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Autore Discussione: Angelo DE MATTIA -  (Letto 5200 volte)
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« inserito:: Luglio 01, 2007, 12:12:41 pm »

Nel labirinto delle scatole cinesi
Angelo De Mattia


Il presidente dell’Assonime è nettamente contrario a una disciplina legislativa di contrasto delle scatole cinesi. È la pressione concorrenziale che deve favorire la contendibilità. Una regolamentazione per legge renderebbe il sistema opaco e indurrebbe allo spostamento all’estero delle iniziative societarie. Da un lato, dunque, Assonime; dall’altro, dopo tutto ciò che si è diffusamente detto sugli assetti societari - necessità di intervenire sui conflitti di interesse, sulle scatole cinesi, sui patti di sindacato - finalmente un atto concreto: il senatore Zanda e altri hanno presentato un disegno di legge, sotto forma di delega al Governo, per contrastare la costruzione delle cosiddette piramidi, quando assumono la veste di scatole cinesi. Un soggetto, pur avendo capitali limitati, ha il controllo (non la maggioranza) di una società, la quale assume il controllo di un’altra e così via: si tratta dei gruppi di dominio, come ha scritto Guido Rossi, o anche di sistemi di protezione dei benefici privati del gruppo di controllo, come si esprimono le recenti Considerazioni Finali del Governatore Draghi (citato nella relazione al disegno di legge), sistemi che accentuano le difficoltà di vagliare adeguatamente le operazioni all’interno dei gruppi, aumentandone l’opacità. La struttura piramidale, in quanto favorisce immobilismo e scarsa efficienza, ha effetti negativi sullo sviluppo e sulla competitività della nostra economia. Insomma, ne traggono danno la trasparenza, gli azionisti di minoranza, il sistema economico nel suo complesso.

Dopo recenti vicende, in particolare quella che ha riguardato Telecom, la proposta di legge è benvenuta. Essa agisce su vari piani: quello dell’offerta pubblica di acquisto (Opa) obbligatoria, che scatta non solo quando si supera la soglia, oggi vigente, del 30% di una società, ma anche quando si consegue il controllo in concerto con altri soggetti o tramite altre società (conseguendo percentuali comunque superiori al 15%); quello della limitazione del leverage buy out, l’acquisto di una società con le risorse della stessa società che viene fatta indebitare; quello della sterilizzazione, con meccanismi vari, dei diritti di voto spettanti alla controllante della società quotata nel caso appunto di sistemi piramidali. Sono, poi, introdotte norme per rivedere, sempre in presenza di catene societarie, il sistema di tassazione dei dividendi e il trattamento fiscale degli interessi passivi. Altre disposizioni riguardano il monitoraggio delle acquisizioni societarie da parte della Consob, che viene coadiuvata da un collegio indipendente di esperti, e le sanzioni irrogabili. La predetta normativa - che entrerebbe in vigore, per alcuni importanti aspetti, dopo il decorso di due anni dall’emanazione dei decreti delegati - affronta adeguatamente i problemi alla base dell’istituto dell’Opa, nel quale si condensano esigenze diverse che vanno coordinatamente tutelate: trasparenza del mercato, tutela degli azionisti di minoranza, mobilità dei diritti proprietari.

Non sono peraltro da sottacere i rischi da controeffetti, legati, per l’Opa, alla necessità di armonizzarla con la normativa che introdurrà il recepimento della corrispondente disciplina comunitaria, frutto di un non felice compromesso come ha detto Padoa-Schioppa, e, per la sterilizzazione, la possibilità che, bloccati i voti di una parte, acquisisca il controllo un’altra parte che però è largamente minoritaria. E ciò in assenza di un divieto di porre in essere la catena societaria, che comunque non avrebbe potuto essere fondatamente introdotto. Insomma, in questi casi, se si vuole evitare il rischio «barba del diavolo» - rasa in una guancia, risorge nell’altra, e così all’infinito - occorre la precisione di un microchirurgo; è necessaria quella che i greci chiamavano «euteleia», la precisione della mira, nel pensiero, nel giudizio.

Ma è anche vero che tutto l’impianto in tema di sterilizzazione vuole avere un valore essenzialmente «monitorio»: intende far mettere in regola, nei due anni, con il drastico accorciamento, per esempio, della catena di comando, soprattutto chi effettivamente rischia proprie risorse per governare (e non chi, con pochi denari, dovesse controllare un impero di imprese, che difficilmente potrebbe essere rimesso in gioco). Il disegno di legge, insomma, ha un merito particolare: quello di poter far disvelare chi parla solo pro forma in questo campo. L’esigenza di riformare e di superare le scatole cinesi è stata affermata trasversalmente negli schieramenti politici. Ora una proposta c’è: non va bene? E allora quali sono le controproposte?

Si capiscono le controdeduzioni dei mercatisti e dell’Assonime: a questi fenomeni devono pensare l’evoluzione del mercato, la spinta concorrenziale e l’affermarsi di una nuova cultura. Un po’ come il lungo termine di keynesiana memoria. È una posizione coerente, ma che ripone fiducia esclusiva nel mercato e nelle leggi vigenti che tuttavia finora non hanno apportato alcuna significativa modifica in questa materia. Occorre ancora attendere? Ma gli altri? Quelli che spesso invocano nuove norme nel campo societario?

Il ministro Padoa-Schioppa, che ha invitato a non fare di un’erba un fascio tra strutture piramidali e scatole cinesi, ha sostenuto che una legislazione sul tema si giustifica solo a fronte di significative evidenze empiriche e attente analisi costi-benefici. Intanto, già è importante applicare la normativa sulle «parti correlate».

In definitiva, Zanda ha smosso le acque. Non è realistico affermare, comunque, che la linea legislativa provocherebbe opacità. Ma, per il resto, possono, invece, conseguirsi dei punti di convergenza tra le diverse visioni, a patto che non ci si limiti a segnare gli errori con la matita rossa e blu nelle proposte altrui. È possibile lavorarvi?

Pubblicato il: 30.06.07
Modificato il: 01.07.07 alle ore 10.19  
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« Ultima modifica: Settembre 27, 2011, 03:48:29 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 04, 2007, 09:33:28 am »

Il partito di Draghi

Angelo De Mattia


Si può parlare, con riferimento alle posizioni espresse sulla politica economica da Draghi, Montezemolo, Marchionne, Epifani, di un «fronte dei moderni» nell’accezione dell’editoriale di Di Vico sul Corriere della Sera del 1° novembre, un fronte con il quale il Partito Democratico dovrebbe stringere più forti rapporti o promuovere anche qualcosa di più avanzato? Sì, ma distinguendo e chiarendo con grande precisione. Innanzitutto, la posizione delle istituzioni - in questo caso della Banca d’Italia - non può essere trascinata nell’agone politico per almeno due ragioni: l’essere, e il dover essere, la Banca centrale, super partes, con un ruolo di struttura tecnocratica autonoma e indipendente, ben diverso dalle formazioni a diretta legittimazione democratica; e perché sarebbe scorretto, sotto il profilo dei contenuti, assumere le sue tesi solo nel primo rigo, come opportunamente è stato ricordato da un autorevole economista.

D’altro canto, dare anche inconsapevolmente, una valenza partitica alle analisi della Banca centrale significherebbe forzarne il ruolo e cadere in contraddizione, poi, quando, magari perchè le tesi non piacciono più, si puntualizza che la sintesi non spetta ad essa, ma al Governo e al Parlamento. L’impiego delle analisi dell’Istituto di via Nazionale da parte dell’opposizione contro la maggioranza e viceversa è purtroppo una caratteristica della scena politica del nostro paese.

L’idea del fronte dei «moderni» è stata, da ultimo, sollecitata dalle riflessioni sul basso livello dei salari (Draghi) e dalla proposta di riduzione del peso fiscale sulle buste paga (Epifani). Ma, in precedenza, da parte di tutti i citati esponenti e con differenziazioni tra di loro, erano stati svolti altri, corposi interventi sui giovani, sulla scuola e la ricerca, sul Mezzogiorno, sulla crescita economica, per non dire delle tematiche finanziarie nelle quali ha assunto progressivamente rilievo la tutela del risparmiatore e dell’utente. Prima ancora, da alcuni di essi, erano stati affrontati i rami alti della politica economica e sociale: il mercato, i limiti del capitalismo, la giustizia distributiva, fino ad arrivare ad argomenti più direttamente politici, quali i costi della politica, il funzionamento dell’Esecutivo, la rappresentanza. A ben vedere, se fosse possibile compiere fruttuosamente un assemblaggio, ne potrebbe discendere una piattaforma valida non solo per affrontare i problemi economici con i quali il Governo oggi si cimenta.

Se una formazione partitica punta sulla sua vocazione maggioritaria, allora è la capacità di tenere insieme un ampio schieramento di proposte e di attese, mirando sempre agli interessi generali, che è messa a dura prova. La sintesi politica, non l’eclettismo, diviene cruciale. La Democrazia Cristiana ha dato dimostrazione, nei lunghi decenni del suo fulgore, di una sintesi di posizioni e interessi complessa, a volte tormentata, ma quasi sempre riuscita. Nella politica economica frequentemente la linea della Banca d’Italia diveniva posizione della Dc, senza che ciò, comunque, significasse appiattimento. Per un non breve periodo si parlò di un Governo Carli-Colombo. Non mancarono, tuttavia, momenti di minore vicinanza, come nella vicenda Baffi - Sarcinelli. Pure nella tradizione del Partito Comunista l’attenzione alle indicazioni di Bankitalia era massima; la difesa delle sue posizioni non infrequente.

Tornando alla Dc, anche i suoi rapporti con la Confindustria, bilanciati da quelli con le altri parti sociali, non erano conflittuali. L’interclassismo democristiano si dispiegava magistralmente. I pilastri su cui si reggeva erano la conventio ad excludendum nei confronti del Partito Comunista, salvo poi le convergenze in sede parlamentare, e l’impiego del bilancio dello Stato come il mezzo che sanava le contraddizioni tra obiettivi perseguiti e risorse disponibili; tra Stato e mercato; tra interessi dei giovani e quelli delle generazioni future. Non si discutono i non pochi meriti dell’azione della Dc. Ma va anche ricordato che purtroppo la politica di finanza pubblica dei governi in cui la Democrazia Cristiana era il maggior partito ha significato la formazione progressiva dell’enorme debito con il quale oggi bisogna fare i conti, essendo da tempo venuta meno la possibilità di scaricare su di esso le difficoltà della gestione di un vasto consenso.

Tornando all’oggi, sposare le tesi dei «moderni» dovrebbe significare che di esse non si possa cogliere fior da fiore. Quando si plaude al robusto intervento di Draghi sull’inadeguatezza dei salari e alla conseguente necessità che essi aumentino, bisogna però leggere più avanti, dove è scritto che la bassa produttività è la causa e che questa è a sua volta determinata dalla non conformità, in specie dei giovani lavoratori, al paradigma tecnologico; e, poi, riflettere sul fatto che, tra i rimedi, che sono tutti di medio periodo, vi è l’indicazione, accanto a riforme nella scuola e nella ricerca, di interventi sulla spesa pubblica, sulla previdenza con l’innalzamento dell’età media di pensionamento, ricordando che è una politica di riduzione molto più accentuata del debito pubblico che fa da sfondo anche a nuove impostazioni salariali. Meno fisco in busta paga, per citare un altro esempio, solleva immediatamente il tema delle risorse da utilizzare a tal fine, che non possono essere solo quelle, limitate, derivanti da una pur necessaria armonizzazione della tassazione delle rendite finanziarie. Insomma, se si assume che gli obiettivi indicati dai «moderni» potrebbero far parte di un programma di un partito che vuol essere maggioritario, il «punctum dolens», l’aspetto cruciale non è l’«attivo» di questo ipotetico bilancio - sul quale si possono registrare estese convergenze - ma il «passivo», cioè come si reperiscono le risorse, come si incide sulle diverse categorie sociali, insomma come si sostiene il perseguimento di obiettivi «moderni» insieme con il risanamento dei conti pubblici.

Deriva da ciò che la convergenza di posizioni può essere un fattore positivo di spinta degli equilibri politici o, all’opposto, un’illusoria condivisione che non fa i conti con un’attenta comprensione delle posizioni espresse. In esse, infatti, con l’obiettivo da perseguire per la crescita del paese e per una migliore distribuzione del reddito è sempre collegato il momento del reperimento delle risorse. È qui - e non per amore di differenziazione a tutti i costi - che si dovrebbe valutare se sussistono o no le condizioni per un vero fronte dei «moderni», nel rispetto delle autonomie e fermo restando il ruolo delle istituzioni pubbliche. Hic Rhodus, hic salta.

Altra cosa è, naturalmente, una interlocuzione attenta e proficua. Essa è da sempre il sale della democrazia e prescinde da idee «frontiste».


Pubblicato il: 03.11.07
Modificato il: 03.11.07 alle ore 10.22  
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« Ultima modifica: Settembre 27, 2011, 03:28:30 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 08, 2007, 09:34:16 pm »

Euro e petrolio, cosa rischia l’Italia

Angelo De Mattia


Si va verso un rapporto di cambio dollaro-euro di 1,50, quel rapporto che i maggiori esperti hanno giudicato finora un limite, oltre il quale non si dovrebbe andare? E ciò mentre il petrolio tocca i 100 dollari al barile? In un contesto, però, affatto diverso, per la minore dipendenza energetica, da quello degli shock anni Settanta del secolo scorso, il che spiega perchè non si parli (o forse non ancora) di politiche di austerità, di drastiche misure di politica economica, etc. E, tuttavia, si assisterà anche questa volta a quel sommovimento dei rapporti con i paesi produttori (allora invalsero i petrodollari e le xenovalute) che realizzò una svolta negli scambi internazionali?

Oggi si riunisce il consiglio direttivo della Banca centrale europea. Mai attesa più piatta vi è stata per le decisioni che la Bce assumerà in materia di tassi ufficiali. È facilmente prevedibile che tutto resterà immutato. Piuttosto, potrà essere interessante capire, dalle dichiarazioni alla stampa del presidente Trichet, quale sarà l’evoluzione nelle prossime settimane della politica monetaria. Non va dimenticato, infatti, che fino alla fase dell’accentuazione delle turbolenze finanziarie internazionali la Bce aveva programmato un rialzo dei tassi per lo scorcio dell’anno: un progetto che poi è caduto, almeno apparentemente, nel dimenticatoio dopo lo scatenarsi della crisi dei mutui subprime.

Ma ora, con il nuovo cambio dollaro- marco, si pensa di confermare nei prossimi mesi la linea del non intervento sui tassi o, alla fine, prevarranno le preoccupazioni per il modesto aumento dell’inflazione a ottobre e per l’eccezionale livello del prezzo del petrolio?

Tra le decisioni odierne e gli orientamenti a suo tempo rialzisti della Bce c’è di mezzo il G.7 tenutosi a Washington, che si presentava come la sede più idonea non solo a discutere ma anche a prendere decisioni concrete sul cambio, sulla base di una concertazione tra le principali monete. È stata, invece, un’occasione gravemente mancata, nella quale hanno abbondato i soliti vaghi accenni alla necessità che le valute riflettano i fondamentali dell’economia e all’allergia alla volatilità dei cambi. Un linguaggio quasi sullo stile delle parodie di Crozza, che ha fatto risorgere dubbi seri sull’utilità di queste riunioni.

Se, per le opposte politiche monetarie e valutarie seguite dai principali paesi (Usa, Eurosistema, Cina , Giappone), viene a mancare la possibilità di un’azione concertata nei rapporti di cambio (materia che per il sistema europeo è innanzitutto di competenza dei governi, cosa che dovrebbe essere ricordata, per esempio, dalla Francia quando intende promuovere un’iniziativa per fermare la rivalutazione dell’euro), allora diviene complicato addossare l’intera responsabilità alla Bce. E tuttavia non può nascondersi, mentre al recente ribasso dei tassi Usa altri ne potranno seguire, che un cambio in marcia verso l’1,50, nonostante l’euro forte attenui l’impatto del prezzo del petrolio, finirà con il porre la Banca centrale in una difficile condizione nel mantenere l’attuale impostazione della politica monetaria.

L’aumento dell’inflazione di uno 0,4 -0, 5 per cento a ottobre non può essere decisivo per l’inamovibilità dei tassi o addirittura per un loro aumento. D’altro canto, va pur detto che la convivenza con un euro forte non è certamente, di per sè, una bestemmia. E le agevolazioni sul cambio appartengono, in particolare per il nostro paese, all’era delle svalutazioni competitive - una sorta di assunzione dell’aspirina in luogo di un delicato intervento chirurgico - con le quali si cercò di nascondere i difetti strutturali dell’economia, dell’impresa e della finanza pubblica. Quell’era è definitivamente archiviata e le imprese farebbero bene a promuovere tutte le innovazioni e le riconversioni che consentano loro di battersi ad armi pari nella gara delle esportazioni. Naturalmente, anche gli altri soggetti istituzionali (Governi, Parlamenti) e no debbono fare la propria parte. Tuttavia, gli effetti della crisi finanziaria dell’estate scorsa non possono dirsi cessati; vi è la certezza che l’economia reale ne sarà incisa, in qualche misura. È dunque facilmente prevedibile che, nel brevissimo termine, della situazione monetaria e valutaria soffriranno le esportazioni e che, all’interno dell’Italia, non saranno trascurabili le conseguenze sull’esposizione finanziaria (a partire dall’indebitamento per mutui) delle famiglie le quali, all’opposto, beneficerebbero non poco di un ritocco all’ingiù dei tassi. Una politica della Bce di cauto abbassamento del costo del denaro nelle prossime settimane esplicherebbe i suoi effetti sul cambio, anche se non è quest’ultimo, sotto il profilo formale, uno dei principali punti di riferimento della sua politica monetaria. In un contesto nel quale manca - e non può che essere così - una politica economica comune, in circostanze eccezionali come queste che viviamo, a una Banca centrale spetterebbe anche un’azione di supplenza, in funzione della crescita dell’economia dell’area.

Si sa bene che nella Bce si confrontano esperienze e scuole di pensiero diverse; si risente, naturalmente delle realtà nazionali. In particolare, in Germania, la cui economia si è rimessa in sesto, l’euro forte viene visto come l’erede naturale del super marco. Altri paesi, però, nutrono convincimenti opposti. Senza accedere alla tesi di chi vede nell’attuale politica monetaria e del cambio una sciagura per le imprese - che, si ripete, debbono pensare, anche esse, a ristrutturarsi, così come i governi sono chiamati a portare avanti le riforme di struttura - una sintesi efficace tra le suddette posizioni in seno alla Bce sarebbe doverosa.

Sullo sfondo vi sono, poi, i problemi di grande momento che vanno dalla questione energetica alle tematiche istituzionali relative ai rapporti tra Bce, Governi, Commissione e Parlamento europei. Il superamento di questa fase con successo sarebbe suscettibile di creare una situazione più serena anche per affrontare queste tematiche di particolare complessità.

Pubblicato il: 08.11.07
Modificato il: 08.11.07 alle ore 15.05   
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 09, 2007, 11:12:24 pm »

La sfida di Siena

Angelo De Mattia


Hoc erat in votis: da tempo era largamente auspicata una aggregazione che vedesse protagonista la più antica banca italiana, il Monte dei Paschi di Siena. Ora il semigigante si è svegliato: l’accordo con il Santander per l’acquisto, con la ragguardevole somma di 9 miliardi di euro, dell’Antonveneta rappresenta un efficace colpo a sorpresa.

L’aggregazione progettata si segnala per la sicura complementarità - strategica, organizzativa, ma anche culturale - delle due banche che, così, potranno integrarsi nel contesto di un efficace piano industriale. La tradizionale senesità, che si era opposta vittoriosamente anche a Mussolini quando pensava di mettere le mani sul "Monte", si proietta ora su di uno scenario più ampio, forte anche dell’alleanza europea (Axa) nel campo assicurativo. Insomma, dopo tante disquisizioni, progetti saltati, aspettative disattese, l’accordo raggiunto segna una vera svolta. Realizzata la più rilevante operazione Unicredit, un nuovo protagonista scende ora in campo. Naturalmente, i diversi profili dell’aggregazione andranno, tutti, attentamente vagliati per una compiuta analisi, che tenga conto anche delle aree del territorio nazionale di riferimento classico delle due banche e, soprattutto, delle sinergie conseguibili. Economicità, funzionalità, migliore rispondenza agli interessi dei risparmiatori e dei prenditori del credito sono i punti-cardine da considerare. Quali saranno i programmi per la clientela, insomma, il cui soddisfacimento dovrebbe costituire il fine ultimo di una operazione della specie. Le dimensioni sono, sì, importanti, ma sono un mezzo, non un fine. E da una banca del profilo e della storia del Monte sarà lecito attendersi proprio la valorizzazione del fine, forte di una maggiore capacità strutturale, patrimoniale, operativa. E poi sarà altrettanto legittimo chiedersi come avverrà concretamente l’acquisizione, con l’esborso indicato, quale sarà il ruolo della Fondazione, ora partecipante di controllo, se cioè, come più volte profilato, vi saranno (o no) innovazioni nell’assetto proprietario - che per tanto tempo è stato, secondo alcuni, un punto dirimente e frenante dello sviluppo - se energie nuove, anche di livello internazionale, integreranno il patrimonio di indubbie, forti competenze e capacità del Monte. Cruciale sarà conoscere le posizioni degli organi di controllo.

Insomma, con la promessa di matrimonio con una banca anch’essa di buone tradizioni, l’Antonveneta, che in breve tempo ha cambiato quattro titolari della maggioranza, si apre per il Monte una fase di non ritorno che non diluirà le sue peculiarità, ma richiederà sempre più che si gareggi ad armi pari con i competitori nella governance, nelle funzioni, nell’operatività. Si nuoterà nel mare aperto della concorrenza.

Ormai nessun gruppo bancario, per rilevante che sia, può mostrare incertezze nella difesa della sua individualità, nell’irrobustimento patrimoniale e organizzativo, nello sviluppo dell’immagine nei confronti della clientela, sviluppo nel quale occorre investire con decisione. La storia dei passaggi di proprietà dell’Antonveneta sta a testimoniarlo e lo testimonia, in particolare, la vicenda di Abn Amro, attaccata prima da un "fondo" , poi oggetto del desiderio di Barclays, infine preda del consorzio della Royal Bank of Scotland. Se la storia delle aggregazioni bancarie in Italia, con l’operazione Montepaschi, può apparire conclusa per i "rami alti", non altrettanto può dirsi per eventuali aggregazioni estere.

L’Istituto senese ha tutte le potenzialità per innovare, mettendo in discussione ciò che risulterebbe non più adeguato ai tempi, ma conservando saldamente i punti di forza che lo hanno visto crescere ed affermarsi. Ora è chiamato a condurre i passaggi dell’operazione di fusione con trasparenza, efficienza, tempestività. La stella polare deve essere la migliore tutela del risparmio.

Pubblicato il: 09.11.07
Modificato il: 09.11.07 alle ore 13.15   
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 16, 2008, 12:31:10 am »

Crisi americana, angoscia europea

Angelo De Mattia


Angoscia, ma ancora irresolutezza nell'agire. Questo, sulla scorta di quanto dichiarato da Prodi, il sentimento del Vertice Europeo dei Capi di Stato e di governo: di fronte a una crisi finanziaria dai caratteri e dagli svolgimenti assolutamente inediti, la diagnosi è ancora carente, gli «accertamenti» altrettanto parziali, la terapia incerta e finora largamente inefficace. Il rischio di recessione negli Usa va materializzandosi. Ma si aggiunge la possibilità, ora meno labile, dell'estensione del fenomeno a livello mondiale. È un argomento che dovrebbe interessare tutti i governi e i partiti. Dovrebbe essere ben più presente nella campagna elettorale italiana.

È da 8 mesi che imperversa la crisi innescata dai mutui subprime.

Il Presidente della Bce Trichet, negli ultimi giorni, ha espresso preoccupazione per le oscillazioni del cambio euro-dollaro e poi ha aggiunto - come se non osservasse ciò che sta accadendo - che confida nella determinazione dell’Amministrazione Usa per un dollaro forte. Nel frattempo, lancia moniti contro la spirale prezzi-salari e per l’accelerazione del risanamento dei conti pubblici: grande precisione nella politica economica e di finanza pubblica, ma non altrettanto, ad eccezione della giusta immissione di liquidità nel sistema, in materia finanziaria. Pure il Vertice dei Capi di stato e di governo è preoccupato o, meglio, angosciato. Finora, tuttavia, non è stata progettata alcuna efficace iniziativa.

Negli Usa - dove la Fed si appresta ad abbassare ancora, il prossimo 18 marzo, i tassi ufficiali dello 0,50% o dello 0,75% - la maggioranza assoluta degli esperti sostiene che l'economia è già in recessione. La manovra sui tassi però è lontana, ma non di molto, da quella situazione definita da Keynes «trappola della liquidità», anche nella variante giapponese, con l’abbassamento dei tassi che non provoca effetti concreti. Quasi ogni giorno si batte un record nel cambio euro-dollaro, nel prezzo del petrolio, in quello dell’oro. Si afferma, anche per tranquillizzare, che i fondamentali, almeno in Europa, sono a posto, e che, insomma, l’economia reale non è incisa dalle turbolenze finanziarie.

E tuttavia costituisce un dato di fatto che, dopo tanto tempo, non si dispone di un quadro preciso, a livello europeo, delle cartolarizzazioni e di tutte le diverse forme di impacchettamento dei prodotti finanziari e delle appostazioni fuori bilancio effettuate da parte delle banche. Se si afferma che era difficile prevedere la crisi perché le sue componenti, singolarmente considerate, non erano particolarmente rilevanti - quasi che l’analista o il controllore non abbiano la capacità di cogliere l’insieme dei fenomeni, il concorso dei sintomi, la sindrome - ora che, comunque, si è nel pieno della turbolenza, c’è da chiedersi cos’altro manchi perché, per impulso innanzitutto degli organismi internazionali e degli organi interni di controllo, si possa avere un adeguato quadro conoscitivo. Sarebbe strano se al fallimento della vigilanza preventiva dovesse aggiungersi anche quello della vigilanza concomitante e susseguente. Una decisa trasparenza e l’adozione di regole adeguate sono fondamentali per ripristinare la fiducia nei mercati.

Quanto al cambio, se la portata della crisi è straordinaria, ci si può limitare, di fronte a un euro fortissimo con conseguenti impatti sulle esportazioni non bilanciati dal minore onere della bolletta petrolifera, a sostenere che è il dollaro debole e a far leva su di una politica monetaria prevalentemente comunicazionale, sperando che i soli messaggi producano effetti. E l’insieme di cambio forte e tassi d’interesse dell’attuale livello non diventa assai pesante per Paesi come l’Italia? Alla fin fine, è la Germania che guida la politica monetaria con i suoi “non possumus” per un allentamento. Si ripete che l’articolo 105 del Trattato Ue attribuisce alla Bce la sola missione del mantenimento della stabilità dei prezzi, ma non si aggiunge che l’articolo segue prevedendo che, “fatto salvo” quest’obiettivo, il Sistema europeo di Banche centrali sostiene le politiche economiche generali della Comunità. Tutto allora dipende dal modo in cui si interpreta - con assoluto rigorismo o con realismo - il “fatto salvo”. L’Europa può continuare nell’attuale politica monetaria oppure, senza smobilitare i presidi antinflazione, deve dare qualche cauto segnale di allentamento, in specie se seguiterà la riduzione dei tassi Usa? E non spetta ai governi intervenire, una buona volta, attivando in compartecipazione con la Bce le proprie attribuzioni in materia di cambi?

Ma ciò che è più di tutto carente è il coordinamento, praticabile a livello europeo e internazionale (G7, G10, Fondo Monetario Internazionale). Non è possibile che gli unici che operano, mentre cominciano a soffiare i venti della recessione, siano i banchieri centrali, anche in un ruolo di supplenza. È l’Europa, sono i Governi, sono gli Organismi internazionali chiamati a concertare le possibili risposte alla crisi nel nome di comuni interessi. Se non ora, quando?

La governance europea e internazionale non può certamente sostituire il mercato, ma non può abdicare alle sue funzioni in un momento molto delicato anche per le condizioni di vita dei cittadini. Riprendo Paul Valéry, «non si potrà più fare senza che il mondo intero vi sia coinvolto». E le strutture istituzionali, europee e internazionali, sono chiamate a dimostrare la loro validità.

Pubblicato il: 15.03.08
Modificato il: 15.03.08 alle ore 8.52   
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