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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 278537 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Agosto 25, 2009, 12:08:06 am »

Ilvo Diamanti


L'identità apolide del pallone


Il ministro Luca Zaia è deciso a giocare fino in fondo una partita che ha come posta la vittoria delle culture locali su quelle nazionali. Nel campionato delle identità. Per questo, dopo aver esortato alla valorizzazione dei dialetti, all'uso degli inni e delle bandiere, oggi si rivolge alla principale fonte di appartenenza degli italiani: il football. O meglio, per non cedere all'esterofilia linguistica: al calcio, al pallone. Così ha invitato "i grandi club" a "cucire sulle magliette i simboli della regione o della provincia o della città, a scelta". Perché, ha precisato, "sarebbe un modo molto popolare di far conoscere gli stendardi della cultura locale".

Immaginiamo che si riferisca soprattutto ai club del Nord. Visto che sulla maglia della Roma campeggia, in bella evidenza, la Lupa; mentre il Napoli, sopra il marchio dello sponsor, ha, in bella vista, una N maiuscola. Iniziale della città. Ma il ministro si riferisce alle società del Nord. Le più importanti. Juventus, Milan e Inter. Le quali raccolgono i due terzi dei tifosi italiani (circa il 30% la Juve, intorno al 20 Milan e Inter). Vorrebbe che rimpiazzassero la Zebra (Juve), il Diavolo (Milan) o il Serpentone (Inter) con la Mole Antonelliana, la Madunina. Vessilli ed emblemi cittadini, provinciali o regionali. Magari macroregionali. Padani, per esempio. Come lo stemma del Carroccio, che evoca l'icona di Alberto da Giussano alla testa della Lega Lombarda contro l'esercito del Barbarossa. Una richiesta comprensibile, visto che il calcio è la fede più condivisa, nel paese. Unisce e divide più di ogni altra passione. Anche perché non vi sono altre passioni altrettanto con-divise, in Italia. In fondo, dicono molti - con qualche ragione - l'unico vero momento di unità nazionale degli italiani si verifica quando gioca (e soprattutto vince) la Nazionale di calcio. Ovvio l'interesse della Lega per esaltare il localismo - anche nel calcio. Tuttavia, c'è un problema. Forse più di uno. Diciamo tre.

1. Il primo. Il tifo calcistico delle squadre maggiori non è locale. Neppure cittadino, provinciale o regionale. E' senza territorio. Atopico. Come - appunto - la fede e le ideologie.

La Juve, in primo luogo. La più amata dagli italiani (almeno fino a un anno fa, data dell'indagine di Demos a cui faccio riferimento). Il popolo bianconero non appartiene a nessun contesto specifico. La Juve è la squadra che attira il maggior numero di fedeli in ogni area del paese. Intorno al 30% dovunque. Il massimo nel Nordest triveneto. E' la squadra per cui tifano, soprattutto, gli italiani di provincia. In un paese provinciale come l'Italia. Anche a Torino e in Piemonte i tifosi bianconeri sono numerosi soprattutto tra le persone che provengono da famiglie di immigrati. Come me, nato a Cuneo, cresciuto a Bra, al seguito di genitori veneti. Sono divenuto bianconero "naturaliter". Tanto più dopo il ritorno in "patria", insieme la famiglia, quand'ero adolescente.

I torinesi doc, invece, tifa(va)no per il Toro. E ci guarda(va)no come beur. Discendenti di immigrati che provengono dalle colonie. Perché il tifo per la Juve era - in qualche misura "è" - un modo per integrarsi. Una forma di rivincita sociale degli "ultimi arrivati". (Per questo mi è insopportabile sentire i tifosi bianconeri allo stadio indirizzare contro Balotelli cori ingiuriosi. "Non ci sono italiani neri". Ma io, juventino da sempre, non sono bianco e non sono nero. Sono l'uno e l'altro: bianconero.)

Un discorso simile vale anche per gli altri club più blasonati del Nord. Il 36% dei tifosi del Milan e il 28% di quelli dell'Inter risiedono nel Centrosud. Il tifo del Napoli e della Roma è territorialmente più addensato; più "metropolitano" che "locale", comunque. Soprattutto il Napoli. Tuttavia il 20% dei suoi sostenitori abita in Piemonte e in Lombardia.

2. Seconda ragione: poche altre entità organizzate sono altrettanto globali e multietniche quanto i club di calcio. Non siamo nei Paesi Baschi. In Italia le squadre reclutano i giocatori al di là di ogni confine: locale e nazionale. Nell'Inter è difficile incontrare italiani, in campo. Santon, Materazzi, Balotelli (ammesso che i sostenitori del localismo calcistico lo considerino italiano). Mai tutti insieme. Uno, massimo due alla volta. Più spesso: nessuno. I miti del Milan (Gattuso a parte, che non mi risulta essere un meneghino doc) sono da tempo brasiliani. Prima Kakà, oggi Pato. Brasiliano anche il nuovo allenatore, Leonardo. Paolo Maldini, milanese, venticinque anni e oltre 900 partite da "rossonero", nel momento dell'addio è stato contestato dagli ultrà. Non per motivi etnici, locali o nazionali. Ma per ragioni "faziose". Claniche (di clan). Perché si era permesso di contestarne, in passato, le contestazioni (estreme ed estremiste).

In Italia, come altrove, il calcio è un "affare" che non appartiene più neppure ai mecenati o agli imprenditori (stra)ricchi (salvo rare eccezioni; come Roman Abramovich e, da noi, Massimo Moratti). I suoi bilanci - e quindi le sue sorti e le sue scelte - dipendono, invece, soprattutto dai diritti televisivi. Da Rai, Mediaset, Mediarai, Sky. Cioè: un mondo atopico. Senza luoghi. Senza appartenenze locali. (D'altronde, come risalire al contesto di squadre che si chiamano Juventus e Inter?).

3. Terza ragione (ma probabilmente se ne potrebbero sollevare altre). Le appartenenze legate al calcio non solo sfuggono a ogni confine, ma producono anche l'effetto opposto. Cioè: possono moltiplicare i confini senza fine. All'infinito. A Milano: il derby tra Milan e Inter di sabato prossimo disintegra la milanesità. Il comune riferimento metropolitano delle due squadre diventa motivo di contrapposizione e divisione violenta. Lo stesso vale per gli altri derby. Non solo a livello urbano e metropolitano. A Roma, Torino, Genova. Ma anche in ambito regionale. Tra Fiorentina e Siena. Tra Livorno e Pisa. Tra Bologna e Parma. A Vicenza, dove risiedo, le sconfitte del Verona (retrocesso in una serie minore) sono accolte con lo stesso entusiasmo delle vittorie conseguite dalla squadra biancorossa.

Insomma, lo stemma locale non si addice al calcio. E viceversa. Il calcio non si addice a promuovere l'identità locale. Soprattutto in Italia. Soprattutto nei club maggiori delle metropoli del Nord. Dove i calciatori non parlano in dialetto, fra loro. Ma devono, semmai, imparare l'inglese, per comunicare fra loro. In Italia. Dove il tifo - lo ripetiamo - è una fede e un'ideologia. Più forti di altre fedi e - soprattutto - di altre ideologie. Per cui se chiedete al mio figlio minore, Nicola, in cosa si riconosca, vi risponderà, senza alcuna esitazione: anzitutto e soprattutto nel Chievo (un quartiere, neppure una città). Mentre io e Giovanni (il primogenito), in tempi tanto tristi per la nostra passione politica, ci sentiamo sempre più bianconeri.

(24 agosto 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #121 inserito:: Agosto 31, 2009, 11:13:31 am »

POLITICA

       
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Il posto della Chiesa in tempi pagani

di ILVO DIAMANTI


È SINGOLARE vedere la Chiesa all'opposizione. Soprattutto oggi, che governa il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi, particolarmente attento e disponibile nei confronti delle richieste della Chiesa: sulla bioetica, sulla scuola e sull'educazione, sulla famiglia. Mentre le incomprensioni con il precedente governo di centrosinistra erano comprensibili. Eppure mai, nella contrastata (per quanto breve) stagione dei rapporti con il governo Prodi, si era assistito ad attacchi tanto violenti, nei confronti della Chiesa, come quelli lanciati negli ultimi giorni dal centrodestra.

Prima: le reazioni della Lega alle critiche espresse dal mondo cattolico in merito alle politiche sulla sicurezza e sull'immigrazione. Culminate nella minaccia - apertamente evocata dal quotidiano "La Padania" - di rivedere il Concordato. Poi l'attacco rivolto dal "Giornale" al direttore di "Avvenire", Dino Boffo (il quale ha parlato di "killeraggio"). Accusato di non avere titolo per esprimere giudizi "morali" sugli stili di vita del premier. Troppi e troppo ravvicinati, troppo violenti, questi interventi per apparire casuali. Come si spiega l'esplodere di queste tensioni? E, in particolare, cosa ha spinto all'opposizione la Chiesa, fino a ieri interlocutore affidabile del governo?

In effetti, occorre distinguere. I rapporti con la Lega sono sempre stati conflittuali. Basti pensare al periodo intorno alla metà degli anni Novanta, quando la Chiesa si oppose alla strategia secessionista della Lega. Allora Bossi si scagliò contro il Papa polacco e i "vescovoni romani arruolati nell'esercito di Franceschiello, l'esercito del partito-Stato". In altri termini: contro la Chiesa, ritenuta (non senza ragione) il collante, forse più denso, dell'unità nazionale. Oggi, invece, il problema è prodotto dalle critiche del mondo cattolico - le associazioni, i media, le gerarchie - contro le politiche del governo sulla sicurezza e l'immigrazione. Cioè: il vero marchio della Lega (degli uomini spaventati). Più ancora del federalismo.

D'altronde, il mondo cattolico, su questi temi, esprime un progetto fondato sull'accoglienza, sulla carità, sull'integrazione. Concretamente praticato attraverso associazioni e istituzioni diffuse sul territorio. Dalla Caritas, ai gruppi di volontariato, alle parrocchie. Assai più della sinistra, è il mondo cattolico l'alternativa alla cultura e al linguaggio leghista. Non solo sui temi della sicurezza e degli immigrati. Perché il mondo cattolico è presente e attivo soprattutto dove è forte la Lega. Cioè: nella provincia del Nord. Dove i campanili costituiscono ancora un centro della vita sociale. Da ciò un conflitto inevitabile. Che è, in parte, competizione. Anche perché la Lega si propone come una sorta di "Chiesa del Nord". Con i suoi riti, i suoi simboli, i suoi valori, le sue reti di appartenenza locale. Ronde comprese. Della tradizione cattolica accetta gli aspetti, appunto, più tradizionali e tradizionalisti. Le "radici cristiane" rivendicate dalla Lega coincidono, in effetti, con la "religione del senso comune".

Diverso - e meno prevedibile - è invece il contrasto diretto con il premier e il PdL. Innescato dalla velenosa inchiesta dedicata dal "Giornale" al direttore dell'"Avvenire". Definito un "lapidatore che non ha le carte in regola per lapidare alcuno". In particolare il premier. Immaginare Dino Boffo - prudente per natura (e incarico) - impegnato a scagliare parole dure come le "pietre" risulta (a noi, almeno) davvero difficile. Per questo, la reazione del "Giornale" appare sproporzionata rispetto al contenuto e al tono delle critiche apparse su "Avvenire".

Era difficile, d'altronde, che i vescovi italiani tacessero di fronte al disagio emerso in molti settori del clero e in molti esponenti del mondo cattolico. Tanto più al tempo di Papa Ratzinger, che ha fatto del contrasto al relativismo etico un marchio e un programma.
Tuttavia, nonostante le smentite di questi giorni, ci riesce altrettanto difficile pensare che Vittorio Feltri abbia lanciato il suo attacco "senza preavviso". Senza, cioè, avvertire almeno il premier. Il che suggerisce una ulteriore spiegazione della singolare (op) posizione assunta dalla Chiesa in questa fase.

Vi sarebbe stata spinta, più che per propria scelta, dallo stesso premier e dalla Lega. Per diverse ragioni. (a) Intimidire l'unico soggetto capace, nell'Italia d'oggi, di esercitare un effettivo controllo morale, istituzionale e sociale. (b) Dividere la Chiesa stessa, al proprio interno; isolando gli ambienti accusati di simpatie per la "sinistra"; e ponendola in contrasto con il suo stesso popolo. In larga parte vicino alle posizioni della Lega, in tema di sicurezza e immigrazione. E indulgente verso i comportamenti e gli stili di vita esibiti dal premier. (c) C'è, infine e al fondo di tutto, la crisi del modello, proposto e imposto da Ruini alla fine della prima Repubblica. La "Chiesa extraparlamentare" (come la definisce Sandro Magister), che agisce ora come movimento, ora come gruppo di pressione. A sostegno dei propri riferimenti di valore e di interesse. Senza partiti cattolici né "di" cattolici.

Oggi sembra suscitare molti dubbi. E in alcuni settori della Chiesa e del mondo cattolico emerge la nostalgia di un polo alternativo: a una destra amica ma pagana. E a una sinistra laicista e comunque inaffidabile. Da ciò l'idea (post-ruiniana) di un soggetto politico che metta insieme Casini, Tabacci, Pezzotta. Rutelli e Montezemolo. Magari Letta (Gianni). D'altra parte, 4 cattolici praticanti su 10 non hanno un partito di riferimento. Sono patologicamente incerti. Anche così si spiega la reazione di Berlusconi - e l'azione di Feltri. Volta a scoraggiare la costruzione di un nuovo partito collaterale alla Chiesa. Mentre al premier - e alla Lega - piace di più l'idea di una Chiesa collaterale o, comunque, affiancata al PdL. In grado - non da ultimo - di santificare un modello di vita che - come ha ammesso il premier - santo non è. Ma, anzi, piuttosto pagano.

(31 agosto 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #122 inserito:: Settembre 02, 2009, 11:02:16 pm »

L'informazione prudente: risposte senza domande


ILVO DIAMANTI


Non seguo troppo la politica italiana. Troppo gossip. Poca politica. Troppi fatti personali. Poi sono troppo impegnato a scrivere per riuscire anche a leggere. In particolare: i giornali. In particolare: alcuni giornali. Quelli nazionali. Anche se la crisi li ha defoliati e dimagriti sono troppo densi e pesanti, per me. Troppo. Così mi limito a dare un'occhiata distratta ai tiggì. Soprattutto a quelli che si sono impegnati a non fare gossip e si occupano di cose serie. Influenze A, celebrazioni e anniversari, il muro di Berlino e lo sbarco sulla luna, le pandemie, le ferie e gli esodi biblici per andare in ferie, il caldo, i temporali, la formula 1, le ferie e i rientri biblici dalle ferie, i campionati di nuoto, ibra, i dispersi in montagna, valentinorossi, i sentimenti (ah... i sentimenti!!!), la storia fra clooney e la canalis (gossip vero - o finto, non importa - non politica mascherata da gossip o viceversa!), il calcio (ah... il calcio!!!), kakà, qualche omicidio e qualche suicidio in famiglia, tra vicini di casa; ancora: il superenalotto e qualche incidente al volante - quelli sul lavoro non emozionano più, se le vittime non sono almeno 5 - poi gli immigrati. Però gli omicidi, i suicidi, i crimini e i criminali e quindi gli immigrati: devono essere diminuiti. Non ne sento più parlare come una volta.

Però oggi è più bello guardare i tiggì perché spaventano di meno e perché hanno separato il gossip dalla politica. Il pubblico dal privato. Si dedicano alla politica seria. Sarà per questo che di politica ne sento parlare poco. Meno che della cronaca nera; omicidi, rapine e altri delitti. Che devono essersi ridotti, ma meno della politica. Ma forse è che sono distratto. Mi interesso poco. Di politica, intendo. Troppe donne e donnine. Troppo gossip. E se il gossip e la politica, se la politica e il gossip coincidono allora è ovvio che la tivù non ne parli. Che i tiggì ne riducano lo spazio. Ovvio. Ovvio che qualcosa - anzi: molto - mi sfugga. Ovvio. Che io non riesca a capire sempre e tutto. Seguo poco e in modo disattento. Che cosa pretendo?

Anche ieri sera. Ho sentito il premier - proprio lui - e anzi l'ho visto in tivù, nei tiggì - depurati dal gossip - dire ai giornalisti che alle 10 domande poste da Repubblica non ha risposto e non risponderà. Non per le 10 domande in sé. Lui non ha nulla da nascondere, lui. Ma le ha poste Repubblica. Che è un giornale eversivo e disonesto. Dall'editore al direttore ai giornalisti ai collaboratori giù giù via via fino agli impiegati e ai tipografi. Non un giornale ma un partito e anche peggio: un'associazione a delinquere. Se non le avesse poste Repubblica, in modo ovviamente offensivo e infamante, a quelle 10 domande lui avrebbe dato risposta. Meno all'ultima, sul suo stato di salute, perché lui è superman. Altro che gufare o diffondere sospetti malevoli. Inseguire le maldicenze di una moglie irriconoscente. La facciano pure altrove, negli Usa o in Francia, quella domanda. Ma non a lui. Che è superman. Ma alle altre domande, poste in modo più discreto, da altri giornali, lui avrebbe certamente risposto. Anche ai tele-giornali, immaginiamo. Quelli che non fanno gossip - e non attaccano il governo, perché non lo debbono fare, ci mancherebbe - ma solo informazione. Seria. E hanno riportato - seriamente - le parole del premier. Che non avrebbe - e non avrà - problema, nessun problema, a rispondere a quelle domande se qualche altro giornale o tele-giornale gliele vorrà riproporre. In modo meno insolente. Ma non a Repubblica. Così ha detto il premier. E i tiggì lo hanno ripreso e rilanciato. Fedelmente. Nessun taglio alle sue dichiarazioni. Riproposte integralmente. Per dovere di informazione.

Io, però, che dei giornali scorro solo i titoli, preferibilmente sulle rassegne tivù (e d'altronde mi informo solo in tivù), io: mi sento dubbioso. Perplesso. Anche se mi vergogno ad ammetterlo. A confessarne il motivo. Mi imbarazza. Però qualcosa mi deve essere sfuggito. Perché io guardo la tivù e i tiggì, ma in modo perlopiù disattento. E allora me le devo essere perse. Anzi me le sono perse certamente. Le domande di Repubblica, intendo. Le prime 9. L'ultima l'ho capita. Riguarda la salute. Ma spero che un giorno il premier decida davvero di rispondere anche alle altre. In tivù, nei tiggì. Seri. Dai quali mi informo. Così dalle risposte - forse, magari, chissà - riuscirò finalmente a risalire alle domande. Che non ho mai sentito.

(2 settembre 2009)

da repubblica.it
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« Risposta #123 inserito:: Settembre 07, 2009, 10:48:11 am »

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Il nuovo partito mediale di massa

di ILVO DIAMANTI


NELL'ERA della mediocrazia avanza un soggetto politico nuovo. Anche se ha sembianze note e sembra quasi antico, visto che - nella versione originaria - è sorto insieme alla prima Repubblica. Eppure è cambiato profondamente, negli ultimi anni. In modo tanto rapido che neppure ce ne siamo accorti. Lo chiameremo Partito Mediale di Massa (PMM).

Perché è entrambe le cose. Allo stesso tempo mediale e di massa. Senza soluzione di continuità. Non ci troviamo di fronte a un modello, a un caso "esemplare". Perché non è riproducibile né tanto meno ripetibile. Anche se l'intreccio fra media e politica è divenuto stretto e quasi inestricabile. Dovunque. Nei partiti: la comunicazione ha preso il posto della partecipazione; il marketing quello delle ideologie; mentre le persone hanno rimpiazzato gli apparati. Così nel dibattito politico il privato è divenuto pubblico e viceversa. È una tendenza non solo italiana, ma che in Italia ha assunto modalità del tutto inedite, determinate, ovviamente, dalla posizione dominante di Silvio Berlusconi. Il premier di un paese ormai presidenzializzato, dove il potere presidenziale è largamente riassunto dal premier (mentre il Presidente svolge funzioni di garante). Leader unico e indiscusso del partito più forte, dal punto di vista elettorale e in Parlamento. Imprenditore e proprietario del più importante gruppo mediatico privato. Nessuna novità in tutto questo. Silvio Berlusconi, infatti, ha inventato 15 anni fa questo ibrido di successo. Un partito che miscela i linguaggi e l'organizzazione del mondo calcistico (gli azzurri, i club, lo stesso marchio: Forza Italia!) con la pubblicità e la televisione. Così è divenuto difficile distinguere le passioni politiche da quelle televisive. E viceversa.

Indagini condotte alcuni anni fa (da ultimo: Demos per la Repubblica, 2007) mostrano lo stretto rapporto di fiducia che legava gli elettori di centrodestra alle reti, ai programmi e ai conduttori di Mediaset; e, parallelamente, l'alto grado di credibilità riconosciuto dagli elettori di centrosinistra ai telegiornali, ai tele-giornalisti e alle reti Rai. Anche se la realtà non sopporta divisioni tanto schematiche. Visto che l'informazione del Tg5 di Mentana - forse - non era orientata più a destra rispetto a quella del Tg1 di Mimun. È, dunque, difficile distinguere fra politica, interessi e media quando si osserva Forza Italia. Ed è impossibile, quando si osserva Berlusconi, distinguere le scelte - e gli interessi - del leader politico da quelle dell'imprenditore. Argomenti noti, da tempo.
La novità degli ultimi anni è che il partito è divenuto, progressivamente, un "sistema". Forza Italia è divenuta Pdl, associando - o meglio: assorbendo - anche An. Per cui ha assunto la "misura" elettorale dei partiti di massa di un tempo. Anche l'impianto del voto sul territorio riproduce quello dei partiti di governo degli anni Ottanta: al declino della prima Repubblica. A differenza da allora, oggi l'ideologia, la cultura, l'organizzazione fanno tutt'uno con i media. Attraverso i quali il PMM offre alla società - trasformata in pubblico - linguaggio, modelli di valore, stili di vita. Una lettura della realtà. Anche perché - altra importante differenza dal passato recente - le distinzioni fra i network televisivi nazionali, ormai, si sono quasi dissolte. Dopo le elezioni del 2008, l'influenza dei partiti di governo - quindi del premier - sulla Rai è cresciuta. Il vero bipolarismo mediatico (come ha scritto Aldo Grasso) oggi oppone Mediaset e Sky. E la Rai sta con Mediaset, per cui possiamo parlare di MediaRai (marchio più adeguato di Raiset, visto il ruolo subalterno della Rai).

Il PMM costruito da Berlusconi si avvale anche dei giornali. Il linguaggio e gli argomenti politici della destra, negli ultimi anni, sono stati imposti soprattutto da Libero e da Vittorio Feltri. Il quale è tornato, da poco, a dirigere il Giornale. Non a caso. Perché il campo di battaglia dove si stanno svolgendo i conflitti politici più aspri e violenti coincide con il sistema dei media. Investe la scelta dei dirigenti, dei direttori e vicedirettori dei Tiggì e delle reti Rai. Senza dimenticare che i direttori dei maggiori quotidiani nazionali sono cambiati quasi tutti, nell'ultimo anno. D'altra parte, la costruzione della realtà sociale passa tutta dai media. La paura e la sicurezza. Agitate a tele-comando. Mentre i lavoratori licenziati, per conquistare visibilità, hanno una sola chance: realizzare azioni clamorose per andare in televisione. Mentre i terremoti e i rifiuti che sconvolgono il territorio diventano occasioni importanti per suscitare consenso o dissenso politico. L'informazione critica diventa, per questo, assai più pericolosa di qualsiasi partito. Anche la riserva indiana della terza Rete Rai crea insofferenza. Mentre il direttore di Avvenire diventa un bersaglio esemplare. Per comunicare al mondo (politico, mediatico, religioso) che nessuno può gettare ombre - seppure lievi - sul consenso e sulla credibilità sociale del PMM. E del suo leader. Nessuno è al sicuro. Neppure il direttore dei media della Cei. Figurarsi gli altri.

I tradizionali modelli del giornale di partito e del giornale-partito, che sentiamo evocare spesso - anche in questi giorni, con riferimento a Repubblica - appaiono semplicemente anacronistici. I giornali che appartengono ai partiti. Oppure, al contrario, la stampa d'opinione che esercita pressione su di essi, per indirizzarne le scelte. Sono fuori tempo. Comunque, non possono competere. Perché hanno un pubblico molto limitato rispetto alle tivù. E, senza le tivù a rilanciarli, i loro argomenti restano confinati al pubblico dei lettori fedeli. Il PMM, invece, è un sistema integrato. Al tempo stesso: partito, istituzione rappresentativa, impresa, giornale, tivù, media. Senza soluzione di continuità. Una sola, unica persona al comando. Di questa democrazia personalizzata. Di questo paese personale.

(7 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #124 inserito:: Settembre 14, 2009, 11:57:19 am »

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Tra il Grande Nord e il Grande Centro

di ILVO DIAMANTI


Sono passati 13 anni da quando la Lega tentò di "strappare" l'Italia. Mobilitando il suo popolo, in marcia lungo il Po fino a Venezia. Dove, da allora, si riunisce puntualmente, ogni anno, a rinnovare il rito padano (e pagano) che vede Umberto Bossi versare in laguna l'ampolla con le acque del Po (ma anche del Piave e dell'Olona).

Per rammentare che l'indipendenza della Padania resta il vero orizzonte della Lega. Anche se il fallimento della manifestazione del 1996 ha costretto la Lega ad accantonare la secessione tornando all'obiettivo del federalismo. Distintivo originario dell'esperienza leghista. Non più rivoluzionario come in origine. Anche per questo la Lega ha spostato, rapidamente e decisamente, la sua offerta politica, concentrandola sui temi della sicurezza. Intorno alle paure prodotte dalla criminalità e dall'immigrazione. Ha anche ridefinito i riferimenti del territorio. I nemici: non più (solo) Roma, ma il Mondo. La globalizzazione. L'Europa larga. I paesi dell'Est. La Cina.

Oggi la Lega è tornata forte come nel 1996, dal punto di vista elettorale. Ha ottenuto oltre il 10% alle europee. Un dato che i sondaggi confermano stabile e, semmai, in ulteriore crescita. Ma, dal punto di vista politico, molto più forte di allora. È Lega di governo. Alleata del Pdl di Berlusconi. Meglio: di Berlusconi e del suo Pmm (Partito mediale di massa). Ma, soprattutto, è la principale artefice dei temi che caratterizzano l'agenda di governo. Tremonti si occupa della crisi economica e finanziaria. Opera importante, ma impopolare. Brunetta insegue i fannulloni che affollano gli uffici pubblici. Ma le questioni che preoccupano maggiormente i cittadini le affrontano gli uomini della Lega. In primo luogo, Roberto Maroni, titolare dell'Interno. Il "ministro della paura", per citare il personaggio interpretato da Antonio Albanese. Ma anche Zaia, vista l'importanza assunta dalle minacce "alimentari". La Lega oggi è soprattutto il "partito securitario". E ciò le ha permesso di sfondare anche nelle zone rosse. In molte province della Toscana, dell'Emilia Romagna e delle Marche. Le più simili alle zone pedemontane del Nord dove è maggiormente radicata. Le aree di piccola e piccolissima impresa. Per altri versi, però, la Lega si è "normalizzata". È l'ultimo partito di massa. L'unico sopravvissuto al crollo della prima Repubblica (a cui ha contribuito attivamente). Ha un'organizzazione diffusa, una base di militanti fedeli - estesa e presente sul territorio. Un giornale, alcune emittenti. Governa in centinaia di comuni piccoli e medi. Ha anche appreso dai "vizi" dei partiti tradizionali, che un tempo contestava fieramente. Ha coltivato un ceto di professionisti politici. Inseriti negli enti e nelle amministrazioni, a livello locale e nazionale. Anche a romaladrona. Basta vedere come ha gestito la vicenda delle nomine Rai.

La Lega oggi è un partito forte politicamente. Nel Nord come a Roma. Ma ciò può sollevare qualche problema. Perché rischia, appunto, di normalizzarla. Farla apparire un partito come gli altri. I suoi obiettivi caratterizzanti non la caratterizzano più. Il federalismo è stato raggiunto, anche se non è chiaro cosa significhi. Il suo linguaggio, i suoi proclami, anche i più scandalosi, non scandalizzano più. D'altra parte, dopo le ronde, i respingimenti e il reato di clandestinità, non è chiaro quali altri obiettivi possano scaldare gli animi dei suoi elettori e degli antagonisti. E poi le parole più violente e le iniziative più grevi tendono a perdersi nel rumore di fondo che segna il dibattito politico - in questi tempi tristi. Quando tutti gridano e urlano. E i media frullano in modo indistinto ogni offesa e ogni minaccia, anche la più turpe. Da ciò il richiamo esplicito all'indipendenza padana. Espresso ieri ad alta voce da Bossi. Con echi secessionisti che non si udivano da un decennio. Non a caso. Perché, come nel 1996, il federalismo non basta più. Inoltre, l'etichetta di partito populista e securitario - o xenofobo - non scandalizza nessuno. Ma, anzi, rende più confusa la sua missione originaria. La rappresentanza del Nord. Peraltro, non è casuale anche la sfida lanciata da Casini. Alla Lega e agli altri partiti maggiori. Nello stesso giorno in cui Bossi riprendeva il tema della secessione. Perché c'è simmetria fra la Lega e l'Udc. Anzitutto dal punto di vista territoriale. Perché l'Udc è impiantata nel Sud, dove alimenta, a sua volta, forti spinte autonomiste. Una minaccia per il Pdl, che nel 2008 ha raccolto oltre metà dei voti nel Mezzogiorno e nel Lazio ma solo un terzo nel Nord padano. L'Udc, inoltre, nel Nord fa concorrenza alla Lega. Nel 2006 è cresciuta nelle zone dove è calata la Lega. Viceversa nel 2008. Entrambe, d'altronde, attingono dall'antico bacino elettorale democristiano. A maggior ragione, l'Udc è alternativa alla Lega nei rapporti con la Chiesa e i cattolici. Perché la Lega è una "chiesa locale", che usa i riferimenti della religiosità popolare - la famiglia, il lavoro autonomo, il localismo - come base della propria ideologia. Mentre l'Udc continua a riproporre l'antico modello collaterale. Partito al servizio degli interessi e dei valori della Chiesa. Un'ipotesi che sta raccogliendo nuova attenzione negli ambienti ecclesiali, dopo le tensioni recenti.

D'altra parte, nel 2007 Berlusconi respinse la "pretesa" dell'Udc di presentarsi con il proprio marchio. Come la Lega. Perché la Lega, più ancora di Berlusconi, non l'avrebbe accettato.

Oggi Casini guarda al di là del proprio "piccolo centro". Scommette sul declino del bipolarismo tradizionale per attrarre altri settori e altri leader politici. Ma anche del mondo imprenditoriale e associativo. Conta sulle difficoltà del Pd, impigliato in un percorso congressuale lungo. Che ne sta logorando l'identità e ancor più la leadership. Mentre il Pdl è ormai totalmente risucchiato - e sperduto - nelle vicende personali del suo leader.

La collisione Bossi e Casini pare, dunque, inevitabile. In nome di un nuovo bipolarismo. Fra il Grande Nord e il Grande Centro.

(14 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #125 inserito:: Settembre 21, 2009, 04:03:23 pm »

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Il premier in stile Andy Warhol


di ILVO DIAMANTI


È arduo separare Berlusconi dalla sua immagine. E quindi dai media. In particolare, dalla televisione. Imprenditore, attore politico e mediatico al tempo stesso. "Il" protagonista della scena nazionale. Tuttavia, non ci è mai capitato di vederlo tanto spesso come negli ultimi mesi. Usare argomenti e toni così violenti, con altrettanta continuità. Deciso a rispondere colpo su colpo ai "nemici". Ai farabutti che si annidano nei giornali di partito e soprattutto nei giornali-partito.

Per difendersi da questa "Repubblica dei veleni". L'unica opposizione che egli tema. Perché ne minaccia l'immagine. Non l'abbiamo mai visto così presente in tivù. In modo diretto ma anche indiretto: nei discorsi degli altri. Amici e nemici.

Non abbiamo dati empirici, al proposito. Ma siamo certi che chi ne dispone confermerebbe le nostre impressioni. D'altronde, nell'era della comunicazione e della personalizzazione, Berlusconi, come ha osservato Giuliano Ferrara sul Foglio (echeggiando David Brooks, columnist del New York Times), interpreta e incarna l'idealtipo dell'individualismo espressivo. E - aggiungeremmo noi - aggressivo. Ne è "il più grande e clamoroso campione in Europa e forse nel mondo". Iperpresente. Anche perché agisce in Italia, dove dispone dei mezzi - meglio: media - che servono al fine. In primissimo luogo le televisioni. Leadership del governo e del partito di maggioranza. Il Partito Mediale di Massa. Si tratta di un mutamento sostanziale rispetto alle precedenti vite vissute da Berlusconi, nel corso della seconda Repubblica.
Segnate da alti (gli anni della discesa in campo) e bassi (il periodo del limbo, fra il 1996 e il 1998, quando molti, compresi gli amici, lo davano per finito). Sempre attento a marcare le distanze dal mondo. Dai nemici e ancor più dagli amici. Anche durante la precedente esperienza di governo, dal 2001 al 2006.
Quando a discutere in tivù con l'opposizione delle piccole cose del nostro piccolo paesino mandava i suoi consiglieri, avvocati, consulenti. I leader alleati. Mentre Lui volava alto. Tra i grandi della terra a cui dava e dà del tu. Per 10 anni: nessun confronto aperto in televisione. Sino al 2005, quando decide - a sorpresa - di recarsi a Ballarò, nella tana del nemico, dopo il disastroso risultato delle elezioni regionali. E prosegue nella campagna elettorale del 2006. Presenza fissa della tivù. Dovunque. A sfidare tutti e soprattutto Prodi, vincitore annunciato. Per rovesciare le previsioni. Per dimostrare che Lui non ha paura. Da allora non ha più smesso. Si è trasferito stabilmente sugli schermi. Nella breve stagione del governo Prodi: per ripetere che era abusivo. Infine, dopo la vittoria elettorale del 2008, ha deciso di impersonare governo e maggioranza. Da solo. E negli ultimi mesi la sua presenza è divenuta ancora più frequente. La sua retorica: ancora più aggressiva. È un uomo solo, il premier. Solo contro tutti. O almeno come tale agisce.
Per almeno tre ragioni.

1) Gli scandali sollevati intorno alle sue frequentazioni femminili lo irritano e gli creano disagio. Quasi più delle polemiche sul conflitto di interessi e dei problemi con la giustizia. Perché - appunto - ne incrinano l'immagine pubblica-privata. All'estero, ma anche in Italia. Come è emerso alle elezioni europee. Il cui risultato, rispetto alle premesse e alle (sue) promesse, è apparso deludente.

2) La sua maggioranza è divisa da rivalità politiche, personali e territoriali. Inoltre, Gianfranco Fini non perde occasione per sfidarne la leadership. Non solo in ambito istituzionale. Anche nel centrodestra e nel Pdl.

3) L'opposizione politica: chi l'ha vista? La sinistra radicale è quasi svanita. Di Pietro e l'Idv sono stranamente scomparsi dai media. Il Pd si è preso una vacanza congressuale ed esercita la propria opposizione al proprio interno piuttosto che contro il governo.

L'unica vera opposizione che disturbi il premier, per questo, giunge dai media. I pochi media che lo incalzano. Scavano nella sua vita pubblica e privata. Che poi è lo stesso.

Così la presenza mediatica del premier si è dilatata all'infinito. Egli è dovunque. Nelle occasioni pubbliche. Anche - e soprattutto - le più dolorose. I luoghi del terremoto e le esequie dei militari caduti in Afghanistan. Quando fra gli italiani prevale lo spirito unitario. Conta sull'effetto seriale. L'assuefazione a un format che si ripete, puntuale, un giorno dopo l'altro. Ma, al tempo stesso, asseconda il suo - personale - "individualismo espressivo" (e aggressivo). Che, tuttavia, comporta anche qualche conseguenza non voluta.

a) In primo luogo: il fastidio, la ripulsa. Perché quando è troppo è troppo. E allora quando si presenta a Porta a Porta, in un palinsesto rivoluzionato a sua misura, molti cambiano canale. Meglio la fiction vera. Meglio (molto meglio) la Juve. Oppure fanno qualcos'altro.

b) In secondo luogo: la patologia del rumore. In mezzo a polemiche tanto violente per farsi sentire occorre urlare più forte. Sparare cannonate. Minacciare di nuovo la secessione. Gridare al golpe. Alla sinistra parassita che vada morire ammazzata. Con il rischio che, presto, tutti divengano sordi. Che, molto presto, evocare la secessione e la morte solo a parole - per stupire - non basterà più.

Ma il rischio maggiore di questa strategia iperrealista - che identifica la realtà con la sua immagine - è la dissociazione. Fra realtà mediale e reale. Scoprire che la vita - politica e sociale - è diversa dalla sua narrazione mediatica. Che la crisi, espulsa dagli schermi e dal linguaggio mediatico perché disfattista, in effetti: esiste. Che la disoccupazione: esiste. Che l'insicurezza, bandita dai tiggì: esiste. Che il paese, unito a reti unificate: è diviso. Che l'immagine del premier, riprodotta e moltiplicata, in molti, diversi colori, come un'opera di Andy Warhol: non basta.
La realtà italiana è troppo complessa per venire rappresentata da un monoscopio.

(21 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #126 inserito:: Ottobre 03, 2009, 10:59:34 am »

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Il movimento dei farabutti

Ilvo Diamamnti.


STRANI giorni.
Chi avrebbe mai immaginato che l'opposizione, per trovare senso, parole e significato dovesse ispirarsi a Berlusconi? Non ci riferiamo a ieri. Perché è noto che i partiti di centrosinistra hanno da tempo imitato il modello espresso dal premier. Hanno abbandonato il territorio e la partecipazione per tuffarsi nei media e soprattutto nella tivù. In nome della personalizzazione e del marketing. Con risultati, fino ad oggi, modesti.

Ci riferiamo, invece, a oggi: alla "nuova" opposizione dei nostri giorni. In larga parte "suggerita" - e ispirata - proprio dall'esperienza politica di Berlusconi. Assistiamo, da un lato, al rovesciamento del meccanismo che ha tradotto il privato in un fatto pubblico. Politico. Fino a ieri: usato dal leader del PdL (prima, di FI) per coltivare consenso e di fiducia. Oggi: dagli avversari politici contro di lui. Privato e pubblico, retroscena e ribalta. Tutt'uno. A flusso continuo.

D'altro canto, il confronto politico si è spostato - totalmente - sui media. Che sono divenuti l'unico vero campo di battaglia politica. Tivù e stampa. Stampa e tivù. Giornali e tele-giornali. Opposti fra loro. Visto che le informazioni in tivù, in molte reti, sono filtrate. Con l'alibi di non sovrapporre pubblico e privato. Politica e gossip. Come se fossero cose diverse. Come se la ribalta e il retroscena fossero ambienti separati. (Come se le interviste "politiche" del premier non fossero ospitate da Chi e annunciate in copertina da foto di famiglia. Nonno Silvio insieme a figli, figlie e nipoti).

Da ciò l'ostilità di Berlusconi verso la stampa. E verso i giornalisti della carta stampata. In particolare (ma non solo) verso un giornale. La Repubblica (dei veleni). Che si trova, più che dalla parte dell'opposizione, a fare l'opposizione. Scavando nel privato-pubblico del premier. Il quale è bersaglio ma anche attore di ogni polemica. Che concorre a rilanciare e a moltiplicare. D'altronde, sarebbe difficile ricordare le precise, specifiche vicende che lo riguardano se non fosse per la sua determinata scelta di ribattere colpo su colpo. Anche perché in tivù quasi non se ne parla. Perché è Berlusconi a scrivere l'agenda politica. A determinarne i temi e il linguaggio. Senza, però, riuscire a controllarne sempre le conseguenze. Tanto che egli stesso contribuisce a promuovere l'opposizione. Non solo: ne suggerisce le esperienze e le novità. Dà loro nome e significato. È il caso dei "farabutti". Da cui il premier si sente circondato, "sulla stampa, in tivù e nella politica", come ha affermato a Porta a Porta. Farabutti.

L'insulto si è trasformato subito in un segno di riconoscimento, per un numero crescente di persone. Che hanno affollato uno spazio appositamente dedicato dall'edizione online di Repubblica. Dove, un giorno dopo l'altro, migliaia di persone hanno inviato e continuano a inviare la propria foto. Al posto del nome, la scritta: farabutto. Esibita orgogliosamente come un marchio. Una sorta di movimento di opposizione cresciuto dentro a quello che il leader considera il principale soggetto di opposizione. Se scorriamo le pagine dell'album fotografico, in continua evoluzione ed espansione, possiamo cogliere alcune informazioni utili a definire il profilo, non solo fisiognomico, ma sociale, culturale e politico di questa popolazione. Senza pretese, ovviamente, di rigore scientifico. Ci sarà tempo per analisi più raffinate.

Anzitutto, si tratta perlopiù di giovani. Spesso di giovanissimi. Accanto a molte persone adulte e di mezza età. Molto poche della mia generazione: "anziani" che si ostinano a definirsi giovani (non è il mio caso). Poi: vi sono molte donne. Anzi: più donne che uomini. I "farabutti" si presentano raramente da soli. Qualche volta in coppia, ma quasi sempre in gruppi più numerosi. A volte intere famiglie. Diverse generazioni riunite. Genitori, figli di età diverse. Qualche volta i nipoti. Questo fenomeno riflette diversi linguaggi e diversi tipi di azione. È all'incrocio fra il movimento e il social network. Fra i girotondi e Facebook. Tra la manifestazione di piazza e Twitter. Unito da un comune obiettivo: la libertà di informazione. Ma esprime, al tempo stesso, una domanda di opposizione. Aperta e condivisa. Orientata dal "mezzo" di cui si serve. La rete.

Permette di esserci, di esprimersi, con la propria faccia, con il proprio gruppo di riferimento. Senza censure. I "farabutti", d'altronde, sono competenti nelle tecnologie della comunicazione. Sono quelli che navigano in internet, si scrivono per e-mail, chattano attraverso Messenger e si parlano con Skype. Quelli che propongono il loro profilo su Facebook, dove coltivano relazioni vecchie e nuove. Quelli che guardano Fazio, la Gabanelli, Floris e la Dandini. Quelli di (centro) sinistra. Lettori di Repubblica (e non solo).

Una comunità specifica.
Larga e stretta al tempo stesso. "Esuli". Del Pd, in cui faticano a riconoscersi. Di un paese nel quale stentano a sentirsi cittadini. Spaesati. Di incerta identità. Berlusconi ha contribuito a dar loro un nome. Farabutti. Un titolo - rivendicato con tono di sfida che alcuni perfezionano aggiungendo: "coglioni" (così, nel 2006, Berlusconi definì gli imprenditori intenzionati a votare per il centrosinistra). E altri ancora: "fannulloni" (gli statali, secondo Brunetta). È il meccanismo mimetico che produce nuove forme di opposizione. Inventate, in modo involontario, dalla maggioranza. Dal premier e dai suoi consiglieri. Che forniscono a molte persone, a molti giovani, parole d'ordine ma anche senso di appartenenza. L'identità che i partiti di sinistra non riescono più a offrire. Tanto meno a imporre.

Il che suona come avvertimento e ammonizione.
Senza identità, senza bandiere, senza parole da dire. Senza simboli da esibire e senza riti da celebrare. Senza faccia e senza nome. Senza identità. Un soggetto politico non può esistere. Così, ci pensa Berlusconi. E quelli che un tempo si chiamavano - o si dichiaravano - "compagni", oppure "amici", oggi si chiamano - e si dichiarano - "farabutti". Etimologicamente: pirati. Che sfidano l'onnipresenza del Pmm - Partito mediale di massa - e del suo leader. Trasformano gli insulti in segni di riconoscimento. Parole che rendono meno opprimente l'afasia dell'opposizione.

(28 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #127 inserito:: Ottobre 10, 2009, 04:15:54 pm »

IL SAGGIO

Occhiali

Dal nuovo libro di Ilvo Diamanti, una riflessione su una società guardona che si nasconde


E' in libreria il nuovo libro di Ilvo Diamanti, editorialista del nostro giornale e autore delle "Bussole", cliccatissima rubrica del nostro sito. Dal "Sillabario dei tempi tristi" (Feltrinelli editore), ecco un capitolo inedito.

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Nel mio vagone dell'Eurostar che da Roma mi conduce a Padova quasi tutti indossano occhiali neri. Uomini, donne e perfino i bambini. Di età diversa. Anch'io, d'altronde, ho gli occhi schermati dalle lenti scure. Certo, è un pomeriggio di giugno. La giornata è luminosa. In treno, poi, è facile assopirsi. Capita spesso. Mentre si legge oppure si ascolta musica con l'Ipod. Magari si fanno entrambe le cose insieme. Gli occhiali neri e l'Ipod servono a isolarti. Però, non occorre avere un'età troppo avanzata per accorgersi del cambiamento profondo e rapido annunciato da questo segno. Un paio di decenni, più o meno. Nel frattempo, la posta elettronica è divenuta un mezzo di comunicazione normale, per molta parte della popolazione. E il telefono cellulare ha invaso la nostra vita. Peraltro, rispetto al cellulare e alla posta elettronica (che insieme alla foto-videocamera, il riproduttore MP3 e molte altre funzioni oggi è riassunta dal cellulare) gli occhiali neri sono meno generazionali. Il loro uso è meno legato all'età, ma anche al genere e alla classe sociale. Perché, appunto, li portano tutti. Non solo i più giovani o i più istruiti oppure, ancora, quelli che abitano nei centri urbani. Ma tutti. Non è un caso che i negozi di ottica si siano evoluti così tanto in così poco tempo.

Non più centri specializzati, dove si acquistano occhiali con lenti adeguate ai "vizi" della vista. Naturale complemento dell'oculista. Ma megashop, Optical Store, dove gli occhiali coprono tutte le pareti. Decine di marche e di modelli. Che cambiano rapidamente, di mese in mese. Un tempo - quand'ero giovane perfino io - erano simboli di status. O meglio: marchi e etichette che evocavano un tipo sociale. Uno stile di vita. Li indossavano James Dean, Audrey Hepburn, Jacky Kennedy. E Clint Eastwood, quando interpretava l'ispettore Callaghan. Al posto del sigaro che gli permetteva, secondo Sergio Leone, di cambiare espressione. Come David Caruso, quando "è" Horatio Caine nel serial CSI Miami. Due sole espressioni: con oppure senza gli occhiali neri. Allora, anche in tempi non lontanissimi (la serie CSI si è imposta nell'ultimo decennio), gli occhiali servivano a distinguere, a vestire i panni di un personaggio. Erano la maschera con cui si affrontavano gli altri. Nella vita pubblica. Nelle relazioni sociali di ogni giorno. Un capo di abbigliamento o un taglio di capelli fra gli altri. Un giornale esibito, sotto il braccio. Diceva agli altri chi sei. Cosa pensi. Oppure: come vorresti essere. Come vorresti essere percepito dagli altri. A modo loro: un modo per comunicare e per socializzare. Ora non più. Gli occhiali neri li portano - e li portiamo - tutti. Non perché il giorno si sia allungato e la luce sia divenuta più invasiva. (Anche se è vero). Non perché l'aria, i pollini, le polveri fini abbiano diffuso le allergie a una quota di popolazione più ampia. (Anche se è vero).
D'altronde, gli occhiali neri si indossano solo di giorno e non solo in periodi e in luoghi "allergogeni". Ma dovunque e ogni ora. Gli occhiali neri (come, in fondo, l'Ipod) si usano non per "distinguersi", ma per "distanziarsi" dagli altri. Non solo una maschera, ma uno schermo fra sé e gli altri. Servono a vedere senza essere visti. A scrutare senza essere scrutati. Senza che gli altri possano vederti mentre gli scruti. Non servono a essere riconosciuti, ma a non farsi riconoscere. Non perché si cambi identità, ma perché si nascondono gli occhi. E gli occhi parlano di noi più di qualsiasi parola. Trasmettono e rivelano emozioni, sentimenti, paure. Il popolo degli occhiali neri è una folla di persone che vogliono vivere sole in mezzo agli altri. O meglio: come fossero da sole, ma insieme agli altri. Sempre alla finestra (sul cortile), dovunque e a ogni ora. Con poche pause e poche riserve. A casa propria, con i propri familiari, la cerchia delle persone più vicine. L'uomo che guarda senza essere visto pur sapendo che tutti gli altri lo guardano. Una società guardona e guardata al tempo stesso. Per paura degli altri, nasconde - e sta perdendo - gli occhi.

(9 ottobre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #128 inserito:: Ottobre 11, 2009, 10:20:39 pm »

MAPPE

La leggenda del premier eletto dal popolo

di ILVO DIAMANTI


"Presidente eletto dal popolo". Così si definisce Silvio Berlusconi. Sempre più spesso, da qualche tempo. Per rivendicare rispetto dai molti nemici che lo assediano. Ma, al tempo stesso, per marcare le distanze dall'altro presidente. Giorgio Napolitano. Il Presidente della Repubblica. Il quale, al contrario, è "eletto dal Parlamento". Anzi da una parte di esso. Perché Napolitano non è "super partes", ma di sinistra. Come tutte le altre istituzioni dello Stato. Corte Costituzionale e magistratura in testa. Non garanti. Ma soggetti politici. Di parte. Per questo Berlusconi non ne accetta le decisioni, ma neppure il ruolo. In pratica: considera le istituzioni dello Stato - e quindi la Costituzione - inadeguate. Peggio: illegittime. Meno legittime di lui, comunque. Presidente eletto dal popolo.

Queste affermazioni, sostenute a caldo e a tiepido dal premier, dopo la sentenza della Corte Costituzionale sul lodo Alfano, si fondano su premesse discutibili, anzitutto sul piano dei fatti. Dati per scontati. Che scontati non sono.

Il primo fatto è che Berlusconi sia un presidente "eletto dal popolo". È quanto meno dubbio. Perché l'Italia non è (ancora) un sistema presidenziale. I cittadini, gli elettori, votano per un partito o per una coalizione. Non direttamente il premier o il presidente. Anche se, dopo il 1994, abbiamo assistito a una progressiva torsione delle regole elettorali e istituzionali in senso "personale". Senza bisogno di riforme. Così, nella scheda elettorale, accanto ai partiti e alle coalizioni viene indicato anche il candidato premier. (Come ha lamentato, spesso, Giovanni Sartori). Tuttavia, non si vota direttamente per il premier, ma per i partiti e gli schieramenti. Silvio Berlusconi, per questo, non è un presidente eletto dal "popolo". Semmai dal "Popolo della Libertà". Da una maggioranza di elettori, comunque, molto relativa.

Alle elezioni politiche del 2008 il partito di cui è leader Berlusconi, il Pdl, ha, infatti, ottenuto il 37,4% dei voti validi, ma il 35,9% dei votanti e il 28,9% degli aventi diritto. Intorno a un terzo del "popolo", insomma. Peraltro, prima di unirsi con An, fino al 2006, il partito di Berlusconi era Forza Italia, che non ha mai superato il 30% dei voti (validi). Al risultato del Pdl si deve, ovviamente, aggiungere il 10% (o l'8%, a seconda della base elettorale prescelta) ottenuto dalla Lega. I cui elettori, però, non hanno votato per Berlusconi. Visto che al Nord la Lega ha sottratto voti al Pdl, di cui è alleata e concorrente. E quando ha partecipato al governo (come in questa fase) si è sempre preoccupata di fare "opposizione". Questa considerazione risulta ancor più evidente se si fa riferimento al risultato delle recenti europee. Dove si è votato con il proporzionale e con le preferenze personali. Il Pdl, il partito di Berlusconi, ha infatti ottenuto il 35,3% dei voti validi, ma il 33% dei votanti e il 21,9% degli aventi diritto. Lui, il Presidente, ha personalmente ottenuto 2.700.000 preferenze. Il 25% dei voti del Pdl, ma meno del 9% dei votanti. Il risultato "personale" più limitato, dal 1994 ad oggi.
Tutto ciò, ovviamente, non intacca la legittimità del governo e del premier. Semmai la sua pretesa di interpretare la "volontà del popolo".

D'altronde, si vota una volta ogni cinque anni, mentre i sondaggi si fanno quasi ogni giorno. Per cui, più che sul voto, il consenso tende a poggiare sulle opinioni.
Sulla "fiducia". Ma stimare la "fiducia" dei cittadini è un'operazione difficile e opinabile. Che non coincide con il consenso elettorale. Non si capirebbe, altrimenti, perché, se davvero - come sostiene Berlusconi - il 70% degli italiani ha fiducia in lui, alle recenti elezioni europee il Pdl si sia fermato al 35%, la coalizione di governo al 45% e le preferenze personali per il premier al 9% (dei voti validi).

La fiducia, inoltre, è difficile da misurare. Per ragioni sostanziali, ma anche metodologiche. Soprattutto attraverso i sondaggi. Dipende dalle domande poste agli intervistati. Dagli indici che si usano. Alcuni fra i principali istituti demoscopici (come Ipsos di Nando Pagnoncelli e Ispo di Renato Mannheimer) utilizzano una scala da 1 a 10, per analogia al voto scolastico. Per cui l'area della "fiducia" comprende tutti coloro che danno a un leader (o a un'istituzione) la sufficienza (e quindi almeno 6). Oggi, in base a questo indice, circa il 50% degli italiani esprime fiducia nel premier Berlusconi (le stime di Ipsos e Ispo, al proposito, convergono). Mentre a fine aprile, dopo il terremoto in Abruzzo, superava il 60%. Ciò significa che negli ultimi mesi la "fiducia" del popolo nel premier si è ridotta, anche se risulta ancora molto ampia. Tuttavia, anche accettando questi indici, un 6 può davvero essere considerato un segno di "fiducia"? Ai miei tempi, nelle scuole dell'obbligo - ma anche al liceo - era una sufficienza stretta. Come un 18 all'università. Che si accetta per non ripetere l'esame. Ma resta un voto mediocre. Basterebbe alzare la soglia, anche di pochissimo, un solo punto. Portarla a 7. Per vedere la fiducia nel premier (e in tutti gli altri leader) scendere sensibilmente. Al 37%. Più o meno come i voti del Pdl. Con questi dati e con queste misure appare ardita la pretesa del premier di parlare in "nome del popolo". Tanto più che, con qualunque metro di misura, il consenso personale verso il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, risulta molto più elevato. Fino a una settimana fa, prima della recente polemica, esprimeva fiducia nei suoi confronti circa l'80% degli italiani, utilizzando come voto il 6. Oltre il 50%, con una misura più esigente: il 7. Lo stesso livello di consenso raccolto dal predecessore, Carlo Azeglio Ciampi. Anche da ciò originano le tensioni crescenti tra il premier e il Presidente della Repubblica. Nell'era della democrazia del pubblico. Maggioritaria e personalizzata. Dove i media sono divenuti lo spazio pubblico più importante. E il consenso è misurato dai sondaggi. Nessuno è "super partes". Sono tutti "parte". Tutti concorrenti. Avversari o alleati. Amici oppure nemici. Anche Napolitano, soprattutto Napolitano. Per la carica che occupa e la fiducia che ottiene. Agli occhi di Berlusconi, impegnato a costruire la leggenda del "presidente votato e voluto dal popolo". Non può apparire amico.

© Riproduzione riservata (11 ottobre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #129 inserito:: Ottobre 13, 2009, 09:18:43 am »

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   Ilvo Diamanti 
     

Terra?
Sorprende la sorpresa di chi si sorprende. Che la terra ci manchi sotto i piedi. In occasione dei terremoti. Quando trema, si scuote e si squarcia. A l'Aquila. E prima ancora in molti altri luoghi. Perché il nostro terreno sobbalza sempre. Da sempre. Dappertutto. A Nord, nel Centro, nel Sud e nelle Isole. Dal Friuli alle Marche. Dall'Abruzzo alla Campania. Alla Sicilia.
La terra. Ci manca sotto i piedi. Quando piove più del dovuto. In modo torrenziale. Allora si scioglie e si sfalda. Slavina. Una palude che scorre. Invade tutto. Affonda case e strade. Persone. È avvenuto altre volte, tante volte, troppe volte. A Sarno, nel 1998. A Messina, nei giorni scorsi. Dove si continuano a contare le vittime e a cercare i dispersi. Anche dopo le esequie.

La terra manca sotto i nostri piedi. Palazzi e le case che sprofondano in voragini improvvise. Si apre un abisso e gli edifici scompaiono, insieme alle famiglie, alle persone, alle loro vite. E, ancora, i fiumi che debordano, i bacini che tracimano. Il Po. Il "diopo". Talora esce dagli argini che non arginano più. Come altri corsi d'acqua. Fiumi e torrenti. Tracimano, allagano, travolgono case che lì non ci dovrebbero essere.

Sorprende la sorpresa di chi si sorprende. Che la terra ci manchi sotto i piedi. La terra. In fondo, per molti di noi, molti italiani, la è un concetto astratto. Un modo di dire. Un sottinteso. Un malinteso. Come il cielo. Di cui non abbiamo esperienza, solo un'idea. (Anche perché lo vediamo sempre meno. Almeno a casa mia, vicino a Vicenza. Avvolto e nascosto da una velo lattiginoso. Non ha l'immagine tantomeno il colore di quel che si intende per "cielo". D'altronde, le colline, a 5-6 kilometri di distanza, certi giorni si indovinano solamente. Ombre nella foschia).

La terra. Non la vediamo più, la terra. Urbanizzata senza fine e senza limiti. Capannoni ovunque. E case, quartieri, edifici e villaggi. Nuovi. Abitati o disabitati da stranieri. Non importa se italiani. Persone che non si conoscono e non si frequentano. Capitate lì per caso. Per ragioni immobiliari. Quando si incrociano un cenno di intesa, un saluto frettoloso, buongiorno, come va? E poi dritto, ciascuno per la propria strada. E non c'è terra senza relazioni, senza vita sociale. Questo paese dove l'80% delle famiglie è proprietaria di una casa e il 20% di almeno un'altra. Dove il terreno edificabile è limitato. Ma è edificato in modo illimitato. Dove larghi tratti di costa sono occupati da stabilimenti balneari, ristoranti, disco, hotel, ville a picco; dove il verde resta tale solo nelle mappe elettorali della Lega.
Questo paese dove anche la politica nei luoghi della vita quotidiana non si vede più. Le sezioni e le manifestazioni locali: archeologia. Come il risorgimento e la Resistenza. Oggi tutto si è spostato in tivù. E sugli altri media. I partiti: riassunti dalla faccia dei singoli leader. Che non hanno bisogno di comizi, incontri, assemblee per farsi eleggere. (D'altronde, non ci sono più le preferenze. Gli eletti li decidono le segreterie di partito). I politici. Non fanno campagna elettorale porta a porta. Ma sgomitano per una serata a "Porta a Porta". Chez Vespà.

È davvero sorprendente che qualcuno si sorprenda ancora quando la terra ci manca sotto i piedi. Perché la terra non c'è più. È rimasta nel nostro linguaggio. Residuo di un passato veramente passato. Come le lucciole. Le diligenze. L'arcobaleno. I buoni sentimenti e la buona educazione. I partiti di massa. Le sagre di paese. Come "i bei film di una volta". Insomma: roba d'altri tempi. Quando eravamo più giovani, noi anziani.
La terra: ce ne accorgiamo solo quando sprofonda. Quando ci travolge e ci trascina. Quando ci spezza la vita e l'esistenza. Allora montano il dolore, il lutto, le polemiche e i rimpianti. E la terra ritorna. Riaffiora. Come un ricordo lontano. Una parola che pronunciamo. Un po' per abitudine. Un po' per nostalgia.

(13 ottobre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #130 inserito:: Ottobre 19, 2009, 03:58:17 pm »

Nel sondaggio Demos-Coop emerge la fine della concorrenza tra network e la nascita di una sola entità.

Così la percepiscono i telespettatori

Gli italiani e MediaRai Meno fiducia nel Tg1

di ILVO DIAMANTI


FRA media e politica è ormai difficile distinguere. I ruoli si rovesciano. I comici, i presentatori, gli attori, i direttori di giornali e i giornalisti, gli editori sono spesso più importanti dei politici. E viceversa. I leader politici fanno spettacolo. Non sempre con successo. L'identificazione è quasi totale. Il Pdl è un esempio di Partito Mediale di Massa, guidato dal più importante imprenditore mediatico italiano. D'altra parte, come mostra l'indagine dell'Osservatorio di Demoscoop, oltre 6 italiani su 10 ritengono che questa situazione "condiziona l'andamento della politica".

E più di 1 su 2 - la maggioranza assoluta - pensa che danneggi la libertà di informazione. Tuttavia, anche queste opinioni risentono del cortocircuito mediatico-politico. Che, dal punto di vista dei mezzi di comunicazione, appare attraversato da tre fratture.

1. La più nota - e al tempo stesso più discussa - è tutta interna alla televisione. Indiscutibilmente, il mezzo più utilizzato per informarsi. Come fa, con cadenza quotidiana, oltre l'86% degli italiani. Cioè: quasi tutti. D'altronde, circa il 18% della popolazione (con più di 15 anni) passa più di 4 ore davanti alla tivù. Il 46% fra 2 e 4. Il tempo trascorso davanti alla televisione rende fragili i confini tra realtà e politica. Per cui, oltre le 4 ore di esposizione televisiva, la percezione del conflitto di interessi come vincolo per la libertà politica e dell'informazione diminuisce e, quasi, svanisce.
Comunque, nell'immagine politica dei notiziari e dei programmi di infotaiment (informazione e intrattenimento, miscelati) continua a pesare la distinzione fra Mediaset e le altre reti. Tutti i programmi e i notiziari di Mediaset sono apprezzati dagli elettori di centrodestra - e soprattutto del PdL. Al contrario quelli della Rai e ancor più delle altre reti: Sky e La 7, in particolare. Tuttavia, questa "frattura" appare meno profonda rispetto a due anni fa. In particolare perché l'identità delle due testate leader della rete leader di ascolti - la prima - si è spostata in modo significativo a destra. Ci riferiamo a Porta a Porta, condotta da Bruno Vespa, e al Tg1 diretto da Minzolini. Il quale, anche per questo motivo, ha perso terreno nella classifica della fiducia degli italiani. Superato dai Tg regionali, ma anche, dal Tg3, fra quelli nazionali. Il che spiega la definizione di RaiSet. O di MediaRai. Usata polemicamente per sottolineare la fine della concorrenza e della differenza tra network. Sostituita da una sola entità televisiva, condizionata dal premier e orientata da Mediaset. Il conflitto, semmai, attraversa la Rai, dove il gradimento per il Tg 3, Ballarò (ancora il programma più affidabile nel giudizio degli italiani) e Annozero si allarga fra gli elettori di centrosinistra. La caratterizzazione politica dei programmi più popolari, in tempi di crescente contrapposizione politica, ne ha peraltro ridimensionato il grado di fiducia, negli ultimi anni. (Inversamente agli ascolti). Mentre è significativa la crescita (+10%) di Report, di Milena Gabanelli. Che è un programma di inchieste scomode per tutti.

2. La seconda frattura attraversa i media stessi. Oppone, in particolare, il pubblico televisivo a quello dei quotidiani. Circa un terzo della popolazione, se si considerano i lettori assidui. I quali pesano - molto più della media - fra le persone adulte e anziane (oltre 45 anni) e tra quelle più istruite (al contrario dei teledipendenti). Mentre si eclissano - e quasi scompaiono - fra i giovani e soprattutto i giovanissimi (con meno di 25 anni). I quali non leggono più i giornali. Nel formato cartaceo, almeno. I lettori fedeli sono, politicamente, molto più orientati a centrosinistra. Sono sensibili al conflitto di interessi. Considerano, ovviamente, l'informazione dei giornali più libera di quella della televisione. E ciò riflette, in modo simmetrico, l'opinione del premier. Secondo il quale i giornali fanno informazione distorta - in particolare alcuni, che agiscono in modo eversivo. Mentre la televisione sarebbe più equilibrata. Con alcune eccezioni.

3. La terza frattura ha segno diverso dalle precedenti. Ed è nuova. La si coglie osservando com'è cambiata la frequenza nell'uso dei canali di informazione. Fra tutti gli strumenti utilizzati, due fanno rilevare una crescita esponenziale e significativa negli ultimi due anni. La componente di coloro che si affidano alle reti satellitari e al digitale terrestre è più che raddoppiata: dal 19% al 40%. Ma è cresciuta di un terzo anche la quota di persone che si informano, quotidianamente, attraverso Internet: dal 25% al 39%. La rete, d'altronde, è considerata il luogo (!) più libero. In cui si sperimentano pratiche di democrazia e di partecipazione diretta. Il pubblico di questi due media in parte si sovrappongono, ma hanno caratteristiche distinte. In particolare, gli internauti pesano molto più della media fra i giovani e i giovanissimi, fra le persone più istruite - e quindi fra gli studenti, i dirigenti, i professionisti. Leggono i giornali ma guardano la televisione meno degli altri. Sono maggiormente diffusi a sinistra e a centrosinistra, ma soprattutto fra gli elettori della sinistra radicale e della Lista Di Pietro (sostenuti dal "popolo" di Grillo).

La guerra mediatica, dunque, coincide con la guerra politica. E la libertà politica coincide con quella mediatica. La crescente importanza che stanno assumendo Internet, le tivù satellitari e il digitale permettono - e permetteranno - maggiore autonomia e nuovi spazi agli attori politici e sociali. Tuttavia, la televisione e i giornali sono ancora (e tali resteranno a lungo) luoghi di formazione e informazione politica importanti. Per quel che riguarda la tivù: il più frequentato dai partiti e dai loro leader. Per questo oggi questione mediatica e democratica sono indistinte. E indistinguibili.

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« Risposta #131 inserito:: Ottobre 27, 2009, 07:02:19 pm »

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Quel patrimonio di tre milioni

di ILVO DIAMANTI


A primarie concluse, la prima reazione è di sollievo. E' finita. Questa lunga, estenuante, complessa maratona congressuale. E al di là di valutazioni di merito, è finita bene.

Senza contraddizioni sostanziali fra il voto degli iscritti e quello degli elettori, alle (cosiddette) primarie. Senza bisogno di ricorrere al ballottaggio. Oggi, finalmente, il Pd ha un segretario, Pierluigi Bersani. Ma soprattutto ha scoperto che può ancora contare su una base enorme. Quasi tre milioni di elettori e simpatizzanti. Che domenica hanno partecipato alle primarie. Nonostante tutto. Molti, rientrati dall'esilio, per una volta ancora.

Bersani, con il 54% dei voti validi, ha distanziato gli altri due candidati. Che, pure, hanno riscosso un buon risultato. Franceschini ha raccolto un terzo dei voti. Marino ha ottenuto il 12%, il 4% in più rispetto al voto degli iscritti. Il dibattito congressuale non ha prodotto grandi emozioni. Identità chiare. Parole-chiave. Spendibili sul mercato politico, come slogan, dall'intero Pd. Tuttavia, alla fine, resta l'immagine di questa grande partecipazione. Un investimento sulla fiducia. Che sarebbe irresponsabile dissipare (ancora).

Sugli elettori delle primarie vorremmo proporre alcune considerazioni. Provvisorie, come i dati forniti dal Pd. (Ieri sera alle 18: poco più di 2 milioni, circa tre quarti del totale, incompleti soprattutto per il Sud).

1. La prima riguarda la partecipazione complessiva stimata dal Pd. Circa 2 milioni e 800 mila elettori - anche calcolando la presenza di giovani oltre i 16 anni e gli immigrati regolari - sono tanti. Circa il 35% degli elettori alle europee. Più di un elettore su tre. Nonostante la delusione verso un partito disorientato. Un'opposizione incerta. Una leadership indefinita.

Le ragioni di una partecipazione così ampia sono diverse. (a) Anzitutto, per la prima volta, si è trattato di una competizione vera. Non era mai avvenuto prima. Nel 2005 le primarie erano servite a legittimare l'investitura dell'unico possibile candidato premier. Romano Prodi. Ma anche nel 2007 si sono trasformate in un plebiscito per Veltroni, visto che l'unico vero sfidante, Bersani stesso, dopo un primo momento, rinunciò. Stavolta, invece, i candidati si sono affrontati in modo serio e aspro. (b) Un secondo incentivo alla partecipazione è riconducibile alla lunga fase congressuale. Per alcuni versi, defatigante. Ha tuttavia costruito una rete di tifosi e sostenitori organizzata e diffusa in tutto il paese. (c) Il terzo motivo è che gli elettori di centrosinistra sono pronti a mobilitarsi, se si forniscono loro occasioni serie e ragionevoli ragioni. Come hanno fatto anche stavolta. Quasi per riflesso condizionato. Alcuni - più di quanti si pensi - per disperazione. Come estremo atto di fiducia. Per non lasciare nulla di intentato.

2. La seconda considerazione riguarda la distribuzione territoriale della partecipazione alle primarie. Il cui dato è condizionato dall'andamento dello spoglio, incompleto e lungo. Soprattutto in alcune aree. Calcolata sul voto alle europee dello scorso giugno, raggiunge il massimo nelle zone rosse e nel Nordest. La partecipazione appare rilevante anche al Sud (dove, tuttavia, lo spoglio procede a rilento). Mentre è più ridotta nel Nordovest e nelle regioni centromeridionali: Lazio, Abruzzo e Molise. Le regioni del Nord sono quelle dove la partecipazione alle primarie appare più ampia rispetto agli iscritti. Soprattutto il Nordest. Mentre la partecipazione nelle zone rosse è coerente con la media nazionale (superiore di circa due volte e mezza agli iscritti). Infine, è più bassa nel Centro-Sud e nel Sud e nelle Isole. Questi indici suggeriscono diversi tipi di orientamento politico. Nelle regioni del Nord, in particolare, sottolineano l'importanza del voto di opinione. Espresso da elettori disposti a sostenere il Pd, ma senza atti di fede. Nelle regioni rosse, invece, la partecipazione alle primarie si è appoggiata, anche in questa occasione, alle tradizionali reti di appartenenza partitica. Nel Sud e nel Centrosud, infine, sembrano aver pesato maggiormente i meccanismi del voto personale e delle lobbies localiste. Mentre la mobilitazione sollecitata da motivi di identità e d'opinione appare meno propulsiva che altrove.

3. La terza osservazione riguarda il voto ai candidati. La base elettorale più caratterizzata è certamente quella di Marino. Che ha ottenuto i livelli più elevati nelle regioni del Nord e nelle province metropolitane (sempre oltre il 15%). Bersani, il vincitore, ha raggiunto il 60% nelle regioni del Sud (oltre il 70% in Calabria) e delle Isole. Ma ha conseguito un buon risultato anche nel Nordovest e nelle zone rosse. Ha peraltro vinto in quasi tutte le regioni. Il che ne legittima ulteriormente il successo. Franceschini, infine, appare il più "trasversale", dal punto di vista della distribuzione territoriale dei consensi. In grado di intercettare circa un terzo dei voti dovunque.
Mancano, per ora, dati sulla composizione sociale e anagrafica degli elettori. Ci fidiamo dell'esperienza diretta - nostra e dei nostri "testimoni privilegiati". Raccontano di una base adulta e anziana, ma con un'ampia presenza femminile. I giovani si sono visti di meno. Ma abbiamo l'impressione che si tratti di un problema più ampio. Demografico oltre che culturale. Si vedono poco perché sono pochi.

Finita questa infinita maratona congressuale, il maggiore partito di opposizione potrà finalmente fare opposizione. Se ne sarà capace. Oggi ha un segretario, legittimato dal voto degli iscritti e degli elettori. Ma soprattutto: le primarie gli hanno restituito una base ampia. Milioni di persone. Vere. Pronte a uscire di casa e a cercare un seggio provvisorio, presidiato da militanti. Per votare. Dopo aver pagato una somma, per quanto piccola.

Un'indicazione importante - sorprendente - al tempo della democrazia del pubblico. Dove è convinzione condivisa, anche nel centrosinistra, che lo spazio politico coincida con quello mediatico. In particolare con la televisione. La partecipazione alle primarie rammenta che la politica si può (vorremmo dire: si deve) fare anche sul territorio. Anche nella società. Per il PD, un'avvertenza utile. Forse l'ultima.

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« Risposta #132 inserito:: Novembre 06, 2009, 04:36:16 pm »

Rubriche » Bussole

Ilvo Diamanti
     
Il bar dei giovani senza fissa dimora


Un'amica che insegna ad Architettura mi ha interpellato, giorni fa, per sottopormi un problema. Nelle ore dedicate a Laboratorio, come ogni anno, ha proposto agli studenti un esercizio di progettazione. In questo caso: un bar. Da organizzare, negli spazi e negli arredi, secondo gli stili di vita e di consumo della loro generazione.
Ha incontrato subito imbarazzo, più che perplessità. Come di fronte a un'ipotesi improbabile. Chessò: organizzare un torneo di calcio per i ragazzi del quartiere in un cortile. Quasi che i cortili esistessero ancora. Oppure, servissero a stare insieme, giocare, parlare, incontrare altre persone. Naturalmente non è così.
I cortili servono ormai da parcheggi. La gente vi si ferma solo per transitare verso l'ingresso del condominio. Per rientrare a casa il più presto possibile. Quando si incontra un'altra persona perlopiù ci si limita a un saluto frettoloso. Buongiornobuonaseracomeva? Poi ciascuno per la propria strada. Tanto non si conoscono.

Così i bar. Non sono più quelli di una volta. Dove si passava il tempo - dentro - a parlare, giocare, bere, fumare. Guardare la tivù. Intorno ai tavoli, al biliardo.
I bar come riferimento sociale e territoriale, a cui si affidava la propria identità. Perché a ogni bar corrispondevano un gruppo oppure molti gruppi caratterizzati da comuni modelli di valore oppure da comuni gusti - in fatto di musica, motori, calcio. Ma anche da comuni orientamenti politici e ideologici.

Quei bar non ci sono più. Perché, anzitutto, i giovani non hanno più "un" bar di riferimento. Perché non hanno più uno specifico modello culturale, di consumo oppure politico che li definisca. Perché non hanno più una sola compagnia con cui trascorrere il tempo. Perché non hanno una identità con un solo centro e una sola cerchia sociale di riferimento. I giovani - e soprattutto i più giovani - hanno, perlopiù, piccoli gruppi amicali, di poche persone. Spesso non esclusivi.
Nel senso che frequentano persone diverse.

Appartengono a gruppi diversi. Per cui non ha senso fermarsi in un bar, ma neppure in un luogo specifico. Ne visitano, invece, molti dove incontrano persone e gruppi diversi. Per cui lo spazio dei bar è molto spesso rivolto all'esterno, più che all'interno. Un bancone, gli amplificatori che sparano musica, tavolini e sedie fuori, sui marciapiedi o sulla piazza. Ma in molti casi i giovani restano in piedi. A bere, chiacchierare, ridere, mangiar qualcosa. Poi si spostano altrove. Sempre in piccoli gruppi oppure da soli.
A casa di qualcuno oppure al cinema. O in un altro bar, dove incontrano altri gruppi di giovani. Poi, dipende dagli orari. Dai giorni. Se è festa o vigilia di festa.
Se è mattino, pomeriggio, notte. Sono luoghi di passaggio, i bar. Non centri di aggregazione e di socialità. Stazioni disposte lungo itinerari complessi, che raffigurano bene la complessa (ricerca di) identità dei giovani. Un'identità mobile e - necessariamente - incerta. I bar, come i social network, Facebook oppure Twitter, sono pagine dove si cercano amici, con cui si dialoga. Diverse pagine, costruite da persone diverse, talora intorno a un obiettivo, un proposito, una parola d'ordine.
Dove incontri persone note, altre meno note, altre del tutto sconosciute. Che tali restano, anche se ti propongono il loro profilo.

I bar si sono adeguati in fretta a questi cambiamenti sociali. Il mercato, del resto, è sempre pronto e rapido a trasformare le novità culturali sul piano dei consumi.
I bar oggi non sopportano una clientela (troppo) fissa e soprattutto (troppo) stabile e stanziale. La loro offerta varia di continuo, a seconda dell'ora e del giorno. Pasticceria, macchiatoni e cappuccini per la prima colazione, poi, a metà mattina, spuntineria e all'ora di pranzo, fast food, paninoteca. Per diventare, a tardo pomeriggio e fino a sera inoltrata, luogo di happy hour, che accompagna l'aperitivo ma può anche sostituire la cena. Infine, più tardi, cambia ancora. È semi-discoteca, pub, birreria. Dalla mattina a notte inoltrata: molti bar nello stesso bar. E molte persone diverse, molti giovani diversi, da soli o in compagnia. Per cui progettare un bar "dedicato" non ha senso. È come progettare una dimora fissa per i nomadi. E i giovani, i più giovani, in fondo, sono una generazione nomade. Senza fissa dimora. Anche se risiedono a lungo, molto a lungo, nella casa dei genitori. Ma sono sempre di corsa, sempre di passaggio. Senza territorio. Non hanno un posto fisso - non ci riferiamo solo al lavoro.
E, forse, neppure lo cercano. Per ora, almeno. Domani chissà.

Però domani è troppo avanti, troppo in là, troppo futuro, per una società - e una generazione - dove il futuro, più che imprevedibile, è imprevisto.

(6 novembre 2009)
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« Risposta #133 inserito:: Novembre 08, 2009, 05:20:58 pm »

POLITICA    MAPPE


I partiti personalizzati svuotano la democrazia


di ILVO DIAMANTI

Mentre ieri l'Assemblea del Pd proclamava Pierluigi Bersani segretario del partito, Rutelli se n'era già andato, insieme ad altri ex-democratici. Anche se non è chiaro dove approderanno. Nell'orbita dell'Udc, probabilmente. Ne è convinto Casini, che ha preconizzato, per il proprio partito, il raddoppio della base elettorale. Anche se i sondaggi, per ora, non hanno rilevato variazioni nelle stime di voto dell'Udc e del Pd. Il quale appare, anzi, in crescita.

L'Udc diverrebbe, in questo caso, un partito diverso. D'altronde, è una fase incerta, che coinvolge non solo Rutelli e Casini, il Pd e l'Udc, ma il sistema politico italiano nell'insieme. Scosso da tensioni trasversali agli schieramenti e ai partiti. Basta rammentare la turbolenza che investe, in questa fase, l'Idv, dove la leadership di Antonio Di Pietro subisce la concorrenza di Luigi De Magistris. Anche nell'altro versante, però, si colgono alcune crepe. Nel Pdl cresce l'insofferenza di alcuni leader nei confronti del protagonismo e delle scelte di Tremonti. E, parallelamente, cresce l'insofferenza di Tremonti verso le pretese degli altri ministri di condizionarlo - e di ridimensionarlo. Avvisaglie - per alcuni versi - della "guerra di successione" (preventiva) a Berlusconi. Perfino nel regno monocratico della Lega emerge una timida ricerca di autonomia personale rispetto alla leadership di Bossi.

Questi casi, profondamente diversi, riflettono l'equilibrio instabile del sistema politico italiano, dove è difficile - quasi impossibile - distinguere le persone dai partiti e i partiti dalle persone.
Rutelli, per ora, è un leader senza partito. Alla ricerca di un partito. Senza movimenti, fondazioni, comitati oppure liste che lo sostengano. Mosso da intenti che meritano rispetto. Ma vaghi. L'accusa rivolta al Pd, di essere il Pds senza la "S", evoca un rischio concreto. Tuttavia, il richiamo a un soggetto politico riformista e moderato è un po' generico. Tutti in Italia - salvo la sinistra radicale ormai fuori gioco - si definiscono tali. Riformisti e moderati. Inoltre, pare difficile che il riferimento ai valori gli permetta di attrarre gli elettori cattolici del Pd. I quali, peraltro, non sono troppo sensibili al richiamo della Chiesa, su questi temi.

Anche l'Udc, a cui Rutelli guarda con interesse (ricambiato), è un "partito personalizzato". Riassunto, a livello nazionale, da Casini. Altri leader, come Tabacci, godono di ampio credito, al di là dei confini del partito. Ma, per questo, non lo rappresentano e non lo identificano. D'altronde, il distacco dell'Udc dal centrodestra nasce dal rifiuto di Casini di confluire nel Pdl nel dicembre del 2007. Per non recitare, in eterno, la parte della "giovane promessa" (felice formula di Edmondo Berselli). Per non sparire, insieme all'Udc, nel PMM, il Partito Mediatico di Massa. Casini, allora, preferì spostarsi al centro. Cioè: alla periferia del sistema bipolare. (Aiutato da Bossi e dalla Lega). Mentre Fini si "ritirò" a Montecitorio. Visto che il gruppo dirigente di An, in larga maggioranza, non avrebbe accettato di sfidare il Cavaliere. Fini. Altro leader senza partito. Interpreta il ruolo di presidente della Camera da protagonista politico.

L'Udc, tuttavia, non è un "partito personale" (secondo la definizione di Mauro Calise). Non è il Pdl e neppure la Lega. È una rete di gruppi personali e di interessi locali. Un arcipelago sopravvissuto alla scomparsa del continente democristiano. Casini offre loro un'immagine comune. Una regia nazionale. Il riferimento all'identità cattolica, peraltro, è importante, ma non "distintivo". D'altronde, la Chiesa, per tutelare i propri valori e interessi, preferisce agire in proprio. Rivolgersi ai partiti maggiori e soprattutto al governo. Non alle formazioni minori. L'Udc, per questo, è un partito " personalizzato". Orientato dalle strategie personali del leader, ma anche da quelle dei gruppi dirigenti locali e della base elettorale. Per metà, insediata nel Centrosud. Zone di forza: Sicilia e Calabria. Per questo, l'arrivo di Rutelli ne può accrescere la visibilità. Il peso politico. Ma non i voti. Non più di tanto, comunque, fino a quando resterà in vigore questa legge elettorale - ironia della sorte: voluta dall'Udc - che premia le coalizioni e schiaccia chi sta in mezzo.

Nell'Udc crescerà , semmai, la concorrenza "personale". D'altronde, nel Pd, Rutelli era divenuto "periferico", dopo la sconfitta nell'elezione a sindaco di Roma, un anno e mezzo fa. E dopo la vittoria di Bersani al congresso e nelle primarie del Pd. Afflitto anch'esso dal dualismo fra partito e persone. Ma in senso contrario rispetto agli altri casi. Perché il Pd tende ad apparire oggi una sorta di "partito impersonale". Il che non è un male, se ci si riferisce a un partito non ridotto a una sola persona; dove il peso organizzativo e associativo è più importante del leader. Ma la definizione suggerisce dell'altro. Un'identità politica pallida. Oltre al sospetto che il potere effettivo di Bersani - per quanto legittimato dal voto degli iscritti e dei simpatizzanti - sia condizionato, nel retroscena, dai soliti noti.

La politica personale - o impersonale - rende, dunque, vulnerabile soprattutto il centro-sinistra. Nell'altro versante, il rapporto fra partito e persona è diretto. Berlusconi, in particolare, non è solo il leader unico del Pdl. Ma "impersona" l'ideologia condivisa dagli elettori. Dove pubblico e privato si confondono, nell'esercizio e nella "messa in scena del potere", attraverso i media, che egli stesso controlla. Nell'Idv, al contrario, Di Pietro, oscurato da mesi in tv (e non solo per volontà della destra), ha perso consenso e fiducia popolare. Mentre la concorrenza di De Magistris sta logorando le fondamenta (personali) del partito.
Questa seconda Repubblica. Ridotta a un catalogo di combinazioni tra partiti e persone. Partiti personali, personalizzati e impersonali. Accanto a persone senza partito e in cerca di partito. Evoca una democrazia povera. (Povera democrazia!). Di idee e di identità. Di passione e partecipazione. Speriamo che passi presto.

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« Risposta #134 inserito:: Novembre 15, 2009, 10:36:04 am »

POLITICA

       
Il neo-anticomunismo personaggi e interpreti

di ILVO DIAMANTI


È proprio vero che le ideologie sono finite? Dissolte insieme al muro di Berlino, vent'anni fa? In parte sì. Ma solo in parte. Perché resistono ancora. Anche se ridotte a parole e immagini, sedimentate nel senso comune. E interpretate dai leader politici.

Personalizzate, come tutta la politica, in quest'epoca senza partiti - dove i partiti sono, comunque, entità flou.

In questo "paese personale". È il tempo dell'anticomunismo senza il comunismo. In cui il "comunismo" ritorna come un mantra, nei discorsi del premier, dei suoi ministri, degli uomini del suo governo. Proprio - e tanto più - perché non c'è più. Ma serve. Come ha confessato Confalonieri a Sabelli Fioretti sulla Stampa: "È un ottimo argomento di vendita". Utile a catalogare gli Altri, quelli che stanno a centrosinistra. Ma anche al centro, perfino a destra. Comunque: a est del muro di Arcore che ha sostituito quello di Berlino. Dove si stende la terra del neo-comunismo. Costellata di riferimenti reali ad alto contenuto simbolico e di simboli ad alto contenuto realista. Recitati ad alta voce da testimonial e leader d'opinione. Gli ideologi del neo-anticomunismo (senza il comunismo). Che colgono fratture antiche e latenti e le proiettano nel presente. Con un linguaggio e argomenti popolari. Parole gridate, sempre più forte, secondo le regole della "politica pop".

Pensiamo, in primo luogo e soprattutto, al ministro Brunetta. Onnipresente sui media. Sempre alla ricerca della provocazione. Buca lo schermo. Suscita, per questo, grande consenso, ma anche ostilità. Nel suo stesso governo. (Com'è avvenuto di recente con Tremonti). Il suo marchio è la missione contro l'inefficienza della pubblica amministrazione. Contro i "fannulloni" che vi si annidano. Nell'intento - meritevole - di premiare i meritevoli. Con l'esito - non involontario - di coniare un'etichetta onnicomprensiva e indelebile, per chiunque insegni oppure operi negli uffici pubblici. Condannato, ora e sempre, a una carriera da "fannullone".

Altra figura importante - e popolare - è la ministra Gelmini. Si occupa della scuola e dell'università. Persegue, in modo determinato, l'obiettivo di ridurre gli sprechi e aumentarne l'efficienza. Anche la riforma dell'università, appena presentata, segue un disegno virtuoso. Introdurre criteri di qualità ed efficienza: nell'offerta formativa, nell'insegnamento, nel reclutamento, nell'organizzazione. Ma appare mossa da una preoccupazione dominante - anche legittima, per carità. Destrutturare il sistema di potere fondato sul ruolo dei professori ordinari. Disarmare i famigerati "baroni". Senza chiarire cosa dovrà diventare, questa università. Scossa da un processo di riforma continua. Da oltre 10 anni. Con una sola costante: la riduzione continua di risorse destinate all'università e alla ricerca. Prevista, puntualmente, anche da questa finanziaria. Con il rischio che, insieme ai baroni, affondi anche l'università. La meno finanziata di tutti i paesi dell'Ocse.

La scuola, l'università, la burocrazia, insieme, definiscono il regno della sinistra. Che ancora oggi attinge i suoi consensi maggiori proprio in quest'area sociale. Nell'impiego pubblico, fra gli insegnanti e nelle professioni intellettuali. Gli intellettuali.

Invece, il neo-anticomunismo rappresenta il mondo di "quelli che lavorano sul serio". Interpretato efficacemente dal ministro Sacconi. Spietato con gli ex-comunisti o presunti tali. Con la Cgil. Il sindacato comunista. (E chi lo è stato in passato è destinato a rimanerlo per sempre). Accusato di agire ispirato da pregiudizio politico più che dagli interessi dei lavoratori. I suoi iscritti operai, d'altra parte, resistono solo nelle grandi fabbriche. Quasi estinte. Oppure sono pensionati. Ex lavoratori che non lavorano più. Assistiti dallo Stato. Anche per questo votano prevalentemente a sinistra.

Contro la sinistra pubblica e intellettuale agisce la Lega popolana e plebea. Immersa nel territorio delle piccole imprese. Ma anche nelle campagne. Come rammenta Zaia. Ministro dell'Agricoltura. Un drago della comunicazione. Contadino fra i contadini, allevatore fra gli allevatori. Anche se non è mai stato né l'uno né l'altro.

È su questa linea di demarcazione che è stato costruito il muro del neo-anticomunismo senza il comunismo. Il nuovo muro. Da una parte, a ovest, il mondo dei lavori e dei lavoratori "che usano le mani". Gli imprenditori e gli artigiani che producono, faticano. Fanno. Dall'altra parte, quelli che parlano, dicono, predicano. A spese dello Stato. Da un lato il privato e dall'altro il pubblico. Da un lato le cose concrete dall'altro quelle virtuali. Da un lato i "fannulloni" e dall'altro i "fantuttoni", per citare Francesco Merlo. Quelli che fanno a quelli che dicono. I piccoli imprenditori e i lavoratori "veri" contro gli statali, i maestri, i professori, i baroni. Contro i giornalisti. Ma anche contro "attori e attrici, artisti e commedianti, registi e teatranti, cantanti e cantautori (...) Schiavi e proni. In attesa di una nuova rivoluzione". Come li ha apostrofati il ministro Bondi, in una lettera al Foglio, a commento della visita degli artisti al Quirinale. Bondi: fino a ieri persona mite e rispettosa. Si è adeguato al linguaggio e allo stile del tempo. All'ideologia che fa ritenere l'"industria culturale" quasi un ossimoro.

Berlusconi non si limita a ispirare questa rappresentazione del mondo. Ne scrive il copione, ne sceglie i personaggi. Delinea la scena con obiettivi simbolicamente reali e realmente simbolici. Offerti dall'emergenza presente. Luoghi come Napoli - da liberare dall'immondizia; l'Aquila - da ricostruire sulle macerie del terremoto. Oppure il ponte sullo Stretto.

Più che un'infrastruttura: una sovrastruttura marxiana. Ideologia allo stato puro. Berlusconi è l'uomo-che-fa, alla guida del governo-italiano - che - ha-fatto-di-più-negli-ultimi-150-anni. Cioè: da quando esiste l'Italia unita. Un vitalismo che schiaccia l'opposizione. Rappresentata e guidata da funzionari, uomini di Stato. Politici di professione. Giornalisti. Artisti. E intellettuali. Quindi ex oppure neo-comunisti.

L'opposizione. Dovrebbe certamente avvicinarsi di più al mondo dei lavori. E magari rifiutare, senza rassegnarsi, questa ideologia. Che considera la cultura inutile. E l'intellettuale una figura improduttiva. Più che una categoria: un insulto.

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