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Autore Discussione: Massimo GRAMELLINI.  (Letto 331644 volte)
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« Risposta #345 inserito:: Ottobre 13, 2012, 03:57:19 pm »

 
Buongiorno
09/10/2012

La vita in rima

Massimo Gramellini

Incuriosito dal successo che in Asia lo ha tramutato in fenomeno di culto, ho trascorso alcune ore in compagnia di “Dipende da te”, il corso di educazione esistenziale che un professore coreano, Rando Kim, ha scritto per i ragazzi in cerca di un posto nel mondo, possibilmente non troppo precario. Ho scoperto che l’umanità del Duemila è più simile di quanto suggeriscano i luoghi comuni: anche le mamme coreane ronzano come elicotteri sopra le vite dei figli, anche i giovani coreani saltellano da un corso di specializzazione all’altro per poi rassegnarsi a sedere su impieghi traballanti e stipendi da fame. Persino i consigli del guru sono identici a quelli che da adolescente ruminai in tanti manuali: abbi fiducia in te stesso, sentiti il padrone della tua vita, l’essenziale non è il talento ma il coraggio. Però ce n’è uno che non avevo mai letto così chiaramente: l’importanza della rima per dare ritmo a una poesia o a una canzone. “La rima” scrive Kim, “è una piccola restrizione, come un filo che collega le strofe… Abbiamo bisogno di mettere in rima la nostra vita. Se riesci a importi una piccola lista di regole, puoi essere il poeta della tua esistenza.”

La rima è una ringhiera e le ringhiere servono a non cadere, ma soprattutto a trovare l’equilibrio per camminare. Quella che sembra una restrizione, se siamo noi a imporcela, diventa espressione di libertà. Sotto l’influsso del prof coreano ho steso la mia prima lista. Regola numero uno: leggi un libro nuovo ogni fine settimana e raccontalo nel Buongiorno del martedì al resto della carovana. (Come rimatore posso solo migliorare). 

da - http://lastampa.it/2012/10/09/cultura/opinioni/buongiorno/la-vita-in-rima-wZVaBzkAOoLaYuLwgHkgON/pagina.html
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« Risposta #346 inserito:: Ottobre 14, 2012, 03:57:00 pm »


Cuori allo Specchio

GRAMELLINI

Il comandante che mi aiutò a riprendere la rotta

Era il periodo seguente l’intervento subito per un cancro: mi ero allontanata dalla famiglia, dagli amici, vivevo sola e non ero in grado di sostenere relazioni di nessun tipo, ero ripiegata su me stessa e riuscivo solo a mantenere con difficoltà il lavoro.

Dopo vari mesi di crisi profonda, provai a «riaffacciarmi alla vita» partecipando al matrimonio «vip» della cugina Giulia. Lì conobbi un bel ragazzo bruno, Luca; era un giovane avvocato rampante, giocava a golf, vestiva Armani, Rolex al polso, insomma faceva parte del bel mondo. Nel mio abito rosso mi sentivo a mio agio nonostante, forse, fossi la cenerentola della situazione e non avessi nulla in comune con quel target di persone. Lui mi notò comunque e mi invitò a trascorrere le vacanze estive nella villa dei suoi in Sardegna. Accettai e prenotai il traghetto; mio zio con il quale non avevo tagliato i ponti si offrì di portarmi a Genova ove ebbe inizio la mia avventura rocambolesca.

All’imbarco dei traghetti mi trovai ingurgitata da una folla festante in partenza per le vacanze. L’atmosfera eccitante non mi contagiò anzi mi procurò l’effetto contrario: iniziai a percepire un senso di freddo e di isolamento sia fisico che mentale. Salutai mio zio e salii sulla nave trascinando il trolley; ricordo un mare di specchi, una scala mobile, la testa che mi girava vorticosamente e la folla che mi si stringeva intorno come un polpo togliendomi il respiro. Il medico di bordo capì al volo che si trattava di un semplice attacco di panico per cui propose di farmi un bel calmante che mi avrebbe fatto dormire per tutto il viaggio; a quel punto, di scatto, mi alzai dalla sedia e dissi «FERMI TUTTI VOGLIO SCENDERE».

Il portellone della nave era quasi chiuso quando iniziò la manovra contraria di riapertura. Mio zio dalla banchina immaginò che fosse sorto qualche problema di ordine tecnico. No, ero io che come una formichina, bermuda rosse, maglietta bianca scendevo scortata dal personale di bordo. La notizia a casa mia mise tutti in subbuglio: «è impazzita, è scesa dalla nave», «ti rendi conto, è scesa dalla nave!». Sul piazzale rimanemmo io, mio zio ed un responsabile del porto, un bel «trio». Seduta sul trolley piangevo, non volevo tornare a casa avendo fallito l’impresa che avrebbe dovuto segnare il mio ritorno alla vita. Ero in stallo come un mulo, mi avrebbero dovuto accendere il fuoco sotto i piedi per farmi muovere. Il responsabile del porto ascoltata la mia storia mi abbracciò dicendomi «Se mi promette che non combinerà guai vedo se riesco a trovare un imbarco sulla Dea che parte stasera».

Erano trascorse solo tre ore dal mio sbarco quando, per la seconda volta in quella mattinata salutai mio zio e salii sulla Dea. Entrai nella nave, il personale era intento nelle pulizie; in cima alla scala il comandante in persona, avvisato del mio arrivo, mi accoglieva con un gran sorriso e dei gladioli rosa. Bastò uno sguardo a far scattare la simpatia tra noi. La giornata proseguì con la visita della nave, il pranzo con l’equipaggio e una piacevole conversazione a due.

La Dea salpò la sera come da programma; il mattino successivo arrivammo a Porto Torres un po’ in ritardo rispetto alla tabella di marcia per prendere il bus che mi avrebbe portato in Gallura (il mio amico «vip» aveva troppe cose da fare per venirmi a prendere) e così il Comandante che aveva capito che stavo vivendo un momento di sbandamento, contattò un taxi che rincorse a tutta canna» il bus che avevo perso, lo raggiungemmo, salii a bordo e arrivai a destinazione dopo un paio di ore.

Mi fermai in Gallura una settimana, mare stupendo, buona cucina ma la compagnia del mio lui non faceva per me tanto che dopo una settimana esatta me ne tornai nuovamente sola al porto in bus.

Quando la Dea arrivò, il piazzale era gremito di gente. Avvistata non so come, venni avvicinata da un marinaio che mi scortò fino all’ingresso della nave. Mi dissero che il Comandante in persona mi aspettava per la cena al suo tavolo. Vittorio, un uomo d’altri tempi, austero nella sua divisa bianca, il volto abbronzato segnato da qualche ruga, il racconto dei suoi viaggi ed il suo modo di porsi lo rendevano molto affascinante ai miei occhi di ragazza. Il mattino dopo mi fece svegliare per ammirare l’alba, poi colazione insieme, cornetti e cappuccino; ricordo con tenerezza lui che «mi apre la bustina dello zucchero e fissandomi per capire il mio stato d’animo, lo versa nella tazza» poi di nuovo il taxi che mi aspettava fuori del porto per la stazione Genova Principe. Conservo una foto che ci ritrae insieme sulla nave.

Quell’uomo allora sulla cinquantina è stato per me un angelo che mi ha aiutata a ritrovare la fiducia in me stessa affiancandomi in quel viaggio che ha rappresentato per me l’inizio del mio «ritorno alla vita». Chissà dove sarà ora quel Comandante. Il «mio» Comandante, un vero gentiluomo.

AUSILIA

Scritto da Moderatore , il 14/10/2012 ore 07:39

DA LASTAMPA.IT
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« Risposta #347 inserito:: Ottobre 17, 2012, 04:20:49 pm »

Buongiorno
16/10/2012

Il fisico umano

Massimo Gramellini

Come tutti coloro che nella vita compiono exploit considerati irripetibili, Paolo Giordano aveva paura di scrivere il secondo romanzo. Gli amici gli avevano suggerito di passare direttamente al terzo, ma lui ha fatto di meglio: ha scritto un’altra volta il primo. I grandi scrittori scrivono sempre lo stesso libro in modi diversi. Hanno un’emozione seduta al centro del loro cuore e le girano in tondo, raccontandola da ogni prospettiva per tutta la vita. L’emozione di Paolo G. è l’impossibilità per l’uomo di evolvere. 

Dallo studente Mattia dei «Numeri Primi» al tenente Egitto del «Corpo Umano» i suoi personaggi subiscono un trauma familiare che lui scandaglia con rigore, armato di una sensibilità chirurgica e di una scrittura credibile nelle descrizioni come nei dialoghi, vero banco di prova per un narratore. Lo subiscono, il trauma, e lo rifuggono, scomparendo in un altrove che può essere una guerra, una pillola antidepressiva o, come nel caso del tenente Egitto, tutt’e due. Ma non riescono mai a metterselo alle spalle, a trasformare il dolore in un tappeto volante per raggiungere l’amore. Ogni volta che leggo le pagine splendide e inesorabili di Giordano l’orfano ottimista che abita in me vorrebbe portare a pranzo l’autore e i suoi personaggi, per ricordare loro la legge fondamentale della quantistica: la realtà è fatta di scie infinite, quindi di infinite possibilità. Nessun evento del passato ci condanna a rimanere per sempre lungo la stessa corsia: possiamo cambiarla, persino oltrepassare il guardrail. Ecco cosa vorrei spiegare a Paolo G. Poi però mi ricordo che, fra noi due, il professore di Fisica è lui. 

da - http://lastampa.it/2012/10/16/cultura/opinioni/buongiorno/il-fisico-umano-RuWvT6NLkSCaFSqRaEhCEL/pagina.html
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« Risposta #348 inserito:: Ottobre 17, 2012, 10:10:14 pm »

Buongiorno
17/10/2012

L’ira del mite

Massimo Gramellini

Temete l’ira del mite. E’ pacifico e tollerante, intento a scrostarsi di dosso le cicatrici di un dolore antico. Chiede soltanto di essere amato e di non venire considerato come gli altri: i disinvolti, i beceri, gli arrivisti. Coltiva anche dei miti, il mite. Dei miti e dei sogni. Ne conosco uno che aveva il mito dell’America buona e il sogno di fondare in Italia un partito progressista moderno. Finché il sogno si avverò e il mite ne divenne il capo. Alle elezioni prese un mucchio di voti, ma i compagni di bottega smisero egualmente di amarlo. Lui si chiamò fuori, offeso e deluso. Da tutti e da uno in particolare: un tipo coi baffi che non cercava l’amore degli altri perché se ne dava già abbastanza da sé. Ma il mite ha pazienza. E un tempismo formidabile. Il momento che sa aspettare è sempre quello giusto. 

Il nostro mite, chiamiamolo Walter, nel giorno del quinto anniversario del suo sogno-partito andò a dire in tv: io sono diverso, non mi candido più. Una scelta sofferta, certo. E personale, certissimo. Eppure bastò che lui si staccasse dalla colonna a cui per forza di inerzia era ancora rimasto appoggiato perché il tempio cadesse giù, precipitando sulla testa di coloro che non lo avevano amato o, peggio, avevano smesso di amarlo. Fra i calcinacci si riconosceva il tipo coi baffi, chiamiamolo Massimo, intento a scambiarsi irriconoscenze col nuovo capo, un Pier Luigi che era stato proprio Massimo a mettere lì, per sfregio nei confronti del mite. Il quale osservò la scena del disastro senza compiacimento né compassione, con un riverbero di tristezza implacabile negli occhiali. Tremenda è l’ira di noi miti.

da - http://lastampa.it/2012/10/17/cultura/opinioni/buongiorno/l-ira-del-mite-Nq5BMUSdHXN4Scm46CtqkO/pagina.html
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« Risposta #349 inserito:: Ottobre 19, 2012, 05:35:24 pm »

Buongiorno
18/10/2012

Farina di un altro sacco

Massimo Gramellini

Simone Farina, il calciatore del Gubbio che disse no ai 200 mila euro di una combine e denunciò il tentativo di truffa alla magistratura, è da ieri il «community coach» del settore giovanile dell’Aston Villa. Insegnerà ai bambini di Birmingham le regole del calcio e quelle, meno note, della lealtà. Affidare al simbolo del calcio pulito un incarico di educatore. Che bella idea. Possibile non sia venuta in mente ai dirigenti di qualche squadra italiana? Secondo me, per pensarci ci hanno pensato. Però hanno saputo resistere alla tentazione. E sì che nei nostri club professionistici ci sarebbe una certa urgenza di ripassare alcune regole di educazione civica o più semplicemente umana. Non truffare il prossimo tuo come te stesso, non chiudere gli occhi davanti a un reato, non fare la vittima. Chiunque assista a una partita di calcio fra bimbi italici rimane colpito dalla presenza a bordo campo di torme di assatanati che gridano ai pargoli di buttarsi in area di rigore e che ricordano all’arbitro quanto sia sentimentalmente leggera sua moglie. Ultrà? No, genitori. Il «community coach» servirebbe soprattutto a loro. 

Invece Farina lo hanno ingaggiato gli inglesi. Ormai nel calcio ci siamo abituati a vedere emigrare i più bravi. Adesso cominciano ad andarsene anche i più buoni. E mica solo nel calcio, a giudicare dai tanti ragazzi orfani di raccomandazione che stanno lasciando l’Italia per cercare fortuna in Paesi dove parole come talento e onestà non suscitano ancora fastidio, piuttosto il brivido di un potenziale splendore. 

da - http://lastampa.it/2012/10/18/cultura/opinioni/buongiorno/farina-di-un-altro-sacco-TVAzBzHzFm3gj4PbFqKp9O/pagina.html
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« Risposta #350 inserito:: Ottobre 20, 2012, 04:05:49 pm »

Buongiorno
19/10/2012

Noi siamo di più

Massimo Gramellini

Da oggi ho uno slogan nel cuore che vale più di tutti gli «Yes we can» del mondo. L’ho sentito fiorire sulle labbra di una ragazza napoletana, prostrata dall’assurdità di una sofferenza insostenibile. Si chiama Rosanna Ferrigno, fa la segretaria in uno studio medico e l’altra sera ha dovuto raccogliere sotto casa il cadavere del promesso sposo, crivellato dalla camorra con quattordici proiettili. I camorristi hanno confuso il suo Lino, che stava andando a giocare a calcetto, con uno di loro. La gratuità del crimine e l’estraneità della vittima hanno scosso l’abulia di una città che da troppi secoli sopporta la malavita organizzata come una forma endemica di malaria. Poi è arrivata Rosanna. Non ha pianto in pubblico, non ha insultato le istituzioni, non ha elargito finti e precoci perdoni. Ma l’amore e il dolore le hanno dettato parole decisive: «Non bisogna avere paura dei camorristi. Sono loro che devono avere paura di noi. Noi dobbiamo continuare a uscire per la strada a testa alta. Sono loro che si devono nascondere. Noi siamo di più». 

Noi siamo di più. Non ci avevo mai pensato. Con tutti i nostri difetti - perché ne abbiamo a iosa, sia chiaro - noi siamo di più. Siamo di più dei mafiosi, dei corrotti, dei finanzieri senza scrupoli. Siamo più numerosi di qualunque minoranza coesa che cerchi di dominarci con le armi del potere e della paura. Averne consapevolezza, lo so bene, non basta. Ma è la premessa per svegliarsi dall’incubo e provare a trasformarlo in un sogno. Grazie, Rosanna, per avercelo ricordato.

da - http://lastampa.it/2012/10/19/cultura/opinioni/buongiorno/noi-siamo-di-piu-7dA543Qb4Bcj4c2SQVwObI/pagina.html
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« Risposta #351 inserito:: Ottobre 21, 2012, 11:31:10 am »

Buongiorno
20/10/2012

Fino alla fine del mondo (e oltre)

Massimo Gramellini

Domani mancheranno due mesi esatti alla fine del mondo. Siete già stati dal parrucchiere? Forse non ci credete. O forse pensate che la fine del mondo sia arrivata in anticipo e abbia gli occhi di Angela Merkel (hanno lo stesso colore del vetro smerigliato di una doccia). Io spero ancora che si presenti all’orario previsto, il 21.12.12. Nei sogni, l’unico momento in cui sono lucido, la immagino come una raffica di ultrasuoni che perfora gli orecchi degli stupidi, dei corrotti e dei cialtroni. Una carneficina. Vedo plotoni di sventurati con le mani intorno alla testa che corrono a gettarsi in acqua (tranne Berlusconi: il furbacchione ha avuto una soffiata e si è messo i tappi) e non ne capisco il motivo. Finché comincio a sentire l’ultrasuono anch’io: mi sveglio col cuore in ammollo e controllo l’orologio sul comodino. 

Ancora due mesi. E poiché ogni fine rappresenta un inizio, il 21 dicembre dovremmo salpare verso un mondo più giusto, dove l’amore trionferà, Formigoni si dimetterà e il Toro vincerà lo scudetto. Per prepararci a questo viaggio interiore, ho chiesto ai lettori della pagina di «Cuori allo specchio» di aiutarmi a fare le valige, raccontando il giorno della loro vita che intendono portarsi dietro. 

Di mio, ogni domenica, ci metterò una buona parola (la prima sarà: utopia), mentre nel suo «manuale di sopravvivenza» Federico Taddia racconterà come in tutto il pianeta gli esseri umani si stiano preparando alla data fatidica. Domani si parte, fino alla fine del mondo e un po’ oltre. Benvenuti a bordo e, mi raccomando, tenete Schettino lontano dal timone. 

da - http://lastampa.it/2012/10/20/cultura/opinioni/buongiorno/fino-alla-fine-del-mondo-e-un-po-oltre-e6eFP1ob7Gk9cdJovEMXuO/pagina.html
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« Risposta #352 inserito:: Ottobre 23, 2012, 06:03:36 pm »

Editoriali
23/10/2012

Fogne e bidet

Massimo Gramellini

Quando si scriverà il libro più lungo del mondo - l’enciclopedia della stupidità umana - due righe verranno dedicate al servizio trasmesso l’altra sera dal Tg3 Piemonte. Il giornalista inviato a Juve-Napoli per uno di quei famigerati pezzi che si definiscono «di colore» chiede a un tifoso juventino se sia in grado di distinguere i napoletani dai cinesi in base alla puzza. Nella scenetta tutto è grottesco: l’intento ironico incomprensibile e persino il fatto che a discettare razzisticamente sui «terroni» sia un ragazzo dal vistoso accento meridionale. Un tempo il siparietto penoso non avrebbe oltrepassato le valli piemontesi, ma ormai la potenza della Rete amplifica le fesserie. Così la puzza dei napoletani (un po’ meno quella dei cinesi) è diventata argomento di discussione nazionale, riaprendo le solite ferite freschissime che risalgono al Risorgimento. 

Anche Saviano si è sentito punto sul vivo e ha pensato bene di inzupparci la penna in modo spiritoso: «Quando i piemontesi videro il bidet nella reggia di Caserta lo definirono “oggetto sconosciuto a forma di chitarra”». 

Vero: in Piemonte all’epoca non avevano i bidet. Però avevano le fogne. Mentre i rimpianti Borbone, per potersi pulire le loro terga nel bidet, tenevano la gran parte della popolazione nella melma. Ora, che agli eredi diretti di Franceschiello dispiaccia di non potersi più pulire le terga nel bidet in esclusiva, posso capirlo. Ma che i pronipoti di quelli che venivano tenuti nella melma vivano l’arrivo dei piemontesi come una degradazione, mi pare esagerato. Vedete un po’ dove ci ha portati quel servizio razzista. Comunque, a scanso di equivoci, per lo scudetto io tifo Napoli.

da - http://www.lastampa.it/2012/10/23/cultura/opinioni/editoriali/fogne-e-bidet-fo1BHAKTaeuXUuHkZsPViJ/pagina.html
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« Risposta #353 inserito:: Ottobre 26, 2012, 09:27:54 am »

Buongiorno

25/10/2012 - la svolta del cavaliere

L’ultima (?) puntata della Silvionovela

Silvio Berlusconi è “sceso in campo” il 26 gennaio 1994, dopo 6847 giorni dice addio alla leadership

Berlusconi, il centravanti che scelse la panchina

Massimo Gramellini


L’Italia è sempre il Paese che ama. Solo che adesso ha deciso di amarla in modo diverso. Non più da giocatore ma da allenatore, la sua passione fin dai tempi dell’Edilnord. 

Fra il Discorso della Discesa in Campo e quello del Passo Indietro sono passati diciotto anni. Siamo tutti più anziani, anche lui, più spelacchiati e più poveri, tranne lui. Diciotto anni e la stessa metafora calcistica. Allora «scendeva in campo per costruire il nuovo miracolo italiano». Oggi si accontenta di «rimanere al fianco dei più giovani che devono giocare e fare gol». Vista dal campo o dalla panchina, l’Italia di Silvio non cambia: resta un enorme stadio di sua proprietà. 

La Discesa in Campo fu affidata a una videocassetta girata nel parco di Macherio davanti a una finta libreria e accanto a un ammasso (mai inquadrato) di calcinacci, che a qualcuno ricordavano un cantiere, ad altri un cumulo di macerie. Per il Passo Indietro, invece, l’uomo delle televisioni ha scoperto il fascino del web, inviando una lettera elettronica dove anche i «po’» si adeguano alla modernità e barattano il timido apostrofo con un più assertivo accento: «Ho ancora buoni muscoli e un pò di testa». Un’altra videocassetta avrebbe prestato il destro a paragoni impietosi con lo smilzo imprenditore berluscottimista che nel 1994 invitava gli italiani a diffidare «di profeti e salvatori» e ad affidarsi a «una persona capace di far funzionare lo Stato». Quell’affermazione, condivisibile, fu probabilmente equivocata: molti votarono il profeta-salvatore credendo fosse la persona capace di far funzionare lo Stato. Purtroppo lo Stato si è rivelato sordo alle intimazioni berlusconiane e diciotto anni dopo funziona peggio di prima. Né ci sono tracce di quell’Italia «più giusta, più generosa, più prospera, più serena, più efficiente e più moderna» che il Più Silvio promise solennemente fra i calcinacci di Macherio.

Cosa è rimasto della telenovela di allora nel discorso del Passo Indietro? Praticamente tutto. Lo spirito, i toni, i nemici. Berlusconi è un maestro nel presentarsi come uno che ricomincia sempre. Il suo non è mai il discorso del reduce, ma del precursore. E della vittima. Nella storia d’Italia secondo Silvio gli ultimi decenni sono stati una guerra fra due schieramenti: da un lato le perfide corporazioni di burocrati, giornalisti, lobbisti e magistrati, conservatori arroccati nella difesa di privilegi antidemocratici. Dall’altro lui, il Libertador, marchiato come populista perché alfiere del «voto popolare conquistato con la persuasione che crea consenso». Persuasione: attività affascinante ma pericolosa, quando a esercitarla è l’uomo più ricco d’Italia, l’unico dotato di tre canali televisivi nazionali e gratuiti. Invece per Silvio è stata «la riforma delle riforme», che ha reso «viva, palpitante ed emozionante la partecipazione alla vita pubblica dei cittadini». Qui l’uomo si sottovaluta. Di viva ed emozionante, ma soprattutto palpitante, in questi anni c’è stata soltanto la sua vita notturna. Purtroppo quel palpito «non poteva che avere un prezzo»: l’odio verso di lui, trasformatosi come nei film horror in una «sindrome paralizzante», il cui antidoto è stata «la scelta responsabile di affidare la guida provvisoria del Paese al senatore Monti». Berlusconi protegge il suo successore, quasi volesse farlo un po’ (o un pò) suo. Non è il preside bocconiano il nemico da indicare ai giovani eredi, ma l’Europa colonizzatrice della Merkel e, come diciotto anni fa, la sinistra. Che nel discorso della Discesa in Campo si ispirava a Michele Santoro e voleva trasformare l’Italia «in una piazza urlante che grida che inveisce e che condanna», mentre in quello del Passo Indietro sembrerebbe richiamare in vita, se non Stalin, almeno Breznev perché «vuole tornare alle logiche di centralizzazione pianificatrice che hanno prodotto l’esplosione del Paese corporativo e pigro che conosciamo». Una sinistra composta da «uno stuolo di professionisti di partito educati (come metà della nomenclatura pidiellina, ndr) nelle vecchie ideologie egualitarie, solidariste e collettiviste del Novecento».

E’ proprio per impedire ancora una volta che l’Italia liberale cada nelle mani dei comunisti che Silvio B ha deciso di fare un passo indietro e assistere da bordo campo alle primarie che incoroneranno il suo successore. «Quel che spetta a me è dare consigli, offrire memoria, raccontare e giudicare senza intrusività». E qui, visto che viviamo ancora in un Paese liberale, chiunque lo conosce è libero di mettersi a ridere. 

da - http://www.lastampa.it/2012/10/25/cultura/opinioni/buongiorno/l-ultimo-discorso-del-centravanti-che-scelse-la-panchina-klybsAFntiiiPuYkq7zvaN/pagina.html
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« Risposta #354 inserito:: Ottobre 27, 2012, 05:36:11 pm »

Buongiorno
27/10/2012

La Casta ramificata

Massimo Gramellini

Nel quadro delle iniziative volte a ridurre i costi della politica - la famosa «spending review» del governo Mounts - merita di essere segnalata la ricetta di due note località sciistiche della Val di Susa, Bardonecchia e Sauze d’Oulx. Divise per decenni da una rivalità non più compatibile con lo strazio dei bilanci, hanno deciso di fondersi fisicamente nella persona della signora Rita Bobba. Costei risulta essere al tempo stesso la moglie del sindaco di Bardonecchia e l’assistente del sindaco di Sauze d’Oulx. Questo tipico esemplare di donna alfa partecipa ai convegni nella duplice veste di moglie e assistente, prendendo spesso la parola al posto di entrambi i maschi (li immagino intenti a giocare a briscola in salotto, i doposci appoggiati sul tavolo). Ma di lei i maligni sanno sottolineare soltanto la ramificazione degli interessi e il tacco dodici indossato anche sul ghiaccio: una straordinaria dimostrazione di equilibrio, qualità utilissima in politica. 

Purtroppo ieri i carabinieri sono stati costretti a stroncare il primo vero esperimento di semplificazione degli enti locali.
La soffiata di alcuni dipendenti del comune, ingelositi dai progressi della ramificazione, ha reso necessario introdurre negli uffici una microcamera che ha restituito agli investigatori le immagini del sindaco di Sauze d’Oulx mentre timbra il cartellino della sua assistente e le firma attestati fasulli di presenza: truffa aggravata e falso di pubblico ufficiale. Quisquilie, eppure gli alfieri della conservazione vi si sono aggrappati per procedere all’arresto del timbratore e della sua protetta. A piede libero resta solo il marito. Ma senza Rita che vita è? 

da - http://www.lastampa.it/2012/10/27/cultura/opinioni/buongiorno/la-casta-ramificata-mUR79rho0JLreavrsp0BpN/pagina.html
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« Risposta #355 inserito:: Ottobre 31, 2012, 05:59:03 pm »

Buongiorno
31/10/2012

Compagni di Beppe

Massimo Gramellini

La stragrande maggioranza degli elettori di Grillo proviene dai partiti di centrosinistra. L’analisi dell’Istituto Cattaneo sui flussi del voto siciliano smonta un luogo comune. Ad accendere le Cinque Stelle non è il popolo deluso da Berlusconi, che in Sicilia si è astenuto in massa. Sono il lettore del «Fatto», lo spettatore di Santoro, il progressista stremato dai ghirigori della nomenclatura rossa e rosé, in particolare da quella del Pd, che in cinque anni è passato da 505 mila a 257 mila voti: un trionfo davvero storico. Chiunque si sia preso la briga di togliere l’audio all’ugola di Grillo per leggerne i programmi, si sarà imbattuto in parole come «ambiente», «moralità della politica», «scuola pubblica», «bene comune». Il vocabolario del perfetto democratico. Gli stessi attivisti del movimento, che detestano essere chiamati «grillini», detestano forse ancora di più passare per conservatori, liberali o populisti, le tre tribù (le prime due largamente minoritarie) accampate da vent’anni intorno al totem berlusconiano.

Il voto siciliano racconta un’Italia nauseata che vorrebbe sfasciare i vecchi partiti, ma non è altrettanto d’accordo nella scelta del rottamatore. Il nauseato di sinistra preferisce Grillo. Il nauseato di destra, temo, la Santanché. Mentre l’avvocato, il dentista, il piccolo artigiano che hanno votato Berlusconi o Bossi turandosi il naso, adesso se lo sturerebbero volentieri per votare Renzi. Se solo si candidasse alle primarie giuste.

da - http://www.lastampa.it/2012/10/31/cultura/opinioni/buongiorno/compagni-di-beppe-YJUTLXcbwi60GFJGbNW2zO/pagina.html
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« Risposta #356 inserito:: Novembre 01, 2012, 11:45:09 am »

Buongiorno
01/11/2012

Se lo share ora fa calare il consenso


Massimo Gramellini

L’ultima fatwa di Beppe Grillo colpisce una sua attivista, Federica Salsi, macchiatasi della colpa grave di avere partecipato a Ballarò. Per Grillo i salotti televisivi inoculano il virus del sistema da abbattere e perciò vanno assolutamente evitati: solleticando il punto G di chi vi partecipa, provocano narcisistici orgasmi che hanno un effetto nefasto sulle sorti politiche del movimento. Come rappresentante della comunità maschile, mi scuso con l’interessata per l’allusione gratuita: dubito fortemente che Grillo avrebbe tirato in ballo il punto G se l’attivista di Cinque Stelle fosse stato un uomo. Come piccolo conoscitore dei meccanismi mediatici, devo riconoscere che ha ragione: oggi andare in tv significa perdere voti.

 

Stavolta sotto la lente infuocata di Grillo non è finita la televisione in generale, ma quei programmi di informazione politica che prevedono la presenza contemporanea in studio di una pluralità di ospiti. Questa formula si sta lentamente estinguendo per mancanza di nuove facce disponibili a ravvivare il gioco. Oggi qualsiasi personaggio pubblico in grado di dettare le condizioni pretende quella che in gergo si chiama «intervista chiusa»: un faccia a faccia col conduttore senza interruzioni. 

 

Oppure, se proprio è costretto a intervenire in un salotto affollato, ricorre allo stratagemma del collegamento esterno o della telefonata in diretta, pur di rimarcare la sua diversità dagli ospiti seduti in studio e costretti a lunghe pause silenziose e a sovrapposizioni continue di voci. 

Situazioni normali in qualsiasi assemblea che, dal condominio alla scuola, raduni nella stessa stanza un numero di italiani superiore a uno. Cosa ci sarà mai di politicamente pericoloso nel partecipare a un talk show che, con tutti i suoi limiti, permette di farti conoscere da più persone di quante ne potrai mai riunire in una piazza o in uno stadio? 

 

Non è un problema di conduttori, complici o dichiaratamente ostili. Il veto di Grillo spazia da Vespa a Floris, investe persino il simpatizzante Santoro. E sarebbe banale liquidarlo come la smania di un leader solitario che vuole oscurare le altre stelle del movimento per far brillare meglio la sua. Il disagio verso la tv dei dibattiti nasce da una considerazione più politica: per i cittadini, l’ospite di un talk show è a tutti gli effetti un membro della Casta. Anzi, nella percezione del pubblico la Casta è composta proprio dagli ospiti dei talk show. Non dal banchiere onnipotente o dal direttore inamovibile del ministero, che incidono sui nostri destini molto più di una Finocchiaro o di un Gasparri, ma che in tv si guardano bene dall’andarci. La Casta è il politico che litiga in diretta con l’altro politico, ma che appena si spegnerà la telecamera - gli spettatori ne sono certissimi - ci andrà a cena insieme. La Casta è il giornalista, il sociologo, il professore universitario magari caustico e brillante, ma comunque interno a quel mondo e quindi connivente. 

 

Si tratta di un pregiudizio inconscio, cresciuto a dismisura negli ultimi mesi. Dalla fase del tifo, quando dal salotto di casa si parteggiava per l’uno o l’altro dei contendenti, si è passati alla fase dello schifo, in cui lo spettatore accomuna tutti i protagonisti del teatrino nella stessa smorfia di disgusto. Se questo è lo stato d’animo del pubblico, per essere considerati diversi non basta più andare in tv a dire cose diverse. Bisogna non andarci proprio, perché la sola presenza fisica rappresenta già un’accettazione delle regole del gioco che si desidera scardinare. 

 

Appena un nuovo politico appare nella scatola luminosa, sentenzia il critico televisivo Grillo, «lo share del programma aumenta: tutto merito tuo, trattato e esibito come un trofeo, come un alieno, una bestia rara. Ma contemporaneamente diminuisce il consenso per il movimento a cui appartieni». Viene così capovolto il teorema Ascolto uguale Gradimento su sui si era basata la propaganda televisiva nel ventennio berlusconiano. Oggi più ti guardano e meno ti gradiscono. Peggio: smettono di gradirti proprio perché ti hanno guardato. Persino una faccia nuova e un comunicatore brillante come Renzi non ha tratto vantaggi dall’assillante presenza televisiva. 

 

Naturalmente Grillo non andrebbe in tv nemmeno se gli garantissero un’intervista chiusa o addomesticata: gli sembrerebbe comunque un cedimento al Sistema. Ma anche i politici della Seconda Repubblica televisiva - ingordi di ospitate a qualsiasi costo, fin dai tempi in cui si facevano imboccare di polpettine da Funari - cominciano a chiedersi se allontanarsi dal video non stia diventando la loro ultima possibilità di rimanere aggrappati al potere. 


da - http://lastampa.it/2012/11/01/cultura/opinioni/buongiorno/se-lo-share-ora-fa-calare-il-consenso-6idOTosLGSnWAfbqUk1krO/pagina.html
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« Risposta #357 inserito:: Novembre 03, 2012, 12:06:04 pm »

Buongiorno
03/11/2012

Lacrime e no

Massimo Gramellini


Il governo non trova soldi per i malati di Sla, che rischiano di morire d’inedia istituzionale. E se la tecnica Fornero ricomincia a piangere, la politica tace o parla d’altro: di quanto sia brutta e cattiva l’antipolitica. Mentre proprio di questo dovrebbe occuparsi: degli ultimi, dei deboli, di chi non ce la fa. Purtroppo non tutti i cittadini sono ricchi, ambiziosi e intelligenti. Non tutti nascono e rimangono sani. Però tutti fanno parte della stessa comunità e la politica è la mamma che facilita la vita al figlio più in gamba, ma poi si curva protettiva su quello più sfortunato. Ed è a lui che dedica le sue energie migliori, è con lui che sperimenta quanto infinite siano le capacità del cuore umano di amare. 

 

Forse le regole del gioco sono cambiate senza che ci avvertissero. Forse la politica ha deciso di dedicare le sue attenzioni soltanto ai potenti di cui è serva e ai servi con cui è prepotente. Lo Stato Sociale europeo - malgrado le sue magagne, le sue burocrazie, le sue ruberie - ha rappresentato la creazione più nobile della politica. Oggi se ne parla come di un rudere di cattivo gusto, un lusso anomalo del passato, un ostacolo al libero manifestarsi del Nuovo. A me un Nuovo dove i mercanti ingrassano e i malati di Sla muoiono sembra nascere già molto vecchio. Se lo Stato non ha più soldi per tutti, tocca alla politica indirizzare quelli che rimangono verso le tasche giuste (possibilmente non le proprie). E chiedere aiuto al mondo delle associazioni, così come una mamma in difficoltà lo chiederebbe a una sorella o a un’amica. Non a una sguattera.

da - http://www.lastampa.it/2012/11/03/cultura/opinioni/buongiorno/lacrime-e-no-Va7qOK1YsMvUz2OcP41PxO/pagina.html
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« Risposta #358 inserito:: Novembre 06, 2012, 10:21:28 pm »

Buongiorno
06/11/2012

Usa, il voto della testa e quello del cuore

Massimo Gramellini


Obama, come no? Ma certo non è più la stessa cosa. Quattro anni dopo, la crisi ci ha resi meno retorici o forse soltanto più adulti. Meno disposti a rinfocolare quel sogno assurdo che tutti per un attimo abbiamo sognato: la delega della soluzione dei problemi del mondo a un unico uomo. Come in amore, quando l’oggetto della passione diventa il ricettacolo inconsapevole di ogni nostro desiderio sopito. Poi l’amore finisce, all’illusione subentra la delusione, e ci si trova davanti a un bivio: o ci si lascia o ci si ama, cioè ci si accetta per come si è davvero. 

 

Vista da lontano, la sensazione è che a Obama verrà risparmiato il divorzio. Gli americani non amano interrompere a metà il lavoro di un Presidente. Nel dopoguerra lo hanno fatto soltanto due volte, con Carter e Bush senior, ma le alternative si chiamavano Ronald Reagan e Bill Clinton, mica Mitt Romney. Uno che, come il John Kerry strapazzato nel 2004 da Bush junior, su quella fronte spaziosa da ricco qualsiasi reca impresso il marchio «loser», perdente. 

 

Ma se, nonostante se stesso, il “loser” dovesse vincere, avremmo la prova che il voto di quattro anni fa fu un’emozione violenta e passeggera, incapace di stratificarsi in sentimento.Allora - eravamo appena entrati in questa crisi epocale - i democratici americani scartarono la pragmatica e competente Hillary per tagliare un traguardo ancora più nobile della prima donna alla Casa Bianca: il primo nero. Giovane, atletico, intellettuale. Un contenitore che ciascuno di loro, e di noi, ha riempito dei propri sogni e delle proprie speranze. A immedesimarci in Obama contribuivano la sua biografia (Vendola direbbe “la sua narrazione”) e quello slogan semplice, furbo, aperto: Yes, we can. Sì, noi possiamo. Ma possiamo cosa? Tutto. Perché se un nero riesce a entrare alla Casa Bianca, quale altro sogno può essere precluso al genere umano? Noi possiamo fermare la guerra, la crisi, l’inquinamento, la finanza molesta. Possiamo costruire un mondo più verde, più umano, più giusto.

 

Era uno slogan sessantottino fuori tempo massimo. Eppure alzi la mano chi, almeno la notte della vittoria, non fece finta di crederci. Obama ha la colpa di avere alimentato quell’illusione collettiva, spropositata alla sua statura di statista, rivelatasi poi non così piccola ma certo inferiore alle dimensioni gigantesche dei problemi che ha dovuto affrontare. 

 

A ben pensarci, però, ha anche il merito di non averne approfittato. Pur avendo ottenuto la più massiccia investitura popolare della storia - mezzo mondo votò idealmente per lui e gli diedero subito, senza alcun merito, il Nobel per la pace - in questi anni Obama non si è affacciato ad alcun balcone, non si è mai dato arie da unto del Signore, non ha cercato di sedurre le masse come un caudillo del Sud America o del Sud Europa. Ha fatto, al meglio delle sue capacità, un mestiere molto meno romantico del populista: il politico. Cercando di conciliare il cielo stellato degli ideali con la palude dei compromessi. Ha chiuso una guerra, ha raffazzonato una riforma sanitaria quasi umana (che infatti i suoi critici chiamano “europea”), ha tenuto il punto sui diritti civili. Ha imparato a fare il Presidente, nella speranza che oggi gli americani gli diano l’opportunità di diventarlo davvero. 

 

Paradossalmente i ruoli si sono invertiti. Il venditore di illusioni adesso è lo sfidante, quel Romney che promette di tagliare le tasse senza tagliare la spesa pubblica. Obama invece è tornato sulla Terra. Dai suoi discorsi pieni di numeri sono scomparsi i sogni. Non pensa più che la nuova America possa cambiare il mondo. Si accontenterebbe che il mondo non cambiasse senza di lei. E senza di noi. 

 

Se fossi americano, oggi gli assicurerei il mio voto. Ma sarebbe un voto dato con la testa, non più con il cuore. Quello, come tutti gli amanti che nella vita ci hanno illuso e quindi inevitabilmente deluso, lo dovrà riconquistare daccapo. 

 
da - http://lastampa.it/2012/11/06/cultura/opinioni/buongiorno/il-voto-della-testa-e-quello-del-cuore-g5IwaypypVSIA2ZfE2CbCO/pagina.html
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« Risposta #359 inserito:: Novembre 07, 2012, 04:14:36 pm »

Buongiorno    

Massimo Gramellini    
    
07/11/2012

La scoperta dell’America

Qualunque cosa sia successa durante la notte (in questo caso chi legge ha più informazioni di chi scrive), quello dell’altro ieri è stato l’ultimo comizio elettorale di Barack Obama. L’ultima volta in cui l’uomo più potente del pianeta si è presentato davanti a degli esseri umani per sedurli a proprio vantaggio e ottenere il loro voto. Non a caso gli è scappata pure una lacrima. Da oggi non si candiderà più a niente, non dovrà convincere più nessuno. Potrà ancora parlare in pubblico e, fra quattro anni o da subito, potrà usare come Clinton la sua eloquenza per sostenere una buona causa o la carriera politica della moglie. Ma la sua, di carriera, dal punto di vista elettorale è inesorabilmente finita. A cinquantuno anni. 

Fra i vari limiti del potere, in America, vi è la sua soggezione a scadenze fisse e improrogabili. Un uomo politico, se è tale, lo rimane tutta la vita. Ma non lo può fare tutta la vita. Almeno non in prima linea. E’ una prassi dura, in qualche caso persino ingiusta. Però serve a tutelare la società dai veleni che il potere accumula ogni volta che si allea con il tempo. Ci sono poltrone su cui non è bene sedere troppo a lungo. «Noi uomini nuovi delle province non siamo migliori di chi ci ha preceduto», confessa l’imperatore Adriano della Yourcernar, «siamo solo meno insudiciati dal potere». Perché il potere corrompe chiunque ne faccia uso e lo induce a trasformarlo in abuso. Il segreto è fermarsi un attimo prima. L’America ha tanti difetti, ma questa regola salvavita della democrazia l’ha capita. Purtroppo un solo italiano ha scoperto l’America. E non è Formigoni.

da - http://lastampa.it/2012/11/07/cultura/opinioni/buongiorno/la-scoperta-dell-america-32gWhiEC6AyGJNgR9B5DyH/pagina.html
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