituzioni. Gli italiani hanno perso fiducia perfino nella Chiesa. Tiene solo il Presidente della Repubblica. Di qualcuno bisogna pure fidarsi, d'altronde, visto che non ci si fida neppure degli "altri". Che ci potrebbero fregare  -  come pensano, in cuor loro, due persone su tre (Demos-Coop, 2009).  Eppure, per quanto affondati in un oceano di delusione, gli italiani sopportano. Perché? La spiegazione  -  non l'unica, ma certo la principale - è piuttosto semplice, ancorché non semplicistica. Visto che in Italia c'è un solo riferimento capace di sostenere e di tenere insieme una situazione tanto precaria e traballante.

La Famiglia. Sottoposta a tensioni demografiche, etiche, organizzative. Non è più quella di una volta. Però, nonostante tutto, il 90% degli italiani la considera ancora il riferimento più affidabile. Ne è soddisfatto quasi il 100% (indagini Demos-Coop: 2006-7). Se i giovani non si ribellano, pur navigando a vista, tra disoccupazione e precarietà, affrontando cicli scolastici e universitari dagli sbocchi sempre più incerti, è perché la famiglia li protegge. Per il futuro professionale: i giovani contano sull'aiuto dei parenti e dei familiari (per il 40% di loro, il fattore di successo nel lavoro più importante: indagine laPolis per Coop Adriatica, dicembre 2009). Gli stessi imprenditori, per affrontare il passaggio di generazione preferiscono "mantenere la proprietà e la gestione dell'azienda all'interno della famiglia". Come sostiene il 47% del campione intervistato quest'anno nell'ambito di una ricerca per Confindustria (Demos, gennaio 2010). Un anno prima la pensava in questo modo il 29%.

La crisi, evidentemente, ha rafforzato i legami più stretti. Anche perché il mondo della finanza e dei manager, diciamolo pure, non ha dato grande prova di sé in questi tempi. La famiglia. Di fronte al ridursi della spesa pubblica, ha aumentato il suo ruolo di welfare alternativo e sostitutivo rispetto allo Stato. Continua ad assumersi il peso principale nell'assistenza agli anziani (magari con la collaborazione delle badanti: ormai circa un milione, tra regolari e irregolari. Cfr. i dati Inps e le stime della Caritas e della Bocconi). Ma resta anche la principale rete di sostegno ai più giovani. Ai figli, che restano in casa sempre più a lungo; fin oltre i trent'anni. Anche se sono sempre di passaggio: fra studio, lavoro precario, stage, esperienze all'estero. E quando vanno ad abitare per conto proprio, perlopiù, si trasferiscono nell'appartamento di fronte, nella casa accanto, nella via poco più in là. Quasi tutti restano nei dintorni. Così i nonni si occupano dei nipoti e, a loro volta, vengono assistiti dai figli, quando ne hanno bisogno. Sono le "famiglie grappolo", di cui parlano i demografi Francesco Billari e Gianpiero Dalla Zuanna (La rivoluzione nella culla. Il declino che non c'è, Ed. Bocconi, 2008). Reti familiari dove si scambiano aiuti, tempo, risorse e servizi, in modo continuativo.

Ebbene, questa famiglia appare ormai sovraccarica di compiti e di funzioni, che affronta con crescente fatica. Anche al proprio interno. I figli lamentano che i genitori hanno perso autorità. Che gli anziani chiudono loro gli spazi di autonomia e di affermazione, nella vita, nella società, nel lavoro. Tuttavia, non si possono ribellare, visti i legami di reciproca dipendenza e necessità (ma anche di affetto). Sempre più stretti. Peraltro, la famiglia esercita, inevitabilmente, un'influenza "conservativa" sul piano sociale. Ciascuno protegge e favorisce i figli: nel lavoro, nella professione, nella carriera.

La famiglia: in Italia, più che altrove, è utilizzata come bandiera e ideologia dai soggetti politici. Ma, come sottolineano Daniela Del Boca e Alessandro Rosina (Famiglie sole, Il Mulino 2009), è, più che altrove, abbandonata dalle politiche sociali. Pochi servizi sociali alle donne che lavorano. Sul piano fiscale, poca (nessuna) attenzione per chi ha figli - e magari coniuge  -  a carico. È una famiglia "stressata", come ha rilevato l'ultimo rapporto del Censis. Impegnata a resistere con crescente difficoltà. Il filo residuo della tela logora di questo Paese logoro. Si sta logorando a sua volta. E rischia di spezzarsi.

(01 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #190 inserito:: Novembre 05, 2010, 11:26:34 am »

L'alluvione a Vicenza cronaca di una tragedia minore


Ancora non mi capacito. Di come il Bacchiglione abbia potuto allagare Cresole, località di Caldogno  -  casa mia. E le strade, le piazze del centro di Vicenza, proprio sotto al mio studio. Allagare, peraltro, è un eufemismo. Visto che si è trattato di un'alluvione disastrosa. Che ha provocato danni immensi. Alcune vittime. Migliaia di persone con la casa danneggiata, spesso in modo molto serio. Abitazioni affondate nel fango. Insieme a ciò che contenevano. E uffici, garage, automobili. Ieri, quando mi sono mosso da casa, un paio di chilometri dai luoghi alluvionati, ancora non me ne rendevo conto. Ma era impossibile circolare. Tutte le strade che percorro, quotidianamente, per recarmi a Vicenza oppure per raggiungere l'autostrada, a Dueville, bloccate.

E ancora non mi rendo conto di come possa essere accaduto. Il Bacchiglione - il fiume  che ha travolto tutto, da Vivaro a Vicenza, passando per Cresole e Rettorgole, località di Caldogno - io lo conosco bene. Quando ho tempo e il tempo lo permette, lo risalgo in bici, lungo il greto. Vi entro al confine con Vicenza, il Ponte del Marchese, al confine con il Dal Molin, l'area dove, un giorno dopo l'altro, con rapidità sorprendente (e inquietudine immutata), vedo sorgere la base americana.

Da lì risalgo. Da una parte il corso d'acqua, dall'altro la campagna. Arrivato a Cresole, attraverso la strada e proseguo ancora, fino a Vivaro. Poi, di nuovo, passo la strada e continuo, in mezzo ai campi, costeggiando il Bacchiglione. Che definire "fiume" è sicuramente esagerato. Lì è un torrente che puoi attraversare in molti, diversi punti. A piedi. Visto che l'acqua è poca. Consumata dai campi. Cambia nome spesso, il Bacchiglione. Quando si avvicina a Vicenza si chiama Livelòn. In alcuni punti, d'estate, diventa Livelòn Beach, dove molti vicentini vengono a bagnarsi  -  fare il bagno è un po' impegnativo. E a prendere il sole. Non riesco davvero a rendermi conto di come possa essere successo. Cosa abbia potuto trasformare il mio percorso salutista  -  che mi permette di stare per un poco solo con me stesso - in un fiume killer. Capace di travolgere tutto e tutti. Non è la valle del Nilo. Non ci sono colline che franano, intorno. Anche se sotto c'è un bacino di falde acquifere fra i più ampi d'Europa. Due giorni di pioggia improvvisa, battente e ininterrotta, insieme allo sciogliersi rapido delle nevi nelle montagne vicine (complici lo scirocco e un veloce rialzo della temperatura. Tutto ciò ha trasformato un torrente nel Nilo in piena. Inimmaginabile, per me. Anche se, in questi anni, ho visto  -  e raccontato  -  cose che voi umani...

Un territorio verde: urbanizzato senza limiti e senza regole. Caldogno, da quando sono arrivato, negli anni Ottanta, è passato da 4 a oltre diecimila abitanti. Nei prossimi anni dovrebbe superare il 20 mila. È la previsione che orienta le scelte urbanistiche. (Forse si attende l'arrivo degli americani.) Le strade, punteggiate di rotatorie, sempre più numerose. Spesso in punti incomprensibili: in mezzo ai campi  -  indicano che lì nascerà, presto, una nuova entità immobiliare. Un nuovo non-luogo abitato da stranieri. (Perlopiù "italiani"; ma stranieri perché estranei l'un l'altro.) E poi capannoni, zone artigianali e commerciali. E piscine, centri sportivi. Il territorio scompare, o comunque si nasconde. Non per caso avevo scelto quel torrente per i miei giri in bici. Ormai si tratta dell'unico percorso sicuro e tranquillo. Poche le piste ciclabili e sulle strade normali, anche le più periferiche, andare in bici è da pazzi. Io stesso, quando viaggio in auto, ne ho paura. E li "investo" ... di male parole. Difficile chiedere troppo ai fiumi  -  e alle loro imitazioni. Difficile chiedere ai torrenti di fare gli straordinari, di affrontare prove e sfide straordinarie. Di domare l'irruzione di piene improvvise e imprevedibili. Gli argini, spesso, non ci sono più. E, comunque, i campi intorno non tengono. Anche perché, in molti casi, "livellati" dai cavatori. Le case sono lì a due passi. Sempre più vicine. L'acqua, uscita dagli argini, arriva in un attimo. E quando scende verso Vicenza, sempre più tumultuosa, non incontra più l'ultimo rifugio, l'ultimo sfogo. Il Dal Molin. È  impermeabilizzato, messo in sicurezza. Oggi più che mai. Così l'onda scivola via. Prosegue sempre più grossa. E si abbatte su Vicenza senza ostacoli, senza freni, senza limiti. Gli amici di Vicenza che abitano presso Ponte degli Angeli dicono che tutto è avvenuto in fretta. Troppo in fretta. Quando hanno capito che l'acqua stava davvero uscendo dall'argine, scavalcava il ponte, invadeva piazza Matteotti, Santa Lucia e i dintorni. Era troppo tardi. Troppo tardi. Così come troppo tardi avevano capito quel che stava succedendo. Ora tutti cercano i colpevoli e si rimpallano la responsabilità,  ma nessuno poteva immaginare l'inimmaginabile. E nessuno poteva immaginare che l'ambiente era lì, pronto a chiedere il conto di tanti decenni di incuria. In modo tanto clamoroso e violento.

L'inimmaginabile, peraltro, resta ancora oscuro per gran parte degli italiani che abitano altrove. Perché i giornali "nazionali" ne hanno parlato poco  -  a pagina 20 della cronaca. Perché le tv "nazionali" hanno guardato la catastrofe con un certo stupore. Ma senza rendere l'effettiva drammaticità degli avvenimenti. Tanto che i miei amici, i miei colleghi che abitano nel mondo  -  e ancor più in Italia  -  non si sono resi conto di quel che è successo. Non saprei dirne la ragione vera. Forse perché, in fondo, si lamentano sempre, quelli del Nordest. Così, quando ce n'è davvero il motivo, non vengono presi sul serio. Se te la prendi sempre con Roma ladrona, Roma si vendica.  E quando chiami non ti sente. Forse perché resiste il mito del post-terremoto friulano; o del Vajont. Quelli abituati a fare da soli. Ad aggiustare i propri conti con le sfide del mondo e della natura senza chiedere aiuto agli altri. Così gli altri, quando ci capita qualcosa di grosso, non si accorgono di noi. Tanto siamo campioni dell'arte di arrangiarci.

Forse perché Vicenza, il Veneto, il Nordest sono terre lontane. Da Roma, ma anche da Torino e Milano. Periferia romana e padana. E poi, vuoi mettere i rifiuti di Napoli? Così, le grida si sentono poco. Echi lontani. E qualche ripresa. Qualche immagine. Persa tra le foto di Ruby, le avventure erotiche e le barzellette sconce di Berlusconi, le polemiche dell'opposizione, le inchieste infinite da Avetrana. L'alluvione di Vicenza. Un servizio a pagina 20 sui quotidiani e una notizia dopo dieci minuti di tigì, il giorno in cui avviene. Poi sparisce.

In fondo si tratta di una tragedia minore che si consuma in una provincia minore. Non merita un'inchiesta. Al massimo una cronaca. Minore.

(04 novembre 2010)
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« Risposta #191 inserito:: Novembre 09, 2010, 05:56:20 pm »

L'analisi

Il Nordest resta una periferia

Politica ed economia non hanno riscattato il territorio

di ILVO DIAMANTI


CONTINUA a piovere nel Veneto. A Caldogno, Cresole, Rettorgole Lobbia. E a Vicenza. Dove il Bacchiglione è esondato a Ognissanti. Ha sommerso case, botteghe, aziende, garage. L'acqua è arrivata improvvisa, violenta e limacciosa. Ha fatto danni pesanti.
Alle abitazioni, alle attività, alle cose. Alcune persone sono morte. Migliaia di sfollati. Al proposito ho scritto una Bussola (su Repubblica. it) quasi una settimana fa. In tempo reale. Come alcuni sanno, io abito a Caldogno, anche se il lavoro mi porta spesso - anzi: prevalentemente - lontano. L'alluvione mi ha sfiorato. Si è fermata a pochi chilometri da me. La strada che attraversa Rettorgole e si dirige a Vicenza ora è transitabile. Ma ai lati, ammassate, vi sono ancora le cose - mobili, elettrodomestici e altri oggetti - abbandonate dai residenti. Distrutte dall'acqua e dal fango.

La strada per Cresole, invece, è ancora chiusa. Vi transitano solo i residenti e i mezzi della protezione civile. Prima di arrivare a Ponte Marchese, al confine tra Caldogno e Vicenza, sulla destra si scorge il presidio dei No Dal Molin. Il Bacchiglione non l'ha risparmiato. "Presidia" la base americana, che, intanto, cresce a vista d'occhio.
Oggi quell'area, a differenza di un tempo, non funziona più da bacino dove si scaricano le acque del Livelon (così si chiama il Bacchiglione da queste parti) quando è in piena. È impermeabilizzata, per motivi di sicurezza. Così la "grande onda" è scivolata via, sempre più gonfia. E si è abbattuta su Vicenza senza ostacoli, senza freni, senza limiti. Quando si è capito che l'acqua stava davvero uscendo dall'argine, scavalcava il Ponte degli Angeli, invadeva piazza Matteotti, Santa Lucia e i dintorni: era troppo tardi per difendersi.

Ancora oggi il centro di Vicenza è sottosopra. Più sotto che sopra. Al di là dei danni - enormi - alle case e alle cose, l'inondazione ha inferto ferite profonde alle persone. Più che fuori: dentro. I vicentini: hanno perduto tranquillità e sicurezza. Oggi hanno paura dell'acqua. Cioè: di se stessi, del proprio mondo di vita. Perché anche Vicenza, Verona, Padova, Treviso - non solo Venezia - sono città d'acqua. Attraversate da fiumi, rogge, canali. Vicenza e l'area colpita dall'alluvione: galleggiano su un bacino di falde fra i più grandi d'Europa. L'alluvione della settimana scorsa ha suscitato inquietudine. Non che non ce ne siano state altre, prima. Molti ricordano - ed evocano - quella del 1966. Che ha provocato danni minori. E allora aveva piovuto molti giorni, dal 28 ottobre fino al 4 novembre. Questa volta sono state sufficienti 36 ore di pioggia improvvisa, battente e ininterrotta, insieme allo sciogliersi rapido delle nevi nelle montagne vicine (complici lo scirocco e un veloce rialzo della temperatura). Il Livelòn si è trasformato nel Nilo in piena. Inimmaginabile, per me - come per molti vicentini. Anche se, in questi anni, ho visto cose che voi umani...

Un territorio verde: urbanizzato senza limiti e senza regole. Le strade, punteggiate di rotatorie, sempre più numerose. Spesso sorgono isolate, in mezzo ai campi - indicano che lì nascerà, presto, una nuova entità immobiliare. Un nuovo non-luogo abitato da stranieri. (Perlopiù "italiani"; ma stranieri perché estranei l'un l'altro.) E poi capannoni, zone artigianali e commerciali, piscine, centri sportivi. Difficile chiedere ai torrenti di domare piene improvvise e imprevedibili. In molti punti, gli argini non ci sono più. I campi intorno non tengono. Non drenano. Anche perché, di frequente, sono stati "livellati" dai cavatori.

I vicentini temono che un evento come questo possa ripetersi ancora. Se son bastati due giorni di pioggia... Sanno, d'altronde, che, in parte, è il prezzo del successo. Meglio poveri e negletti, in un territorio sicuro e ameno - come trent'anni fa - o ricchi e famosi, ma anche più insicuri e in un ambiente deteriorato - come oggi? Il dilemma non è nuovo. Mai come ora, però, è divenuto tanto evidente, invadente e devastante.
C'è, però, un altro aspetto che ha sorpreso - e spiazzato - i vicentini (e i veneti). Il fragoroso silenzio dei media e della politica nazionale sul disastro che si abbatteva su di loro (noi). Il mitico Nordest. Nei giorni critici: relegato a pagina 20 dei quotidiani e a metà telegiornale. In coda ad Avetrana, ai rifiuti di Napoli, Ruby e gli scandali di Silvio. Per scomparire in fretta, all'indomani.

Così i veneti e i vicentini hanno scoperto che la loro immagine, il loro rilievo - in una parola: la loro "rappresentanza" - non sono migliorati negli ultimi 20 anni. Nonostante siano divenuti la capitale della piccola impresa e del lavoro autonomo. Il modello dell'"Italia che lavora e che produce". Nonostante siano andati al governo, insieme ai loro partiti di riferimento: il PdL e soprattutto la Lega. Nonostante abbiano eletto governatore Luca Zaia, con il 60% dei voti. Un plebiscito. Per diventare indipendenti come la Catalogna e la Baviera. Nonostante tutto questo, Vicenza, il Veneto, il Nordest non fanno notizia. L'alluvione (scrivevo una settimana fa su Repubblica. it) appare una "tragedia minore che si consuma in una provincia minore. Non merita inchieste. Al massimo una cronaca. Minore."

Alcuni lettori mi hanno scritto per lamentare altre tragedie rimosse. L'Italia è costellata di tragedie minori - dimenticate. Ma il Nordest, il Veneto, Vicenza: pensavano di essere diventati grandi. Un Centro. Non è così. Sono ancora Periferia. Romana e padana. Dove i leader romani e padani - Berlusconi e Bossi - si recano (oggi) quando tutto è finito. Quando l'acqua è rientrata nei fiumi. (Per ora.) Resta il fango nelle strade e nelle case. Rammenta che siamo ancora una terra di confine.
 

(09 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #192 inserito:: Novembre 15, 2010, 10:03:03 am »

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È finita la colla del Cavaliere

di ILVO DIAMANTI


Dietro al declino di Silvio Berlusconi si scorgono una maggioranza a pezzi e un Paese in briciole. Senza colla e senza cornice.
Perché Berlusconi era e resta l'unica colla e l'unica cornice per il suo partito, la sua maggioranza.

Per la base sociale che, per tanti anni, si è identificata in lui. La sua maggioranza. È a pezzi. Ormai da tempo. Da quando si è rotta l'intesa  -  fragile  -  con Gianfranco Fini. Che non ha mai accettato l'annessione di An. L'ha subìta, facendo buon viso a cattivo gioco. Ma il patto si è spezzato, ormai da mesi. Per ragioni politiche e personali  -  ormai impossibili da scindere in questa democrazia dell'opinione. Così oggi la maggioranza non ha più una maggioranza. La nascita di Fli, prima come gruppo parlamentare e poi come partito vero e proprio, ha ridotto il Pdl a un ex-partito. Spezzato. La maggioranza di governo: non c'è più. La regge solo la Lega. Finché le conviene. Pochi mesi, poche settimane, pochi giorni. Finché non riterrà la crisi di governo più costosa, politicamente, della mancata riforma federalista. Cioè, ancora per poco, immaginiamo. Ma già ora la Lega agisce come un partito esterno alla maggioranza di Silvio Berlusconi. Non risponde a lui. Non l'ha mai fatto, d'altronde. Ma ora ne prende apertamente le distanze.
E non accetta  -  ci mancherebbe  -  di vedersi ridimensionata dall'ingresso nel governo dell'Udc. La sua vera antagonista.

È a pezzi anche il Pdl, diviso all'interno. Dove Tremonti è percepito, ormai, come il vero premier. Riferimento per possibili maggioranze alternative. Gradito alla Lega, accettato dai centristi e da una parte del PD.

Ma il Pdl è diviso anche alla base. Nel Nord: soppiantato dalla Lega. Nel Mezzogiorno: incalzato da Fli. E dalle nuove leghe meridionali, soprattutto in Sicilia. Le stime elettorali più recenti (da ultime, quelle dell'Ipsos di Pagnoncelli e dell'Ispo di Mannheimer) sottolineano il declino del Pdl: ormai ben al di sotto del 30%. E suggeriscono che la maggioranza di centrodestra rischierebbe di non essere tale neppure alla prova del voto. PdL e Lega, infatti, non raggiungerebbero il 40%. Mentre i partiti di centro  -  Udc, Fli, Api, con il rinforzo di Montezemolo  -  otterrebbero intorno al 18%. Il PD  -  per quanto in affanno - e l'Idv, alleati alle sinistre, potrebbero perfino prevalere. Alla Camera. Mentre al Senato nessuna maggioranza appare possibile. Motivo che ha spinto Berlusconi ad avanzare la singolare idea, in un sistema a bicameralismo perfetto, di votare solo per la Camera. Tanto per dividere ancora di più le rappresentanze e le istituzioni.

Il fatto è che Berlusconi non è solo il leader di Fi, del Pdl e dell'attuale maggioranza di centrodestra. Ne è l'inventore. E l'unica colla. Senza di lui, questo progetto e questo soggetto politico non stanno insieme. Come non sta insieme l'Italia a cui egli ha dato rappresentanza ed evidenza. Perché Berlusconi, va ribadito, non ha vinto "solo" per merito delle televisioni e della sua capacità di usare  -  prima e meglio degli altri - il marketing in politica. Ma anche perché ha interpretato il cambiamento sociale  -  profondo  -  avvenuto in Italia negli anni Ottanta e Novanta. L'irruzione dei piccoli imprenditori del Nord, veicolata dalla Lega. A cui  Berlusconi  ha garantito cittadinanza politica e accesso al governo, ancora nel 1994. L'affermazione del capitalismo di "produzione dei beni immateriali" (per citare Arnaldo Bagnasco): finanza, comunicazione, assicurazioni. Queste tendenze che hanno imposto la logica del "mercato" negli stili di vita e nei modelli culturali, promuovendo l'avvento di una società di individui, orientati dai consumi e dai media. Berlusconi, a questa realtà sociale ed economica, ha offerto linguaggio, immagine, ideologia. Luoghi e canali di espressione e di comunicazione. In altri termini: rappresentanza e rappresentazione.

Oggi questa Italia non si riconosce più in lui. Né  Berlusconi è in grado di offrirle identità comune. D'altra parte, la crisi globale ha tolto credibilità al sistema del credito e della finanza. Non solo, ne ha acuito il contrasto con i lavoratori autonomi e i piccoli imprenditori. E poi la paura: generale e generalizzata, generata dalla crisi economica e dall'incombere della disoccupazione. La domanda di Stato sociale, di sostegno pubblico. Tutto ciò ha indebolito il ruolo di Berlusconi. La sua offerta di rappresentanza. La sua "ideologia del fare"  -  peraltro, puntualmente smentita dai fatti. Ha reso impopolare la sua interpretazione festosa e fastosa dell'uomo-che-si-è-fatto-da-sé. Così, si è assistito alla presa di distanza, nei suoi confronti, da parte degli ambienti che lo avevano, fin dall'inizio, guardato con favore.  Le associazioni imprenditoriali, alcune  organizzazioni di categoria e parte del mondo cattolico. Mentre si è allargato il disincanto sociale, sottolineato dal grado di fiducia verso di lui, sceso  -  oggi - ai minimi storici. Anche per questo assistiamo a un Paese che si sbriciola. Dove prevalgono i risentimenti sociali. Contro gli statali fannulloni, gli insegnanti impreparati, i baroni senza morale, i medici incapaci (e criminali). Mentre si è logorato il mito dell'italiano in grado di reagire a tutto, maestro dell'arte di arrangiarsi.  A cui  piace vivere bene, in un ambiente estetizzato da secoli di arte e di cultura. Più che a vivere, oggi, gli italiani - molti italiani - sono impegnati a sopravvivere.  Alla crisi economica. I giovani: alla precarietà. In un ambiente che cade a pezzi. Peraltro, mentre si celebrano i 150 dell'unità d'Italia, le tensioni territoriali crescono. Tra Nord, Roma, il Sud. Nel Nord e nel Sud.

A tutto ciò Berlusconi non sa e non riesce più a dare risposte unificanti. Non solo per ragioni "politiche" congiunturali. Anche perché sono in crisi la struttura sociale e il sistema di valori che egli ha interpretato per oltre 15 anni. Il problema è che le alternative  -  sociali, ma anche politiche  -  faticano ad emergere.  Per cui ci scopriamo spaesati, in un paese sbriciolato. Affollato di individui soli e vulnerabili. L'uscita dal berlusconismo - anche senza Berlusconi  -  si annuncia lunga e faticosa.

(15 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/15/news/diamanti_mappe-9119587/?ref=HREA-1
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« Risposta #193 inserito:: Novembre 18, 2010, 12:23:49 pm »

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L'Ulivo sorpassa il Pdl e Fini raggiunge l'8%

Nonostante i proclami di Berlusconi, la fiducia nei suoi confronti è la più bassa da due anni: il 32%.

E oggi il Pdl vale meno di Forza Italia nel 2001. Per questo il Cavaliere non vuole davvero le elezioni

di ILVO DIAMANTI


SILVIO Berlusconi non ha mai pensato di aprire la crisi, in queste condizioni. Venire "sfiduciato" dalla Camera, per chi è stato eletto con una larghissima maggioranza, appena due anni fa. Come spiegarlo agli elettori? Ma c'è un problema ulteriore e forse maggiore. Aggiungere alla sfiducia della Camera quella dei cittadini. Anche se Berlusconi continua a dire che il 60% degli italiani "è con lui", a noi  -  e non solo a noi  -  risulta un dato assai diverso: 32%. Meno di un terzo degli italiani. È ciò che emerge dal sondaggio dell'Atlante Politico di Demos, condotto negli ultimi giorni. Un grado di fiducia inferiore a quello di Bersani, ma anche di Tremonti, Casini, Fini. Solo Bossi è meno "amato" di lui. Ma il leader della Lega è, da sempre, uomo di "fazione" e di "frazione". Più che unire, divide.

Si tratta, per Berlusconi, del livello più basso negli ultimi due anni. Dalle elezioni politiche che lo hanno visto trionfatore, a capo del centrodestra. Per questo la prospettiva della crisi lo preoccupa. Teme la trappola dei "governi tecnici" e delle "larghe intese". Anche se invoca nuove elezioni, in caso di crisi, in realtà non le vuole. Non per ora, almeno. Le ritiene rischiose. A ragione, viste le stime elettorali di Demos. Che vedono il Pdl ridotto al 26%. (Meno di Forza Italia  -  da sola  -  nel 2001.) Mentre la Lega frena, pur superando il 10%. Insieme il centrodestra supererebbe di poco il 37%. Mentre il Pd, fermo alla soglia del 25%, insieme all'Idv, Sel (entrambe intorno al 7%) e alle altre formazioni di sinistra (Rc e Pdci), toccherebbe il 40%. Con questa legge elettorale, quindi, un centrosinistra "formato Ulivo" potrebbe perfino vincere (grazie al cedimento altrui), conquistando la maggioranza assoluta dei seggi. Alla Camera, almeno. Un'ipotesi, fino a poco tempo fa, comica più che irrealistica.

Al Senato, invece, il sistema elettorale non permetterebbe a nessuna coalizione di ottenere la maggioranza dei seggi. Vista l'ampiezza raggiunta, secondo le stime elettorali, dal Polo di Centro. Circa il 16%, contando, oltre all'Udc, il partito di Fini (e altre formazioni minori: Mpa e Api). Fli, in particolare, continua a crescere. Oggi è intorno all'8%. A (e con) dispetto del Cavaliere e dei suoi uomini. Soprattutto, i reduci di An. Fini, il "traditore". In grado di ridimensionare il Pdl e l'attuale  -  presunta  -  maggioranza. I dubbi sull'esito del voto, peraltro, si fanno strada anche fra gli elettori. Benché il 50% ritenga ancora probabile la vittoria del centrodestra e solo il 34% quella del centrosinistra. Un divario di 16 punti. Ma due mesi fa la distanza era ben più ampia: 33 punti (e gli elettori che scommettevano sul successo del Centrodestra erano il 57%).

Naturalmente, i sondaggi non sono elezioni. Ma, in effetti, Berlusconi li sa interpretare  -  e usare  -  molto bene. Magari li comunica "a modo suo". D'altronde, siamo in tempi di campagna elettorale permanente. E i sondaggi, oltre a rilevare le opinioni, talora le orientano. Ma oggi gli consigliano di attendere. Cercando di riconquistare la maggioranza. Intanto alla Camera, attraverso una pressante campagna acquisti. Poi, anche presso gli elettori. Preoccupati dall'andamento dell'economia. Delusi dai risultati del governo. Il federalismo annunciato e non ancora ottenuto. I "fatti" annunciati  -  senza grandi effetti. Le immondizie a Napoli: sparite in dieci giorni. E ricomparse dopo altri cinque. La ricostruzione dell'Aquila. Di cui i residenti non sembrano essersi accorti. E poi, la passione di Berlusconi per le donne e le ragazzine, ammessa senza scuse. Ma, anzi, rivendicata con un certo orgoglio (e un cenno di intesa. Come dire: in fondo voi siete come me, anche se non avete il coraggio di ammetterlo). I due terzi degli italiani la considerano un elemento di debolezza, per un leader. Anzi: il Leader. Il presidente del Consiglio.

Per questo, Berlusconi cerca di tirare avanti. Di allontanare  -  di un mese  -  la prova della verifica parlamentare, E spostare il voto a primavera, almeno. Intorno alla sua maggioranza, ormai minoritaria, le opposizioni si preparano. E lavorano: alla ricerca di alleanze e di leadership. Nel centrosinistra  -  soprattutto nel Pd  -  è ampia la voglia di ampie intese. Da sinistra fino al centro. Una Santa Alleanza per cacciare il tiranno. Ma, dovendo scegliere, fra gli elettori prevale nettamente l'ipotesi di ricostruire l'Ulivo. Cioè: di allearsi con le sinistre. In particolare con la Sel di Nichi Vendola. La maggioranza degli elettori di centrosinistra (30%), peraltro, vorrebbe il governatore della Puglia leader della coalizione. Un po' più ridotto (25%) il gradimento per Bersani, il quale resta, comunque, il leader di gran lunga preferito dalla base del Pd. L'alleanza privilegiata con il polo di Centro  -  secondo i dati dell'Atlante Politico  -  appare, invece, scarsamente apprezzata dagli elettori di Centrosinistra.

Reciprocamente, gli elettori di Centro non sembrano attratti da un'intesa con il Centrosinistra. Preferiscono di gran lunga l'autonomia. Correre da soli. Fare il Terzo Polo. Alla guida di Casini oppure di Fini. In misura molto più limitata, di Luca Cordero di Montezemolo (apprezzato, anche da una quota significativa di elettori del Pd).
Insomma, il sistema politico appare incerto e aperto, come mai lo era stato negli ultimi anni. Almeno dal 1994-96. Tutto appare in movimento. Le alleanze, le leadership e di conseguenza anche gli elettori. Un po' disorientati, di fronte a un'offerta politica fluida e instabile. Dove i partiti maggiori, due anni fa perni di un bipolarismo bipartitico, appaiono più provati degli altri. Il Pdl, fiaccato dalla defezione di Fini e dai dolori del (sempre) giovane Berlusconi. Mentre il Pd è in preda a una crisi deleteria, in parte incomprensibile. È troppo impegnato a macerarsi all'interno, a logorare ogni leader possibile, presente e futuro. A coltivare la propria eterna vocazione minoritaria e perdente. Così non si accorge che potrebbe diventare maggioranza e  -  perfino  -  vincere.
 

(18 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #194 inserito:: Dicembre 01, 2010, 05:35:25 pm »

C'era una volta l'Italia dei Comuni (e delle Regioni)


È sorprendente il divario, diciamo pure: l'abisso, fra il discorso pubblico e la realtà reale nell'Italia dei nostri tempi. Il Paese dei Comuni, delle cento (mille) città. Al tempo del federalismo, dell'autonomia del Nord, della Padania, del Partito del Sud  -  e, prima di tutto, della Lega Nord). Ebbene: da oltre vent'anni, mai come oggi si è avuta la sensazione del declino della dimensione locale. Dal punto di vista delle risorse e dei poteri. I Presidenti di Regione, più che Governatori, sembrano Direttori di ASL alle prese con i conti del settore sociosanitario  -  il 70-80% dei bilanci regionali. I Sindaci: costretti a rispondere ai loro compiti, alle domande dei cittadini (crescenti, in tempi di crisi), visto che le risorse calano, di anno in anno. D'altronde, i tagli della manovra finanziaria gravano, in larga misura, proprio su di loro: (sedicenti) Governatori e Sindaci. Regioni e Comuni. I Governatori: senza quasi più risorse per gestire la spesa sociale e i trasporti. Ma anche le attività produttive. I Sindaci, costretti a fare i conti con il taglio dell'Ici sulla prima casa. Promessa mantenuta da Berlusconi, al tempo della campagna elettorale (una delle poche cose effettivamente fatte dal governo del fare). Una perdita sensibile, che lo Stato compensa con trasferimenti, che arrivano in puntuale ritardo. Un anno e oltre. Mentre i decreti che dovrebbero attuare il federalismo fiscale attribuiscono ai
comuni poteri impositivi sull'edilizia poco chiari. E, comunque, in tempi poco chiari. Di certo, ne faranno dei grandi esattori, con regole e ripartizioni (con lo Stato centrale) piuttosto rigide, oltre che ipotetiche.

Oggi, intanto, i comuni sono costretti a tagliare sull'assistenza, sulla cultura, sul "sociale", sul volontariato. Il che è lo stesso, perché la cultura e l'assistenza, oltre, ovviamente, all'integrazione sociale, sono affidate, ormai in larga misura, al "volontariato" e, in senso lato, al Terzo settore. Il "patto di stabilità", peraltro, costringerà le amministrazioni virtuose, quelle che avevano risparmiato negli ultimi anni per investire nei prossimi, a pagare duramente il proprio impegno virtuoso. A "risparmiare", forzatamente, anche in futuro. Il federalismo fiscale, la Terra Promessa dalla Lega ai cittadini del Nord: procede a zig-zag. Se tutto andasse secondo le previsioni, entrerebbe a regime nel 2019. Cioè, "troppo tardi", rispetto agli obiettivi e ai problemi a cui dovrebbe rispondere (agirebbe come un farmaco scaduto e inefficace, ha osservato, di recente, Luca Ricolfi su "la Stampa").

L'Italia dei Comuni, delle Autonomie, oggi, è un Paese altamente centralizzato. E altamente frammentato. A molte e diverse velocità, dove ognuno corre per conto proprio, anche se con molti vincoli e molti ostacoli. Perché dipende da Roma, cioè dallo Stato centrale. La stessa Padania  -  per quanto virtuale - è un Paese che prevale  -  in modo reale  -  sui governi locali. Regioni e soprattutto Comuni. La capitale della Padania è, infatti, a Roma, dove operano i ministri  -  e leader  -  della Lega. Maroni, Calderoli. E soprattutto Bossi. Come gli altri partiti, d'altronde. Tutti "romani". Partiti personalizzati e centralizzati. Il PdL, o ciò che ne resta: una protesi di Berlusconi e dei suoi consulenti. Tanto che nel listino del Governatore della Lombardia, alle recenti elezioni, è stata inserita -  e quindi eletta  -  "l'estetista dentale" (professione di cui mi sfuggiva l'esistenza) del premier. Lo stesso PD: è governato dai gruppi dirigenti "nazionali", la cui influenza, sulla formazione delle liste  -  a livello locale e regionale  -  è determinante. Ma, in fondo, anche l'IdV: è la Lista Di Pietro (o di Di Pietro). E sul marchio di FLI campeggia il nome di Fini. L'Udc: è la Lista casini. SEL: cosa sarebbe (e cosa era) senza Vendola?

Così, mentre si discute dell'Italia delle Regioni e dei Comuni, mentre si parla di fratture e divisioni fra Nord e Sud, mentre la "questione meridionale" ritorna  al centro della scena pubblica, insieme alla "questione settentrionale", assistiamo a un mesto, ma inesorabile declino della dimensione territoriale, dello spazio "locale". Tanto rivendicato a parole, quanto schiacciato nei fatti. Sarebbe utile, almeno, rendersene conto. Riconoscerlo. Senza fingere. Rinunciando alla retorica, fastidiosa oltre che mistificante, del "Paese dei paesi" - e delle città. I paesi d'Italia, in questo clima di incertezza normativa e di certezza pratica (in merito alla povertà di mezzi e di risorse), scompariranno presto, avvolti nella nebbia.
 
(01 dicembre 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2010/12/01/news/c_era_una_volta_l_italia_dei_comuni_e_delle_regioni_-9721847/
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