LA-U dell'OLIVO
Novembre 22, 2024, 01:58:21 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1] 2
  Stampa  
Autore Discussione: La disfida della banda larga  (Letto 26354 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Giugno 30, 2007, 07:37:20 pm »

RivoluzioneYouTube
di Emanuela Mastropietro


Non è la tivù del futuro, ma molto di più. È una svolta nella società dell'accesso. Perché elimina le distanze tra il palazzo e la gente comune. Parla il cofondatore del sito Web più famoso del mondo
colloquio con Steve Chen 
Prendete un talento dell'informatica ancora sconosciuto, piazzatelo in un garage nel bel mezzo della Silicon Valley e lasciatelo smanettare su un computer. Ne verrà fuori qualcosa di buono. Così, trent'anni fa, era nata Apple. Così, nel febbraio del 2005, è nato YouTube. Solo che il sito di videosharing più popolare del pianeta, con almeno 100 milioni di video visionati quotidianamente, ha bruciato le tappe e oggi è considerato il fenomeno più importante di Internet: una cosa che può cambiare per sempre la televisione e i media, ma forse anche la politica.

Due anni fa il ventottenne Steve Chen, uno dei suoi fondatori, era ancora un anonimo impiegato di PayPal, l'azienda leader dei pagamenti on line, che nel weekend si rintanava nell'autorimessa di famiglia, accendeva il computer e scambiava video amatoriali con gli amici. Così a questo ragazzo, nato a Taiwan ed emigrato in America con la famiglia quando aveva otto anni, è venuta l'idea geniale, di quelle che cambiano la vita: una piattaforma sulla quale chiunque può caricare i propri video digitali e chiunque può visionarli connettendosi semplicemente a Internet. Solo un anno più tardi, Google l'ha acquistata per la bella somma di 1,65 miliardi di dollari. Steve si è ritrovato in banca l'equivalente di 326 milioni di dollari in azioni, proprio come l'altro socio fondatore, il coetaneo Chad Hurley.

Oggi YouTube non è solo un colossale contenitore di video amatoriali, con le evoluzioni del gatto di casa, la ricetta dei pizzoccheri, o le performance di Igor, quattro anni, virtuoso delle percussioni, nuovo idolo della Polonia. A YouTube il governo americano ha affidato gli spot della sua campagna antidroga, le major i trailer dei nuovi film e i clip musicali, Paris Hilton il lancio del suo disco. È su YouTube che Tony Blair si è congratulato con Nicolas Sarkozy per la sua vittoria alle elezioni presidenziali francesi e che i principali canali televisivi del mondo lanciano brevi d'attualità o stralci dei loro programmi. E da pochi giorni, YouTube è ancora più accessibile al pubblico non americano (la metà del traffico proviene da altri paesi) grazie a nove nuove versioni locali - in italiano, in brasiliano, in francese, in irlandese, in giapponese, in olandese, in polacco, in spagnolo e per il Regno Unito - con home page e funzioni di ricerca tradotte nelle rispettive lingue. 'L'espresso' ha intervistato Chen a Parigi, dove ha presentato le nuove iniziative della società in cui, anche dopo la vendita a Google, ha conservato tutte le cariche operative, a iniziare da quella di chief technical officer.

Ormai il pubblico giovanile preferisce i siti di videosharing come YouTube alla televisione tradizionale. Perché, secondo lei?

"È una questione di accessibilità: su YouTube i ragazzi vedono quello che vogliono, quando vogliono, dove vogliono. In un college americano, per esempio, dove ogni studente ha il suo computer portatile con sé, in camera come in biblioteca, è molto più semplice e comune connettersi a Internet, e quindi a un sito di videosharing, che accendere la tivù. E poi YouTube offre una scelta di contenuti immensa, superiore a quella di una tivù tradizionale. Tuttavia, penso che Internet non si presti alla visione di programmi lunghi, che durino più di dieci minuti. Difficile rinunciare al piacere di sprofondare nel divano di casa per godersi un film su uno schermo al plasma in compagnia degli amici. Insomma, secondo me sono due cose diverse".

Allora non è vero, come dicono in molti, che YouTube sarà la televisione del futuro...

"No, non credo che YouTube rimpiazzerà la tivù tradizionale. Per i motivi che ho esposto prima, ma anche perché gli apparecchi tivù sono sempre più intelligenti: permettono l'accesso a Internet e garantiscono un'interazione con altri supporti tecnologici in continua evoluzione. In futuro, ma sta già succedendo, tutti questi supporti funzioneranno insieme per garantire all'utente un'offerta sempre più ampia. Anche dal punto di vista dei contenuti, la televisione, grazie a centinaia di canali internazionali ormai accessibili dal salotto di casa, resta sicuramente concorrenziale".

Allora che cos'è e che cosa sarà YouTube?

"Un ponte. Un grande ponte tra chi offre contenuti e chi li consuma. Una piattaforma senza frontiere che raggiunge un nuovo pubblico".

Però YouTube sembra soprattutto un contenitore di video amatoriali, a volte un po' adolescenziali. è solo una fase di passaggio verso i video professionali, le news, le fiction e i programmi tv veri e propri?

"È un problema che non mi pongo. Il nostro obiettivo è fornire agli internauti la più ampia scelta possibile, un catalogo pressoché illimitato, amatoriale come professionale. Uno studio ci ha rivelato che il 50 per cento dei video più gettonati è fatto in casa, l'altro 50 per cento proviene dai professionisti dello spettacolo o dell'informazione. Vede, il nostro pubblico se ne infischia di sapere se un video è stato fatto con due soldi nel salotto di casa o, al contrario, sia costato milioni di dollari. È il risultato quello che conta. Se il risultato lo diverte e lo appassiona, l'obiettivo è raggiunto. Punto, fine".

Se lei fosse proprietario di una tivù tradizionale, come Cnn o Cbs, che cosa farebbe per incentivare l'integrazione tra Internet e televisione?

"Beh, prima di tutto farei un accordo con YouTube! Siamo qui per questo. Noi non creiamo contenuti, non siamo un mezzo di produzione, ma mettiamo a disposizione del pubblico una piattaforma che può diffondere un prodotto locale a livello mondiale. Che sia il video promozionale di un aspirante cantante, girato in una cantina, o il programma di un canale televisivo che non ha i mezzi per diffonderlo dall'altra parte dell'Oceano, per noi è lo stesso".

YouTube ha portato scompiglio anche nell'editoria cartacea. Molti sono convinti che il vecchio giornale subirà un colpo tremendo dai siti di videosharing, specie in termini di pubblicità. Del resto, la generazione YouTube legge pochissima stampa cartacea.

"Sono mercati totalmente diversi, con un pubblico differente, e il destino della stampa cartacea non ci riguarda granché. YouTube comunica con l'immagine, i quotidiani fanno un altro mestiere: dopodiché non è colpa nostra se i ragazzi preferiscono guardare un video su YouTube che leggere un articolo di giornale".

Allora per la stampa cartacea suonano le campane a morto?

"Dipende da come si rapportano a Internet. La concorrenza è tra i grandi giornali, che possono permettersi siti con migliaia di pagine on line, come il 'New York Times', e i fogli meno importanti che non hanno una visibilità sulla Rete. è Internet che fa la differenza, non YouTube".

YouTube è sempre più impiegato come strumento di propaganda politica: dai candidati alla presidenza agli aspiranti ministri fino ai semplici consiglieri comunali, tutti vanno su YouTube. Qualcuno fa notare che in questo modo i politici piazzano i loro comizi e sfuggono ai contraddittori con i giornalisti. Lei che cosa ne pensa?

"Abbiamo appena annunciato che le tribune politiche per le elezioni presidenziali americane del 2008 si terranno proprio su YouTube: la prima, con gli otto candidati democratici è fissata per il 23 luglio. E non si tratta di soliloqui: il pubblico di Internet invierà dei video con le domande, e i candidati risponderanno in diretta. Grazie a YouTube, gli elettori potranno rivolgersi direttamente ai politici, senza intermediari, e i politici ai loro elettori, sicuri di poter contare su un'audience immensa, superiore a quella di qualsiasi meeting tradizionale e a qualsiasi tribuna elettorale televisiva. È una grande prova di democrazia. Il pubblico sembra davvero apprezzare questa nuova forma di comunicazione politica: il video con Blair che si congratula con Sarkozy, ad esempio, è molto popolare".

Quindi secondo lei YouTube fa bene alla democrazia?

"Certo. YouTube è una formidabile chiave d'accesso: bastano una videocamera e un computer per poter parlare al mondo. Le pare poco?".

Chi può insidiare il primato di YouTube?

"Non siamo in competizione con nessuno, non è il nostro obiettivo. Faccio ancora fatica a realizzare quello che mi è successo negli ultimi due anni. Solo poco tempo fa, stavo ancora discutendo con gli amici sul problema dei video troppo pesanti, difficili da caricare e scaricare su Internet. Mi sembra ieri: oggi sono qui a parlarle del sito più famoso del mondo".

Com'è diventato l'inventore di questo sito?

"Guardi, io ho avuto una vita molto normale, ordinaria. Ho frequentato le elementari a Taiwan, poi sono andato negli Usa. Ho vissuto a Chicago prima di trasferirmi in California. Ho studiato matematica e scienze, ma l'esperienza più formativa sono stati i tre anni trascorsi in un pensionato, tra i 13 e i 16 anni. È stato un periodo molto importante della mia vita: era un ambiente aperto, in cui circolavano idee e progetti, e nel quale si poteva discutere e testare nuove esperienze".

Tra i grandi creativi della Silicon Valley, lei è stato uno dei più precoci.

"Guardi che non sono poi così giovane, ad agosto compio 29 anni! Sono cresciuto in un'epoca in cui Internet non esisteva ancora. Credo di aver utilizzato per la prima volta la Rete nel 1997 o nel 1998.".

Il successo di YouTube ha stravolto la sua vita?

"Continuo ad abitare a San Bruno, in California; gli uffici sono quelli di sempre, separati da quelli di Google. Niente di lussuoso, è ancora un ambiente da start-up. Quando viaggio, però, mi rendo conto che le cose sono cambiate. L'interesse mediatico è immenso: conferenze stampa, interviste, fotografie... Un ritmo vertiginoso! E la gente comincia a riconoscermi: qualche settimana fa mi trovavo alle Hawaii e un tizio, per la strada, mi ha stretto la mano dicendomi che adorava YouTube!".

Quando non è attaccato al computer che cosa fa?

"Mi piace cucinare, ma è una passione alla quale non riesco a dedicare molto tempo. In effetti, da quando è nato YouTube, non faccio altro che lavorare e dormire".

Quanto guadagna oggi?

(ride)"Me lo sono scordato proprio in questo momento!".

 
Tutto cominciò allo zoo
 
Il primo video su YouTube fu caricato il 23 aprile del 2005 da Jawed Karim, il terzo fondatore del sito insieme a Steve Chen e Chad Hurley: sono pochi secondi in cui Karim parla davanti agli elefanti dello zoo. Curiosamente, Jawed Karim rimase poi ai margini dell'avventura perché voleva finire l'università (ma è tuttora consulente).

Karim, Chen e Hurley erano tre giovani impiegati informatici di PayPal, l'agenzia di pagamenti on line, con origini ed età diverse: il più grande era Hurley, classe 1977, cresciuto in una famiglia borghese di Birdsboro, Pennsylvania; Chen, del 1978, veniva invece da Taiwan; Karim, del '79, era nato in Germania Est da mamma tedesca e papà del Bangladesh: la sua famiglia era emigrata negli Usa quando lui aveva 13 anni.

Il sito di videosharing fu inventato ed elaborato in un seminterrato accanto a un ristorante giapponese nella cittadina di San Bruno, in California. Il suo successo è stato fulminante: messo on line - dopo alcune sperimentazioni - nell'autunno del 2005, nel giugno del 2006 aveva già 100 milioni di clip visualizzati ogni giorno, con 65 mila nuovi video aggiunti ogni 24 ore. Sempre nel 2006 il settimanale 'Time' lo ha definito "l'invenzione dell'anno" e nel novembre dell'anno scorso il sito è stato acquisito da Google per 1,6 miliardi di dollari.

Dopo l'acquisto di Google, YouTube è finito nel mirino di molte major per violazione di copyright e così il 2007 è stato l'anno in cui il sito di videosharing ha stretto accordi di collaborazione con diversi produttori di contenuti (Warner, Emi, Cbs, Universal, Sony etc) con un meccanismo di suddivisione degli introiti pubblicitari.

L'ultima frontiera tecnologica di YouTube passa attraverso i dispositivi mobili: il 15 giugno scorso è stato lanciato il sito YouTubeMobile e pochi giorni dopo è stato annunciato che i video di YouTube saranno visibili anche sul nuovo iPhone della Apple. Oggi a YouTube, che ha ancora sede a San Bruno, lavorano 67 persone.
 

Il mantra della generazione playlist
di Alessandro Gilioli
 
Se andate su YouTube e cliccate il nome di Steve Chen, troverete (tra gli altri) i video che lui stesso ha caricato sul suo sito. Ce n'è uno molto breve in cui Steve fa le boccacce come un adolescente dalla testa vuota davanti allo specchio dell'ascensore. In un altro, appena più serio, lui e il socio Chad Hurley spiegano perché si sono venduti YouTube a Google: è un clip girato per strada, in modo assolutamente informale, con i due ragazzotti che ridono e si scambiano smanacciate sulle spalle, prendendosi per i fondelli a vicenda.

Questa informalità assoluta (spesso al confine con la goliardia) è una delle cifre caratteristiche della gran parte dei clip che si trovano su YouTube, dove il cosiddetto Web 2.0, cioè la Rete fatta dagli utenti, ha creato un tipo di infotainment non solo assai sgiacchettato, ma perennemente cazzeggiante, incapace di prendersi sul serio, quasi mai palloso e raramente approfondito (i video devono essere piuttosto leggeri, quindi brevi). Insomma, il modello di comunicazione ideale per una generazione che ha tempi di consumo rapidi e quando legge qualcosa lo fa sui blog, altra forma espressiva i cui contenuti sono sintetici, informali, senza pretesa di oggettività e prodotti dal basso, cioè da altri internauti.

Oggi si parla di YouTube soprattutto come dell'erede della televisione, e diversi competitor di Chen e Hurley si stanno già stagliando all'orizzonte della Rete, da Joost a VeohTv. Ma la questione del successo di YouTube forse va al di là dell'aspetto massmediologico e investe i reticoli concettuali di una 'generazione playlist' in cui ciascuno si ritaglia su misura, individualmente, il proprio palinsesto di preferenze non solo televisivo, ma anche culturale, politico, estetico, religioso, esistenziale e così via: in una sorta di 'estremismo digitale soggettivo' di cui YouTube è insieme causa ed effetto.

da espressonline
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Luglio 02, 2007, 04:51:27 pm »

Il primo vagito di una vita artificiale

Pietro Greco


Il titolo è esplicito: «Trapianto del genoma in batteri: cambiamento di una specie in un’altra». Ma l’attacco dell’abstract, lo è ancora di più: «Come passo verso la diffusione di genomi sintetici, abbiamo completamente sostituito il genoma di una cellula batterica con quello di un’altra specie». Non c’è dubbio alcuno, John Glass, Craig J. Venter e l’intero team di ricercatori del J. Craig Venter Institute di Rockville, nel Maryland (Usa), hanno esplicitamente rivendicato i risultati, pubblicati venerdì scorso sulla rivista Science e relativi a un esperimento condotto con il Dna dei batteri Mycoplasma mycoides e Mycoplasma capricolum, come un primo, parziale ma sostanzioso passo verso la «biologia sintetica» e la «vita artificiale».

Vediamo prima l’esperimento. Il gruppo di biologi dell’istituto privato creato da Craig J. Venter ha prelevato l’intero Dna, integro e privo di proteine, il «dna nudo» per così dire, di un batterio (il Mycoplasma mycoides), che per semplicità chiameremo A, lo ha marcato e lo ha trasferito in cellule di un altro batterio (il Mycoplasma capricolum), che chiameremo B. Le cellule di B trapiantate sono state fatte crescere in un adeguato brodo di coltura e, dopo qualche generazione, John Glass e colleghi sostengono di aver trovato cellule che avevano il medesimo genotipo (lo stesso Dna) e il medesimo fenotipo (l’ambiente cellulare, la membrana, eccetera) di A. In pratica con il trapianto di genoma avrebbero modificato la specie B nella specie A.

In realtà nessuno sa cosa sia davvero accaduto. Perché l’esperimento non è stato controllato con cura e quindi nessuno - neppure John Glass, come onestamente riconosce - può dire come siano andate davvero le cose. Non sappiamo se l’esperimento è ripetibile. Se ha avuto successo. Se è ripetibile con altre specie di batteri o, addirittura, con organismi superiori.

Ma perché parlare di biologia sintetica? In fondo, quello che è stato fatto è un trapianto di «genomi naturali». E la capacità di eseguire «trapianti genici» mediante trasferimenti di parte del genoma da una cellula all’altra, anche da una cellula di una specie all’altra, è in possesso dei biologi da molto tempo. Tanto che si parla non solo di ingegneria genetica e di organismi geneticamente modificati, ma anche di un settore della medicina umana dedicata alla correzione dei difetti del Dna e alla cura di gravi malattie ereditarie attraverso il «trapianto genico».

Certo, in questo caso a essere trapiantato è stato un intero genoma, ancorché di soli 1,08 milioni di basi (3.000 volte più piccolo del genoma umano). Certo, se l’esperimento ha avuto successo siamo in presenza di un innegabile progresso tecnico. Ma si tratta pur sempre di un genoma esistente in natura. Perché evocare, allora, parole come «biologia sintetica» e «vita artificiale»?

Beh, passate da Science a Nature, leggete l’editoriale pubblicato giovedì scorso dalla rivista inglese, e capirete perché. Si ricorda, nell’articolo, che Craig Venter e il suo istituto sono impegnati nella messa a punto di «genomi sintetici», realizzati dall’uomo e non esistenti in natura. Si ricordano anche voci secondo cui il biologo americano, principale interprete di quel nuovo modo di lavorare di alcuni scienziati che è stata definita «scienza imprenditrice», avrebbe già messo a punto un genoma artificiale. Anche se non c’è alcuna prova che questo sia avvenuto. Ma resta il progetto. E resta che uno dei passaggi chiave del progetto è come far esprimere l’eventuale «genoma sintetico», come fare in modo che un «Dna artificiale» sviluppi un organismo vivente.

In quest’ottica l’annuncio di John Glass diventa più chiaro. L’essere riuscito a far sì che un «genotipo naturale» sviluppi un «fenotipo naturale» in un ambiente cellulare di un’altra specie è un passaggio che, almeno in linea logica, potrebbe consentire a un «genotipo artificiale» di sviluppare un «fenotipo artificiale» (e quindi un organismo vivente artificiale) in un ambiente (naturale o artificiale non importa) adatto. Insomma, sarebbe la via verso la biologia sintetica. Con alcune conseguenze da iniziare a tenere in conto. Da un lato, conseguenze teoriche. Acquisteremmo possibilità nuove di rispondere a domande del tipo: cos’è davvero la vita? Quando si ha la transizione dal non vivente al vivente? Dall’altro conseguenze ecologiche. Come dovremmo comportarci rispetto alla diffusione nell’ambiente di «fenotipi artificiali», ovvero di organismi interamente prodotti dall’uomo?

Le prospettive della biologia sintetica sono per ora molto remote. Tuttavia, è bene iniziare a rifletterci pubblicamente. Per evitare di arrivare impreparati al giorno (se mai verrà) in cui inizieranno a circolare dentro e magari fuori dai laboratori degli organismi artificiali.

Pubblicato il: 02.07.07
Modificato il: 02.07.07 alle ore 11.30   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Settembre 28, 2007, 10:46:11 pm »

La disfida della banda larga

Paolino Madotto-Andrea Ranieri


«Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che lo ha generato»: questa frase di Albert Einstein è la migliore considerazione che si possa fare sulla politica che il nostro Governo dovrebbe adottare sulla banda larga. Il processo di liberalizzazione che è stato avviato con intelligenza ormai più di dieci anni fa dal primo governo Prodi, ha vissuto nel tempo un rallentamento ed oggi siamo il paese che ha più difficoltà in tal senso. Eppure, come ha fatto notare appena il 12 giugno scorso il commissario europeo Viviane Reding in un discorso a Düsseldorf, i paesi europei che hanno una maggiore penentrazione della banda larga sono anche quelli dove la competizione è più forte. Nei paesi dove la banda larga è più diffusa, come gli Usa, la competizione è fatta tra reti fisiche diverse e questo genera qualità, costi bassi e continui investimenti per aggiornare la rete.

L'Ict guida il 50% della crescita di produttività in Europa e un recente studio del Mit indica che la banda larga stimola l'occupazione e lo sviluppo economico. La richiesta forte che viene dagli utenti italiani ha fatto si che il tema della banda larga entrasse nel programma di governo e della compagna elettorale del centro-sinistra.

La politica della banda larga nel nostro paese negli ultimi anni è condizionata dall'idea che è necessario sostenere l'operatore dominante per fornire la banda larga al paese. In un certo senso l'idea è stata quella di accompagnare gli operatori affinché trovassero convenienza ad entrare nelle case degli utenti. Questa politica non ha portato i risultati sperati ed è stata divergente rispetto a quello che si è fatto e si fa nei paesi dove la penetrazione della banda larga è più alta e di migliore qualità (spesso a prezzi più bassi). Ciò che più è mancata è una cultura della rete associata ad una cultura della regolazione del mercato e della concorrenza. Cultura della regolazione che unisce la conoscenza delle regole, della strategia aziendale a quelle della conoscenza esclusivamente tecnica. Una è condizione necessaria dell'altra. Questa politica di cooperazione con l'operatore più forte è stata dettata dalla considerazione che solo quest'ultimo era in grado di sostenere gli investimenti necessari per portare internet nelle case e nelle imprese.

In realtà la situazione italiana è un po' differente. Nei primi anni della liberalizzazione si sono mossi enormi investimenti che hanno consentito al Paese tra il 1997 e il 2001 di avere un elevato tasso di crescita. Non sono stati solo gli anni del boom di internet, sono stati gli anni nei quali nuove realtà si sono affacciate sul mercato sicure che era il momento di investire in un mercato in crescita come quello delle reti. Oggi esiste moltissima fibra ottica presente nelle dorsali e molta di questa è «spenta» e inutilizzata. Il vero blocco della banda larga è sull'ultimo miglio, quella parte di rete che arriva a casa degli utenti. Questo importante tratto di rete è quasi tutto dell'operatore dominante.

Portare internet a casa degli utenti è molto costoso, soprattutto in un Paese come l'Italia che ha tantissime città medio piccole nelle quali vive moltissima popolazione. Basti pensare che il 30% della popolazione vive in comuni sotto i 5000 abitanti.

I costi alti sono dovuti quasi esclusivamente alle opere di scavo poiché le tecnologie e la fibra ottica hanno costi trascurabili rispetto ai primi. Basterebbe in tal senso che il pubblico si facesse carico di fare dei cavidotti comuni o obbligasse chi possiede «palidotti» (ad es. Telecom, Enel) a metterli a disposizione degli altri operatori per risolvere molti problemi.

La tecnologia per trasferire i dati è cresciuta enormemente e oggi esistono numerose strade per arrivare a casa degli utenti. Il WiMax è considerata la più promettente per la sua velocità e per le distanze che è in grado di coprire. Lo standard Wimax consente di trasferire ad una velocità di 75 Mbits/sec dati su distanze di 50 Km circa, già si prevede che nel 2009 raggiungerà 1 gigabit. Molto di più di quello che serve per gli usi di internet oggi. Viviane Reding in un suo discorso del 14 maggio 2007 stima che perfino l'Iptv e l'alta definizione hanno bisogno di circa 2Mbits/sec purché di qualità.

A livello internazionale il WiMax è considerata determinante per colmare il digital divide e per la nascita di nuovi servizi in mobilità. In Italia il WiMax può essere determinante purché diventi una alternativa all'infrastruttura dell'operatore dominante e consenta una competizione nell'ultimo miglio. Sarebbe troppo lungo soffermarsi sulle ragioni tecniche che consentono alle moderne tecnologie di comunicazione radio di non essere influenzate dalle interferenze e di poter soddisfare le esigenze di connessione di un vasto numero di utenti. La Commissione Europea ha emanato una comunicazione nella quale annuncia che entro il 2010 vi è la necessità di ripensare il modello di assegnazione delle frequenze radio che è nato nel 1927. Si vuole un modello più flessibile e aperto perché l'assegnazione delle frequenze fatta in questo modo è ingiustificata e favorisce le rendite di posizione.

Il centro-sinistra ha fatto propria l'esigenza di aiutare il Paese a crescere economicamente e socialmente, questo passa oggi per lo sviluppo della banda larga e per investimenti in innovazione e Ict. Il Ministero delle Comunicazioni stà lavorando a scrivere il bando di gara per la concessione delle prime licenze del WiMax ed è importante che lo faccia seguendo la linea tracciata a livello europeo dalla Commissione e a livello internazionale dai paesi che da tempo seguono questi temi con successo.

Le linee guida emanate dall'Agcom in tal senso ricalcano troppo ciò che è stato fatto nel caso dell'Umts. Ma proprio ripensando a quella esperienza e ai problemi emersi il governo si deve assumere la responsabilità politica di governare la rete in linea con le evoluzioni e le opportunità che la tecnologia offre. Per costruire le politiche di innovazione è necessario che si ragioni con la testa rivolta in avanti.

Malgrado una tra le percentuali più alte nella diffusione di apparecchi Umts, l'Italia è quasi ferma ad un uso del solo Gsm e gli investimenti degli operatori, almeno quelli che hanno frequenze GSM, sono ridotti al minimo anche in una situazione finanziaria profittevole (anche troppo). Per questo è necessario che la gara WiMax non sia fatta per far cassa ma vengano scelti gli operatori che abbiano presentato i migliori progetti di copertura e diffusione ai costi più bassi per gli utenti. In Francia l'Arcep (omologa dell'Agcom) ha valutato nei progetti la collaborazione allo sviluppo territoriale dei servizi a banda larga, l'attitudine del progetto a favorire la concorrenza e il montante delle tasse che il candidato era disposto a pagare.

E' necessario che le frequenze vengano concesse per un numero di anni ragionevole di cinque anni che consenta i ritorni degli investimenti (che sono bassi) e che non vincoli le frequenze per molti anni, anche tenuto conto che nel 2010 l'Europa cambierà la logica di concessione. È anche opportuno che vengano favoriti gli operatori che operano a livello locale, perché per superare il digital divide è necessario che gli utenti possano essere serviti direttamente. Poiché il mercato più profittevole sono le grandi città metropolitane è necessario che le licenze vengano assegnate su base regionale scorporando le otto città più grandi. Questo stimola gli operatori a coprire velocemente il territorio per raggiungere i numeri necessari a recuperare gli investimenti.

È anche determinante che una delle tre frequenze disponibili sia assegnata, sempre sulla base di progetti qualificati, prioritariamente agli Enti Locali. Senza che quest'ultimi si sostituiscano ai privati falsando la competizione a danno degli utenti, gli Enti Locali costruire servizi pubblici avanzati come la telemedicina e infomobilità, mettendo a disposizione le frequenze in modo non discriminatorio ad operatori che offrono gli accessi verso internet agli utenti.

Noi del centro-sinistra ci siamo assunti la responsabilità di chiedere il voto per l'innovazione del sistema e per determinare sviluppo e crescita. La gara per il Wimax, dopo molto tempo, può essere il primo momento per cambiare rotta nelle politiche per la rete nel nostro Paese.

Pubblicato il: 28.09.07
Modificato il: 28.09.07 alle ore 9.28   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Settembre 30, 2007, 04:22:04 pm »

Parola di Microsoft: «Il software è di sinistra»

Marco Ventimiglia


Indotto record. Sei figli, specie nel nostro paese, non sono affatto uno scherzo. Se poi, nei ritagli di tempo, diventi amministratore delegato di Microsoft Italia la cosa non passa inosservata. È quanto accaduto a Mario Derba, dal primo di settembre alla guida della filiale italiana, la settima nel mondo, del colosso dell'informatica. Ingegnere toscano, 48 anni, è arrivato a questo incarico dopo una vita professionale trascorsa per la maggior parte in IBM, a cavallo fra Italia e Stati Uniti.

Ingegner Derba cominciamo dall'attualità, ovvero la maximulta subita dall'Antitrust europea ed ora ribadita dal Tribunale di prima istanza. Quali sono le sue valutazioni?
«Diciamo che emergono due stati d'animo. Il primo è la sorpresa, perché altre aziende che occupano importanti segmenti del mercato informatico con quote largamente maggioritarie, e penso a IBM, Apple piuttosto che Google, non hanno ricevuto lo stesso trattamento. Allo stesso tempo c'è una serena accettazione della sentenza, con la consapevolezza che molte cose sono cambiate da quando, parliamo di vari anni fa, prese il via l'istruttoria Ue. E comunque da vicende come questa Microsoft ha tratto spunto per sviluppare un approccio nuovo al mercato, che si sintetizza con una parola: interoperabilità».

Di che cosa si tratta?
«In sintesi è lo sviluppo di soluzioni che consentono il dialogo fra le nostre principali applicazioni e sistemi esterni. Accade già con i telefoni di Nokia, con il software realizzato da SAP, estremamente diffuso negli uffici, che può convivere con i programmi di Microsoft Office; e succede anche con Linux...».

Ma stiamo parlando dello stesso Linux, il sistema operativo gratuito, che è considerato il nemico giurato di Microsoft?
«Esattamente. Un conto sono le contrapposizioni a fini spettacolari, un altro la realtà lavorativa. In questo caso, con la partnership di Novel, stiamo sviluppando delle soluzioni che permettano il dialogo fra le aziende dotate di server Linux e quelle con server Microsoft. Insomma, le cose stanno cambiando rapidamente. E poi mi consenta una piccola provocazione».

Prego...
«Microsoft viene a volte additata come un'azienda che impone ad altri le sue scelte. Io la penso esattamente all'opposto. Andiamo ad una trentina di anni fa, quando la parola computer richiamava immensi macchinari assolutamente inaccessibili all'uomo della strada. Adesso il pc, grazie anche e soprattutto ai software di Microsoft, è divenuto un prodotto per tutti in ciascun luogo del nostro pianeta. E allora quale prodotto è più di sinistra del software?».

Concentriamoci sull'Italia. Quali sono le dimensioni della filiale Microsoft da lei amministrata?
«Il nostro giro di affari si attesta intorno ai 700 milioni di euro mentre i dipendenti sono 820, un numero abbastanza contenuto anche perché nel nostro caso conta moltissimo l'attività sviluppata dall'indotto».

È possibile quantificarla?
«Diciamo che la nostra attività ha un effetto di moltiplicazione pari a 11, nel senso che per un euro prodotto da Microsoft ce ne sono 11 ottenuti da società esterne per le attività collegate. Ancor più significativo, poi, è il dato relativo alle nostre aziende partner, ben 25.000, per un totale di persone coinvolte che è veramente difficile da stimare».

Immaginare un'attività estranea al software è sempre più difficile e la vostra sfera d'azione si è allargata di conseguenza. Quali sono i "nuovi" settori più promettenti?
«Occorre tener conto delle particolarità del nostro paese. Penso al settore pubblico che è molto esteso, ma dove non sempre riusciamo a far percepire i benefici e le semplificazioni apportate dai nostri prodotti. Un esempio sicuramente positivo è rappresentato dalle Poste che hanno intrapreso con convinzione la via dell'informatizzazione. Invece un settore sul quale stiamo investendo molto incontrando però delle difficoltà è quello della sanità. Ed è un peccato, perché i benefici sui costi e sulla qualità della vita dei pazienti possono essere notevoli».

Ad esempio?
«Basta pensare alla diagnosi a distanza: grazie al software appropriato, con dei sensori collegati ad un semplice dispositivo palmare si può procedere direttamente ad una serie di rilevazioni corporee ed inviarle subito al medico. In questo modo si limita l'affollamento delle strutture ospedaliere ed il paziente viene monitorato in tempo reale».


Pubblicato il: 30.09.07
Modificato il: 30.09.07 alle ore 7.38   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Novembre 06, 2007, 12:32:11 am »

Chi è un Bravo Informatico?

mercoledì 31 ottobre 2007


Roma - Sono 25 anni che mi occupo d'informatica, e mi sono sempre chiesto: ma come dovrebbe essere un bravo informatico? Sono partito dalle basi della mia esperienza per giungere alla conclusione che ciò che si dice dell'informatica è vero: è quella cosa dove chi comanda non la conosce, e chi la conosce non comanda.

Questo perché per il nostro utente/cliente/committente quella cosa lì, (l'informatica) la vede a seconda del suo ruolo, (la realtà è rappresentazione, ci ricorda Schopenhauer), in molti modi differenti: talvolta come una form, talvolta come un semplice pulsante, e spesso solo come una cifra in un conto d'investimento, quasi mai, anzi proprio mai come un sofisticato meccanismo creato dalle abili mani di un artigiano.

Si, perché per quanto la si voglia far sembrare un prodotto industriale, l'informatica fatta a qualsiasi livello è del tutto artigianale.
Magari ci fosse un prodotto che schiacciando il tasto mi tiri fuori un gestionale, un ERP, un real time e cosi via. È vero, ci sono i tools che automatizzano molte azioni, ma il succo è che senza l'intervento umano poco o nulla si fa.
Nell'informatica poi si distinguono 3 grandi categorie:

1. I realizzatori di codice puro. In genere sono coloro cui occorre solo dire di che cosa hai bisogno e loro te lo costruiscono. Difficilmente si pongono domande sul perché ti serve qualcosa, loro lo fanno e basta. Si arrabbiano moltissimo quando ricevono richieste illogiche od astruse.

2. Coloro che ricevono le richieste dell'utente. Non so voi, ma il 99% delle richieste dei miei utenti è: non so cosa voglio, ma lo riconosco quando lo vedo. La maggior parte di coloro che si riconoscono in questa categoria passa il tempo a spiegare ad un utente, senza sembrare brusco, che una 500 con le ali, anche se fattibile, non è il massimo; meglio dotarsi o di una bella utilitaria o di un biplano o di entrambi. Se poi si dice sì all'utente (sulla 500), devi poi passare altrettanto tempo a parlare con i realizzatori per far digerire loro che adesso quello che hanno fatto lo buttano a mare e ricominciano a fare qualcosa di diverso. (Se avete manie masochistiche fatelo pure, io non ve lo consiglio!)

3. La terza categoria degli informatici ha per me qualcosa di magico. In genere la si trova nei piani alti della scala gerarchica. Di informatica hanno uno spruzzo, come le torte con su lo zucchero a velo, però sono degli abilissimi comunicatori e dei perfetti creatori di presentazioni ad effetti speciali creati ad arte con Power Point. Eccellono nel redigere piani in Project e sono degli ottimi oratori. Quanto poi a realizzare prodotti informatici...In genere sono soliti dire per farvi capire che sono dentro la materia:
Un prodotto informatico è un insieme di sequenze logiche che prendono delle informazioni in input, le elaborano e forniscono un output!
Si ma come ? Beh, questo è un lavoro per i tecnici... (vedi 1 e 2).
Un bravo informatico, qualsiasi sia il suo livello, deve avere le seguenti qualità per non finire presto in depressione o scoprire che la sua settimana lavorativa dura tra le 60 e le 80 ore.

. Preveggenza. Ormai in ufficio mi chiamano Cassandra, quando entra un utente e mi chiede qualcosa che sia di solo 2 giorni lavorativi, so già che stiamo parlando di 2-4 mesi. L'ultima volta che mi hanno chiesto un db provvisorio per una cosuccia da niente, è rimasto in piedi 3 anni. Ancora mi domandano come facevo a saperlo. Io uso questa Regola, tramandatami da un vecchio saggio. Quando vi chiedono una stima di qualcosa di nuovo, aumentatelo alla categoria superiore e moltiplicatelo per 2.
1 giorno=2 settimane. Siete molto vicino a quello che impiegherete.

. Ascolto. Mai e dico mai realizzate qualcosa non appena l'utente ha finito di parlare. Aspettate, fate una pausa e poi dite sempre, lo metto per iscritto perché cosi lo capisco meglio. A questo punto accadono 2 cose: o l'utente dice, non mi serve più (40%), o vi cambia i requisiti (60%). Nel secondo caso si ricomincia il loop.

· Essere un terribile mal fidato. Controllate l'attività dell'utente, è facile che vi chieda cose pazzesche, solo perché non sa che la stessa cosa la fa la calcolatrice di windows. Testate, testate sempre ogni singola cosa e poi ri-testatela. Avere dei programmi free bugs è l'unico vostro scudo ad ogni possibile richiesta assurda ed alla domanda, ma perché ci vuole cosi tanto...?!
L'ultimo talento lo si acquista con l'esperienza, con tanta esperienza, o si è fortunati ad averlo dalla nascita e si chiama la capacità di vendere la propria attività.
Dilbert insegna che se siete dei super esperti, bravissimi, capaci, ottimi risolutori, fornitori di soluzioni, ecc,ecc, beh, questo non vi sarà mai riconosciuto. Mai. Perché (sempre per la solita legge della rappresentazione) state per tutti solo facendo il vostro lavoro.

È come dire bravo ad un chirurgo. Certo che è bravo, è il suo lavoro.
Però il chirurgo si fa pagare ! E questo, perchè il chirurgo fa pesare tantissimo il suo know-how.
Questo talento poi, più passa il tempo e più diventa molto più importante di tutti gli altri, specie qui in Italia.
Posso affermare con sicurezza che il Vostro stipendio e livello in azienda è direttamente proporzionato a questa capacità.
Più saprete far intendere al Vostro utente, (Capo od altro), quanto il Vostro lavoro sia complesso e sfaccettato ( e di conseguenza oneroso ed impegnativo) perché deve essere accurato, completo per dare un servizio che nel tempo porterà guadagno (ovvero risparmio), e maggiori saranno i Vostri compensi. (C'è sempre chi vi dirà, ma che ci vuole a farlo?! A quel punto cedetegli la sedia ed chiedetegli di mostrarvi la sua bravura...Si azzittirà all'istante).

Al mio team dico sempre: se realizziamo un'intera applicazione in Ajax, con le ultimissime tecnologie, in un terzo del tempo e senza bugs non potremmo mai pretendere nulla in più di quello che abbiamo. Questo perché per tutti questo è il nostro lavoro, e non si può pretendere di avere di più per fare "solamente" il proprio lavoro.
Invitare l'utente ad una serie di 3, 4 riunioni in cui illustriamo come lavoriamo, come Egli sarà sempre informato su tutto durante tutto il progetto, e come il servizio prodotto gli renderà la vita migliore, non ha prezzo!

Ed infine due massime:
- La prima da esporre come bigliettino da visita: Se tu lo sai immaginare, noi lo sappiamo realizzare.
- La seconda da dire al Vostro Team: Alla gente quasi mai interessa un'applicazione che giri 1 secondo più veloce o che abbia una base dati ultra ottimizzata od utilizzi solo paradigmi OO, ma tutti vogliono che sia bella, sicura, affidabile e che risolva il loro problema.

Ecco, forse alla fine una possibile definizione è: il bravo informatico è colui che gli altri riconoscono come un risolutore di problemi.

Giuseppe Cubasia
Cubasia blog

 Tag:lavoro it, informatici,
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Novembre 15, 2007, 06:12:30 pm »

TECNOLOGIA & SCIENZA

A Milano Chris Anderson, direttore di Wired, e teorico della Long Tail

"Il futuro è vendere una minor quantità di un maggior numero di beni"

Il web sta trasformando il mercato Con la "lunga coda" vince la nicchia

di MASSIMO RUSSO

 
MILANO - "Viviamo in un'epoca in cui ogni consumatore ha un megafono. Molti lo stanno usando. E le aziende farebbero meglio ad ascoltare". Chris Anderson, direttore di Wired - mensile americano di riferimento per la tecnologia - non ha dubbi. E, sbarcato a Milano, sale sul palco per sciorinare un concentrato dei concetti alla base del libro che lo ha reso celebre a livello globale: "The long tail. Why the future of business is selling less of more" (La coda lunga, perché il futuro dell'economia è vendere una minor quantità di un maggior numero di beni). Destinato presto a essere seguito da un secondo e altrettanto eversivo volume: "Gratis". Di nome e di fatto visto che - oltre a cercare di spiegare perché in alcuni casi il prezzo migliore cui vendere i propri prodotti sia zero - il saggio sarà scaricabile gratuitamente da internet.

L'economia classica - osserva Anderson - è basata sul concetto di scarsità. Da essa tradizionalmente dipende il meccanismo dei prezzi, la definizione del mercato come luogo definito dai vincoli geografici, l'idea che il successo stia nel riuscire a disporre dei 20 prodotti che soddisfano l'80 per cento degli utenti. "Bene", dice Chris, "scordatevelo. Tutto questo appartiene al ventesimo secolo. Si è aperta l'epoca dell'economia dell'abbondanza, in cui i prodotti di massa sono destinati a contare sempre di meno, a beneficio delle nicchie. Un sistema in cui il passaparola vale più degli spot televisivi".

Anderson è autore dal pensiero laterale e dal curriculum eclettico: pony express e musicista punk fino a 27 anni, poi laureato in fisica, quindi corrispondente dell'Economist per sette anni da New York e Hong Kong, infine profeta della coda lunga. A Milano per un dibattito organizzato dall'associazione no profit "The ruling companies", al quale hanno partecipato anche il sociologo Giampaolo Fabris e il ministro delle comunicazioni Paolo Gentiloni, Anderson ha spiegato come internet abbia scardinato i modelli economici del passato, e costringa tutte le industrie, a cominciare dai media, a ripensare se stesse. Con un effetto che sta trasformando la società digitale.

La rete offre per la prima volta un mercato sostanzialmente globale nel tempo e nello spazio, in cui non ci sono vincoli di distribuzione e gli scaffali del magazzino sono virtualmente infiniti. Fino a qualche anno fa i negozi di dischi più forniti potevano avere fino a 55mila canzoni e vendevano soprattutto le hit della top-ten. Oggi quelli online propongono 3 milioni di titoli. Le videoteche migliori disponevano di 4mila film, in rete se ne trovano 65mila. Idem le librerie, Amazon in testa. "E lo stesso capita per i beni fisici come le scarpe", ha sottolineato il giornalista, citando l'esempio di Zappos, "negozio online che ne vende 750mila modelli diversi". Perché nell'economia dell'abbondanza non bisogna più limitarsi a produrre i pochi beni di massa che possono essere comun denominatore per tutti i consumatori (la parte iniziale della funzione di distribuzione statistica nota come curva di Pareto), ma ci si può concentrare sulla coda, la long tail, che offre un mercato di dimensioni più grandi, fatto di infinite piccole diverse comunità di clienti. "Un concetto che voi italiani dovreste conoscere bene", ha ricordato Anderson, "vista la vostra capacità di emergere nelle produzioni artigianali di eccellenza come il cibo e la moda".

Le aziende tradizionali hanno già iniziato a giocare con la long tail: Nike, moloch Usa del prodotto di massa nel settore delle scarpe sportive, si è comprata Converse, simbolo della produzione di nicchia politically correct, e si guarda bene dal farlo sapere ai propri consumatori; Starbucks vende decine di tipologie di caffè diversi; Vogue, la cui mitica direttrice Anna Wintour (ricordate "Il diavolo veste Prada"?) orienta i gusti decidendo con un anno e mezzo d'anticipo quali sono i colori che ci piaceranno, al tempo stesso promuove online "Lipstick", un sito di user generated fashion, in cui sono gli utenti a scambiarsi consigli su come vestirsi e dritte sulle tendenze.

Perché l'economia dell'abbondanza è anche quella in cui conta la fiducia, e in rete - soprattutto i più giovani - si fidano più del parere dei loro coetanei che dei grandi media, tradizionali agenzie del consenso. Più internet si espande, più crescono i nodi/utenti che ne fanno parte, più aumenta la micro-conoscenza diffusa a disposizione, e con essa il valore del sistema.

Anzi - ha osservato Anderson - se nel mercato della fiducia la moneta coniata da Google sono i link, ovvero le raccomandazioni che fanno crescere l'autorevolezza di un sito e dunque la sua visibilità tra i risultati della ricerca, "molti blog, da Instapundit a Daily Kos, da Boing Boing a Scobleizer nelle materie di cui si occupano sono già più autorevoli di numerosi mass-media generalisti. Nell'economia disintermediata, il passaparola della conversazione tra utenti conta più dell'informazione istituzionale e del marketing".

Il ministro Gentiloni ha rinnovato il proprio impegno perché in Italia siano superati gli ostacoli che ancora impediscono un accesso generale alla rete. Ma nessun governo può garantire che i nuovi intermediari dell'abbondanza come Google, Microsoft, Yahoo, Myspace, Facebook, siano al tempo stesso giocatori e arbitri imparziali. Sono queste le banche centrali della nuova valuta del sistema, costituita dalla visibilità tra le mille nicchie: "Il tuo brand non è la definizione che ne dai tu, ma quella che gli attribuisce Google", ha lucidamente affermato Chris Anderson. Tuttavia, a chi dall'uditorio gli ha domandato "Come facciamo a essere sicuri che questi nuovi intermediari della disintermediazione creino un sistema davvero democratico e corretto?", Mr. Anderson non ha potuto che replicare, stavolta con minore efficacia: "Sono ottimista di natura". E d'altra parte, da rockettari punk trasformati in autori di fama globale, non lo sareste anche voi?

(15 novembre 2007)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Gennaio 08, 2008, 12:45:41 pm »

TECNOLOGIA & SCIENZA

Il fondatore della popolare enciclopedia web presenta Wikia Search, che sfida Google.

"Il nostro è un progetto politico"

Parla Wales, "padre" di Wikipedia "Ecco il motore di ricerca trasparente"

Oggi il debutto. Capitale 14 milioni di dollari (9 milioni e mezzo di euro). Con la partecipazione, a sorpresa, di Amazon.com

di RICCARDO BAGNATO


 NON HA nulla a che vedere con Wikipedia, si tiene a precisare Jimmy Wales, il fondatore della più conosciuta enciclopedia online. Il nuovo progetto "Wikia Search", che dovrebbe rappresentare una valida e trasparente alternativa a Google, e che debutta oggi online, è promosso infatti dalla società for profit Wikia Inc., fondata dallo stesso Wales e da Angela Beesley nel 2004. Bocche cucite su quanto costerà. Ciò che è dato sapere è che Wikia può contare su un capitale di 14 milioni di dollari (9 milioni e mezzo di euro) provenienti dalla società di venture capital, la Bessemer Partners, e, sorpresa, da Amazon.com.

"Negli ultimi dodici mesi, da quando abbiamo annunciato il progetto", dice Jimmy Wales a Repubblica.it, "abbiamo essenzialmente sviluppato la piattaforma. Nel frattempo ci ha raggiunto nel team Jeremie Miller (il fondatore di Jabber, il principale instant massaging per la piattaforma GNU/Linux, ndr.) che ha assunto il ruolo di chief technical officer (Cto) del progetto, cioè di coordinatore di tutti gli aspetti tecnici. Insieme a lui lavorano altre quattro persone stipendiate. Abbiamo inoltre comprato Grub, un progetto promosso dal motore di ricerca Looksmart, e ne abbiamo resi pubblici i sorgenti, in modo tale che chiunque lo desideri può contribuire alla crescita di Wikia Search o quantomeno sappia come funziona."

Come si presenta Search Wikia all'utente?
"Gli utenti possono fare una ricerca come la farebbero su Google. Possono registrarsi così come lo farebbero su un qualsiasi 'social network'. Hanno una pagina dove gestire il proprio profilo e cercare amici fra gli altri utenti registrati. Una volta che ha fatto una ricerca l'utente può aggiungere una propria definizione ai risultati che il motore di ricerca offre, allo stesso modo con cui si può aggiungere una voce nuova su Wikipedia. Ma non solo. Può decidere se e quanto il risultato corrisponde a ciò che stava cercando utilizzando una scala da 1 a 5. Tutti questi dati vengono archiviati e serviranno al motore di ricerca per offrire risultati sempre migliori."

Quanto tempo ci vorrà perché Search Wikia diventi un motore di ricerca capace di competere con gli altri e con Google in particolare?
"Oggi abbiamo messo online una versione 'alpha', cioè una versione ancora molto giovane, che si basa su una lista di siti che Wikia Search ha indicizzato. Una cosiddetta 'white list' che aumenterà nel tempo. Gli utenti non riusciranno a ottenere tanti risultati quanti ne troverebbero su un altro motore di ricerca. Crediamo ci vogliano come minimo due anni per mettere a punto un sito capace di competere con Google."

Nel frattempo però Google ha lanciato il progetto Knol, molto simile a Wikipedia, cosa ne pensa?
"Era tempo che Google pensava a un progetto del genere, ma non credo che Larry Page e Sergey Brin siano particolarmente preoccupati dal successo di Wikipedia, tanto meno ritengano Wikia Search una minaccia. E' certo, però, che né Google né nessun altro motore di ricerca oggi è completamente trasparente. Questo è il vero problema. Il nostro è anzitutto un progetto politico. Per noi è importante che in futuro ci sia la possibilità per l'utente di utilizzare un motore di ricerca di cui si sa: cosa fa dei nostri dati e secondo quali criteri sceglie i risultati. Ci vorrà tempo, ma crediamo sia fondamentale".

(7 gennaio 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #7 inserito:: Gennaio 22, 2008, 12:10:02 am »

Libera informazione in libero Web

David Remnick


Davanti a voi c’è un giudice. Un giudice di notizie ma prima di tutto di vignette: ogni mercoledì ho il privilegio di trovarmi di fronte un pacco di illustrazioni con animali che parlano o vacche masochiste. E devo prendere una decisione. È un lavoro che potrebbe fare un ragazzino di tredici anni, ma io cerco di farlo lo stesso con tutte le mie forze. È il lavoro di un direttore. Devo ammettere che dopo tanti anni come reporter del Washington Post e poi del New Yorker sono stato abituato a disprezzare la figura del direttore. Alle volte mi arrabbiavo così tanto con i miei capi da spaccare le cornette dei telefoni. Ricordo però che quando ero cronista di boxe al Caesar Palace di Las Vegas (combattevano Marvin Hagler e Thomas Hearns) un collega di un giornale di Chicago mi disse: «Figliolo, smettila di fare tutto questo casino: un direttore non è che un topino che cerca di fare il ratto». Lo considero un «articolo di verità». Risuona nelle mie orecchie ogni giorno. È anche per questo che stasera ho deciso di uscire dalla mia tana da ratto e di venire qui a parlare della vita del New Yorker, dei mass media nell’epoca di internet e, magari, della politica americana.

Il mio giornale è uno scherzo della natura meraviglioso: bianco e nero, lunghi reportage, vignette, umorismo, fiction, poesia. Ci sono molte leggende sul New Yorker. I nostri lettori sono molto fedeli, tanto da arrivare in alcuni casi ad una sorta di «fondamentalismo benigno». Forse è per questo che i cambiamenti sono difficili da digerire, penso all’introduzione delle foto nel 1992 che fu salutata da alcuni un po’ come i gesuiti salutarono le opere scelte di Hans Küng. Ma il mio giornale è un organismo vivente: evolve. Il primo numero, nel febbraio del 1925, rispecchiava quel decennio cosmopolita con barzellette e aneddoti spiritosi. Nonostante ciò aveva un linguaggio sofisticato, anche se era una rivista di una piccola cittadina. Una piccola cittadina che, però, era l’isola di Manhattan. Allora non c’erano approfondimenti, nessun reportage, nessuna poesia. Harold Ross, il primo direttore, nutriva grandi sospetti nei confronti della poesia. All’epoca si disse che il New Yorker fu uno dei più grandi fiaschi del tempo: le finanze della nostra testata, già traballanti, erano sempre più in difficoltà. Le vendite passarono da 15 mila copie a 2.700. Forse anche per alcune novità introdotte in quegli anni, non tutte esattamente un successo. Fu lanciata, ad esempio, una rubrica intitolata «Sei un vero newyorkese?» in cui si facevano domande del tipo: «Dove si trova l’obitorio della città?», oppure «Che orari ha lo zoo del Bronx?». Fin quando un nostro lungimirante lettore ci chiese: «Ma a chi gliene frega niente?».

L’11 settembre la mia redazione si è trovata davanti non solo l’orrore che ci ha colpiti tutti, ma anche una domanda: che cosa fare? Giornali, settimanali, agenzie di stampa avevano ruoli in qualche modo già definiti. Persino le televisioni sono sembrate all’altezza della situazione: ma quale era il nostro compito? Visto che l’11 settembre fu da molti assimilato all’attacco di Pearl Harbor, andai a cercare i numeri del dicembre del 1941: volevo vedere come si erano comportati Ross e Shawn, capire come erano gli articoli, le vignette, le copertine. Scoprii che la redazione del New Yorker non era più preparata all’evento della marina militare degli Stati Uniti. Nel primo numero dopo l’attacco furono scritte questa parole: «La guerra è giunta fra noi con il possesso di palla da parte dei Giants a Brooklyn, le bombe giapponesi sono cadute sulle Hawaii e sulle Filippine. Adesso torniamo alla nostra rubrica». Tutto qui: questo fu il tono con cui la seconda guerra mondiale cominciò per il New Yorker. In quel numero c’erano poi alcune vignette, la biografia di Thomas Mann, le memoria di un’infanzia in provincia e una descrizione dettagliata dei potenziali regali di Natale da acquistare sulla 5th Avenue. Se il New Yorker fosse stato un esercito sarebbe stato massacrato in caserma. Eppure nei mesi e negli anni seguenti il giornale ha capito cosa fosse davvero la guerra, dimostrandosi all’altezza e crescendo profondamente. Con una copertura tale da avere giornalisti come Abbott Liebling che sbarcava in Francia con le truppe nel D-Day, Philip Hamburger che passeggiava per le vie di Roma il giorno in cui il corpo di Mussolini veniva esposto a piazzale Loreto o con John Hersey che raccontava in modo ingannevolmente semplice la bomba nucleare su Hiroshima. Tutto questo per dire che un giornale evolve. Sempre.

Ma che cos’è il cambiamento per un giornale? Internet è potenzialmente la più grande scoperta per la trasmissione del pensiero umano dal XV secolo ad oggi. Ha rivoluzionato il nostro accesso alle informazioni. Mi permette di svegliarmi la mattina e leggere i giornali da New York come da Gerusalemme o Sidney. Consente ai cittadini di partecipare agli eventi nel momento stesso in cui si svolgono, di mettere in discussione il potere quando è corrotto e a creare dialogo laddove prima non c’era. Gli stessi cittadini sono stati per la prima volta, di fatto, coinvolti nel lavoro giornalistico: basti pensare a tutte le testimonianze della gente comune da New Orleans, le foto inviate sui siti web, i filmati, le voci. Internet è così: una conversazione universale. Ma anche questo, alle volte, non basta per ottenere un’informazione completa, puntuale, esauriente. Faccio un esempio: tutti i giornalisti devono affrontare sempre le bugie dei governi. Basti pensare alle presunte armi di distruzione di massa in Iraq. Dopo pochi attimi dall’attacco alle Torri gemelle Bush «decise» - anche per motivi «familiari» - di accomunare Saddam Hussein e Al Qaeda: la marcia verso Baghdad era già cominciata. La guerra era stata segnata sull’agenda del governo sotto la data del 10 marzo. Quando un assistente alla Casa Bianca presentò al presidente delle prove che dimostravano l’inesistenza della armi, Condoleeza Rice gli ribatté di «risparmiare il fiato». E la stampa fallì: non seppe smontare questa bugia. Ecco: il mio auspicio è che il giornalismo, anche e soprattutto nell’era di internet, sia in grado di essere il più aggressivo possibile. E capace di evitare tragedie come questa.

(si ringrazia Alberto Marchi per la collaborazione)

Pubblicato il: 21.01.08
Modificato il: 21.01.08 alle ore 8.24   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #8 inserito:: Marzo 15, 2008, 11:58:10 am »

TECNOLOGIA & SCIENZA

La frequentazione di questi siti, soprattutto per i più giovani, è diventata un'esperienza rischiosa: dati personali poco sicuri

Privacy, Rfid e Dna: quanti rischi nel pantano del social networking

E' boom per i siti che mettono on line il nostro profilo genetico

Ma la superficialità degli utenti è una manna per i più furbi

di PAOLO PONTONIERE


SAN FRANCISCO (California) - YouTube, MySpace, Bebo, Facebook: il numero dei social network cresce a vista d'occhio. In alcune fasce d'età la penetrazione di questi siti si approssima al 90 per cento degli utenti. E, particolarmente tra i più giovani, sono diventati una sorta di piazza elettronica. Un posto dove ci si mette in mostra creando personalità più o meno fittizie con l'intento di lasciare un marchio indelebile sull'universo digitale.

Questo per esempio significa che negli Stati Uniti oltre 12 milioni di adolescenti tra i 12 e i 17 anni - una crescita del 15 per cento rispetto all'anno scorso - passano tra le 12 e le 14 ore settimanali scambiandosi informazioni coi coetanei o costruendo e amplificando la loro personalità virtuale. Sono per l'appunto la capillarità di questi network e il tipo di informazioni che i giovani mettono online a preoccupare gli esperti della privacy. E adesso che sul social networking è arrivato anche il Dna i timori assumono una dimensione primordiale.

A rischiare di essere violati a questo punto non sono più solo i pensieri, gli scritti e le foto di una persona ma è la sua parte più intima: le sequenze di Dna che ne istruiscono la forma corporea e la funzione degli organi. Di recente infatti aziende come Ancestry.com (un sito per le ricerche genealogiche online con oltre 15 milioni di abbonati), DecodeGenetics.com e 23andme.com (creata dalla moglie di Sergey Brin, cofondatore della Google con capitali della casa di Mountain View), hanno lanciato l'idea che oltre alle preferenze multimediali di un abbonato, il social networking possa avere come momento unificante anche il Dna dei suoi utenti.

Come funziona? Presto detto. Sborsando circa 200 dollari (nel caso di 23andme.com circa 1000), e fornendo un campione della saliva a questi siti zigotici (così li hanno soprannominati in America), coloro che lo vogliano possono farsi sequenzializzare il Dna e scoprire da dove arrivano i loro antenati, quale fu il percorso che seguirono in uscita dall'Africa e dove si fermarono lungo la strada. I più avventurosi poi caricando il loro profilo genetico in aree ristrette dei vari siti riescono a confrontarlo con quello degli altri membri del network. In questa maniera possono scoprire se condividono sequenze genetiche con altre persone e nel caso di risposta positiva dove queste si trovano nel mondo. E se si scopre la corrispondenza, s'è trovata una relazione familiare. Quanto alla protezione della privacy degli abbonati, i nomi di quelli nati negli ultimi 100 anni non vengono mai pubblicati. Per ottenerli bisogna contattare gli amministratori del sito. E' sufficiente?

Tutte caratterizzate da una propria visione del futuro del social networking di stampo genetico, le ditte in questione sono convinte della possibilità che nel futuro questo tipo di ricerca possa diventare un elemento di costume diffuso a livello di massa. Secondo dati rilasciati dal Pew Internet and American Life Project, al momento oltre un quarto degli utenti internet (un centinaio di milioni di persone solo in America settentrionale) conduce ricerche genealogiche sul web e un numero crescente sta cominciando ad usare il na per reperire informazioni introvabili in altra maniera. Questo è il caso per esempio degli afro-americani che a causa dello schiavismo hanno difficoltà a risalire alle loro origini. Il Dna è utile anche nel caso dei profughi dell'Europa dell'est, degli ebrei e degli armeni. "Tutti quelli che hanno aree d'ombra nella storia familiare, quindi una buona parte degli esseri viventi contemporaneamente, finiranno con l'usare questo metodo", ha dichiarato Dick Eastman, esperto di genealogia in linea.

Non deve sorprendere quindi che, alla luce di questi dati, il dibattito sulla sulla sicurezza delle informazioni pubblicate dai network sociali stia generando una valanga di stampa. Di recente sono per esempio emerse preoccupazioni sulla possibilità che i vari software possano essere coniugati con qualche nuovo stratagemma tecnologico ed impiegati per controllare i movimenti delle persone.

In questo senso per esempio si sviluppa una ricerca condotta dall'Università di Washington dove un gruppo di ricercatori del Paul Allen Center for Computer Science and Engineering sta usando il social networking e le RFID, le radio frequency identification tag (etichette elettroniche che possono essere identificate via radio) per creare internet delle cose, o per meglio dire internet in cui una persona è in costante collegamento elettronico con l'ambiente che la circonda e gli oggetti che possiede. E mentre rende sicuramente più facile il ritrovamento degli oggetti smarriti, rende pure possibile che le stesse etichette - leggibili senza l'autorizzazione del loro proprietario - possano essere usate per scoprire dove si trovi una persona in qualsiasi momento della giornata.

"Il nostro obiettivo è ovviamente quello di capire che tipi di vantaggi ci può offrire questo tipo di tecnologia", ha dichiarato Magda Balazinska, leader del progetto, "ma allo stesso tempo anche quello di capire come facciamo a proteggere la privacy della gente". E così i ricercatori hanno evitato di piazzare sensori RFID nelle vicinanze dei bagni publici e delle mense, aree ritenute generalmente private.

L'altro aspetto è quello dell'abbassamento della soglia di sensibilità etica e morale degli utenti dei social network, un fenomeno questo particolarmente evidente tra i più giovani. "E' innegabile che l'uso dei social networks stia cambiando la moralità tra i giovani acuendone il grado di elasticità", ha affermato di recente Parry Aftab, avvocato esperta di sicurezza internet. E infatti, secondo ricerche condotte dal Quad City Time, la stragrande maggioranza degli adolescenti pensa che sia lecito creare una personalità fittizia per navigare il web, e la quasi totalità non esita a mentire sulla propria identità quando discute online con altre persone. Ma questa misura, quando presa con l'intento di proteggere la propria privacy, non basta certamente a schermare l'adolescente - e la sua famiglia - dai problemi che possono emergere da un uso malaccorto del social networking.

Negli Stati Uniti un numero crescente di genitori sta perdendo il lavoro o finendo addirittura in carcere a seguito di rivelazioni fatte dai loro figli sui vari siti sociali. "E' un problema crescente gli adolescenti in generale non se ne rendono nemmeno conto", aggiunge la Aftab: "Ho rappresentato un sacco di gente che è finita nei guai a causa di quello che i figli hanno publicato sul loro profilo pubblico. I giovani non capiscono che tutto quello che mettono online diventa indistruttibile e può essere visto da chiunque in un qualsiasi momento. Il mio suggerimento è che se si tratta di cose che i genitori, i presidi o i pedofili non possono vedere allora è meglio non metterle sul web".

Un suggerimento questo che gli adolescenti non seguono certamente alla lettera. Secondo dati resi noti dal Pew Internet & American Life Project negli USA il 65 per cento dei giovani che usano il social networking sono convinti che una persona determinata può rintracciarli con relativa facilità e sebbene i vari siti adesso offrano tutti la possibilità di restringere l'accesso al proprio profilo, solo il 66 per cento blocca l'accesso agli estranei. Una scelta non tanto saggia quando si pubblicano commenti del tipo: "Devo vivere con quella scocciatrice di mia madre e quel drogato di mio padre, e sono ambedue alcolizzati".

Sono proprio posting come questi che vengono usati da investigatori come il sergente Corey MacDonald, esperto di sicurezza internet della Portsmouth High School per individuare i giovani che rischiano di mettersi nei guai. "Ci si impiega poco tempo a circoscrivere l'area geografica dalla quale viene il posting e poi individuare la persona con l'aiuto di uno dei tanti motori di ricerca è cosa fatta", afferma MacDonald. Uno di questi motori è per esempio bigulo.com, che può essere usato per trovare l'indirizzo di qualsiasi utente di bebo.

Così intere scuole adessso proibiscono ai loro studenti di abbonarsi a qualsiasi social network usando un computer o una posta elettronica scolastica. In altre la proibizione si estende ai blog e alla pubblicazione di informazioni personali sul network scolastico. Ma non solo. Le università e i datori di lavoro stanno controllando sui social network per vedere se uno studente ha mai scritto cose di cui si debba vergognare. In alcuni casi interi gruppi di atleti sono stati squalificati da competizioni sportive dopo aver pubblicato messaggi o foto inappropriate su uno dei vari social network.

Anche gli stessi network cercano di affrontare il problema. MySpace, per esempio, lo fa lanciando campagne per la sicurezza online degli adolescenti. E malgrado queste misure siano d'aiuto, esperti di sicurezza come Aftab e MacDonald sostengono che per una prevenzione efficace è il coinvolgimento dei genitori che produce i risultati migliori. "I genitori si dovrebbero andare regolarmente sui siti dei loro figli per controllare che non sia stato pubblicato niente di rischioso o sconveniente", conclude la Aftab.

(14 marzo 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #9 inserito:: Marzo 23, 2008, 09:35:40 am »

INTERNET

Come ritrovare le pagine web scomparse

Alcuni suggerimenti per accedere a indirizzi internet non raggiungibili


«Error 404. Page not Found». Oppure: «Exceeded bandwidth limit». Chiunque navighi in Internet si imbatte pressoché regolarmente in questi messaggi, e conosce bene la frustrazione del non riuscire ad accedere ai contenuti della pagina elettronica cercata.

I motivi per cui un indirizzo web non è disponibile posso essere tanti: una pagina può essere irraggiungibile per via del cosiddetto effetto Slashdot (troppi utenti cercano di connettersi alla stessa Url nello stesso momento) o perché è stata rimossa dal server, o perché quel server non è più attivo.

Comunque sia, prima di disperare e gettare la spugna è bene fare almeno un paio di tentativi per recuperare ciò che si stava cercando. Come? Le pagine wiki della sezione How-To di Wired danno qualche utile suggerimento in proposito.

OLTRE L'EFFETTO SLASHDOT – Tramite il servizio gratuito di Coral Cache è possibile accedere a un mirror di pagine temporaneamente non disponibili perché «slashdottate», ovvero quelle pagine che sono state linkate da blog molto popolari come Slashdot o Digg, e che per questo motivo si trovano improvvisamente sotto assedio e non riescono a far fronte all'alto traffico. In pratica, è sufficiente aggiungere «nyud.net» alla fine dell'Url che risulta irraggiungibile e aspettare qualche istante prima di essere finalmente collegati alla pagina richiesta.

SE LA PAGINA NON ESISTE PIÙ – Ma che si può fare quando ciò che impedisce di collegarsi a un'Url non è il troppo traffico ma la scomparsa della pagina dalla rete? Ci si può rivolgere alla memoria a lungo termine di Google, per esempio, e confidare nella sua cache: la grande G conserva infatti le copie delle pagine indicizzate e ne segnala la presenza nei risultati di ricerca tramite il link «cached» (o «copia cache»), posizionato accanto all'Url originale. Così, per arrivare a una pagina che non esiste più basta cercarla su Google e cliccare l'indirizzo della cache: ciò che sarà visualizzato corrisponde all'ultima registrazione effettuata dagli spider di Google per quella pagina. E questa, tuttavia, potrebbe non corrispondere a ciò che si stava cercando. Quindi, se nemmeno l'algoritmo di Mountain View fosse d'aiuto, ecco che entra in gioco il motore dell'Internet Archive, la Wayback Machine, che consente di accedere anche a pagine rimosse dal web anni fa. Questo perché, in pratica, Wayback Machine conserva tutte le pagine che nel corso degli anni sono state pubblicate sotto una determinata Url. Tramite il suo archivio riesce insomma a riesumare dalla profondità della rete contenuti che, in teoria, non dovrebbero più essere visibili.

MEGLIO PREVENIRE – Tuttavia, per avere la certezza di non perdere i contenuti web a cui si tiene particolarmente - o che potrebbero tornare utili in futuro - è consigliabile non limitarsi a memorizzare i link corrispondenti nella cartella dei preferiti: meglio usare servizi di social bookmarking che salvano sui loro server una copia della pagina selezionata. Magnolia è uno di questi.

Alessandra Carboni
21 marzo 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #10 inserito:: Giugno 06, 2008, 02:03:03 pm »

TECNOLOGIA & SCIENZA

Presentata a Roma la Settimana nazionale della sicurezza in rete

Un video-blog spiegherà prevenzione e rischi dei virus informatici

La polizia postale lancia l'allarme "In Italia infetto un pc su cinque"

Nel 2007 Microsoft ha eliminato oltre 3,5 milioni di software dannosi


 ROMA - In Italia un computer su cinque è infetto. Per la diffusione di virus informatici siamo al terzo posto in Europa e al decimo nel mondo. Sono alcuni dei numeri alla base della Settimana nazionale della sicurezza in rete, presentata oggi presso la sede Abi di Palazzo Altieri con il patrocinio dal ministero delle Comunicazioni (ora confluito nel ministero dello Sviluppo economico). L'iniziativa prenderà il via dopodomani per diffondere attraverso un video-blog la cultura della prevenzione e la conoscenza dei rischi informatici. A promuoverla è l'Unione Nazionale Consumatori, in collaborazione con Polizia postale, Abi Lab, SicuramenteWeb, Skuola.Net e l'agenzia giornalistica AGR, con il sostegno di Microsoft.

Altri dati presentati oggi, rendono, se possibile, ancora più fosco il quadro della sicurezza in rete. Dal 2001 la polizia postale ha chiuso 177 siti web con contenuti pedopornografici. L'11 per cento dei minori ha dichiarato di aver avuto contatti con pedofili o con persone sospette durante la navigazione in rete. Il 52 per cento degli utenti on line ha subito un tentativo di accesso non autorizzato alle proprie informazioni. Nel 2007 Microsoft ha rilevato ed eliminato oltre 3,5 milioni di software dannosi. La Settimana nasce quindi dalla volontà di rendere l'esperienza on line più sicura aiutando le persone a conoscere i comportamenti corretti da adottare.

"I rischi - ha spiegato il direttore della divisione investigativa della polizia postale, Maurizio Masciopinto - non sono solo per l'utente domestico, ma anche per le imprese. E se quelle grandi hanno affrontato il problema nel modo giusto, le piccole e medie imprese si affidano spesso a consulenti e pseudoesperti che in realtà tali non sono ed i loro server vengono così usati come teste di ponte per attacchi informatici".

Non manca quindi il lavoro alla polizia postale, diventata ormai, nelle parole dell'investigatore, "una punta di eccellenza nel sistema di contrasto alla criminalità informatica, siamo un modello per altri Paesi ed i nostri uomini hanno un'altissima specializzazione nel settore, anche grazie alla strada tracciata, nello scorso decennio, dal capo della Polizia, Antonio Manganelli".

Elogi alla Postale sono arrivati anche dal sottosegretario all'Interno, Alfredo Mantovano, che ha lamentato "la scarsa propensione degli italiani a dotarsi di sistemi di difesa dai rischi informatici e speriamo che la Settimana porti ad accrescere il livello di sicurezza on line".

L'iniziativa si svolgerà interamente sul web, attraverso un videoblog che accompagnerà l'utente nella conoscenza dei principali rischi da evitare. In sette giorni il blog affronterà altrettanti temi della sicurezza on line: Il tuo computer (sabato 7 giugno), I tuoi soldi (Fico, La tua identità elettronica (9), La tua privacy (10), La tua reputazione (11), I bambini (12), La tua connessione (12). Ogni mattina un video presenterà le cose da non fare per evitare spam, phishing, virus, furto di dati così via. Nel pomeriggio un altro video indicherà i comportamenti corretti. Durante la Settimana, inoltre, il sito Skuola.net diffonderà un prontuario perla sicurezza dei minori sul web.

(5 giugno 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #11 inserito:: Dicembre 03, 2008, 12:04:37 pm »

27/11/2008
 
Il futuro secondo IBM
 
 
 
 
Come la nostra vita cambierà nei prossimi 5 anni
 
 
Quali saranno i trend decisivi dei prossimi anni nel campo dell'innovazione? Risponde IBM, che ha da poco pubblicato il terzo rapporto annuale  "Next Five in Five" , un'analisi che prende in esame le tendenze della società e le tecnologie emergenti dagli IBM's Labs e cerca di predire cosa accadrà nei prossimi 5 anni. Secondo gli esperti, dunque, le esperienze che trasformeranno la nostra vita di qui a poco saranno:


Tecnologie per l'energia solare incorporate in strade, marciapiedi, tetti e finestre
Una sorta di "sfera di cristallo" per monitorare la nostra salute
Dialoghi vocali con il Web
Assistenti virtuali per lo shopping
Dimenticarsi di dimenticare

Ma vediamole una per una. La maggior parte delle superfici esposte alla luce verrà cosparsa di pellicole di cellule fotovoltaiche in grado di immagazzinare l'energia solare, incredibilmente sottili ed economiche, adatte anche ad alimentare cellulari, computer portatili e persino automobili.

Sofisticate tecnologie di analisi del DNA ci comunicheranno i rischi più comuni per la nostra salute, in base alla composizione del nostro codice genetico (chi ha visto Gattaca forse si meraviglia che non sia ancora accaduto), per meno di 200 dollari e saranno anche in grado di aiutare le aziende farmaceutiche a creare farmaci migliori e più efficaci.

Parleremo col Web. E il Web ci risponderà, grazie a browser vocali che renderanno la rete più accessibile anche per chi non può leggere o scrivere e che ci permetteranno realmente di interagire con esso in una sorta di dialogo.

Grazie a touchscreen e tecnologie attivate dalla voce sarà possibile infilarsi nei camerini di prova di un negozio e ricevere consigli da un assistente virtuale sui capi d'abbigliamento e gli accessori più adeguati a quello che si è scelto, nonché leggere i rating di altri compratori e scaricare coupons di sconto.

Microfoni e videocamere registreranno attività e conversazioni quotidiane, le analizzeranno e capiranno, in base ai dati ricevuti,  quando sarà il momento adatto per ricordarci di fare la spesa o di comprare le medicine attraverso telefoni o altri dispositivi mobili.

Se da un lato il paesaggio disegnato sembra piacevolmente ecologico ed efficiente, dall'altro ricorda molto l'atmosfera da grande fratello del romanzo di Orwell. Non ci resta che vedere se (e come) il buon senso riuscirà a ridimensionare il tutto.

Fonte immagine
da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #12 inserito:: Marzo 16, 2010, 10:26:43 am »

16/3/2010

Internet la trasparenza aiuta la fiducia

   
LAWRENCE LESSIG*

Ho avuto l’onore di tenere una lezione al Parlamento italiano, all’interno di una serie di dibattiti sul futuro di Internet voluti dal presidente della Camera, Gianfranco Fini. Al Congresso degli Stati Uniti nessuno ha mai tenuto dibattiti del genere, né ricevuto la stessa attenzione. E’ stato bello vedere membri di una delle democrazie chiave in Europa impegnarsi per capire il funzionamento della più importante piattaforma per la crescita economica nel mondo.

I relatori sono stati introdotti dal presidente della Camera, che ha sottolineato l’importanza critica della Rete per i giovani e la necessità di difenderla da leggi protezionistiche irrazionali. L’Italia sta promuovendo la candidatura di Internet al Nobel per la Pace e molti parlamentari hanno firmato la petizione.

La mia lectio magistralis enfatizzava il bisogno dei governi di resistere agli opposti estremismi che stanno segnando sempre di più il dibattito sul web. I fan e gli oppositori di Internet fanno poco per capire le verità nel campo dell’avversario. Nonostante la rete abbia ispirato tanta creatività, gli artisti hanno ragione a lamentarsi che lo scambio illegale di brani li danneggia. E anche se l’esplosione di notizie gratis o quasi ci ha dato un accesso senza precedenti all’informazione di tutto il mondo, i giornalisti hanno ragione a preoccuparsi per i rischi che corre la carta stampata. E nonostante i nuovi standard di trasparenza dei governi, spinti specialmente dall’amministrazione Obama, abbiano reso disponibile a tutti una quantità e varietà di dati governativi senza precedenti, i critici hanno ragione a preoccuparsi che questa trasparenza indebolisca, anziché rafforzare, la fiducia nei governi. In ciascuno di questi contesti, dobbiamo riconoscere che Internet resterà e che dovremmo celebrarne il valore, ma bisogna trovare una via per ridurre i danni che potrebbe creare.

Alla fine del mio discorso sono rimasto sorpreso dal vice-ministro Paolo Romani che mi ha criticato perché non avevo offerto «soluzioni specifiche» al problema della regolamentazione politica. Gli americani spesso sono troppo diretti ed io nel tentativo di compensare sono stato troppo evasivo. Ma in ogni area critiche che ho toccato, ho descritto specifiche raccomandazioni per le regole politiche che ogni governo democratico dovrebbe adottare.

1) Il copyright. I governi devono riconoscere che la guerra che facciamo contro i nostri figli per fermare lo scambio illegale di file non si può vincere e che bisogna trovare un modo perché gli artisti siano compensati senza criminalizzare una generazione. 2) Il giornalismo. Servono maggiori protezioni per i giornalisti indipendenti, per assicurare un controllo significativo sull’operato del governo e dei poteri forti.

3) La fiducia. I governi devono essere sensibili ai tipi di conflitti che indeboliscono la fiducia nella democrazia.

Ognuna di queste tre aree è direttamente rilevante per il caso del cosiddetto «decreto Romani», che equipara i siti video come YouTube alle aziende televisive. Io ho criticato questo approccio, e alla luce delle tre aree di regole politiche che avevo delineato, non è difficile capire come mai. Rispetto al copyright, il decreto equipara per meglio proteggere gli autori. Ma non c’è equivalenza rilevante tra una trasmissione da uno a tanti curata da una singola azienda, rispetto a una piattaforma da tanti a tanti, che rende disponibili per chiunque i contenuti non selezionati che sono stati caricati sul Web. Costringere entrambe le tipologie di piattaforme a vivere sotto le stesse regole significa costringere tutti gli YouTube del mondo ad adottare regole che bloccano un mondo di contenuti creati in modo amatoriale che non può permettersi i costi delle liberatorie che si possono permettere i proprietari di contenuti professionali. Un «trattamento uguale» significa favorire l’attuale sistema televisivo.

Lo stesso vale per la difesa dell’idea secondo cui piattaforme come YouTube dovrebbero avere responsabilità equivalenti per linguaggi offensivi o che danneggiano, come l’orribile video dei teenager che insultano un adolescente con disabilità mentali. Così come non esiste un algoritmo per filtrare il porno su YouTube, così non ne esiste uno per bloccare le offese. Il porno su YouTube è proibito, ma la sua eliminazione si basa sull’autoregolamentazione degli utenti, che lo recensiscono. E non c’è nessun informatico al mondo che crede di avere inventato un algoritmo per distinguere automaticamente tra gli insulti vergognosi di un manipolo di bulli a un disabile e l’interazione giocosa tra ragazzi. Per cui, ancora una volta, una regola che tratta questi diversi servizi come «uguali» è semplicemente una regola che favorisce la televisione rispetto a Internet.

Questo vale anche per la mia preoccupazione sul giornalismo: servizi come YouTube sono diventati uno strumento critico per i giornalisti investigativi. Diversamente dalle trasmissioni tv, che una volta trasmesse scompaiono, i servizi alla YouTube non dimenticano mai. Quello che un politico dice una settimana può essere confrontato con quello che dirà la prossima. Infine, la fiducia. Come ho detto, più capiamo che cosa fa un governo, più è facile che ci siano anche incomprensioni.

Il sostegno che il presidente della Camera Fini ha dato ai principi veri di Internet e la leadership dell’Italia nella campagna per portare la Commissione Nobel a riconoscere questo «strumento di costruzione di massa» è un modello che il resto del mondo dovrebbe seguire. Ma sfortunatamente, il conflitto dei media del 20° secolo che appesantiscono quelli del 21° è un sistema già troppo seguito dal mondo. E l’effetto infanga il messaggio di buona politica.

*Professore di legge a Harvard, direttore dell’Edmond J. Safra Foundation Center for Ethics

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #13 inserito:: Marzo 27, 2010, 04:54:53 pm »

27/3/2010

Internet risuscita la tivù
   
GIANLUCA NICOLETTI

La tv è morta. Non piangiamone però la scomparsa. Sappiamo che è capace di risorgere. Tutto quello che i guardiani del palinsesto pensavano di poter mettere sotto chiave, ha trovato la strada giusta.

Che gli consentirà di evadere dall’antica fortezza che sembrava inviolabile. Che il medium sia il messaggio comincia quindi ad essere un’affermazione forse da ripensare. Il messaggio può tracimare tranquillamente attraverso diversi media. Poi scomporsi e accorparsi di nuovo.

Nella serata di Santoro&amici si è vista la vecchia televisione perdersi attraverso il catetere tutta quella «vergogna» che avrebbe dovuto avere, secondo lei, necessaria ritenzione. I numeri sono ambigui, ma è senz’altro sicuro che la televisione si sia seminata per strada un bel po’ di quelle voci e volti che avrebbe preferito tenersi ben sigillati in pudibonda e silenziosa riservatezza.

Lo spettacolo del Paladozza non aveva nessun valore di rivoluzione, ma era passata l’idea che fosse «contro» e quindi ha mobilitato masse di emigranti digitali a cercare di intercettarlo ovunque transitasse, sia televisione satellitare, tv locale, radio o Internet in streaming live. Non condizionerà forse il voto nelle urne, ma è di certo un segnale d’allarme per lo stato di salute dell’egemonia televisiva.

La tv morta era vecchia; lo era strutturalmente, nel suo pensiero, nella valutazione del suo potere. È vecchia pure la maniera tradizionale di fruire del suo prodotto. Non ultimo, è decrepito il suo pubblico. Si pensi che un upgrade così banale come quello di una nuova sintonizzazione dei canali, a causa del passaggio al digitale terrestre, ha mandato in crisi battaglioni interi di abbonati tecnologicamente disagiati.

I televisivi, che hanno il controllo su tutto l’apparato referenziale, che permette al loro prodotto di sopravvivere, stanno così assistendo alla demolizione sistematica delle loro certezze. La televisione, come si è visto, può abbandonare l’hardware che l’ha tradizionalmente generata e può sparpagliare le proprie viscere ovunque qualcuno possa raccoglierle e rimetterle assieme.

La regolamentazione con il bilancino delle rappresentanze politiche in tv resterà un esercizio di pura maniera, un programma sottoposto a par condicio è già glamour quanto un Certame per appassionati latinisti. Chi non imparerà a percorrere le vie della transumanza dai pascoli asfittici della tv generalista, non avrà possibilità di farsi sentire dalla parte del paese che ancora non abbia formaldeide nelle vene.

La televisione delle mummie ha avuto la prima emorragia, anche se questa volta non si pensava certo di innovare, ma piuttosto di rivendicare il proprio posto privilegiato nel sepolcro dei faraoni.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #14 inserito:: Aprile 11, 2012, 07:10:27 pm »

L'Europa cerca il futuro su Internet

di Neelie Kroes

11 aprile 2012

L'Europa attraversa un periodo delicato, ma le schiarite non mancano. E nulla brilla più dell'economia digitale con le sue potenzialità. Se saremo all'altezza della sfida, Internet potrà diventare il nuovo pilastro dell'economia.
Le potenzialità sono reali. Se l'economia digitale europea fosse un Paese la sua performance le varrebbe la partecipazione al G-20. Il suo tasso di crescita del 12% annuo supera quello cinese e per ogni posto di lavoro eliminato ne vengono creati altri due. Internet consente alle piccole imprese di raddoppiare crescita ed export; innumerevoli studi evidenziano che la rapida espansione di Internet fa da traino alla competitività. Inoltre quasi un milione di posti di lavoro in Europa gravita attorno al cloud computing. I servizi che ricorrono allo spettro radio, dalle connessioni Internet senza fili alle apparecchiature mediche, danno lavoro ad altri 3,5 milioni di persone.
Mentre negli ultimi anni la performance della Rete è stata superiore alle aspettative sotto il profilo economico e sociale, ha arrancato a livello politico.

Non si tratta solo della Primavera araba e di altri tentativi delle comunità di internauti di dimostrare quanto tengano alle libertà legate a Internet. Bisogna intervenire per promuovere il mondo digitale e collegare tra loro tutti i livelli governativi e decisionali. Per questo la Commissione europea ha invitato i Governi dei Paesi membri a costruire nuovi ponti tra il mondo politico, il settore tecnologico e i cittadini designando un'élite del mondo digitale, il "campione digitale". Sulla scia dell'impegno del Regno Unito per dare visibilità alle possibilità di Internet, lavoriamo per far capire i vantaggi del digitale agli europei.
L'impegno deve essere suggellato da connessioni Internet più rapide. Non è possibile che un'impresa di animazioni da premio Oscar come Aardman Animations debba sprecare due settimane per spedire in Rete un cartone animato di 30 minuti dal Regno Unito agli Usa. L'espansione mondiale del traffico Internet raddoppia ogni due anni. La crescita delle comunicazioni a banda larga mobile è ancor più rapida. Entro il 2015 il traffico mobile in banda larga raggiungerà 1.500 miliardi di megabyte al mese.

Alla fine spesso la soluzione ai problemi è nella semplicità. Fino all'80% dei costi degli investimenti nella banda larga sono legati a nuovi scavi e a processi di autorizzazione farraginosi. Il riutilizzo di condutture o l'accelerazione delle autorizzazioni potrebbe ridurre i costi del 30 per cento. Queste opportunità van colte e la Ue si impegna. Le esigenze non si fermano a cavi e satelliti. Abbiamo bisogno anche di capitale umano. Negli ultimi anni la richiesta di specialisti in tecnologie dell'informazione e delle comunicazioni (Tic) è stata superiore al numero di laureati. Entro il 2015 potrebbe esserci un surplus di 700mila posti di lavoro nelle Tic.
Tuttavia, mentre per il 90% dei nuovi posti di lavoro presto saranno necessarie almeno conoscenze informatiche di base, il 25% degli adulti in Europa non ha mai usato Internet. Il rischio di esclusione socioeconomica potrebbe riguardare molte persone e queste opportunità mancate non potranno che aumentare in futuro.

Gli imprenditori impegnati a sviluppare sul Web la prossima applicazione rivoluzionaria sarebbero felici se non dovessero districarsi tra 27 diversi sistemi di licenze e pagamento che tarpano le ali. Il mercato unico è il fiore all'occhiello dell'Europa, e come ha sottolineato Mario Monti nella relazione del 2010, oggi ne abbiamo più che mai bisogno. Per rilanciare l'economia dobbiamo estenderlo a nuovi settori. Come dimostra un recente studio, il completamento del mercato unico delle comunicazioni elettroniche apporterebbe all'economia europea fino a 110 miliardi di euro supplementari, pari all'0,8% del Pil. Bisogna dare ai nostri mercati il massimo grado di competitività possibile e agli imprenditori un mercato unico e comunicazioni elettroniche standardizzate. Internet non deve farci paura e non lo possiamo ignorare, perché ne va del nostro futuro. È un'opportunità per creare posti di lavoro e rafforzare il tessuto sociale. Internet è un potente stimolo per un'economia stanca, oltre a costituire una grande occasione per un cambiamento di rotta in Europa.

* Neelie Kroes è commissario europeo per l'agenda digitale

da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-04-11/leuropa-cerca-futuro-internet-064157.shtml?uuid=Ab1c0BMF
Registrato
Pagine: [1] 2
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!