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Autore Discussione: Pahor: la tragedia sconosciuta di noi sloveni  (Letto 2785 volte)
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« inserito:: Marzo 09, 2008, 12:42:43 am »

Pahor: la tragedia sconosciuta di noi sloveni 

di Maurizio Bait

 
Professor Pahor, lei ha cominciato a dar fastidio già da ragazzo, sotto il fascismo.

«Scrissi un racconto che in italiano suona all'incirca L'uomo sotto la carrucola. Era la storia di uno sloveno di Contovello, sul ciglione carsico di Trieste, figlio di un pescatore. Il ragazzo decide di sposarsi e andare a vivere in città. Lo assumono come operaio, deve lavorare sotto via Carducci dove scorre l'acqua di due fiumi sotterranei che scendono dai rioni di San Giovanni e Barriera.

Ma la pressione fa schizzare delle pietre verso l'alto e una lo colpisce fra nuca e collo».

Antifascista, ma non comunista.

«No, noi eravamo sloveni cristiano-sociali».

I "bianchi"...

«Cattolici, eravamo. In quel periodo lo scrittore Edvard Kocbek fece stampare una sua riflessione sulla guerra civile spagnola. Era disperato perché la Chiesa appoggiava Franco. La reazione della Chiesa slovena fu molto dura. Era troppo clericale».

Lei vide bruciare la Casa della cultura slovena nel 1920.

«L'ho vista, eccome. Sono sempre stato troppo sensibile. Questo difetto mi ha rovinato la gioventù. Dopo la quarta elementare i fascisti abolirono le scuole slovene e di punto in bianco fummo costretti a studiare e parlare soltanto in italiano. Fu un colpo durissimo per quel bambino che ero».

Era anche proibito parlare in sloveno per la strada, vero?

«Certo. Bisognava stare attenti».

Un suo racconto s'intitola "La farfalla sull'attaccapanni". Un altro brutto ricordo, vero?

«È la storia vera di una bambina che scambia quattro parole in sloveno con un compagno. Il maestro se ne accorge e la appende per le trecce all'attaccapanni. Ma il seguito, che non ho scritto, è ancora più triste».

Ce lo racconti adesso.

«Il bambino non volle tornare a scuola. Aveva un padre benestante, che lo fece studiare in privato. La bambina, invece, aveva una madre che si presentò al maestro e gli chiese umilmente scusa perché la figlia aveva parlato in sloveno».

Ma perché?

«Eh, perché... Perché gli sloveni erano terrorizzati. Avevano paura che le cose per noi peggiorassero ancora. Presentivano ciò che sarebbe effettivamente avvenuto».

In qualche modo ha fatto le scuole e si è laureato su Kocbek a Padova, passando anche per il seminario.

«Sì, al principio mio padre mi volle spedire alle commerciali. Non era roba per me. Divenni il classico mulo triestin, bighellone, perditempo. Ma in quegli anni imparai la coscienza nazionale slovena. Sono sempre stato sentimentale, ma razionalista. Devo capire il perché delle cose. Ecco: alcuni di queimuli mi aiutarono in questo».

La lingua. Come direbbe Elias Canetti, una lingua salvata.

«Noi tutti sloveni di qui ci siamo salvati per fedeltà alla lingua. La nostra borghesia è nata più tardi, ma era ben formata. Sotto i fascisti avevamo due parlamentari a Roma. Io, il giovane Boris, quando divenni intellettualmentenormale, cominciai a chiedermi quale fosse la via giusta per me. Sentivo forte il sentimento nazionale, che si fondava né più né meno che sul Vangelo. Le idee fondanti stanno in tre parole: povertà, amore, perdono. Avevamo un pastore di prim'ordine, il vescovo Luigi Fogar. Era straordinario e con una formazione di prim'ordine: aveva studiato a Innsbruck».

Dopo Dachau, Natzweiler-Struthof, Bergen-Belsen, lei ha scritto di aver dubitato della coscienza di Dio. Della sua consapevolezza di fronte al forno crematorio che riscaldava l'acqua delle vostre docce. Sono passati molti anni dalla voragine dell'umanità. Oggi ha cambiato idea?

«Primo Levi ha scritto d'essere propenso a non credere nell'esistenza di Dio. Io sono diventato panteista come Spinoza:Deus sive natura, il mondo come un grande miracolo. Anche Sant'Agostino parla dell'incoscienza di Dio. Anche Darwin. L'uomo, invece, è un dio. Un dio animalesco. Albert Einstein era privo di fede, tuttavia possedeva un energico spirito religioso».

Dunque l'orrore dei lager è sempre in agguato?

«Certamente. Su questo non ho alcun dubbio. La natura lo vuole e perciò l'uomo non è troppo colpevole. Per sopravvivere ci si deve divorare. Il grande mangia il piccolo. Ecco: devo credere in Dio, ma perché ha fatto un mondo dove occorre mangiarsi a vicenda? Per tutta la vita mi sono chiesto: perché?».

C'è un passo del "Deutsches Requiem" dove Borges fa dire a Otto Dietrich zur Linde, già vicecomandante al Campo di Tarnowitz, che la pietà è l'ultimo peccato di Zarathustra. Che Davide giudica uno sconosciuto e lo manda a morte, ma poi gli si offre la rivelazione: tu sei quell'uomo. Ognuno di noi può esserlo.

«Non sono stato d'accordo con chi, dopo la guerra e ilmondo crematorio, voleva distruggere la nazione tedesca. Non ce l'ho con loro, che anzi hanno molto amato il mioNecropoli definendolo "un regalo per la Germania", come disse il mio scopritore tedesco Thomas Poiss, uno studioso di Berlino. Bisogna invece eliminare i leader demagoghi, che inducono la barbarie a liberarsi. È laguida il vero pericolo per l'umanità, la guida che non governa per il bene della gente ma per condurla alla rovina. Molte guide, in ogni tempo, portano al disastro».

All'isola di Rabb (Arbe), dove sorgeva il Campo fascista, un mosaico ricorda le vittime. Descrive un uomo disteso. Una morte distesa.

«Nei Campi la maggioranza degli internati moriva distesa, al culmine di un'agonia fra la non più vita e non ancora morte. La morte orizzontale era qualcosa che sapeva durare».

Lei però, come Kocbek, ha denunciato anche gli orrori dei titini. Dopo un'intervista che lei fece allo scrittore, il regime di Belgrado osteggiò la circolazione dei suoi libri e per un anno le fu proibito perfino di mettere piede in Jugoslavia. Erano già gli anni Settanta.

«Dicevamo la verità. Gli inglesi ricacciarono in Jugoslavia diecimila sloveni non comunisti, disarmati. Il loro destino era segnato».

Professore, lei al Campo faceva l'infermiere e deve la vita al "pane dei morti", che l'ha fatta sopravvivere. Anche nei gulag di Stalin ci si dividevano le razioni dei morti. Quando alla Kolyma morì il poeta Osip Mandel'stam, per giorni mani invisibili gli sollevarono il braccio all'appello nella camerata.

«A Dachau ho venduto un pacchetto di ottime sigaretteMoravaper un pullover senza maniche. Si stava nudi in mezzo alla neve per ore. Poi ci furono i baratti fra sigarette e razioni di pane. Ho provato sensi di colpa per aver ceduto il vizio in cambio della vita. Ma il pane dei morti, anche la "minestra" dei morti, quella che chiamavamo minestra, erano un'altra cosa. Gli ordini della sussistenza venivano fatti un giorno per l'altro: se nel frattempo un internato moriva, il suo cibo arrivava lo stesso. E quando si ha fame, si ragiona con lo stomaco. C'è una poesia di Ivo Gruden, deportato anche lui. Era di Aurisina... Scrisse: "Ti rubavamo il pane quando stavi morendo e quando sei morto ti abbiamo avvolto nella paglia per prendere la tua razione».

In una pagina di "Necropoli" si legge questa domanda: "Perché l'aureola di eroi per quelli che caddero col fucile in mano o aggrappati alla mitragliatrice, e un ricordo appena accennato, se non il silenzio assoluto, per quelli che furono rosi dalla fame?". E poi: "Colpevoli siamo anche noi reduci, perché non abbiamo reagito".

«Siamo stati rimossi, ecco tutto. Non avremmo dovuto accettare che ciincorporasseronella Shoah, nella tragedia del popolo ebraico. Non era la nostra tragedia. Anche la nostravita nel Campo era diversa. A Dachau vedevamo gli ebrei arrivare a ondate da cinquanta vagoni alla volta. Le Ss li facevano spogliare subito e li conducevano nelledocceper gasarli. Il forno andava sempre. I nostri, invece, potevano sopravvivere anche tre mesi. Morivanocon calma, di stenti e di diarrea. Avevamo combattuto il nazismo, eravamo un'altra cosa. Poi, certo, anche i nostri sono diventati cenere. Siamo colpevoli: avremmo dovuto organizzare la loro memoria».

Facciamo un salto di sessant'anni. Fra italiani e sloveni le cose stanno cambiando a vista d'occhio. Emergono le nefandezze storiche di tutti e si comincia a parlare la stessa "lingua" della convivenza. Potenza di Schengen?

«Non soltanto Schengen. Prima che cadesse il confine formale già quello interiore eravenuto giù. Si è cominciato a parlare dei disonori dell'una e dell'altra parte. È merito soprattutto di alcuni giornalisti di frontiera, che hanno detto basta. Non poteva più reggere una situazione di conflittualità nazionale».

Anche "Necropoli" e la sua celebrità gravemente tardiva ma finalmente piena, ne sono una prova.

«Non soltanto il mio libro, ma tanti altri si stampano, circolano e si leggono in Italia senza pregiudizi. Oggi tutto cambia rapidamente. E la verità diventa possibile».

da gazzettino.quinordest.it
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