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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 277622 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Febbraio 24, 2009, 12:03:33 am »

Rubriche » Bussole     

Ilvo Diamanti


Paura di votare


Penso che Dario Franceschini abbia un profilo adatto a guidare il Partito Democratico. Il più lontano dal modello-Berlusconi. E dal gruppo dirigente che ha guidato il Pd e i partiti da cui proviene. Rispetto a Berlusconi, è proprio l'opposto. Non è mediatico, telegenico, imprenditore, anziano, potente, ricco. Cattolico ma non teodem.
Rispetto agli altri leader del Pd: non è un ex. Al massimo: dirigente del Movimento Giovanile della Dc.
La sua ascesa politica avviene attraverso il Partito Popolare e quindi: la Margherita, l'Ulivo e il PD. Insomma una storia vissuta dentro la seconda Repubblica. Non è neppure un capo corrente o un cospiratore. Insomma: non è un Caimano e neppure uno Scorpione. Ma neanche un Americano.

Se guardiamo ai suoi predecessori del centrosinistra, l'unico a cui può essere accostato è Prodi. Non perché gli somigli. Prodi era assai più coinvolto nella storia della prima Repubblica (per quanto da tecnico; e poi, non è una colpa). Ma per immagine. Prodi, tuttavia, è anche l'unico - mai dimenticarlo - che abbia sempre vinto contro Berlusconi. Magari di poco, pochissimo. Con un pareggio vittorioso. Ma non importa: lui, almeno, contro Berlusconi non ha mai perso. Anche perché è così diverso e alternativo rispetto al Cavaliere. Come Prodi, peraltro, Franceschini sullo schermo viene male. Uno dalla faccia onesta e bonaria, che meno va in tivù meglio è. (Anche se, a differenza di Prodi, in tivù ci va fin troppo. Dovrebbe auto-limitarsi). Perché i buoni in questa stagione politica non van di moda. Nemmeno gli onesti. Però da lui compreresti un'auto e anche una bici usata. Anche se è determinato e duro la sua parte. Altrimenti uno non diventa segretario del Pd, il secondo partito italiano. Il primo del centrosinistra, fino ad oggi.

Franceschini, insomma, ha tutto per sfidare Berlusconi. Perché è lo specchio dell'Altra Italia. Quella che oggi è all'opposizione. Minoranza precaria.
Ma, forse, con una rappresentanza più adeguata potrebbe anche cambiare. Comunque, riuscire a competere. Giocarsela. E' già avvenuto anche poco tempo fa.
Nel 2006 destra e sinistra, almeno, erano pari.

Ieri, peraltro, Franceschini ha fatto un discorso serio e - ancora una volta - onesto. Ma rischia di pagare il vizio d'origine, come non abbiamo mancato già di osservare.
Il modo in cui è stato designato. Da un'assemblea costituente eletta a sua volta per costituire il Pd, ma non per funzionare da organismo congressuale. Per eleggere il segretario, per quanto provvisorio. Una ratifica, insomma, arrivata dopo che Franceschini è stato "nominato" dal suo predecessore, con il consenso - magari non entusiasta - degli altri leader. Quasi una cooptazione ad opera dei soliti noti. Per cui anche se ha la biografia e la faccia giusta, ha seguito un percorso sbagliato. Ma per questo rischia di avere un futuro corto. Lui insieme al Pd. Franceschini dovrebbe, per questo, ascoltare il suo unico avversario di questa occasione: Arturo Parisi. E soprattutto la voce di tanti elettori del Pd. Promuovere una consultazione popolare vera, nei prossimi mesi. Non le primarie, che servono a selezionare il candidato a una carica istituzionale: il premier, il sindaco, il governatore. Ma una consultazione ampia quanto le primarie. Chiamiamole "primarie congressuali" da svolgere a fine aprile.
Aperte a tutti coloro che si riconoscano nel Pd. E intendano votare il segretario e gli organismi del partito. Disposti, al tempo stesso, a iscriversi, pagando una tessera low cost, ma comunque impegnativa: 8 o 10 euro, ad esempio. Un congresso vero ma largo e ampio come le primarie. In cui si misurino tutti coloro che davvero intendono guidare il Pd. Senza rete. Prima della tornata di elezioni europee e comunali di giugno. Non c'è tempo? Ma chi l'ha detto...

Comunque, queste "primarie congressuali" funzionerebbero da campagna elettorale mobilitando simpatizzanti e volontari in tutto il paese. Permetterebbero il confronto e la verifica intorno ai temi topici: la bioetica, le alleanze, la crisi, la sicurezza... Franceschini avrebbe ottime possibilità di vincerle, tanto più se avesse il coraggio di sfidare tutti, apertamente. Ribellandosi al destino di leader "secondario", come lo descrive la matita acuminata di Giannelli sul Corriere di oggi.
Lui, segretario provvisorio e precario, quasi uno specchio di questo paese precario e provvisorio, dove soprattutto i giovani sono attesi da un futuro precario e provvisorio quanto il suo. Faccia quel che gli altri dirigenti e l'assemblea del Pd non hanno avuto il coraggio di fare. Lasci da parte la paura di votare.

Ha tutti i requisiti per spiccare il volo.

(22 febbraio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #91 inserito:: Marzo 01, 2009, 10:35:26 am »

MAPPE

Gli ex-voto del Pd esuli in Italia

di ILVO DIAMANTI


SCOMPARSI.

Molti elettori che un anno fa avevano votato per il Pd: chissà dove sono finiti. I sondaggi condotti dai maggiori istituti demoscopici, infatti, oggi stimano il voto al Pd fra il 22 e il 24%. Alcuni anche di meno. L'IdV di Antonio di Pietro, parallelamente, ha pressoché raddoppiato i consensi e si attesta intorno al 9%. Le diverse formazioni riunite un anno fa nella Sinistra Arcobaleno, infine, hanno risalito la china, ma di poco. Nell'insieme, queste stime di voto non danno risposta al quesito. Anzi: lo rilanciano. Dove sono finiti gli elettori che avevano votato per il Pd nel 2008?

Rispetto ad allora mancano circa 10 punti percentuali. L'IdV ne ha recuperato qualcuno. Ma non più di 2 o 3, secondo i flussi rilevati dai sondaggi. E gli altri 7-8? Quasi 3 milioni di elettori: svaniti. O meglio: invisibili a coloro che fanno sondaggi. Perché si nascondono. Non rispondono o si dichiarano astensionisti. Oppure, ancora, non dicono per chi voterebbero: perché non lo sanno.

Certamente, non si tratta di una novità. L'incertezza è una condizione normale, per gli elettori. D'altronde, è da tempo che non si vota più per atto di fede. Inoltre, non si è ancora in campagna elettorale. E di fronte non ci sono elezioni politiche, ma altre consultazioni, nelle quali gli elettori si sentono più liberi dalle appartenenze. Come dimenticare, d'altronde, che il centrodestra ha perduto tutte le elezioni successive al 2001? Amministrative, europee, regionali. Fino al 2006: tutte. Forza Italia, in particolare.

Nei mesi seguenti alle regionali del 2005 i sondaggi la stimavano sotto il 20%. Dieci punti in meno rispetto al 2001. Come il Pd oggi. Ridotto al rango del Pds nel 1994. Sappiamo tutti cosa sia successo in seguito. Parte degli elettori di FI sono rientrati a casa, trascinati dal loro leader. Mobilitati dal richiamo anticomunista. Dalla paura del ritorno di Prodi, Visco e D'Alema.

Se ne potrebbe desumere che qualcosa del genere possa avvenire, in futuro, anche nella base elettorale del Pd. Ma ne dubitiamo. Non solo perché un richiamo simmetrico, in nome dell'antiberlusconismo, oggi è già largamente espresso - urlato - da altri attori politici. Primo fra tutti: Di Pietro. Non solo perché le elezioni europee - come abbiamo detto - non sono percepite come una sfida decisiva. Visto che sono, appunto, europee. Ma perché la defezione dichiarata nei confronti del Pd ha un significato diverso da quella che colpiva il centrodestra negli anni del precedente governo Berlusconi.

Allora, gli astenuti reali (rilevati alle elezioni) e potenziali (stimati dai sondaggi), tra gli elettori di FI, erano semplicemente "delusi". Insoddisfatti dell'andamento dell'economia e dell'azione del governo. Il quale aveva alimentato troppe promesse in campagna elettorale. Difficili da mantenere anche in tempi di crescita globale. Mentre, dopo l'11 settembre del 2001, quindi subito dopo l'insediamento, era esplosa una crisi epocale, destinata in seguito ad aggravarsi. Si trattava, perlopiù, di elettori senza passione. Moderati oppure estranei alla politica. Non antipolitici. Semplicemente impolitici. Non era impossibile risvegliarli. Spingerli ad uscire di nuovo allo scoperto. Il caso degli elettori del Pd è molto diverso, come si ricava da alcuni sondaggi recenti di Demos.

Coloro che, dopo averlo votato un anno fa, oggi si dicono astensionisti, agnostici o molto incerti (circa il 30% della base PD) appaiono elettori consapevoli, istruiti, politicamente coinvolti. Rispetto agli elettori fedeli del PD, si collocano più a sinistra. Si riconoscono nei valori della Costituzione. Sono laici e tolleranti. Ça va sans dire. Oggi nutrono una sfiducia totale nei confronti della politica e dei partiti. Anzitutto verso il Pd, per cui hanno votato. Per questo, non si sentono traditori, ma semmai traditi. Perché hanno creduto molto in questo soggetto politico. Per cui hanno votato: alle elezioni e alle primarie. E oggi non riescono a guardare altrove, a cercare alternative.

La loro sfiducia, d'altronde, si rivolge oltre il partito di riferimento. Anzi: oltre i partiti. Oltre la politica. Si allarga al resto della società. Agli altri cittadini. Con-cittadini. Rispetto ai quali, più che delusi, si sentono estranei. Gli ex-democratici. Guardano insofferenti gli italiani che votano per Berlusconi e per Bossi. Quelli che approvano le ronde e vorrebbero che gli immigrati se ne tornassero tutti a casa loro. La sera. Dopo aver lavorato il resto del giorno nei nostri cantieri. Gli ex-democratici. Provano fastidio - neppure indignazione - per gli italiani. Che preferiscono il maggiordomo di Berlusconi a Soru. Che guardano Amici e il Festival di Sanremo, il Grande Fratello. Che non si indignano per le interferenze della Chiesa. Né per gli interventi del governo sulla vicenda di Eluana Englaro.

Non sono semplicemente delusi e insoddisfatti, come gli azzurri che, per qualche anno, si allontanarono da Berlusconi. Ma risposero al suo richiamo nel momento della sfida finale. Questi ex-democratici. Vivono da "esuli" nel loro stesso paese. Lo guardano con distacco. Anzi, non lo guardano nemmeno. Per soffrire di meno, per sopire il disgusto: si sono creati un mondo parallelo. Non leggono quasi più i giornali. In tivù evitano i programmi di approfondimento politico, ma anche i tiggì (tutti di regime). Meglio, semmai, le inchieste di denuncia, i programmi di satira. Che ne rafforzano i sentimenti: il disprezzo e l'indignazione.

Questa raffigurazione, un po' caricata (ma non troppo), potrebbe essere estesa a molti altri elettori di sinistra (cosiddetta "radicale"). Scomparsi anch'essi nel 2008 (2 milioni e mezzo in meno del 2006: chi li ha visti?). Non sarà facile recuperarli. Per Franceschini, Bersani, D'Alema, Letta. Né per Ferrero, Vendola, lo stesso Di Pietro. Perché non si tratta di risvegliare gli indifferenti o di scuotere i delusi. Ma di restituire fiducia nella politica e negli altri. Di far tornare gli esuli. Che vivono da stranieri nella loro stessa patria.

(1 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #92 inserito:: Marzo 04, 2009, 10:12:50 am »

Ilvo Diamanti


Gli esuli a volte ritornano

CAPITA, ogni tanto, che una Mappa - o una Bussola - susciti curiosità, interesse, magari irritazione. Anche se la reazione più consueta è normalmente più modesta. Perché io non so proporre soluzioni, lanciare parole d'ordine, indicare obiettivi. Mi sento a disagio, quando ci provo, anche nella vita privata. Preferisco cercare e guardare. Anche - anzi soprattutto - quel che sta sotto ai nostri - miei - occhi. Ma non ci facciamo caso. Più che altro per pigrizia. Oppure per auto-difesa. Perche genera disagio.

Così è avvenuto anche questa volta, di fronte a un fenomeno diffuso, che incontro da tempo fra le persone che frequento. Una sindrome, che colpisce elettori di sinistra: radicale, riformista e moderata. Si esprime attraverso un dispiacere senza nome, un senso di spaesamento mischiato a impotenza. E alla sensazione di solitudine. Di estraneità.

Ne aveva parlato Ezio Mauro, alcune settimane fa, evocando la "secessione silenziosa di quei cittadini che si disconnettono dal discorso pubblico e attraversano una linea che li porta in qualche modo nella clandestinità politica". Sono gli "esuli in patria" che ho cercato di descrivere e misurare nella mia Mappa di domenica scorsa. I quali mi hanno scritto in molti attraverso la redazione di Repubblica ma anche direttamente, al mio indirizzo e-mail dell'Università di Urbino. Per cui ho pensato di proporre alcuni dei messaggi che mi sono giunti a una lettura più ampia.

Perché, dopo averne parlato io, può essere utile far parlare direttamente loro. Gli esuli. Sentirne le ragioni, i sentimenti e i risentimenti. Le pubblico senza firma, per rispettare la privacy di chi ha voluto raccontarmi il proprio malessere personale, quasi come a un confessore (come mi ha scritto un lettore). Peraltro, per i motivi che ho suggerito, non intendo "dare risposte". Non ne sarei in grado. E non ho intenzione di trasformarmi da analista in terapeuta. D'altronde, l'analisi può funzionare da terapia quando ci permette di definire il contesto da cui origina il nostro disagio.

In questa sede mi limito ad alcune - poche - notazioni, che ricavo dai messaggi.

1. La prima osservazione è il senso sollievo - misto a un po' di rabbia - suscitato dal trovarsi, quasi, di fronte allo specchio. In grado di riconoscersi e di venire riconosciuti. Genera sollievo. Perché diventare "invisibili", anche se per scelta, è, comunque, frustrante. Come se ci si nascondesse non per scomparire ma, al contrario, per diventare più evidenti. Si divenisse invisibili per essere più visibili. Si scegliesse il silenzio per essere ascoltati. Per produrre un silenzio fragoroso.

2. Venire definiti e definirsi "esuli" può servire, quindi, a dichiarare il desiderio - e il diritto - di tornare. Di rientrare in patria. Non tanto nel Pd: ma nella società civile. D'altra parte, come scrive un lettore: "Oggi sono trasparente ai sondaggi ma aspetto di poter votare e di sicuro esprimerò il mio voto". Questo è un altro aspetto che ricorre in alcuni messaggi: solo una quota limitata degli esuli è fatta di astensionisti patologici. Pochi, peraltro, hanno cambiato voto, a favore dell'IdV. In maggioranza sono, invece, votanti "potenziali". Potrebbero votare ancora. Alcuni lo faranno di certo. Come annota un altro (e)lettore: "Il quadro degli ex-democratici descrive alla perfezione ciò che provo io (...) in questo periodo. L'unica cosa che faccio di diverso è votare ancora per il PD, tanto per arginare un po' la frana. Ma senza speranza. Il cuore però è sempre pronto a risollevarsi, nessun fuoco sul camino è mai completamente spento. Si deve solo soffiare sotto nel posto giusto".

3. Gli esuli, infatti, non sono stranieri. Si sentono semmai "ex cittadini" (come si descrive un lettore). Perché si sentono estranei ai valori e agli orientamenti pubblici dominanti. Espressi dai leader e dalle forze politiche che governano, con il sostegno della maggioranza degli elettori. Rispetto a cui gli esuli si sentono "altri".

Il che suggerisce due altre osservazioni.

4. La prima riguarda la democrazia. Che si fonda sulla libera espressione del voto. Sulle elezioni. Elemento necessario ma non sufficiente. Tuttavia, considerare la maggioranza con fastidio, guardarli come fossero degli abusivi, o reciprocamente: considerare se stessi "estranei": non aiuta. A conquistare la maggioranza. Occorre, almeno, interrogarsi sul perché i valori e gli orientamenti di cui si è portatori siano "minoritari". Senza dedurne, a priori, che ciò avvenga per ragioni di natura antropologica. Perché i "nostri", perché "noi" siamo migliori degli altri. Avessero pensato e agito in questo modo i cittadini americani dopo 8 anni di presidenza repubblicana, alla guida di Bush e dei teocon; se quelli che negli Usa da 8 anni - ancora 6 mesi fa - erano minoranza avessero scelto l'esilio - in patria - oggi alla presidenza non ci sarebbe Obama.
E poi a chi si sente naturaliter minoranza, in Italia, occorre rammentare che 3 anni fa non era così. Alle elezioni del 2006 lo schieramento di centrosinistra, l'Unione, conquistò la maggioranza. O forse no: pareggiò. Ciò significa, però, che in quel referendum pro o contro Berlusconi - come avviene in ogni elezioni dal 1994 ad oggi - metà del paese, di questo paese votò contro. E che metà degli italiani è, quindi, "potenzialmente" all'opposizione. Metà. Oggi, se i sondaggi dicessero il vero - e spesso non è così - le forze di opposizione, tutte insieme, raggiungerebbero il 35-37%: 13 punti percentuali e circa 5 milioni di voti in meno. In questa cifra il problema. Il vuoto, ma anche lo spazio intorno a chi vorrebbe un'Italia politica (e non solo politica) diversa.

5. L'altra osservazione, però, riguarda la cittadinanza politica, che dipende direttamente dagli attori politici. I partiti, i leader. In passato, nella prima Repubblica - e per quasi cinquant'anni - il 40% dei cittadini è stato all'opposizione senza possibilità di diventare maggioranza. Ma senza mai sentirsi straniera. E senza mai perdere la speranza. Allora, però, i partiti offrivano valori, identità, organizzazione, socializzazione. E ciò garantiva appartenenza, senso. Cittadinanza. Oggi non è più così. Anche se non si può dire che gli elettori del Pd non abbiano espresso il lor sostegno a questo progetto. Visto il risultato elettorale di un anno fa. Vista la grande partecipazione che ha caratterizzato le primarie. Semmai, il problema sta nello scarto fra un investimento tanto generoso e una risposta altrettanto povera. Da ciò la delusione, la secessione silenziosa. Per ri-conquistare gli esuli, i gruppi dirigenti del Pd dovrebbero rinunciare ai giochi di palazzo, a parlar di se stessi per "parlare nuovamente alle persone", come ha scritto Michele Serra. "Basterebbe una politica copiata da un noto estremista. Barack Obama", conclude un altro lettore. Ma forse anche meno. Una politica.


Messaggi degli esuli in patria

Caro prof. Diamanti, sono uno degli "esuli" (...) descritto nella sua ultima "mappa". La raffigurazione che ha fatto del mio status di ex-democratico (è eccessivo dire: ex-cittadino?) è perfettamente aderente a tutto ciò che nell'intimo sento e penso. Perché non organizza un corso di recupero per la dirigenza (?) del PD? Sono certo che non tenterà neppure di farlo perché sa, come me, che si tratta di un'impresa affatto disperata. Cordiali saluti

Elettore di sinistra da sempre, volontario nei seggi per le primarie che elessero Prodi, ho trasalito leggendo l'articolo di Ilvo Diamanti, domenica 1 marzo; pensavo alla solita analisi sul voto degli Italiani, ma man mano che procedevo nella lettura mi sono interamente riconosciuto nella descrizione, la raffigurazione che egli fa dell'ex elettore PD non è affatto caricata, ma assolutamente fedele e precisa(...). Altrettanto centrata è la conclusione: gli ex-voto del Pd si recuperano restituendo fiducia nella politica, politica di "sinistra" (ricordate Moretti) aggiungerei io. Ma non sono più d'accordo con Diamanti quando dice che sarà difficile. Certamente difficile sarà per l'attuale classe dirigente del PD, ma non per un PD che tornasse a fare una politica di "sinistra", basterebbe una politica copiata da un noto estremista quale Barack Obama.

Gentile dott. Diamanti, ho letto con molta attenzione il suo articolo su Repubblica di ieri 1° Marzo e mi riconosco molto in quello che scrive. La nausea per quanto sta accadendo in Italia, dal caso Englaro, alle ronde padane, agli attacchi quotidiani alla Costituzione alla non opposizione del P.D. mi fanno veramente sentire un apolide. La voglia di fuggire di andarsene all'estero, se solo le condizioni economiche lo consentissero, sarebbe fortissima. Anche io ho ridotto al minimo la lettura dei giornali, anche la visione di Ballarò si sta facendo rarefatta e perfino le discussioni con gli amici. Perché sempre si deve litigare (anche con gli amici) e non ci si sente più parte di un progetto comune. L'unica osservazione con la quale non concordo è il fatto che questa fuga dalla politica e dalla voglia di fare politica precluda anche ad una fuga dal voto. Oggi sono trasparente ai sondaggi ma aspetto di poter votare e di sicuro esprimerò il mio voto. Non posso non essere assolutamente consapevole che se non tentiamo un pur piccolo e fragile argine le conseguenze per la nostra società, per la nostra Democrazia, per le Istituzioni Repubblicane rischiano di essere disastrose. Credo, spero che questa consapevolezza sia patrimonio di quel popolo di soggetti che hanno votato a sinistra e che oggi sono di colpo scomparsi.

Ciao Ilvo, Ho letto la tua mappa di oggi(...). Il quadro che hai fatto degli ex-democratici descrive alla perfezione ciò che provo io (...) in questo periodo. L'unica cosa che faccio di diverso è votare ancora per il PD, tanto per arginare un po' la frana. Ma senza speranza. Il cuore però è sempre pronto a risollevarsi, nessun fuoco sul camino è mai completamente spento. Si deve solo soffiare sotto nel posto giusto.

Egregio Prof. Diamanti, sei io fossi cattolico direi che il suo articolo su Repubblica di oggi potrebbe essere stato scritto dal mio confessore, in violazione del segreto sacramentale. Lei descrive in modo assai preciso le sensazioni, le delusioni, le paure, le frustrazioni degli ultimi mesi e i punti di domanda che riguardano il futuro politico del Paese. Non posso tuttavia lasciar cadere la speranza che Franceschini riesca a comprendere appieno i pericoli che il PD sta correndo e possa far imboccare al partito la strada giusta per interpretare le istanze che vengono dall'Italia non berlusconiana. Ciò non in nome dell'antiberlusconismo ma dell'urgenza di ridare al Paese la speranza di poter presto tornare a collaborare da pari con gli altri partner europei meno arretrati, meno provinciali, meno bigotti del nostro. Sono un illuso? Forse. Per saperlo seguirò il lavoro di Franceschini e della segreteria giorno per giorno, inonderò di mail le redazioni dei giornali e lo stesso PD (pur consapevole del fatto che nessuno le leggerà!). Se dovrò concludere che il PD non risponde alle speranze riposte nell'idea del nuovo partito democratico, laico, progressista e riformista... sarò in un guaio serio: all'orizzonte vedo solo una scheda bianca, una resa incondizionata! Perdoni lo sfogo.

Egregio dott. Diamanti, ho appena terminato la lettura del suo articolo "Gli ex voto del Pd esuli in Italia". Mi ha sbalordito la sua capacità di tratteggiare uno stato d'animo che mi appartiene ormai da mesi, con una precisione estrema, quasi gliene avessi parlato privatamente. Non andando più a votare, non comprando più assiduamente i giornali, non seguendo più i dibattiti, odiando tutto ciò che lei ha descritto egregiamente (grande fratello, ronde, interferenza della Chiesa...), tanto più in una città come la mia, Milano, dove il berlusconismo è ormai sistema sociale oltre che di potere, mi sono sentito inizialmente in colpa, come quei dissidenti che anziché combattere in patria scelgono un esilio dorato. Dopo molte riflessioni, anche con amici, colleghi, conoscenti, non necessariamente delle mie stesse posizioni, ho capito una cosa molto importante: tutto ciò è per me una questione di rappresentanza mancata, nel senso di assenza di una sinistra capace di essere laica, attenta alle istanze sociali, ambientali, una sinistra alla Zapatero capace di perseguire una concezione della società forte, chiara, netta e non titubante tra le istanze della chiesa e quelle dei laici, tra quelle dei sindacati e quelle della grande industria, insomma tra tutti i poli tra cui è possibile oscillare. Se poi aggiungo che sono un laureato con uno stipendio da fame in un settore schiavizzato come quello dell'informatica, convivo con una persona che, pur essendo laureata, non fa altro che oscillare tra contratti atipici, che pur non avendone voglia mi trovo costretto a chiedere ancora aiuto ai genitori, potrà capire quanto sento su di me il fallimento della sinistra sui temi del lavoro, delle leggi laiche (vedi PACS, DICO o dir si voglia), della meritocrazia e potrà intuire quanta strada questa sinistra deve fare prima di riavere il mio voto.

Spett. le Redazione, Egr. Sig. Diamanti, ho letto con particolare interesse l'articolo dell'1.3.2009 a firma di Ilvo Diamanti sugli italiani "esuli nel proprio Paese". E' (...) una sorta di specchio in cui, riga dopo riga, vedevo riflettersi la mia precisa immagine. Non avrei potuto descrivere meglio (...) il mio stato d'animo, il mio "sentire", il mio disagio (che, tuttavia, so appartenere a molti). La domanda che vorrei rivolgere ai "dirigenti" del PD è questa: com'è possibile che non vi accorgiate di questo disagio? E' talmente evidente, è così macroscopicamente chiaro, questo disagio diffuso, da imporre domande scomode di fronte all'assenza totale di opposizione... E' talmente tangibile (anche in termini elettorali) questo rigetto per un partito così desolatamente "buonista" (odio questo termine!), un partito così vergognosamente acquiescente di fronte alle prove di regime, di fronte all'evidente e gigantesco conflitto di interessi in cui annega la nostra democrazia, che le cerebrali e inutili discussioni tipiche degli intellettuali di sinistra sanno ormai di "collusione".
I Partigiani, anch'essi "esuli" nel proprio Paese, dopo l'8 Settembre del 1943, rischiarono la vita per la nostra Libertà. Possono, i Dirigenti del PD, rischiare almeno la faccia per recuperare credibilità e urlare - finalmente urlare - che quella Libertà la vogliamo proteggere, anzi ormai recuperare?

Egregio prof. Diamanti, ho letto il suo articolo su LA REPUBBLICA (...) e vorrei portarle la personale testimonianza di un astenuto che proviene dalla sinistra. Il mio non voto è figlio dell'infelice esperienza del governo Prodi(...). Per quanto attiene ad alcuni elementi del profilo dell'astensionista che lei individua, mi permetto di dirle la mia personale posizione
(statisticamente non faccio testo, ma per quello che può servire ...): 1) Personalmente non mi colloco più a sinistra del PD: Ritengo infatti che in Italia la sinistra può vincere e governare solo se si smarca dall'estrema sinistra. E' il centro del segmento elettorale che bisogna conquistare, non le frange estreme che storicamente ci saranno sempre. E quando si imbarcano creano solo disturbo nell'attività di governo. 2) Mi riconosco nei valori della Costituzione. Ritengo che debba invece essere aggiornata la parte relativa all'organizzazione delle istituzioni (camera, senato, governo, giudici, ecc.) e troppo tempo si è perso nel farlo, per colpa di tutti. 3) A differenza degli astensionisti di ultrasinistra (tipo i girotondini per capirci), non amo la corporazione dei giudici intoccabili e improduttivi che non hanno mai responsabilità di nulla e attribuiscono tutte le colpe della cattiva amministrazione della giustizia solo al governo che non dà soldi. 4) Nutro, ormai a 53 anni, una sfiducia totale nei partiti. 5) Non guardo con insofferenza a quelli che votano al centrodestra. La vita mi ha insegnato che le mie sconfitte sono dipese solo da me e perciò non ho mai inveito contro chi ha vinto in seguito a mia incapacità. E' stato solo bravo, dove invece io ho fallito. E ritengo che l'opposizione non debba essere fatta dicendo solo no. 6) Non mi indigno verso chi vota Cappellacci e guarda Amici e il festival di Sanremo. Questi sarebbero atteggiamenti da sinistrorsi da salotto. Non confonda gli astensionisti con i radical chic (....). 7) Sì, mi sono indignato per l'influenza della chiesa sulla vicenda Englaro. Ho inviato un telegramma con le mie discrete condoglianze a Beppino. Oggi ho però paura di un referendum in quanto ritengo che sia ormai passata la
stagione delle vittorie come ci sono state per il divorzio e l'aborto. Fico Anche se non ho mai fatto politica e non voto più, continuo ad essere un appassionato osservatore di ogni fenomeno politico. 9) (....). Come le dicevo sono solo una persona normale con famiglia e un buon lavoro e ritengo che la politica possa essere vissuta anche da dietro le quinte, commentando i fatti del giorno in famiglia, la sera a
cena, in una assoluta quotidianità e ordinarietà. (...)

Salve, Ho avuto modo di leggere il suo articolo "Gli ex-voto del Pd esuli in Italia". Credo ritragga molto bene la situazione di molti miei amici (di sinistra e centro-sinistra) che vivono in Italia. Ed è anche per quei motivi che ho scelto di diventare un "rifugiato politico di lusso" andando a fare un dottorato nei Paesi Bassi. Aggiungerei anche due cose che accomunano queste persone, soprattutto quelle più giovani: A) Avere la consapevolezza di vivere in un paese fermo da anni, dunque ormai arretrato; sul versante dei diritti, dell'ambiente, dell'innovazione tecnologica, delle politiche d'immigrazione, dell'economia, dei trasporti, del welfare, della dignità del lavoro ecc... B) Vedere che l'Italia sembra sempre meno un paese europeo e sempre più l'Argentina di Menem. (...)

Buongiorno Professore, mi scusi se La disturbo, ma (...) il profilo da Lei tracciato non è altro che quello del sottoscritto e, immagino, non solo il mio. E' tutto proprio esattamente come Lei ha scritto, da controfirmare riga per riga. Vorrei però aggiungere 3 punti per darLe il punto di vista completo di due suoi fedeli lettori (la mia compagna ed io): 1°) il nostro amato Paese vive una paurosa carenza dei valori civici e sociali di base: la prova sta nell'abbrutimento palese della collettività, nel razzismo neanche più strisciante e nel correlato neofascismo ormai sdoganato, nella ruberia fiscale assurta quasi a valore, nella devastazione del territorio, per finire nella sporcizia (uso proprio questo termine) in cui facciamo vivere le nostre strade e i nostri luoghi pubblici. Se siamo così sporchi fuori, come possiamo essere puliti dentro? (...)
2°) quando penso che, se solo fossimo un popolo normale (non dico speciale, per carità), potremmo godere appieno della grazia che ci è stata regalata di nascere e vivere nel Paese più ricco di storia, arte e cultura; nel Paese che è stato tra i più beneficati dalla natura; nel Paese che era e sarebbe ancora meraviglioso; nel Paese che dovrebbe tenere le sue città d'arte come gioielli; nel Paese che potrebbe e dovrebbe essere, e di gran lunga, la nazione più visitata al mondo (altro che quinto o sesto posto) (...). E qui mi fermo... Quando penso a tutto ciò che potrebbe essere e a quello che invece è, mi prende veramente lo scoramento; 3°) ed eccoci al dunque. A 50 anni compiuti da poco, con un discreto patrimonio non frutto di eredità, potrei decidere di avere tempo libero e di utilizzarlo non rimanendo con le mani in mano, ma passando dalle parole ai fatti per dare il mio minimo contributo alla causa di un Paese migliore. Già, ma chi si fila un perfetto signor nessuno che, come altri 5 (massimo 10) milioni di omologhi, sinceramente non merita di finire i suoi giorni in questo tipo di Italia? Mi ricordo chi una volta diceva "non moriremo democristiani" e quasi quasi rimpiango quel tempo! Conclusione. Sa come finirà? La mia compagna (46 anni, di Cuneo, che se non sbaglio è la Sua città natale) ed io, entrambi del Nord, entrambi laureati, parlanti 3 lingue straniere, cui la vita non ha portato figli, stiamo qui solo ed esclusivamente fino a quando vivranno i nostri genitori. Salvo imprevisti, quando sarà, chiuderemo baracca e burattini, prenderemo il nostro capitale (accumulato legalmente e a tasse pagate) e ci sceglieremo un posto che sarà o comunque ci sembrerà più civile. Per come è oggi l'Italia e per quello che abbiamo visto in giro per il mondo con i nostri occhi, ci sarà solo l'imbarazzo della scelta.

Desidero perfezionare la descrizione tipologica che Ilvo Diamanti fornisce a proposito del quesito: dove sono finiti i voti del PD? Mi riconosco perfettamente nella descrizione di Diamanti. Odio gli Italiani che si riconoscono in questo governo. Mi sento un corpo estraneo in un paese che non mi piace e che non avverto come mio alveo culturale ed etico. Oggi più di prima. Ed odio almeno altrettanto il PD ed i suoi dignitari che pure ho votato. Io sono un socialdemocratico convinto e votavo per il PCI, non perché fossi un rivoluzionario trozkista, ma semplicemente perché quello era il nostro vero partito socialdemocratico laico e riformista già allora (ed era questo che già faceva paura). Il PD ha sacrificato l'identità socialista in questo paese e questo è intollerabile, né, credo, possa essere riparato. In tutto quello che Veltroni ha fatto dopo la batosta elettorale vi è stato il tentativo di spostarsi dove i voti conquistati collocavano il soggetto politico che aveva creato. E la tipologia del voto, dopo l'annichilimento della sinistra cosiddetta radicale (ma in realtà, fuori dalle etichette, la sola depositaria dell'identità socialdemocratica del paese), spingeva appunto il PD a rinnegare una collocazione, più che ovvia, nell'alveo socialista europeo, ad assumere atteggiamenti ambigui rispetto a scelte che avrebbero dovuto essere evidenti ed automatiche, tipo il caso Englaro, e ad accettare supinamente un'offensiva autoritaria senza precedenti nel dopoguerra. Il provvedimento squadrista che è passato tranquillamente in un parlamento che ricorda in modo preoccupante quello del 1922 sarebbe stato impensabile quando DC e PCI erano quelli che erano. Alla faccia del pericolo comunista e della corruzione democristiana. Che cosa c'entra tutto questo con le persone come me, che vivono nella convinzione che, come dimostra la crisi che stiamo vivendo, la socialdemocrazia è l'unica possibile forma di democrazia condivisa? Non pretendo di aver ragione, ma pretendo di votare un soggetto politico che risponda al mio modello. Il PD così com'è non avrà mai più il mio voto. Ed invito tutti quelli che la pensano come me ad andare comunque a votare, ma scrivendo sulla scheda elettorale "questo voto sarebbe andato ad un partito di sinistra riformista e laico, se in Italia ce ne fosse uno". Non vedo uscite, se non quelle di spingere fuori dal paese i nostri giovani (...). Sono in tutte le mie scelte abbastanza vicino ai comportamenti medi. Sono, cioè un uomo normale e sono arcisicuro che quello che dico è sostanzialmente condiviso da quelli che non voteranno più per il PD.

(4 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #93 inserito:: Marzo 22, 2009, 11:59:59 am »

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Presidenzialismo all'italiana


di ILVO DIAMANTI


LE polemiche sullo stravolgimento della nostra Costituzione trascurano un aspetto importante. Il nostro sistema istituzionale è già cambiato profondamente. Senza bisogno di grandi riforme, approvate in sede parlamentare oppure referendaria.

Ad esempio, siamo da tempo avviati verso il presidenzialismo. Anzitutto, attraverso il rafforzamento dell'esecutivo e, al suo interno, della figura del primo ministro (definito, non a caso, "premier", echeggiando il modello inglese). Poi, attraverso la mutazione dei partiti, che oggi è improprio definire "personali" (secondo la nota formula di Mauro Calise, fra i più attenti a registrare questi cambiamenti). Meglio chiamarli, appunto, "presidenziali". Perché tutti - e non solo l'archetipo Forza Italia - sono organizzati intorno a leader da proporre e imporre come candidati alla guida del governo del paese (ma anche degli enti locali). Al punto che, al momento del voto, sulle schede elettorali partiti e coalizioni accostano al proprio marchio il nome del candidato. Un segno di stravolgimento istituzionale, secondo Giovanni Sartori. Infine, il mutamento - per definizione - più visibile. Causa ed effetto degli altri. La mediatizzazione. La centralità assunta dai leader nella comunicazione politica.

Si tratta, ripetiamo, di un percorso comune ad altre democrazie occidentali. (Ne hanno fornito, di recente, una ricostruzione puntuale i politologi Thomas Poguntke and Paul Webb). Ma in Italia ha assunto un formato del tutto originale per l'interpretazione che ne ha dato Silvio Berlusconi. Un imprenditore mediatico, che conosce a fondo i meccanismi della comunicazione. E li possiede. In senso letterale. Berlusconi ha trasferito le logiche del marketing alla politica e ai partiti. Ne ha personalizzato l'immagine e il potere. Ha, inoltre, trasformato in modo rapido e profondo anche la forma di governo, rendendo il ruolo dell'esecutivo preminente sul Parlamento, come sottolinea il ricorso sempre più frequente alla legislazione per decreto (peraltro già abusata).

Alla preminenza dell'esecutivo sul Parlamento, d'altronde, si aggiunge la preminenza del premier sul governo. Che Berlusconi ha di fatto personalizzato. Visto che i ministri e i leader della maggioranza si incontrano a casa sua. A Palazzo Grazioli, Arcore, oppure nella sua villa in Sardegna. Dove riceve anche i "grandi della Terra", secondo un modello monarchico, più che presidenziale. La tendenza presidenzialista, inoltre, corre parallela all'affermarsi della "democrazia del pubblico", come la definisce il filosofo Bernard Manin. Dove il rapporto fra il leader e i cittadini diventa diretto, (im)mediato dai media. Una sorta di populismo mediatico che trasforma i cittadini in spettatori; misura il consenso per le politiche e i politici in base all'auditel.

Al principio di legittimazione offerto dal voto se ne è affiancato un altro, espresso dall'Opinione Pubblica. Descritta e, anzi, prodotta dai sondaggi riverberati dai media. Cittadini e Opinione Pubblica. Istituzioni e media. Berlusconi governa entrambi i settori. E li fa reagire, reciprocamente, in modo efficace. Utilizza l'Opinione Pubblica per rafforzare il potere sulle istituzioni ma anche sui cittadini. Per lui è naturale. Commentando i ripetuti sfoghi del premier, negli ultimi tempi, Vittorio Feltri, che se ne intende, ha scritto: "Berlusconi è talmente sincero che dice la verità anche quando racconta balle". Ragionamento, peraltro, reversibile. Ma certamente Berlusconi è sincero quando esprime fastidio verso le procedure - ahimé lunghe e complesse - della democrazia rappresentativa. E avanza l'idea di far votare i capigruppo per tutti i parlamentari. È altrettanto sincero quando manifesta tutta la sua insofferenza verso le cariche dello Stato, che interferiscono troppo sulle decisioni del governo. Verso Giorgio Napolitano: il Presidente della Repubblica parlamentare. Ridotto, dal presidenzialismo all'italiana, a un contrappeso istituzionale. Un garante della Costituzione. Una specie di Magistrato. Quindi, per Berlusconi, un avversario. Verso Gianfranco Fini. I cui continui richiami, la cui pretesa di contrastare il solo, vero Presidente, a Berlusconi appaiono irritanti e inattuali. Le resistenze di un passato che non vuol passare. Con l'aggravante che Fini, leader di An, con le sue critiche, danneggia l'immagine monocratica del nascente Popolo della Libertà. Napolitano e Fini: colpevoli, di fronte a Berlusconi, di essere più "popolari" di lui.

D'altronde, per il premier, la legittimazione fondata sull'Opinione Pubblica conta più di quella costituzionale. Da ciò la polemica continua - quasi un mantra - contro i media, colpevoli di distorcere la realtà. La fretta di rimodellare il sistema radiotelevisivo pubblico (cioè, le nomine). L'irritazione verso Sky: concorrente, politicamente non condizionabile. L'intento di intervenire anche sui giornali "indipendenti" più importanti. Berlusconi. Ha bisogno di legittimarsi ancora e a lungo presso l'Opinione Pubblica per rafforzare la sua autorità sulle istituzioni e sui cittadini. Non può permettersi, come avvenne tra il 2001 e il 2006, che crescano l'insoddisfazione e insieme la sfiducia. Parafrasando quanto scrisse Ernest Renan a proposito della nazione: la democrazia del pubblico è un plebiscito di tutti i giorni. Una lotta quotidiana, dura e insidiosa. Per Berlusconi. Anche per la democrazia. Anche per noi.

(22 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #94 inserito:: Marzo 25, 2009, 08:47:43 am »

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Sul condom solo due su dieci d'accordo con Ratzinger

L'80% dice sì a testamento biologico e fecondazione assistita

Biotestamento e preservativo gli italiani bocciano il Papa

Nonostante le singole divergenze quasi il 55% si fida del Pontefice

di ILVO DIAMANTI


Da tempo le posizioni della Chiesa e del Pontefice non provocavano tanto dibattito. Divisioni profonde. Al di là delle stesse intenzioni del Vaticano. Lo prova la reazione del cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Cei, alle polemiche sollevate dall'affermazione del Papa, durante la visita in Africa, circa l'inutilità del preservativo nella lotta contro l'Aids. Il risentimento del cardinale, peraltro, sembra rivolgersi soprattutto verso la Francia, il cui governo ha ribadito ieri le proprie critiche. Marc Lazar, d'altra parte, sulla Repubblica, ha posto l'accento sulla timidezza, quasi l'imbarazzo dei commenti politici in Italia su questi argomenti. Non solo nel centrodestra, anche nel centrosinistra. Peraltro, in Italia, più che in Francia e negli altri paesi europei, il rapporto con la Chiesa e con l'identità cattolica è importante. Ma anche ambivalente.

In ambito politico ma prima ancora nella società, come emerge dagli orientamenti verso le questioni etiche e bioetiche più discusse. A partire dalla più recente: l'affermazione del Papa sull'uso del preservativo. Trova d'accordo una minoranza ridotta di persone, in Italia. Circa 2 su 10, secondo un sondaggio di Demos, condotto nei giorni scorsi. Che salgono a 3 fra i cattolici praticanti più assidui. La posizione politica non modifica questa opinione in modo sostanziale. Il disaccordo con il Papa, in questo caso, resta largo, da sinistra a destra. D'altra parte, lo stesso orientamento emerge su altri argomenti "eticamente sensibili". Circa 8 italiani su 10 ritengono giusto riconoscere alle persone il diritto di scrivere il proprio "testamento biologico", altrettanti si dicono favorevoli alla fecondazione assistita, 6 su 10 sono contrari a rivedere in senso restrittivo l'attuale legge sull'aborto. Pochi meno, infine, sono d'accordo a riconoscere alle coppie di fatto gli stessi diritti di quelle sposate. Con la parziale eccezione delle coppie di fatto, le posizioni dei cattolici praticanti, anche in questi casi, non divergono da quelle prevalenti nella società. Mentre le opinioni dei praticanti saltuari, la grande maggioranza della popolazione, coincidono con la "media sociale".

Ciò potrebbe rafforzare il dubbio sulle ragioni che ispirano la timidezza delle forze politiche in Italia, visto che gran parte dei cittadini, compresi i cattolici, mostrano distacco e perfino dissenso verso le indicazioni della Chiesa. Tuttavia, occorre considerare un altro aspetto, altrettanto significativo e in apparenza contrastante. In Italia, nonostante tutto, la grande maggioranza dei cittadini - quasi il 60% - continua ad esprimere fiducia nella Chiesa. Non solo: il giudizio su Papa Benedetto XVI non è cambiato, in questa fase. Il 55% delle persone mostra fiducia nei suoi confronti. Qualcosa di più rispetto a un anno fa. Il che ripropone il contrappunto emerso in altre occasioni. Gli italiani, cioè, continuano a fidarsi della Chiesa, dei sacerdoti, delle gerarchie vaticane. Ne ascoltano le indicazioni e i messaggi. Anche se poi pensano e agiscono di testa propria. In modo diverso e spesso divergente. Si è parlato, al proposito, di una religiosità prêtàporter. Di un "dio relativo". Interpretato e usato su misura. Ma si tratta di un giudizio riduttivo. Il fatto è che la Chiesa, il Papa intervengono sui temi sensibili dell'etica pubblica e privata in modo aperto e diretto. Offrono risposte magari discutibili e spesso discusse. Contestate da sinistra, sui temi della bioetica. Ma, in altri casi, come sulla pace e sull'immigrazione, anche da destra. Tuttavia, offrono "certezze" a una società insicura. Alla ricerca di riferimenti e di valori. Per questo quasi 8 italiani su 10, tra i non praticanti, considerano importante dare ai figli un'educazione cattolica (Demos-Eurisko, febbraio 2007). Mentre una larghissima maggioranza delle famiglie destina l'8 per mille del proprio reddito alla Chiesa cattolica.

Sorprende, semmai, che, su alcuni temi etici, le posizioni politiche facciano emergere differenze maggiori rispetto alla pratica religiosa. Le opinioni degli elettori della Lega, sulle coppie di fatto, quelle degli elettori del PdL, sull'aborto, appaiono più restrittive rispetto a quelle dei cattolici praticanti. Il che ripropone una questione mai del tutto risolta. In che misura sia la Chiesa a condizionare le scelte politiche e non viceversa: la politica a usare le questioni etiche per produrre e allargare le divisioni fra gli elettori. Caricando posizioni politiche di significato religioso.

Peraltro, questi orientamenti ripropongono un'altra questione, che riguarda direttamente il messaggio della Chiesa. Che gli italiani considerano una bussola importante per orientarsi, in tempi tanto difficili. Tuttavia, quando una bussola dà indicazioni così lontane e diverse dal senso comune, dalle pratiche della vita quotidiana. E puntualmente disattese. Dai non credenti, ma anche dai credenti e dagli stessi fedeli. Allora può darsi che la bussola possa avere qualche problema di regolazione.

(25 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #95 inserito:: Marzo 28, 2009, 12:15:08 pm »

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Il 18% degli elettori del Pdl vuole Fini leader

il 24% indica il presidente della Camera come seconda scelta

Ma il nuovo partito non sarà monocratico

di ILVO DIAMANTI


Il Popolo della Libertà, in questi giorni, si trasforma in un partito vero. Personalizzato, presidenziale, maggioritario, rivolto alla società, impresa politica di marketing e comunicazione. Un modello imitato anche dal Partito Democratico. Rispetto al quale, però, il PdL sta sicuramente meglio. Non solo perché governa. E il governo continua a godere di un buon grado di consenso popolare. Ma perché, dopo le elezioni di un anno fa, ha allargato ulteriormente il suo vantaggio, che oggi, secondo l'Atlante politico di Demos-coop, è di oltre 13 punti percentuali. Infatti, il Pdl è stimato poco al di sotto del 39%, il Pd poco al di sopra del 26%.

Il Pd, tuttavia, sembra aver interrotto la discesa iniziata lo scorso in autunno e che pareva quasi inarrestabile, visto che negli ultimi mesi era sceso sotto il 24%. In questo periodo, il Pd ha affrontato il distacco di molti elettori. Esuli in patria. Delusi dal partito ma, prima ancora, dalla società che li circonda. Metà degli elettori che lo avevano votato nel 2008, infatti, si sente più lontana dal Pd. Si tratta di un'area composita. Dove coabitano elettori perlopiù giovani, istruiti. Molti di essi laici, residenti nelle zone rosse. Molti, invece, sono orientati al centro. In passato hanno votato per la Margherita e per il Partito Popolare. Metà di essi esprime fiducia in Beppe Grillo. Un'area ibrida, quindi, che riflette in modo esemplare l'integrazione incompiuta del PdL. Le traumatiche dimissioni di Veltroni hanno prodotto un sussulto emotivo. Il rischio - reale - di assistere alla rapida dissoluzione del Pd ha frenato e, anzi, interrotto l'esodo di tanti elettori di centrosinistra verso l'esilio. La scelta di Dario Franceschini sembra aver sopito, almeno fin qui, l'insoddisfazione degli elettori del Pd. Tanto che il 33% di essi ritiene che il prossimo segretario e leader del Pd dovrebbe essere proprio lui. Bersani, secondo nelle preferenze dei Democratici, è indietro di oltre 25 punti percentuali.

Tuttavia, il marchio "presidenziale" del PdL appare molto più netto. Visto che 6 elettori su 10 indicano come leader Silvio Berlusconi. Da cui l'idea che il PdL, più che un nuovo partito, frutto dell'accordo tra FI e AN, costituisca una versione più larga del partito personale del Cavaliere. Anche per la nota riluttanza di Berlusconi a condividere le leve del comando. A sottoporsi alla fatica - a lui insopportabile - della mediazione, della collegialità, del negoziato. Quando si tratta di governare: figurarsi nel partito. Tuttavia, il 18% degli elettori del PdL vorrebbe Gianfranco Fini leader del nuovo partito e il 24% lo indica, comunque, come seconda scelta. Difficile, per questo, pensare a un partito monocefalo. Anche perché le differenze di visione fra gli elettorati dei due 2 "soci fondatori" appaiono ancora visibili. Fra gli ex elettori di AN, infatti, la quota dei sostenitori di Fini alla guida del PdL sale a un terzo; alla pari con Berlusconi. Inoltre, il 35% di essi preferirebbe tornare indietro. AN e FI: divisi e senza alcuna con-fusione.

Il bipartitismo all'italiana, quindi, è ancora lontano. In primo luogo, ha bisogno di due partiti davvero forti. Per ora il Pd non lo è. Appare, invece, un partito in cerca di identità. Ha un elettorato sempre più vecchio. Dove abbondano i pensionati, gli impiegati del settore pubblico, le professioni intellettuali (si spiegherebbe altrimenti tanto accanimento da parte del governo verso gli statali e i professori?). Fra gli elettori del PdL, invece, pesano maggiormente i giovani, i lavoratori dipendenti del privato, i lavoratori autonomi, gli imprenditori, i liberi professionisti. Oltre alle casalinghe. Insomma: il Pdl è trascinato da ceti affluenti, spinto dal dinamismo del privato. Il Pd è anagraficamente vecchio. Esterno ai punti nevralgici del sistema produttivo.

Dal punto di vista dei valori, il PdL interpreta, soprattutto, la domanda di sicurezza. Le paure. Oltre all'insofferenza verso le regole. Marcia fra ronde e diritto a ristrutturare la casa. E' un calco del mutamento sociale che ha investito il paese negli ultimi trent'anni. Dei ceti sociali che lo hanno trainato. In più, ha una visione etica ormai ripiegata su quella della gerarchia ecclesiastica. Sulla vita come sulla famiglia. Da ciò i problemi del bipartitismo all'italiana. Il Pd, Partito Unitario dei Riformisti, deve fare i conti con un elettorato biograficamente e professionalmente conservatore. Poi, ha bisogno di "un'anima", come evoca il titolo del recente saggio scritto da Luigi Manconi (per l'editore "Nutrimenti"). Per ora è più uno "stato d'animo", depresso dal senso di declino che opprime una parte dei suoi elettori. Tuttavia, anche il PdL, il Partito Unitario dei Moderati, deve ancora diventare un "partito". L'integrazione tra i gruppi dirigenti dei due soci fondatori - FI e An - non è scontata. Come non lo è la leadership di Berlusconi. Abituato a non essere discusso. Padrone a "casa sua". Ci si dovrà abituare, visto che Fini non pare intenzionato a fare la parte dell'amministratore di condominio. Inoltre, più che moderato, per i valori che esprime, appare conservatore. Perfino tradizionalista. E, dal punto di vista dell'impianto elettorale, trascinato a Centrosud. La concorrenza con la Lega si farà sentire.

Insomma, il bipartitismo italiano fra PUM e PUR, per ora, è ancora imperfetto.

(28 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #96 inserito:: Aprile 07, 2009, 12:34:42 am »

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Quanto vale quel "però"


di ILVO DIAMANTI

 
UN ANNO dopo le elezioni politiche è difficile parlare ancora di bipartitismo o di bipersonalismo. Visto che il PD ha rischiato di sfaldarsi, un paio di mesi fa.
Stressato dalle sconfitte elettorali - ultima la Sardegna - e dai sondaggi sfavorevoli, che lo stimavano al 22%. Mentre Berlusconi ha affondato l'ultimo di una lunga serie di avversari. Walter Veltroni. Peraltro, il congresso fondativo del PdL ne ha ulteriormente accelerato la crescita elettorale. Ma soprattutto ha celebrato l'ennesima, ulteriore e mai definitiva investitura dell'unico, vero, Numero Uno. Altro che SpecialOne. Altro che Mourinho. BerluscOne.

Tre giorni dedicati al Partito del Presidente. E al presidente del partito. Unica voce dissonante: Gianfranco Fini. Che, però, oggi nel PdL conta poco. Gli stessi dirigenti di AN (a differenza degli elettori), in larga misura, non rispondono più a lui.

Però. Qualche dubbio viene (a me personalmente, almeno). Dopo un'investitura personale tanto fastosa. Come sempre perfetta, sotto ogni punto di vista. Scenografia, script, luci, musica e colori. Comprimari e comparse. Un kolossal musicale hollywoodiano. Tutto questo è "troppo". BerluscOne. Troppo solo, troppo grande, troppo vincente, troppo amato, troppo celebrato. Troppo. Senza limiti e senza nessuno che glieli ponga. Salvo le "puntuali puntualizzazioni" di Fini. E i rimbrotti di Bossi. Che guarda BerluscOne di traverso. Un amico necessario. Ma così distante dal suo stile "popolano"...

Questo leader unico di un partito che ambisce a sfondare la soglia del 40% e, insieme agli alleati, quella del 50%. Per diventare, così, il Presidente. Di fatto. Senza bisogno di riforme. L'immagine di BerluscOne: ci sembra "troppo". Fastosa, rutilante, eccedente. Evoca un'Italia ipercinetica, disordinata, bulimica, vecchia e, insieme, un po' egoista. Un popolo di individui che hanno conquistato il benessere e premono per riuscire, affermarsi. Apparire.

Questa Italia, che si specchia nell'immagine e nella narrazione di BerluscOne, all'improvviso ci pare meno credibile. Fuori tempo. Resa inattuale dalla crisi pesante che incombe, anzi: è crollata su di noi e fa già vittime un po' dovunque. Magari ci sbagliamo. In fondo ha sempre ragione lui. E poi, annunciare il declino di Berlusconi: figuriamoci. Soprattutto oggi che Berlusconi è al top. Mentre il PD è al bottom. Il suo segretario, Dario Franceschini. Una brava persona.

Difficile, il confronto con Silvio Berlusconi. Il predestinato. Il vincitore nato. Esuberante e arrogante. Non si ferma neppure di fronte a Obama(aaaaa!!!). Né alla Merkel. Ai vertici internazionali si comporta come fosse a casa propria. E però. Franceschini, il "modesto" leader provvisorio del PD, per grado di consensi è lì. Alla pari con BerluscOne. Entrambi riscuotono la fiducia di circa il 45% degli italiani. (La componente di quanti valutano la fiducia nei loro riguardi con un voto uguale o superiore a 6, in una scala da 1 a 10. I materiali a cui fa riferimento questa mappa sono consultabili su http://www. demos. it).

D'altronde, nei sondaggi di Demos, solo nel maggio 2008, un mese dopo il "trionfo" elettorale, Berlusconi scavalcò di netto questo livello, superando il 60%. Ieri come oggi, invece, il più amato dagli italiani è Gianfranco Fini, come sempre, in passato. Anche perché era - e resta - un outsider. Invece Franceschini è il leader di quello che - per quanto indebolito - resta il maggiore partito di opposizione. Naturalmente la fiducia personale non si traduce, automaticamente, in voti, come ha potuto constatare Veltroni. Però. Nell'ultimo mese, il Pd - nelle stime elettorali - ha ripreso a risalire con continuità. Anche nell'ultima settimana. Oggi è attestato intorno al 27%.

Dunque, 6 punti meno di un anno fa, ma 4-5 più di febbraio. D'altronde, il 75% degli elettori del Pd ha fiducia in Franceschini e il 33% lo vorrebbe come segretario. Ma Franceschini riscuote dal 59% degli elettori dell'IdV, da oltre metà di quelli di RC-SL e dell'UdC. Quindi: dal centro a sinistra. Anche il 60% degli "esuli" del PD (quelli che, dopo averlo votato un anno fa, se ne sono allontanati) oggi esprime fiducia nei suoi riguardi. E il 20% di essi lo voterebbe come segretario di partito.

Gli elettori del PD continuano ad essere frustrati e disincantati. E però: guardano Franceschini con rispetto. Anche se è modesto. O forse proprio per questo. Perché la modestia e la sobrietà, in questi tempi, è una virtù. E un'immagine sobria e modesta può riuscire credibile di fronte a un paese preoccupato e impoverito. E poi Franceschini non si maschera da Berlusconi né da antiberlusconi. Dice poche cose, ma "di sinistra". In modo chiaro e comprensibile. E, per questo, funziona anche in tivù (come aveva previsto Berlusconi).

Inoltre, ha la possibilità di esprimersi senza altri leader intorno pronti a contraddirlo e a dargli sulla voce (non capitava da anni). Intenti a tramare per sostituirlo (in fondo è un leader transitorio). Non sarà molto. Ma a molti elettori del PD - illusi, delusi, esuli, disperati - sembra già abbastanza. Non c'erano più abituati. Così guardano Franceschini senza illusioni e con prudenza. E però...

Certo, per andare oltre ci vuole altro. Un partito organizzato. Non solo in centro, anche in periferia (dove le guerre e le guerricciole si moltiplicano). E poi, qualche idea chiara. Una fase congressuale vera, con primarie vere e candidati veri. In mezzo, un buon risultato alle europee. E però. Il BerluscOne non può permettersi battute d'arresto. Dopo gli annunci al congresso: il PdL a giugno dovrà stravincere. A Franceschini, più modestamente, per vincere basterà non perdere troppo.

(5 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #97 inserito:: Aprile 09, 2009, 11:24:56 pm »

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Bussole     

Il peso politico delle catastrofi

Ilvo Diamanti


NESSUNO ne parla apertamente perché è socialmente inaccettabile. Quando la catastrofe è appena successa, terribile, sanguinosa. Un dramma immenso. Paesi devastati, vittime dovunque. Famiglie che piangono i loro cari. Mentre ancora si scava e si cerca dappertutto, nella speranza che qualcuno ancora sia sopravvissuto. Di un miracolo. E poi: le macerie. Case scomparse. La casa: ma sapete cosa vuol dire? È il nostro mondo. La nostra casa: racchiude la nostra vita. Ne traccia i confini. E' la nostra storia, personale e familiare. Perché si lavora una vita per farsi la casa che erediteranno i nostri figli. Per cui la tragedia, questa tragedia, una tragedia come questa: non si porta via solo la vita delle vittime, ma anche quella di chi resta. La folla degli sfollati. Anch'essi dispersi. Sperduti. Per cui è impossibile, in questo abisso, non tanto chiedere ma anche chieder-si. Interrogare se stessi. Se una catastrofe come questa, questa catastrofe avrà conseguenze politiche. E quali. Tuttavia, è indubbio: le catastrofi hanno sempre sortito effetti politici. Anche se non dello stesso segno.

Pensiamo all'attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001. Fino a quel momento Bush e la sua amministrazione avevano proceduto in modo stentato. Volavano basso, sempre più in basso nel gradimento dell'opinione pubblica americana. L'attentato terroristico spostò la scala dei valori. L'incertezza economica lasciò il posto, in fretta, alla questione della sicurezza nazionale e personale. Alla sindrome d'assedio di fronte al terrorismo senza nome e senza volto. Bush ne trasse motivo di rafforzamento. Si rilanciò. E il suo regno è durato a lungo. Insieme alla sua dottrina. Fino a pochi mesi fa. La sua presidenza: è figlia delle Torri Gemelle, in molti sensi.

Anche Zapatero, molto probabilmente, non avrebbe vinto le elezioni del 2004 e oggi non sarebbe al governo senza un altro attentato terrorista. Quello alla stazione Atocha di Madrid, 5 giorni prima del voto. Quasi 200 morti. Il governo in carica, guidato da Aznar, ne attribuì immediatamente la responsabilità ai baschi dell'ETA. Ma era una cellula di Al Qaida, che lo rivendicò presto. E il PPE di Aznar, sospettato (probabilmente in modo ingiusto) di avere "sfruttato" politicamente il terrore e l'orrore, pagò. Venne sconfitto alle elezioni, di cui fino a pochi giorni prima appariva il vincitore annunciato e scontato. Da ciò la conferma dell'avvertimento iniziale. Chiedersi a chi possa giovare, politicamente, l'orrore è indegno, ma anche rischioso, quando avviene pubblicamente. Tanto da travolgere chi venga solo sospettato di approfittarne. Come in Spagna. Tuttavia, in Spagna come negli Usa, si trattò di catastrofi procurate. Premeditate e realizzate dai terroristi. Con fini apertamente politici. La politica con altri mezzi.

Chiedersi a chi giovi, chi ne sia il responsabile: è legittimo. Oggi no. In Abruzzo no. Non c'è premeditazione nelle catastrofi naturali. A cui in Italia siamo periodicamente sottoposti. Il dio dei terremoti e delle inondazioni non si informa su chi sia al governo in quel momento. Tuttavia, anche le catastrofi naturali producono effetti politici. Si pensi ancora, per usare un esempio noto, alle alluvioni che devastarono la Germania nell'estate del 2002. In piena campagna elettorale. Il cancelliere Gerhard Schröder, allora, pareva giunto al capolinea. Insieme ai socialdemocratici tedeschi, di cui era il leader. La SPD. Strabattuta - secondo tutti i sondaggi - dai popolari della CDU. Ma la gestione efficiente e visibile dell'emergenza gli permise di risalire in fretta. Fino a vincere le elezioni, rovesciando le previsioni.

Dunque, chiedersi se questa catastrofe avrà effetti politici - e quali: è osceno. Ma non più di quanto lo sia interrogarsi sugli effetti che produrrà dal punto di vista mediatico. Quanto faranno salire gli ascolti le ore e ore di tivù dedicate allo spettacolo del dolore e della morte. Su tutte le reti. Talk show e salotti televisivi. Dirette a tempo pieno. Inviati speciali, ma speciali veramente. Addosso agli sfollati, ai disperati, di fronte alle rovine, chiusi nelle loro auto trasformate in rifugi. "Signora, Lei che ha perso? Chi ha perso?". "Cosa prova ora che non ha più una casa? Un figlio? Una sorella? Un amico? La nonna?". Lo spettacolo offerto dallo spettacolo del dolore. E' osceno. Come i dati di ascolto delle edizioni speciali dei Tg, esibiti quasi fossero trofei (lo ha denunciato nei giorni scorsi Aldo Grasso). Come l'aggiornamento ossessivo del numero dei morti. Quasi che la catena delle vittime, allungandosi, infinita, protraesse anche l'orrore. E lo spettacolo. Perché il dolore fa ascolto. Come la morte, come la paura. Soprattutto quando si mischiano i generi. D'altra parte, tempo due giorni, la diretta in mezzo agli sfollati e nelle città ferite dal sisma si affianca e si alterna al Grande Fratello. Due reality uno accanto all'altro. Quello dall'Abruzzo, veramente vero. Per cui è meglio non indignarsi troppo se (sottovoce, piano piano) viene sollevata la questione circa gli effetti politici della catastrofe. Rafforzerà la fiducia nel governo, per reazione all'insicurezza, che spinge tutti a stringersi intorno agli uomini delle istituzioni che vegliano su di noi. O per simpatia nei confronti del premier e dei ministri, in visita permanente ai luoghi del disastro? Oppure avverrà il contrario e la catastrofe alimenterà angoscia e insicurezza, generando un clima di sfiducia nel governo? Perché, com'è noto, l'insicurezza mina la legittimità delle istituzioni e di chi comanda.

Indugiare su questi dilemmi è osceno. Ma, credetemi, c'è chi se li pone. Di certo non le decine di migliaia di protagonisti involontari di questa tragedia. Né i mille e mille volontari della solidarietà. Ma la questione appare, ben chiara, nei pensieri di chi fa politica e informazione. E anche oltre. D'altronde il campo politico ormai coincide largamente con quello mediatico. E se uno stupro o una catena di piccoli omicidi possono condizionare in modo sensibile il clima d'opinione e le scelte degli elettori, figurarsi una tragedia enorme, una catastrofe immensa. Trasformata in uno spettacolo colossale, che agita i sentimenti delle persone. E ci rende tutti diversi da come eravamo ieri.

(9 aprile 2009)

da repubblica.it
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« Risposta #98 inserito:: Aprile 16, 2009, 12:39:30 am »

ILVO DIAMANTI

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Il peso politico delle catastrofi



NESSUNO ne parla apertamente perché è socialmente inaccettabile. Quando la catastrofe è appena successa, terribile, sanguinosa. Un dramma immenso. Paesi devastati, vittime dovunque. Famiglie che piangono i loro cari. Mentre ancora si scava e si cerca dappertutto, nella speranza che qualcuno ancora sia sopravvissuto. Di un miracolo. E poi: le macerie. Case scomparse. La casa: ma sapete cosa vuol dire? È il nostro mondo. La nostra casa: racchiude la nostra vita. Ne traccia i confini. E' la nostra storia, personale e familiare. Perché si lavora una vita per farsi la casa che erediteranno i nostri figli. Per cui la tragedia, questa tragedia, una tragedia come questa: non si porta via solo la vita delle vittime, ma anche quella di chi resta. La folla degli sfollati. Anch'essi dispersi. Sperduti. Per cui è impossibile, in questo abisso, non tanto chiedere ma anche chieder-si. Interrogare se stessi. Se una catastrofe come questa, questa catastrofe avrà conseguenze politiche. E quali. Tuttavia, è indubbio: le catastrofi hanno sempre sortito effetti politici. Anche se non dello stesso segno.

Pensiamo all'attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001. Fino a quel momento Bush e la sua amministrazione avevano proceduto in modo stentato. Volavano basso, sempre più in basso nel gradimento dell'opinione pubblica americana. L'attentato terroristico spostò la scala dei valori. L'incertezza economica lasciò il posto, in fretta, alla questione della sicurezza nazionale e personale. Alla sindrome d'assedio di fronte al terrorismo senza nome e senza volto. Bush ne trasse motivo di rafforzamento. Si rilanciò. E il suo regno è durato a lungo. Insieme alla sua dottrina. Fino a pochi mesi fa. La sua presidenza: è figlia delle Torri Gemelle, in molti sensi.

Anche Zapatero, molto probabilmente, non avrebbe vinto le elezioni del 2004 e oggi non sarebbe al governo senza un altro attentato terrorista. Quello alla stazione Atocha di Madrid, 5 giorni prima del voto. Quasi 200 morti. Il governo in carica, guidato da Aznar, ne attribuì immediatamente la responsabilità ai baschi dell'ETA. Ma era una cellula di Al Qaida, che lo rivendicò presto. E il PPE di Aznar, sospettato (probabilmente in modo ingiusto) di avere "sfruttato" politicamente il terrore e l'orrore, pagò. Venne sconfitto alle elezioni, di cui fino a pochi giorni prima appariva il vincitore annunciato e scontato. Da ciò la conferma dell'avvertimento iniziale. Chiedersi a chi possa giovare, politicamente, l'orrore è indegno, ma anche rischioso, quando avviene pubblicamente. Tanto da travolgere chi venga solo sospettato di approfittarne. Come in Spagna. Tuttavia, in Spagna come negli Usa, si trattò di catastrofi procurate. Premeditate e realizzate dai terroristi. Con fini apertamente politici. La politica con altri mezzi.

Chiedersi a chi giovi, chi ne sia il responsabile: è legittimo. Oggi no. In Abruzzo no. Non c'è premeditazione nelle catastrofi naturali. A cui in Italia siamo periodicamente sottoposti. Il dio dei terremoti e delle inondazioni non si informa su chi sia al governo in quel momento. Tuttavia, anche le catastrofi naturali producono effetti politici. Si pensi ancora, per usare un esempio noto, alle alluvioni che devastarono la Germania nell'estate del 2002. In piena campagna elettorale. Il cancelliere Gerhard Schröder, allora, pareva giunto al capolinea. Insieme ai socialdemocratici tedeschi, di cui era il leader. La SPD. Strabattuta - secondo tutti i sondaggi - dai popolari della CDU. Ma la gestione efficiente e visibile dell'emergenza gli permise di risalire in fretta. Fino a vincere le elezioni, rovesciando le previsioni.

Dunque, chiedersi se questa catastrofe avrà effetti politici - e quali: è osceno. Ma non più di quanto lo sia interrogarsi sugli effetti che produrrà dal punto di vista mediatico. Quanto faranno salire gli ascolti le ore e ore di tivù dedicate allo spettacolo del dolore e della morte. Su tutte le reti. Talk show e salotti televisivi. Dirette a tempo pieno. Inviati speciali, ma speciali veramente. Addosso agli sfollati, ai disperati, di fronte alle rovine, chiusi nelle loro auto trasformate in rifugi. "Signora, Lei che ha perso? Chi ha perso?". "Cosa prova ora che non ha più una casa? Un figlio? Una sorella? Un amico? La nonna?". Lo spettacolo offerto dallo spettacolo del dolore. E' osceno. Come i dati di ascolto delle edizioni speciali dei Tg, esibiti quasi fossero trofei (lo ha denunciato nei giorni scorsi Aldo Grasso). Come l'aggiornamento ossessivo del numero dei morti. Quasi che la catena delle vittime, allungandosi, infinita, protraesse anche l'orrore. E lo spettacolo. Perché il dolore fa ascolto. Come la morte, come la paura. Soprattutto quando si mischiano i generi. D'altra parte, tempo due giorni, la diretta in mezzo agli sfollati e nelle città ferite dal sisma si affianca e si alterna al Grande Fratello. Due reality uno accanto all'altro. Quello dall'Abruzzo, veramente vero. Per cui è meglio non indignarsi troppo se (sottovoce, piano piano) viene sollevata la questione circa gli effetti politici della catastrofe. Rafforzerà la fiducia nel governo, per reazione all'insicurezza, che spinge tutti a stringersi intorno agli uomini delle istituzioni che vegliano su di noi. O per simpatia nei confronti del premier e dei ministri, in visita permanente ai luoghi del disastro? Oppure avverrà il contrario e la catastrofe alimenterà angoscia e insicurezza, generando un clima di sfiducia nel governo? Perché, com'è noto, l'insicurezza mina la legittimità delle istituzioni e di chi comanda.

Indugiare su questi dilemmi è osceno. Ma, credetemi, c'è chi se li pone. Di certo non le decine di migliaia di protagonisti involontari di questa tragedia. Né i mille e mille volontari della solidarietà. Ma la questione appare, ben chiara, nei pensieri di chi fa politica e informazione. E anche oltre. D'altronde il campo politico ormai coincide largamente con quello mediatico. E se uno stupro o una catena di piccoli omicidi possono condizionare in modo sensibile il clima d'opinione e le scelte degli elettori, figurarsi una tragedia enorme, una catastrofe immensa. Trasformata in uno spettacolo colossale, che agita i sentimenti delle persone. E ci rende tutti diversi da come eravamo ieri.

(9 aprile 2009)
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« Risposta #99 inserito:: Aprile 19, 2009, 04:40:01 pm »

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La tirannia della bontà

di ILVO DIAMANTI



Il bene comune, dopo una lunga eclissi, è riemerso. Tracimato, in modo prorompente. Se ne erano perdute le tracce, da qualche tempo, in Italia.

La tragedia del terremoto in Abruzzo l'ha fatto uscire dagli anfratti del non-detto, dove era nascosto da molti anni. Da quando - in economia, in politica, nello spettacolo, ma anche nei rapporti con gli altri - per avere successo, per apparire credibili in pubblico era divenuto conveniente apparire "cattivi". E quindi inflessibili, intolleranti. Nonché discretamente egoisti. Attenti anzitutto al proprio interesse. Sicuramente diffidenti verso qualsiasi "bene in comune", soprattutto se "pubblico". In nome del trionfo del mercato, del privato, della competizione. Impossibili dirsi "buoni" senza essere tacciati di "buonismo". Malattia senile della solidarietà. Marchio di un'epoca passata. Da rimuovere. Così gli italiani si sono trovati a vivere la loro "bontà" e il loro "altruismo" in modo quasi clandestino. Nonostante il loro spirito solidale e comunitario, coltivato da identità radicate, come quella cattolica e socialista. Bollate, a loro volta, nel segno - spregiativo - del catto-comunismo. Per cui oltre metà degli italiani hanno continuato a dedicare tempo, denaro e soprattutto impegno personale agli "altri", in modo continuo e regolare. Ma in silenzio. Come un vizio inconfessabile. Comunque da non dichiarare in pubblico. Per farsi apprezzare dai cittadini, l'uomo pubblico doveva apparire uno sceriffo, un vigilante, una ronda a tempo pieno. Perché la bontà e la solidarietà apparivano vizi privati. Che non facevano notizia, audience. Spettacolo. E sono stati, per questo, a lungo emarginati dai media. Ridotti in spazi minimi e dedicati. Come le rubriche per camionisti o i programmi sugli stranieri. Lo spazio del bene comune. Trasmesso alle 6 di mattina alla domenica e in replica alle 4 di notte.

Il terremoto, la tragedia immensa che ha colpito la popolazione dell'Abruzzo due settimane fa, ha sconvolto - insieme alla vita di migliaia di persone - anche la "gerarchia dei valori" e dei sentimenti. Il "male comune" ha risvegliato il "bene comune". O meglio: gli ha restituito dignità pubblica, visto che nel privato non aveva mai smesso di essere frequentato, dagli italiani. Abbiamo, anzi, assistito e stiamo assistendo, in questi giorni, a un significativo rovesciamento di prospettiva. Che ha posto - e anzi: imposto - il bene comune come cifra di lettura di ogni manifestazione, di ogni comportamento. Nulla di sorprendente, sia chiaro. Le difficoltà comuni sollecitano risposte comuni. Le emergenze stimolano convergenze. La disperazione sollecita la cooperazione. E insieme: la solidarietà e la pietà. Comunità, pietà, solidarietà, cooperazione; e ancora; carità, altruismo, soccorso. Parole quasi indicibili fino a ieri: sono tornate di moda. Sulla bocca di tutti. Pronunciate ad alta voce e non piano piano, per timore che qualcuno ci senta. Evocano il repentino passaggio del bene comune dalla clandestinità alla scena pubblica. Accanto alla desolazione e alla disperazione, sui luoghi del terremoto, sui media passano le immagini del soccorso. Non solo "professionale" ma soprattutto "volontario". Lo spettacolo del dolore si mischia a quello della solidarietà. Senza soluzione di continuità. Sottoscrizioni dovunque. E partite di calcio, tennis, basket, pallavolo; concerti, recital, pièces teatrali. L'incasso totalmente devoluto alle popolazioni colpite dal sisma. Perfino i talk show più futili si riconvertono all'impegno.

Il bene comune e il bene pubblico diventano virtù accettate e condivise. E definiscono nuove regole di comportamento e di linguaggio. La "cattiveria" diventa improponibile. Anche come linguaggio e come sguardo. Come chiave di lettura della realtà. Dei comportamenti pubblici. Cresce l'insofferenza verso la satira e l'ironia, perché dissacrano la pietà. Così la critica e le polemiche: suscitano fastidio. Sospettate di corrodere il principio della comunità solidale. Guai a sottolineare le gaffe del premier. Guai a contestare il governo. La processione dei ministri, sui luoghi del disastro. Per non minare l'unità del paese, riunito intorno al dolore e al bene comune. Anche se in Italia - paese storicamente diviso - lo Stato è considerato proprietà di chi governa e la fiducia nelle istituzioni cambia segno a seconda di chi vince le elezioni. Con la conseguenza che la spinta verso il "bene comune" tende a premiare soprattutto - anzi "solo" - il governo e il suo leader. Con l'opposizione a recitare la parte del coro muto. (Non abbiamo ancora dati al proposito, ma scommetteremmo che i prossimi sondaggi confermeranno questa ipotesi). Così, leader e forze politiche che hanno fondato la loro immagine (e il loro successo) sul sorriso permanente e la comunicazione opulenta, su valori individualisti e aggressivi, sulla critica allo Stato: acquistano un volto sofferente e mite; identificano il bene pubblico. Non è nostra intenzione "mettere a tacere la voce della compassione", per usare una formula di Adriano Sofri qualche giorno fa. Tuttavia, questo trionfo del "bene comune", esibito dovunque come bandiera. Regola di comportamento e stile di comunicazione. Questo clima di bontà coatta. Mi fa quasi rimpiangere i giorni cattivi del tempo recente. Perché sfidare i "ministri della paura" è difficile. Ma non quanto opporsi alla "tirannia della bontà" e ai nuovi custodi del bene comune.

(19 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #100 inserito:: Aprile 27, 2009, 04:25:11 pm »

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Clandestini, la pietà svanita


di ILVO DIAMANTI


CAMBIANO i tempi. Ma gli immigrati non si fermano. Nonostante governino forze politiche inflessibili e "cattive": gli stranieri continuano ad arrivare. Da est e da sud. Per terra e soprattutto per mare. Con ogni mezzo. Barche, barchini, barconi e gommoni. Partono in tanti. Ogni giorno. Uomini, donne e bambini. E in molti non arrivano. Quel piccolo pezzo di mare che separa l'Africa dalla Sicilia è un cimitero dove giacciono un numero imprecisato di imbarcazioni e migliaia di persone. Gli stranieri continuano ad arrivare. Da est e da sud. Per terra e soprattutto per mare. Con ogni mezzo. Barche, barchini, barconi e gommoni.

Partono in tanti. Ogni giorno. Uomini, donne e bambini. E in molti non arrivano. Quel piccolo pezzo di mare che separa l'Africa dalla Sicilia è un cimitero dove giacciono un numero imprecisato di imbarcazioni e migliaia di persone. Persone? Per definirle tali dovremmo "percepirle". Invece non esistono. Sono "clandestini" quando si mettono in viaggio e quando riescono ad entrare nei paesi di destinazione. Ma anche quando vengono ammassati nei Cpa. Migranti perenni. Non riescono a trovare una nuova sistemazione - stabile e riconosciuta - ma non possono neppure tornare indietro.

Come i 140 stranieri raccolti e trasportati dal cargo Pinar. Rimpallati fra l'Italia - che alla fine li ha accettati - e Malta. Indisponibile. Perché la fuga dall'Africa e dall'Asia, come l'esodo dai paesi dell'est europeo, spaventa tutti i paesi ricchi. Non solo noi. La vecchia Europa vorrebbe diventare fortezza. Trasformare il Mediterraneo in un canale inaccessibile. A cui mancano i coccodrilli, ma non gli squali. Eppure, nonostante la politica della fermezza, la tolleranza-meno-uno, i Cpa e migliaia di espulsioni.

Nonostante tutto: i flussi non si fermano. Gli sbarchi proseguono senza sosta. Da gennaio ad oggi: oltre seimila. Il doppio rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Che già aveva segnato il livello più alto della nostra storia di immigrazione. Breve e travolgente. Nel 2008 erano sbarcati sulle nostre coste 37mila stranieri. Quasi il doppio del 2007. Difficile non nutrire dubbi sulla produttività delle nostre politiche e della nostra politica. Anche se l'attuale maggioranza di governo ha vinto le elezioni promettendo di fermare gli stranieri. Di bloccare l'invasione. Con le buone ma soprattutto con le cattive.

Propositi chiari ma, fin qui, inattuati. Semplicemente perché inattuabili. Quando a migliaia intraprendono il viaggio sulle carrette del mare, stipati come animali. Come i disperati del Pinar. Dietro alle spalle le storie terribili raccontate da Francesco Viviano, su queste pagine, nei giorni scorsi. In fuga da persecuzioni, conflitti etnici. Dalla fame. Disposti a tutto. A ogni costo. Come la ragazza annegata con il suo bimbo in grembo, nelle acque davanti a Malta.

Questa emigrazione è una tragedia senza fine. Che, tuttavia, non ci commuove. Anzi, suscita perlopiù distacco e ripulsa. Difficile non cogliere la differenza con l'onda emotiva e la solidarietà sollevate dalla catastrofe in Abruzzo. Ma noi riusciamo a provare pietà e solidarietà solo quando le tragedie accadono sotto i nostri occhi. Quando i media le illuminano, minuto per minuto, luogo per luogo, in modo quasi compiaciuto. Quando la politica le accompagna e le segue da vicino. Perché si tratta della "nostra" gente. Allora ci emozioniamo.

Gli "altri", invece, non hanno volto. Le loro tragedie non hanno quasi mai le aperture dei tigì. Gli sbarchi vengono raccontati come una calamità. Per noi. E a nessuno, comunque, verrebbe in mente di organizzare un G8 a Lampedusa. Non solo per ragioni logistiche.
Naturalmente, si tratta di considerazioni che possono apparire "buoniste", fradice di retorica. E con la retorica non si risolvono i problemi. Non si proteggono le città insicure. I cittadini minacciati dalla nuova criminalità etnica, dai clandestini che affollano le periferie.

D'altronde, in pochi anni siamo diventati un paese di grande immigrazione. Quasi come la Francia e la Germania. Fino a ieri eravamo noi, italiani, a disperderci nel mondo, a milioni, per fuggire la miseria. Ora invece ci sembra che il mondo si stia rovesciando su di noi. E questo mondo è troppo grande per stare dentro a casa nostra, dentro alla nostra testa. Noi non siamo in grado di controllarlo né di comprenderlo. Non ci riusciamo noi. Ma non ci riescono, soprattutto, i poteri economici e finanziari, le istituzioni di governo. In balia dei collassi delle banche e delle borse, delle guerre, del terrorismo, delle epidemie.

La politica. Non riesce a difenderci ma neppure a spiegarci ciò che avviene. E rinuncia a contrastare le nostre paure. Anzi, complici i media, le enfatizza. Inventa muri e confini che non esistono. Promette di chiudere i nostri mari, di sbarrare le frontiere. Promette di difenderci, a casa nostra, dagli stranieri che si insinuano nei nostri quartieri. Ricorrendo a iniziative a bassa efficacia pratica e a elevato impatto simbolico. Come le ronde. I volontari della sicurezza locale. Dovrebbero esercitare il controllo sul territorio un tempo affidato alle reti di vicinato, alla vita di quartiere, alla presenza quotidiana delle persone. Rimpiazzando una società locale che non c'è più. La politica. Promette di difendere la nostra identità, la nostra religione, la nostra cultura, la nostra cucina. E per questo combatte contro la costruzione di moschee. Oppure lancia battaglie gastroculturali. Contro i cibi consumati per strada. Anzitutto e soprattutto: contro il kebab. Insieme alle moschee: icona dell'islamizzazione presunta del nostro paesaggio e della nostra vita quotidiana.

La politica e le politiche usate come placebo. Per rassicurare senza garantire sicurezza. Per guadagnare voti e consenso. La Lega, secondo i sondaggi, sembra essere riuscita a superare i confini del Nord padano e ad espandersi nelle regioni dell'Italia centrale. Tradizionalmente di sinistra. Ma la retorica della "protezione dal mondo", la costruzione della paura: non riguardano solo la Lega. E neppure la destra. Perché gli stranieri possono "servire", politicamente e culturalmente, ma tanto in quanto le distanze fra noi e loro sono visibili e marcate. Tanto in quanto restano stranieri. Oggi, domani. Sempre. Lontani e diversi. In questo modo ci permettono di ritrovare noi stessi. Di ricostruire - artificialmente, per opposizione e paura - la nostra identità e la nostra comunità perduta. A condizione di fingere: che le nostre frontiere immaginarie, i nostri muri emotivi possano arrestare l'onda degli stranieri. A condizione di non vedere. Diventare ciechi e cinici. Perdere gli occhi e il cuore.

(26 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #101 inserito:: Aprile 30, 2009, 05:04:53 pm »

Ilvo Diamanti


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Le veline e l'evoluzione della specie (im)politica


Lo scandalo riguardo alla velinizzazione della politica italiana è effettivamente scandaloso. Cioè: è scandaloso che ci si scandalizzi. Certo, l'indignazione della signora Veronica Lario contro la candidatura (annunciata) di alcune belle ragazze nelle liste del PdL, cioè: del partito guidato (diretto, presieduto, governato ecc.) dal marito non poteva che rimbalzare fragorosamente sui media. Per il semplice motivo che la signora Lario per esprimere il suo pensiero al marito, invece di parlargli di persona o al cellulare, ha usato i media. E i media hanno fatto il loro mestiere.

Amplificando la vicenda. Come, d'altronde, si attendeva la signora Lario. Che intendeva manifestare la sua indignazione anche verso i media, che hanno tanto spazio e tanto tempo da perdere intorno alle veline. Invece di fare informazione e informazione politica. Il problema, però, è che - non da oggi - la distanza fra questi elementi è molto sottile. Quasi non si percepisce. Fra la politica, l'informazione, l'informazione politica, i media. E le veline. Che adornano ogni salotto politico che si rispetti, a partire dai più seguiti e influenti. Sulle reti e nelle ore di maggiore ascolto.

Il loro archetipo, d'altronde, va in onda ogni sera sugli schermi di Canale 5. La rete ammiraglia del Presidente del PdL, del Milan, di Mediaset. Nonché marito della signora Lario. Ci riferiamo, ovviamente, alle veline di "Striscia la notizia". Tiggì satirico concepito da Antonio Ricci. Il quale ne fece l'icona e il simbolo dell'informazione di regime. Per dire: tutti i tiggì della tivù pubblica - e non - sono condotti da sedicenti giornalisti di regime che ballano, mostrano le gambe e il sedere. Anche se sono meno gradevoli. E raramente, anzi: mai, ne ripetono il successo di ascolto e di audience. Non si sa se per merito dell'informazione irriverente degli inviati di Striscia o per il contributo all'informazione offerto dalle Veline. Diciamo: per entrambi i motivi. Lo stesso discorso vale per altri programmi Mediaset. Dalle Iene a Mai dire...

Dappertutto Veline. Esibite sempre in modo un po' ambiguo. Strizzando l'occhio allo spettatore. Sottinteso che in fondo si tratta di satira. Non di uso furbo delle belle ragazze a fini di audience. Lo stesso avviene, in modo perlopiù rovesciato, anche nella Rai. Dove, nelle trasmissioni leggere o presunte tali, sgambettano veline e ballerine di ogni genere e tipo. Intervallate da "momenti alti" di dibattito politico. Anzi: neppure intervallate: fianco a fianco. Coscia a coscia. Come nei contenitori pomeridiani della domenica. E in tutti gli altri format che ormai coprono l'intera giornata. Mattine sull'Uno e pomeriggi sul Due. Pranzi compresi.

Veline, cuochi, giornalisti, cronaca, politica, cultura. Perché non c'è politico disposto a rinunciare a un'occasione mediatica, che garantisca visibilità, ascolto, pubblico. Vuoi mettere le centinaia o migliaia di persone che stanno in una piazza o in una tivù, se non c'è la televisione? Ma se c'è la televisione, perché non seguirne le regole e le logiche? Per cui, perché non affiancare al leader, sul palco e sulle piazze, la bella ragazza, il volto del giornalista famoso, del cantante, del regista o del comico satirico? E poi, nella vita quotidiana, li ritrovi, uno accanto all'altro, nelle occasioni mondane. Ritratti puntualmente dalla stampa people ma anche da quella seria. Certificati e fotografati su Dagospia. Non per caso, a tradimento. Ma per scelta consapevole. Perché le veline, i cuochi, i cantanti, gli artisti, i registi, i nobili decaduti, gli intellettuali, i calciatori, i presentatori, i cuochi, i giornalisti. Insieme ai politici. Non andrebbero alle feste, inaugurazioni, celebrazioni. Se non ci fossero Novella, Eva, Chi, Dipiù. E Vanity e A. E Dagospia. A fotografarli, ritrarli, diffonderne l'immagine. Cioè: tutto quel che conta.

Ma non è un fatto nuovo, se non per motivi di misura. Di quantità. In fondo cantanti, comici, giornalisti, registi e quant'altro sono già stati - taluni sono ancora - in politica. Eletti nel parlamento italiano o europeo. In qualche caso, per rimanerci, si spostano da un punto all'altro dello spazio politico, da un partito all'altro, in modo rapido e disinvolto.

Non voglio dire che tutto questo (mi) vada bene. Però non (mi) sorprende. Mi sorprende di più lo scandalo che solleva. Lo scandalo delle veline non dovrebbe scandalizzare più di tanto. A meno che non ci si scandalizzi di tutti i passi di questo percorso, che viene da lontano. Questo trend. Che procede parallelo all'abbandono dei luoghi sociali della politica.

All'evoluzione dei partiti in macchine presidenziali al servizio di un candidato. E tutti gli altri intorno a far da corona. (Corona?). Una corte di consulenti e consiglieri. Cortigiani, cortigiane. Ma tutto questo non scandalizza. Se non a parole. In fondo, così fan tutti. E' la metamorfosi del cittadino in spettatore. Dell'elettore in pubblico. Quando , al momento di votare, per riflesso pavloviano, sceglie: presentatrici e presentatori, attrici e attori, grandi fratelli e grandi sorelle. Veline. L'evoluzione della specie politica. O impolitica. Dipende dai punti di vista.

(30 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #102 inserito:: Maggio 10, 2009, 06:06:48 pm »

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Al mercato della paura


di ILVO DIAMANTI



ORMAI è impossibile affrontare il tema della "sicurezza" nel dibattito pubblico, ridotto a materia di propaganda politica. Sui giornali e in Parlamento. Se ne parla per catturare il consenso dei cittadini, non per risolvere i problemi. Nel sostenerlo ci pare di scrivere lo stesso articolo. Un'altra volta. Eppure è difficile non tornare sull'argomento. Perché l'argomento ritorna, puntuale, al centro del dibattito politico. Come in questa fase, segnata dalle polemiche intorno al decreto sulla "sicurezza" (appunto). A proposito del quale Franceschini ha parlato di nuove "leggi razziali". Anche se gli aspetti più critici della legge sono stati esclusi dal testo. Ci riferiamo alla possibilità, offerta ai medici e ai pubblici funzionari (i presidi, per esempio), di denunciare i clandestini.

Altre iniziative venate di razzismo invece, non riguardano il governo, ma singoli politici e amministratori locali. Come la proposta di segregare gli stranieri nei trasporti pubblici, a Milano. Assegnando loro posti e vagoni separati. Una provocazione, anche questa. Capace, però, di intercettare consensi, solo a evocarla. La Lega, su questa base, sta costruendo la sua campagna elettorale in vista delle prossime europee. Per conquistare consensi nel Nord, ma anche altrove. Presentandosi come il partito della sicurezza-bricolage, da perseguire in ogni modo.

Anche l'imbarcazione carica di immigrati respinta dalla nostra Marina e consegnata alla Libia rientra in questa strategia politica e mediatica. Serve, cioè, come "annuncio". Esibisce la volontà determinata del governo, ma soprattutto del ministro dell'Interni e della Lega, di respingere l'invasione degli stranieri. Di rimandarli là dove sono partiti. Chissenefrega che fine faranno. Noi non possiamo accogliere i poveracci di tutto il mondo.

Gli alleati di centrodestra, in parte, approvano. In parte no. Comunque, non si possono dissociare, altrimenti la maggioranza si dissolve. E poi non vuole abbandonare l'argomento della paura dell'altro alla Lega. Così Berlusconi approva. Si adegua al linguaggio leghista e dice "no all'Italia multietnica". In aperta polemica con la "sinistra, che ha aperto le porte a tutti". (Anche se i flussi da quando è tornata al governo la destra sono raddoppiati). E la sinistra, chiamata in causa, si adegua: nel linguaggio e negli argomenti. Oppone alla retorica della cattiveria quella buonista (che, in assenza di alternative, preferisco). Denuncia il razzismo. Esorta all'integrazione. Senza, tuttavia, spiegare "come" realizzarla. Si appella all'indignazione della Chiesa (contro cui, peraltro, si indigna quando si occupa di etica). Così la "sicurezza" sfuma in una nebulosa che mixa immagini indistinte. Criminali piccoli e medi, immigrati, zingari, stranieri. Ridotti a slogan.

Un tema così importante (e critico) dovrebbe venire affrontato in modo co-operativo. Attraverso il confronto e la progettazione comune. Invece, è abbandonato al gioco delle parti. In balia degli interessi e degli imperativi immediati. La "fabbrica della sicurezza" (titolo di una bella ricerca curata da Fabrizio Battistelli e pubblicata da Franco Angeli), d'altronde, si scontra con il "mercato della paura". Il quale non limita la sua offerta all'ambito politico-elettorale, ma presenta una gamma di prodotti ampia e differenziata (come suggerisce una riflessione di Gianluigi Storti).

a) La paura, insieme all'in-sicurezza: è un format di largo seguito, sui media. Nei notiziari di informazione, nei programmi di "vita vera e vissuta", nelle trasmissioni di approfondimento. A ogni ora del giorno, in ogni canale, incontriamo uno stupro, un'aggressione, un omicidio, un delitto, una catastrofe. E poi fiction di genere, che primeggiano negli indici di ascolto. Sky ha dedicato due canali alle "scene del crimine". 24 ore su 24 dedicate alla "paura".
E' significativa l'evoluzione (o forse la d-evoluzione) dei tipi sociali interpretati da Antonio Albanese. Attore e analista acuto del nostro tempo. Da Epifanio, il personaggio stralunato e naif (ricorda vagamente Prodi), proposto vent'anni fa, fino al "ministro della paura" (accanto al "sottosegretario all'angoscia") esibito ai nostri giorni.

b) La paura alimenta la domanda di autodifesa delle famiglie (come ha rilevato il rapporto Demos-Unipolis sul sentimento di insicurezza), che trasformano le case in bunker. Con porte blindate, vetri antisfondamento, sistemi di allarme sempre più sofisticati. All'esterno: recinzioni e cani mostruosi. In tasca e nei cassetti: armi per difesa personale.

c) Disseminati ovunque sistemi di osservazione, occhi elettronici che ci guardano. A ogni angolo. In ogni luogo. Mentre si diffondono poliziotti e polizie, ronde e servizi d'ordine. La sicurezza: affidata sempre più al privato e sempre meno al pubblico.

d) Intorno alla paura e all'insicurezza si è formata una molteplicità di figure professionali. Psicologi, psicanalisti, analisti, psicoterapeuti. E sociologi, criminologi, assistenti sociali. Operano in istituzioni, associazioni, studi. Nel pubblico, nel privato e nel privato-sociale.

e) Infine, come dimenticare la miriade di prodotti chimici al servizio della nostra angoscia? Occupano interi scaffali sempre più ampi, dentro a farmacie sempre più ampie. Supermarket dove il padiglione dedicato alla paura, di mese in mese, allarga lo spazio e l'offerta.

Per questo è difficile sconfiggere la paura e fabbricare la sicurezza. Perché la sicurezza è un bene durevole, che richiede un impegno di lungo periodo e di lunga durata. L'insicurezza, la paura, no. Sono beni ad alta deperibilità. Più li consumi più cresce la domanda. Garantiscono alti guadagni in breve tempo. Per costruire la sicurezza occorrerebbe agire con una visione lunga. Disporre di valori forti. Servirebbero attori politici e sociali disposti a lavorare insieme. In nome del "bene comune". Ispirati da una fede o almeno da un'ideologia provvidenziale. Pronti a investire sul futuro. Mentre ora domina il marketing. Trionfa il mercato della paura. Dove non esiste domani. È sempre oggi. È sempre campagna elettorale.
Che l'angoscia sia con noi.

(10 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #103 inserito:: Maggio 17, 2009, 11:20:39 am »

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La democrazia del privato


di ILVO DIAMANTI

E' comprensibile lo sconcerto pubblico suscitato dalle vicende personali del premier. Al di là del "merito" (si fa per dire), hanno indotto a riflettere sul significato stesso della politica e della democrazia.

Al proposito, Barbara Spinelli, sulla Stampa, ha denunciato l'intreccio perverso che lega i fatti personali e la politica. Sottolineando che "non si vorrebbe saper nulla dell'uomo politico se non quel che riguarda il bene comune". Le ha fatto eco Eugenio Scalfari, osservando, opportunamente, che la "tenda divisoria" tra pubblico e privato in democrazia può sussistere: sottile. Ma, ha aggiunto, scompare nei regimi autoritari. In realtà, è scomparsa anche nei regimi democratici. Da tempo. Anche dove il conflitto di interessi non si presenta esplicito come in Italia. Che costituisce, semmai, un laboratorio, come si è soliti dire. Dove i processi avvengono più violenti che altrove. Ma non un'anomalia. Perché - ormai da tempo - in molti paesi occidentali la politica si è personalizzata, insieme ai partiti. I quali hanno rimpiazzato l'ideologia con la fiducia nella personalità del leader; l'organizzazione e la partecipazione con il marketing e la comunicazione. Bernard Manin ha parlato, a questo proposito, di "democrazia del pubblico". Dove il "pubblico" non si riferisce a "ciò che è di interesse comune". Né allo spazio del dibattito sui temi (appunto) pubblici creato e occupato dagli intellettuali. Il "pubblico" evoca, invece, il cittadino-spettatore di fronte alla "messa in scena della politica" (per parafrasare Balandier, quando definisce i rituali del potere nelle società pre-moderne). Interpretata dai leader. Massimo Gramellini, commentando la performance televisiva di Berlusconi nel salotto di Bruno Vespa, ha parlato (anch'egli sulla Stampa) del "primo statista pop che abbia mai calcato il Palcoscenico della Storia". Osservazione spiritosa e acuminata. Ma anch'essa imperfetta.

Berlusconi, infatti, non è il "primo" ad aver scelto la strada della "politica pop" (titolo di un interessante saggio di Gianpietro Mazzoleni e Anna Sfardini, in corso di pubblicazione per "il Mulino"). Intanto, perché, non solo in Italia, la politica si è da tempo travasata dal territorio e dalla società sui media. E, proprio per questo, si è rapidamente integrata nei moduli e nei linguaggi pop della televisione.

Delineando format e generi sempre più ibridi: "infotainment", "politainment". Miscela di informazione, intrattenimento e politica. Dove i fatti privati degli uomini pubblici fanno spettacolo e audience. Con le parole di Edmondo Berselli: "Nei talk show politici a metà programma accanto a D'Alema, Amato, Rutelli e Berlusconi possono entrare in studio Anna Falchi, Valeria Marini, Alba Parietti, Sabrina Ferilli (.); una conferma spettacolare che la televisione è fungibilità assoluta. L'importante è esserci".

Dunque, non è solo la politica ad aver appreso e imitato il linguaggio e il format dei media. è vero anche l'inverso. I media hanno adeguato i loro format e i loro linguaggi alla politica. La satira è entrata dovunque. Anzi: ambisce a fare "informazione vera". Mentre i programmi di informazione politica hanno accolto i comici, gli attori, gli esperti di vario genere e tipo. Peraltro, l'ingresso in politica di personaggi dello spettacolo e dei media (attori, giornalisti, ecc.) è frequente. (E non nuovo). Tuttavia, si assiste anche al passaggio inverso. Dalla politica allo spettacolo. Irene Pivetti: da presidente della Camera ai reality choc, alle danze sotto le stelle. Vladimir Luxuria. Dallo spettacolo alla Camera di nuovo allo spettacolo. L'Isola dei famosi. Reality di successo, che, peraltro, ha vinto.

Da questo ragionamento possiamo trarre alcune considerazioni sul cambiamento dei sistemi democratici. Le abbozziamo in ordine sparso.

1. Se il rapporto fra politica e media è così stretto (soprattutto in Italia) i media (e la televisione) diventano luoghi di lotta politica. E la televisione (si pensi alle nomine) un campo di battaglia permanente.

2. La distanza fra cittadino e spettatore si sta assottigliando sempre più. L'opinione pubblica è sovrana. Identificata dall'intreccio fra media e sondaggi. Principio di legittimazione politica e istituzionale sempre più importante. Anche perché agisce in tempo reale. La democrazia (parafrasando Renan sulla nazione) diventa, così, un plebiscito, o meglio: un sondaggio di ogni giorno. Anzi: ogni ora. Pubblicizzato dai media, testimoniato dai giornalisti, legittimato dagli esperti. Ispirato da chi li fa, commissiona, pubblica, commenta, ecc.

3. Se nella scena pubblica i ruoli sono fungibili, se il politico canta e cucina oppure discute di etica e della finanziaria con la velina, il cuoco e il cantante, perché scandalizzarsi se il cuoco, il cantante e perfino la velina ambiscono a calcare la scena politica? Ad andare in Parlamento?

4. Per la stessa ragione, la pretesa di ridurre le vicende personali e familiari dei leader politici a "fatti privati" e dunque privi di interesse pubblico, per questo, è insostenibile. Tanto più nel caso del premier, che ha fatto della "politica pop" (e del populismo mediatico) la base del suo successo: negli affari e in politica.

5. D'altronde, la "democrazia del pubblico" si sta traducendo in "democrazia del privato". Dove i fatti personali e familiari diventano di pubblico interesse. Non perché siano di interesse pubblico ma perché interessano al pubblico.

6. Questa tracimazione del privato nel pubblico, secondo alcuni studiosi (Crouch e Mastropaolo, fra gli altri), evoca l'avvento di una "post-democrazia". Una democrazia minima. Ridotta al voto. Dove il cittadino esercita il suo potere (?) una volta ogni cinque anni. Per trenta secondi. Poi si siede davanti alla Tv. E guarda. Al più: risponde a un sondaggio.

Noi ci limitiamo a osservare la singolarità del caso italiano anche nell'era della "democrazia del privato". Dove il governo, il partito e i media sono tutti e tre personalizzati. Tutti e tre riassunti in una sola persona. La stessa.

(17 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #104 inserito:: Maggio 21, 2009, 10:31:03 am »

Le minoranze ribelli che parlano al Paese


di ILVO DIAMANTI

 

L'Atlante Politico di Demos registra e conferma tendenze già osservate negli ultimi mesi tra gli elettori.

Poco allegre per il centrosinistra e, soprattutto, per il Pd.

GUARDA LE TABELLE: 1 - 2 (su repubblica.it)


Al di là delle specifiche stime di voto, il clima d'opinione sembra premiare tutte le principali scelte del governo e tutte le azioni del premier. Anche le più discusse e discutibili. Dai respingimenti delle imbarcazioni cariche di immigrati, approvate da oltre 2 italiani su 3 (da 4 su 10 fra gli elettori del Pd e dell'Idv), alle vicende personali e familiari di Berlusconi. Quasi 8 italiani su 10 pensano che il divorzio annunciato e le amicizie femminili del premier siano fatti suoi e di sua moglie.

Va detto che il sondaggio è stato condotto prima della sentenza sul caso Mills, che accusa il premier di corruzione. Anche se dubitiamo che possa scuotere un elettorato largamente immune dal vizio dell'indignazione.

L'emergenza-terremoto, invece, ha esercitato effetti positivi sulla popolarità del governo. Da ciò l'impressione che l'esito delle prossime elezioni europee sia già scritto. Una replica - dai toni più forti - del risultato di un anno fa. Le elezioni europee, tuttavia, non sono mai davvero prevedibili. Perché hanno effetti politici nazionali, ma le loro conseguenze istituzionali riguardano, appunto, il contesto europeo.

Per questo sono caratterizzate da un tasso di astensione più elevato del consueto (il 30%, cinque anni fa). Per questo molti elettori usano criteri di scelta diversi. Votano (oppure non votano) in modo più "libero" che in altre consultazioni. Meno attenti alla logica del voto utile e maggiormente disposti, invece, a esprimere un voto a elevato valore simbolico. Che suoni come minaccia, avvertimento oppure auspicio. Per questo, in particolare, conviene guardare anche "dentro" alle coalizioni, dove si gioca una partita altrettanto importante di quella "fra" le coalizioni. In particolare, occorre fare attenzione alla sfida lanciata da Antonio Di Pietro al Pd ma anche a quella, altrettanto esplicita, della Lega contro il Pdl. Di Pietro alle elezioni di un anno fa aveva raggiunto il 4,4%.

Oggi, secondo Demos, è quasi raddoppiato. Mentre il Pd è sceso di 7 punti percentuali. Insieme, Pd e Idv raggiungono a fatica il dato ottenuto un anno fa dal Pd da solo. Ma oggi l'Idv costituisce un quarto dei voti di quest'area politica. Circa un terzo rispetto alla base elettorale del Pd. Non un settimo (e anche meno) come un anno fa.

Diverso è il caso della coalizione che sostiene il governo. Il cui partito di riferimento, il Pdl, non sembra aver perduto consensi. Anzi, li sta allargando. Ma la Lega, rispetto a un anno fa, è cresciuta maggiormente. Secondo le stime di Demos, avrebbe superato il 10%, come solo nel 1996 le era capitato.

Quando si era presentata da sola contro tutti, agitando la bandiera della secessione. Una minaccia che, in seguito, però, l'avrebbe sospinta ai margini del sistema politico e dell'elettorato. Oggi invece agisce da alleata inquieta, ma fedele, del Pdl. Sta al governo e al tempo stesso assume atteggiamenti da opposizione. E sembra trarne un doppio beneficio. Lega e Idv, quindi, corrono per rafforzare il loro ruolo nella politica del paese ma anzitutto nelle due coalizioni. Mirano a diventare i veri punti di riferimento della maggioranza e dell'opposizione. Soggetti che dettano l'agenda e impongono il linguaggio della politica nazionale. La Lega, d'altronde, oggi è divenuta portabandiera del tema della sicurezza; in modo aggressivo. Rivendica l'autodifesa personale e delle comunità locali. Oggi le ronde. Domani, magari, la liberalizzazione della vendita delle armi. Seguendo il modello americano.

Ha, inoltre, assunto il ruolo di guida della lotta contro l'immigrazione clandestina. Anzi, diciamo pure: contro l'immigrazione tout-court. Intanto, ha conquistato il federalismo fiscale. Il suo marchio di fabbrica. Ma oggi sembra maggiormente interessata ad apparire garante della sicurezza e della paura. Perché non c'è domanda di sicurezza senza paura. E viceversa. In questo modo, conta di scavalcare il confine "naturale" del Nord padano. Il Po, appunto. Perché la paura non ha confini.
L'Idv di Di Pietro assorbe e intercetta almeno una parte di questo sentimento. La domanda di sicurezza. Perché, a differenza del Pd, non ha remore a esprimere un linguaggio securitario contro la criminalità comune e l'immigrazione clandestina.

Inoltre, pratica la linea della fermezza antiberlusconiana. Senza se e senza ma. Fa l'Opposizione inflessibile. Sempre pronta a manifestare apertamente e rumorosamente la protesta contro il governo. In modo da sottolineare la timidezza degli alleati e da coprire la voce del leader democratico Dario Franceschini. Così, sullo spazio politico, i due partiti sono scivolati via dal centro. Oggi il 50% degli elettori leghisti si colloca a destra. Nel Pdl, invece, un terzo. Per cui la Lega è più a destra del Pdl (dove sono confluiti gli elettori di An). L'Idv, anch'essa, tempo fa, vicina al centro, se ne è allontanata. Il 33% dei suoi elettori oggi si dicono di sinistra, il 34% di centrosinistra. Solo l'8% di centro. Fa concorrenza alla Lega, per linguaggio e inflessibilità (non per i riferimenti di valore). Ma anche alla sinistra radicale.
Lega e Idv, per questo, giocano una partita importante: per sé, per la propria area, per il sistema politico italiano. Di cui ambiscono ad assumere la leadership. Minoranze dominanti di un paese "contro".

(21 maggio 2009)
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