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Autore Discussione: Maurizio Chierici. Márquez, 80 anni sotto i riflettori  (Letto 2350 volte)
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« inserito:: Marzo 06, 2008, 03:22:54 pm »

Márquez, 80 anni sotto i riflettori

Maurizio Chierici


Ottant’anni è un segno che gira il calendario, ma nel calendario di García Márquez i segni sono tanti: sempre nascosti, vita da orso. Le sole parole pubbliche inseguono letteratura, cinema; è tornato al giornalismo. Ricordi, rimpianti, mai ricette politiche anche nelle battaglie per i diritti umani. Amico polemico di Castro, non ha scritto una riga in favore di Castro: prende in giro chi lo racconta in modo che ritiene sbagliato. «E mi fermo lì». Mai moglie e i due figli ne hanno diviso il trionfo. Mercedes è una compagna nell’ombra. Solo Mario Vargas Llosa - una volta - ha acceso la ribalta sulla vita privata dell’amico-nemico.

Pugilato a Barcellona, Gabo con l’occhio nero. Malizie che i biografi recuperano per dare un brivido alla collezione del niente.

Vargas Llosa si sarebbe vendicato del Gabo perché faceva il filo alla moglie provvisoriamente abbandonata per una fuga d’amore. Ma non era gelosia sentimentale: quel Nobel «rubato», piuttosto. Il gran borghese della letteratura latina ancora lo aspetta. Mercedes è sposata con Gabo da 48 anni. Adora vestirsi di bianco. E scioglie il bianco in ogni stanza: moquette, pareti, librerie. Nella casa di Bogotà, nella casa di Cuernavaca, Messico, dove Gabo era scappato minacciato dai califfi della «Violencia», politica e coca durante una guerra-non guerra civile. Povera Colombia che non cambia mai. Bianca e luminosa anche la casa messa in ordine a Cartagena accanto al monastero di Santa Clara, teatro del suo ultimo barocco: una novizia muore adolescente nei giorni della peste, ma i cappelli continuano a crescere un secolo dopo l’altro. Oggi il monastero è diventato l’albergo Santa Clara. Affitta stanze a prezzi millimetrati. Le finestre che si affacciano sulla terrazza di García Márquez costano dieci dollari in più. Il depliant invita gli ospiti ad aprire le finestre alle 7 del mattino perché «alle sette del mattino lo scrittore già lavora ed è possibile spiarne i momenti della creazione». Lavoro protetto da siepi verdi, grandi ombrelli. Il fratello Eligio ripete con malinconia: «Appena la salute lo permette, Gabo ritorna. Nostalgia della terrazza. All’alba si incanta ad aspettare il sole guardando il mare». Ormai vive a Città del Messico prigioniero di quel male. Dialisi e medici attorno. Il grande ospedale si è trasformato nella casa bianca dalla quale gli riesce difficile allontanarsi.

Il privato possibile da raccontare è tutto qui.

Gli anniversari ne hanno ossessionato gli ultimi mesi. Venticinque anni fa il premio Nobel e i quarant’anni di Cento anni di solitudine illuminano ogni piega del passato. Brindisi, discorsi, riflettori. Adesso gli ottanta ai quali è arrivato «resistendo per continuare a scrivere». Per quel che lo conosco, lo immagino diviso tra la vanità del sentirsi celebrato e il fastidio per chi ne ricorda la vita inquieta, primo scrittore ad aver aperto all’Europa distratta la letteratura latina. Letteratura che ha cambiato strada. Dalle mulatte sensuali di Jorge Amado a La casa verde di Vargas Llosa, eroi contadini di Carlos Fuentes, viaggi, mare e foreste del Gabbiere di Alvaro Mutis: una generazione ha raccontato le radici misteriose di un continente che ha cambiato radici. La solitudine senza misteri è ormai urbana. I nuovi narratori esplorano le città. E gli amati romanzi si perdono in un limbo quasi sconosciuto ai lettori dell’altra America come lo erano per i lettori d’Europa i protagonisti surreali di Cento anni di solitudine. «Surreali - spiega Gabo - perché l’esilio politico nella Parigi del surrealismo ha aperto un mondo che non avevo sospettato. Parigi mi ha dato la prospettiva dell’America Latina. Ho capito di non essere latino-americano, ma colombiano dei Caraibi. Sono un Caribe che finalmente capisce qual è la cultura che accende la nostra fantasia».

La giovinezza è lo spazio nel quale si formano i caratteri ed è la giovinezza a segnare in modo diverso le biografie degli scrittori latini che ci hanno fatto innamorare. Il segno di Vargas Llosa ha il profilo salottiero del nipote del prefetto di Piura, deserti bollenti del nord cileno. La fama ne ha allargato le soffici abitudini dell’adolescenza. Alvaro Mutis è un immaginifico dalle tenerezze politiche che adorano l’eccentricità, ultimo intellettuale dell’altra America a rimpiangere i sovrani spagnoli.

Carlos Fuentes è cresciuto nelle ambasciate del padre ed ha scritto del suo Messico scamiciato quando era ambasciatore a Parigi e continua a scrivere nella mansarda bomboniera, Londra bianca del ’700. Gli è impossibile penetrare i nuovi caratteri delle folle urbane e sceglie l’indifferenza. «La politica non ha ormai bisogno dei consigli degli intellettuali. I tempi sono cambiati: televisione, radio, giornali, internet fanno sapere alle folle cosa può succedere e gli allarmi degli scrittori tornano nell’ombra».

Gabo viene dalle retrovie: Aracataca, paese inventato dalla United Fruit, scalo ferroviario per banane. Ha cambiato nome per dare un senso alla polvere che lo avvolge come un temporale. Ed è diventato Macondo indossando il nome dietro il quale Gabo ne aveva nascosto la geografia in Cento anni di solitudine.

A dare retta alle statistiche che misurano l’età media di sopravvivenza, 80 anni è il compleanno ancora giovane di una vecchia avviata alla decadenza. Ma la vecchiaia è la nebbia che le bizzarrie del vento sciolgono e ricompattono, va e viene: furori che non si spengono, inerzie che addormentano. Comincia l’indifferenza. Non rinnega il passato, ne sfugge il confronto con pagine a volte sorprendenti. Tre settimane fa, attorno al tavolo della cena romana, Yolanda Pulecio de Betancourt, madre della Ingrid prigioniera Farc, ancora commossa per l’incontro con Benedetto XVI, confessa una disillusione che evita di rendere pubblica nel pellegrinaggio da un paese all’altro per salvare la figlia. «Sono andata in Messico a parlare con Gabo, amico del cuore. L’ho pregato di usare fascino e amicizie per aiutare la liberazione della mia ragazza. Ascoltva con occhi stanchi. Due parole ed ha cambiato discorso: “Non so cosa fare. Non conosco nessuno”». Ma il vento scioglie e ricompatta le nebbie dell’indifferenza: Yolanda continua a sperare che Gabo ci ripensi. Una madre non si arrende mai.

Racconto a Yolanda della madre di Gabo: come il Gabo d’antan non si sarebbe arresa. Quando ho incontrato Luisa Santiaga aveva 84 anni: minuta, gentile, ma un filo invisibile d’acciaio negava la fragilità. Capelli bianchissimi. L’impalcatura dei pettini li raccoglieva nell’acconciatura di un tempo perduto. Non ricordava la Fermina Daza, protagonista dell’Amore ai tempi del colera, cronaca familiare della famiglia Márquez. A Cartagena mi apre la porta Rita, quinta di otto figli. Ma la signora si agitava impaziente: «Andiamo da te. Ho solo due stanze. Staremo più comodi». Pochi passi in là, abbracci per strada: «Non ero la ragazzina che racconta Gabito nel romanzo. Avevo 20 anni e sfogliavo e sfogliavo un libro su una panchina dei giardini di Arataca quando Gabriel Eligio è passato. Mi ha guardata e ho incontrato i suoi occhi. Innamorata per tutta la vita».

Arriva un’altra figlia, Ligia: porta le foto del matrimonio contrastato dal padre di Luisa-Fermina: immaginava per l’unica erede un marito solenne, non un piccolo telegrafista. Le immagini sono appena quattro. Scatti nella luce incerta del giorno che nasce. Luisa Santiaga apparte non solo felice: lo sguardo sembra stupito mentre Gabriel Eligio Márquez si pavoneggia con la pomposità di un trigueno elegante. «Trigueño» viene da trigo, grano. Pelle dorata del giovanotto arrivato dal Sucre per pestare il tasto del telegrafo. Eligio non piace al colonnello Nicolas Ricardo e quando la figlia confessa di aspettare un bambino, il colonnello pretende due cose: matrimonio nascosto alle cinque del mattino, chiesa senza ospiti, due zii per testimoni; pretende soprattutto che l’erede debba nascere e crescere nella sua casa.

E il 6 marzo 1928 viene al mondo Gabriel García, nome dovuto al rispetto del padre ma ingombrante sulle labbra di chi lo chiama. Diventa Gabo, Gabito, gli amici gli si rivolgono ancora così. 80 anni dopo la fierezza di un narratore che non ha mai abbassato la testa, appare sbiadita come succede ad una certa età, malattie che infiaccano, giorni che si accorciano. Ma nessuno è proprio sicuro che Gabo, Gabito, Gabriel García Márquez, sia disposto alla pensione dell’intellettuale disimpegnato, come Carlos Fuentes, per esempio...

Pubblicato il: 05.03.08
Modificato il: 05.03.08 alle ore 8.38   
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