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Autore Discussione: STEFANO FASSINA.  (Letto 11367 volte)
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« inserito:: Marzo 02, 2008, 09:13:53 am »

Chi vuole un'Italietta

Stefano Fassina


È vero che quasi tutto il miglioramento dei conti pubblici è frutto delle maggiori entrate. Ma attenzione: le maggiori entrate in termini di Pil sono, a loro volta, dovute ai risultati della lotta all’evasione, oltre che all’andamento dell’economia. Non dovremo stancarci di ripeterlo in queste settimane di campagna elettorale: quando dal centrodestra denunciano, ad evidenza delle nostre «rapine fiscali», che il rapporto tra entrate e Pil è aumentato di quasi 3 punti percentuali dal 2005 al 2007 dobbiamo ricordargli che è vero, è aumentato a livello complessivo, ma che le imposte sono diminuite per il singolo nucleo famigliare o la singola impresa in regola con i propri doveri fiscali. L’aumento complessivo è, infatti, frutto del miglior andamento dell’economia e del fatto che, quando si recupera evasione, il numeratore del rapporto (le entrate) aumenta, mentre il denominatore (il Pil) rimane inalterato, poiché, per costruzione statistica, contiene la stima dell’evasione. In sintesi, dovremo opporre la forza della verità dei numeri alla «verità» della forza mediatica a disposizione del Cavaliere il quale può scrivere sui muri delle nostre città e a ripetere nei salotti televisivi, spesso retti da conduttori ignoranti o servili: «La sinistra a messo il Paese in ginocchio. Rialzati Italia». Al contrario, l’Italia è in piedi. I dati dell’Istat sulle esportazioni ed i consumi interni confermano, oltre ai buoni risultati di finanza pubblica, un Paese in movimento, in ripresa strutturale, non solo al traino della variabile domanda globale. Ovviamente, il movimento è segnato da profonde contraddizioni. Innanzitutto, la difficoltà di milioni di famiglie di lavoratori, molto spesso dipendenti, ma anche autonomi, e di pensionati ad arrivare alla quarta settimana. I prezzi dei prodotti alimentari anche a febbraio salgono, acuiscono le difficoltà economiche dovute a retribuzioni bloccate da una produttività in media ancora troppo bassa e contribuiscono a rallentare la domanda interna, motore principale di crescita in una fase di raffreddamento internazionale. In secondo luogo, l’Italia è in piedi, ma segnata dall’arretramento relativo di tante aree del Mezzogiorno, nelle quali è sporadica la presenza delle imprese che hanno superato brillantemente lo shock della competizione globale. Di fronte a tale scenario, è utile sottolineare due aspetti, uno retrospettivo, l’altro di prospettiva. Sottolineare l’aspetto retrospettivo non ha finalità celebrative. È, invece, fondamentale per dare credibilità a quello di prospettiva: la politica economica del Governo Prodi ha funzionato. È stato utile riportare sotto controllo la finanza pubblica attraverso una rigorosa lotta all’evasione fiscale e le prime misure sulla spesa. È stato utile, dare ossigeno alle imprese nella gara per la competitività attraverso la riduzione del cuneo fiscale e contributivo. È stato utile dare prospettive certe a lavoratori ed imprese attraverso un accordo sul welfare approvato con oltre 5 milioni di voti. È stato utile incominciare a ridistribuire i frutti della lotta all’evasione attraverso un primo intervento di riduzione dell’Irpef, il bonus per le famiglie a reddito più basso, la riduzione dell’Ici (cancellata per il 40 percento delle famiglie italiane), le detrazioni per le famiglie ed i giovani in affitto. È stato utile introdurre fortissimi incentivi fiscali per la ricerca delle imprese e per gli investimenti e l’occupazione nel Mezzogiorno. È stato utile avviare le prime misure di liberalizzazione di mercati. È stato utile semplificare gli adempimenti fiscali e ridurre la pressione tributaria per le imprese. La politica economica del Governo Prodi è stata utile a sostenere il movimento delle migliori forze economiche e sociali del Paese. È stata utile e lo sarà ancora di più, man mano che si esplicheranno a pieno i suoi effetti. Tuttavia, è evidente che il lavoro di riforma è stato solo iniziato. Come è evidente che il lavoro avviato ha subito e avrebbe continuato a subire, se la legislatura fosse durata, i vincoli di soggetti politici, sia nella cosiddetta sinistra radicale, sia nel cosiddetto centro moderato, rivolti all’indietro, al mix insostenibile della politica economica degli anni ’80, quando il circolo vizioso debito pubblico, inflazione, svalutazioni della Lira consentiva spesa facile, evasione, inefficienti monopoli pubblici, barriere corporative a vantaggio di pochi privati, rendite finanziarie straordinarie a danno dei soggetti più deboli. Qui entra in gioco la prospettiva: il programma del Pd e la capacità del Pd di raccogliere intorno al suo programma le energie più dinamiche del Paese. I dati sul 2007 sono positivi, ma le riforme a tutto campo vanno accelerate e rotture nette con il passato vanno fatte, altrimenti rischiamo di tornare indietro e vanificare i risultati faticosamente conquistati nella finanza pubblica e nell’economia reale. Un punto deve essere chiaro: non è vero che i programmi del Pd e del PdL sono sostanzialmente coincidenti. Non lasciamoci abbagliare dallo spazio dato dai media alle misure di riduzione delle imposte. Le offerte politiche in campo hanno caratteri politico-culturali opposti. Gli elettori italiani hanno di fronte una chiara alternativa: da una parte, l’investimento sul futuro, sullo sviluppo economico ad elevata qualità sociale, ambientale, democratica, su un’Italia aperta al mondo, fiduciosa nelle proprie risorse profonde di cultura e creatività. Un’Italia capace di cogliere le straordinarie opportunità di mercati in espansione, senza visione ireniche della globalizzazione, anzi con la consapevolezza che la politica democratica deve riprendere in mano le regole del gioco, oggi inadeguate. Dall’altro, il tentativo illusorio, come il precedente conclusosi nell’aprile 2006, di restaurare un’Italietta chiusa su stessa, l’Italietta del fai da te amorale, dei furbetti e dell’assistenzialismo pubblico. Da un lato, un’offerta politica che fa leva sulla fiducia nella capacità di competere e vincere, sulla curiosità dell’altro e sulla solidarietà. Dall’altra la solita destra che, di fronte a grandi cambiamenti sociali, economici e culturali, fa leva sulla paura, sull’egoismo sociale, sulla chiusura all’altro, nemico per definizione. Come sempre, il futuro è nelle nostre mani.

Pubblicato il: 01.03.08
Modificato il: 01.03.08 alle ore 14.22  
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« Ultima modifica: Ottobre 04, 2010, 04:24:15 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 26, 2008, 04:38:43 pm »

I fatti e i costi

Stefano Fassina


Nonostante i tentativi di parlare d’altro alimentati dalla destra e dalle numerose gazzette e televisioni di proprietà del suo leader o al suo leader comunque allineate, il programma del Pd entra ogni giorno di più nel dibattito elettorale. Diventa così sempre più evidente la profonda differenza delle strategie e delle proposte di Pd e PdL per rispondere ai problemi del Paese: da un lato, la scommessa sulle energie migliori e sul rinnovamento etico, prima che economico, dell’Italia, l’attenzione alla riforma della politica e dei criteri di formazione e selezione delle classi dirigenti, l’investimento sull’innovazione economica e sui diritti di cittadinanza; dall’altro, la sollecitazione dell’egoismo sociale e del corporativismo di categoria e di territorio, la legittimazione dell’indifferenza ad ogni regola, la strumentalizzazione delle paure del cambiamento e dell’altro.

Da un lato, scelte chiare di priorità e proposte credibili e realizzabili sul piano del bilancio pubblico; dall’altro, mille promesse, sempre le stesse, sempre appese a coperture finanziare impossibili, da abbandonare o scaricare sulle spalle delle generazioni più giovani, come avvenuto dal 2001 al 2006.

Le proposte alternative sono tante, basta avere la pazienza di leggere il programma del Pd e le slides del PdL, sì, le slides, le diapositive che si proiettano durante le presentazioni, poiché non risulta che, ad oggi, il PdL abbia presentato un programma vero e proprio. Ad esempio, guardando ai temi economici e sociali, scopriamo che la “dote fiscale” per i figli è, in termini redistributivi e di incentivazione al lavoro femminile, radicalmente alternativa al quoziente familiare. Scopriamo anche che la detassazione della retribuzione di secondo livello è, in termini di impatto sulla produttività, decisamente più efficace dell’intervento sugli straordinari.

L’ultimo esempio di radicale differenza tra i programmi di Pd e Pdl riguarda la difesa del potere d’acquisto delle pensioni. Alcuni esponenti di punta del PdL sostengono, in compagnia di autorevoli personalità di Sinistra e L'Arcobaleno, la piena indicizzazione delle pensioni alla dinamica delle retribuzioni. In sostanza, ripropongono la via irresponsabile della “scala mobile” per i pensionati. Perché tale via è irresponsabile? Perché il ripristino della scala mobile, anche se limitata ai soli pensionati, avrebbe effetti insostenibili sui conti pubblici, farebbe salire l’inflazione e ridurrebbe la crescita, ossia, proprio come avveniva negli anni ‘80, genererebbe un circolo vizioso le cui vittime sarebbero gli stessi pensionati, oltre ai lavoratori dipendenti.

Veltroni ieri ha, invece, illustrato una ricetta articolata in tre misure-chiave: una per l’emergenza; una per la fase di passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo; una per il sistema contributivo pienamente in vigore. La ricetta di Veltroni poggia su quanto realizzato dal Governo Prodi, prima nel 2006, con la revisione dell’Irpef e, poi, nel Luglio del 2007, con la «quattordicesima mensilità». Gli interventi del Governo Prodi hanno dato, giustamente, priorità all’aumento delle pensioni più basse. Le proposte del Pd, oltre a continuare il sostegno ai pensionati in condizioni economiche più difficili, guardano anche ad una fascia di oltre 5 milioni di pensionati di “classe media”, i quali con pensioni intorno ai 1.200-1.500 euro al mese difficilmente possono essere considerati privilegiati.

La risposta emergenziale riguarda i pensionati di oltre 65 anni e determina, a partire dal 1 Luglio 2008, un incremento medio di quasi 400 euro l’anno per le pensioni fino a 25.000 euro l'anno e tra i 250 ed i 100 euro l’anno per le pensioni di importo compreso tra 25.000 e 55.000 euro l’anno. L’aumento è ottenuto attraverso l’innalzamento delle detrazioni fiscali previste per i redditi da pensione. In particolare, le detrazioni aumentano in funzione dell'età anagrafica, in modo tale da incrementare maggiormente, per ogni dato livello di pensione, le pensioni più vecchie, ossia le pensioni più distanti dalla data del pensionamento e quindi più erose dalla perdita di potere d'acquisto. L’intervento provoca una riduzione di gettito di circa 2,5 miliardi di euro l’anno.

La risposta per la fase di passaggio al pieno dispiegamento del metodo contributivo interviene, invece, sul paniere di riferimento per misurare l’aumento dei prezzi. Oggi, i pensionati hanno lo stesso paniere dei lavoratori, nonostante i consumi dei due segmenti di popolazione siano molto diversi. La proposta del Pd lega l’adeguamento annuale delle pensioni all’andamento dei prezzi di beni e servizi contenuti in uno specifico paniere dei pensionati. Il costo della proposta è di circa 1,5 miliardi di euro all’anno per ogni punto percentuale di scarto tra “inflazione dei lavoratori” e “inflazione dei pensionati”.

Infine, la risposta per le pensioni calcolate con il metodo contributivo introdotto nel 1995 propone lo scambio tra minori importi iniziali ed aumenti legati, oltre che all’inflazione, anche alla crescita dei redditi da lavoro. L’intervento è neutrale per gli equilibri di finanza pubblica, poiché la minore spesa della fase iniziale viene compensata da maggiori uscite man mano che gli importi di pensione aumentano.

Come si finanzia tutto ciò? L’ennesima promessa impossibile? La solita propaganda elettorale, tipo cordata Alitalia pronta subito dopo il voto del 14 Aprile? No, non è così. La ricetta del Pd ha un onere contenuto rispetto ai costi esplosivi della “scala mobile dei pensionati” e ha coperture finanziarie solide. La solidità viene dalla credibilità degli interventi di riduzione e riqualificazione della spesa e dalla credibilità della misure antievasione contenute nel programma. Quando il Pd scrive che ridurrà la spesa primaria corrente di mezzo punto di Pil il primo anno e un punto all’anno nei due anni successivi è credibile perché al Governo, nonostante partner troppo sensibili ai richiami corporativi, è riuscito a controllare e ridurre la spesa per acquisti di beni e servizi. Quando il Pd scrive che l’andamento delle entrate tributarie supererà la crescita del Pil è credibile perché negli ultimi due anni, nonostante un’opposizione interna allo schieramento di centrosinistra, ha varato misure antievasione ed antielusione in grado di far arrivare nelle casse dello Stato oltre 20 miliardi di euro prima occultati. Altrettanta credibilità non può essere vantata dalla destra, la quale dal 2001 al 2005 ha lasciato la spesa corrente salire di oltre 2,5 punti percentuali di Pil e ha, con oltre 20 condoni fiscali, allargato le aree di evasione. Insomma, ci sono i fatti dietro le promesse del Pd.

Pubblicato il: 26.03.08
Modificato il: 26.03.08 alle ore 10.54   
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« Ultima modifica: Gennaio 22, 2009, 06:46:03 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 03, 2008, 05:08:38 pm »

Una risposta all’emergenza

Stefano Fassina


La proposta del «buono spesa» illustrata ieri da Veltroni aggredisce uno dei più acuti problemi sentiti dalla stragrande maggioranza delle famiglie italiane: la difficoltà a far fronte agli anomali aumenti dei prezzi dei beni alimentari di prima necessità. I dati sull’inflazione di marzo, resi noti dall’Istat nei giorni scorsi, indicano un aumento, rispetto allo stesso mese del 2007, del prezzo della pasta del 17,2%, del pane del 13,2%, del latte del 10,5%, della frutta del 5,8%, degli ortaggi e della carne oltre il 4%.

È vero che l’indice generale si ferma al 3,3%, ma è la bolletta alimentare che pesa. E pesa tanto più quanto minore è il reddito di una famiglia. Ma, i dati sull’inflazione non dicono tutto se non vengono confrontati con l’andamento dei redditi da lavoro, in particolare da lavoro dipendente, e da pensione, i quali, da almeno 15 anni, a fatica riescono a tenere il passo dell’indice generale dei prezzi, ossia perdono potere d’acquisto in termini reali. In altre parole, i redditi da lavoro dipendente e da pensione non partecipano all’aumento della ricchezza prodotta dal Paese, nonostante contribuiscano o abbiano contribuito a produrla. La “torta” si allarga, ma le loro “fette” rimangono sempre della stessa dimensione, quindi, rispetto a quelle dei percettori di altri redditi (di lavoro autonomo, di impresa, di capitale) diminuiscono.

Dato tale quadro, le risposte dovute dalla politica economica e date dal Pd sono di due ordini: una di ordine emergenziale; una di ordine strutturale. In sostanza, la politica economica del Pd continua a seguire lo stesso schema proposto settimana scorsa per le pensioni (innalzamento delle detrazioni subito; revisione del paniere di riferimento per la rivalutazione annuale e modifica dei coefficienti di trasformazione per dare risposte strutturali).

Il bonus spesa è la risposta emergenziale, ad una emergenza sociale pressante, per la quale i tempi delle riforme strutturali, necessarie, sono tempi troppo lunghi. Il buono spesa, prospettato a partire dal prossimo primo Luglio, ha il fine “circostritto” di compensare almeno tre milioni di famiglie italiane per l’aumento dei prezzi dei beni alimentari. Ha un valore di 600 euro per una famiglia di quattro componenti in una “condizione economica equivalente” inferiore a 18.000 euro all’anno (ad esempio, una coppia con due figli a carico, un reddito complessivo inferiore a 18.000 euro all’anno, meno di 15.000 euro di risparmi e senza altro patrimonio che la casa di abitazione). Il livello di condizione economica per ricevere il buono spesa e l’ammontare del buono, secondo la proposta del Pd, variano in base alla numerosità del nucleo famigliare (in riferimento alla scala di equivalenza prevista per l’Isee, l’indicatore di situazione economica equivalente). In aggiunta, la proposta punta, attraverso una convenzione tra Governo e associazioni di rappresentanza degli esercenti attività commerciali, a potenziare il buono spesa con uno sconto del 5-10% sui beni acquistati nei punti vendita convenzionati.

Il buono spesa non è una trovata estemporanea, da campagna elettorale. Si iscrive nell’insieme di misure, già contenute nel programma del Pd, finalizzate a migliorare la condizione economica delle famiglie. In particolare, si iscrive nell’intervento per incrementare il potere d’acquisto dei redditi da lavoro. Infatti, nella bozza di Disegno di Legge presentata da Veltroni a metà Marzo («Un fisco per lo sviluppo e l’equità»), all’articolo 1, è prevista anche la restituzione dell’incremento delle detrazioni ai “contribuenti incapienti”, ossia, a quei contribuenti che devono un’imposta minore della detrazione ad essi spettante. In sintesi, è una specifica modalità di disegnare l’assegno ad essi dovuto dal fisco. Quindi, il suo impatto di finanza pubblica, quantificato in 1,4 miliardi di euro all’anno, è già coperto, non è un costo ulteriore. Come per l’aumento delle detrazioni fiscali per le pensioni illustrato da Veltroni settimana scorsa, si interviene contestualmente sulle classi medie e sulle situazioni “normali” (capienti) e sulle famiglie con maggiori difficoltà (gli incapienti appunto).

Il buono spesa, come la proposta per le pensioni e per i redditi da lavoro, è un “intervento mirato”, auspicato anche da Bini-Smaghi in una recente intervista, per affrontare nell’immediato la caduta del potere d’acquisto senza innescare pericolose spirali inflazionistiche. Infatti, il buono spesa, come le detrazioni fiscali, non ha effetti sulle aspettative di inflazione, non attiva le nefaste ricadute, sperimentate in passato, della scala mobile su crescita economica e redditi. Tale infausta prospettiva sarebbe, invece, conseguenza delle proposte di revisione indiscriminata dei meccanismi di indicizzazione di retribuzioni e pensioni propagandate da PdL e Sinistra Arcobaleno.

Veniamo ora alla risposta strutturale: come indicato nel programma del Pd, essa si articola in un ventaglio di misure intorno all’obiettivo di innalzamento della produttività di sistema, la produttività totale dei fattori, non solo (e non tanto) la produttività del lavoro. In altri termini, parliamo di riforma della scuola, dell’università, della ricerca, del primato della legalità, del rafforzamento della sicurezza, dell’ammodernamento delle infrastrutture, dell’efficienza delle pubbliche ammnistrazioni, della semplificazione degli adempimenti contabili e fiscali, delle liberalizzazioni, delle riduzioni di imposte. In sostanza, la risposta strutturale punta a difendere il potere d’acquisto dei redditi da lavoro attraverso l’innalzamento sostenibile della crescita economica del Paese e la distribuzione equa di tale crescita su tutte le forze produttive coinvolte. Inoltre, la risposta strutturale investe la politica energetica, a livello nazionale ed europeo. Investe le misure per l’efficienza delle catene della distribuzione commerciale. Investe, infine, la Politica Agricola Comune europea, oggetto degli (auspicabili) interventi di revisione del Bilancio europeo nel 2009.

In conclusione, equità e sviluppo, insieme. Attenzione all’emergenze sociali e determinazione a scogliere i nodi strutturali, insieme. Per un’Italia moderna, dinamica e solidale.

www.stefanofassina.it



Pubblicato il: 03.04.08
Modificato il: 03.04.08 alle ore 8.27   
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 19, 2008, 10:59:13 pm »

Altro che Robin Hood

Stefano Fassina


L’evasione fiscale in Italia ha tanti volti. È stata ed è certamente espressione dello scarso spirito civico, segno storico della vicenda nazionale. È stata ed è certamente frutto della distanza tra settori vasti di cittadini e la res publica, mai sufficientemente publica da meritare adesione convinta alle regole formali sancite dal patto di cittadinanza. Tuttavia, l’evasione non è stata e non è solo patologia. Anzi. L’evasione fiscale è stata ed è essenzialmente fisiologia del complesso ed anomalo meccanismo economico italiano. Non a caso, l’Italia detiene saldamente il primato della più elevata evasione fiscale tra i paesi sviluppati, insieme al primato del più elevato debito pubblico. L’evasione fiscale è stata e continua ad essere parte fondamentale della costituzione materiale del Paese. È stata la condizione di sopravvivenza di una parte consistente del pulviscolo di imprese individuali e delle moltitudini di lavoratori autonomi, presenti in Italia in numero quasi doppio rispetto alla presenza in altri Paesi a noi comparabili. Per questo, quando l’ex Ministro Padoa-Schioppa definiva "ladri" (lessico, non a caso, mai usato da Visco) gli evasori faceva una assurda generalizzazione, astrattamente condivisibile, ma sbagliata sul piano etico e perdente sul terreno politico, poichè metteva insieme l’artigiano stressato da 14 ore di lavoro al giorno, costretto all’evasione per rimanere o, almeno illudersi di essere, tra le ultime file delle classi medie e il professionista con yatch e case per le vacanze sparse per l’Italia, evasore per profondo egoismo sociale, segno morale di larga parte delle classi dirigenti italiane. L’analisi appena abbozzata non ha alcuna funzione giustificativa. L’evasione fiscale va combattuta ed eliminata o, più realisticamente, ricondotta ai livelli "normali" prevalenti negli altri paesi sviluppati. Tuttavia, per sconfiggerla bisogna avere chiare le sfaccettature del fenomeno, non solo la sua ingente dimensione quantitativa. Altrimenti, siamo come Don Chiquotte contro i mulini a vento. Per sconfiggere l’evasione è fondamentale arrivare ad un’analisi differenziata, premessa di un’iniziativa articolata, in grado di separare l’evasione di necissità, dall’evasione patologica. Il centrosinistra nella scorsa legislatura aveva cominciato, pur tra contraddizioni, la difficile operazione. Insieme alla credibile archiviazione della stagione dei condoni, aveva messo in campo un attacco a tre punte. Da un lato, aveva rimesso in funzione la macchina amministrativa dei controlli, con dirigenti capaci e determinati ai suoi vertici, prontamente allontanati dal Ministro Tremonti. Dall’altro lato, aveva adottato una serie di misure di prevenzione e contrasto all’evasione: dal reverse charge, all’elenco clienti-fornitori; dalla tracciablità dei compensi dei professionisti, alla responsabilità contributiva e fiscale in solido tra committente ed appaltatore; dalla rivitalizzazione degli studi di settore, agli interventi sulle società di comodo. Al centro dell’attacco, aveva posto, in via sperimentale, un regime fiscale ipersemplificato per i contribuenti minimi (il cosidetto "forfettone", per i circa 950.000 lavoratori autonomi con fatturato inferiore a 30.000 euro all’anno) e aveva sancito in modo netto l’inapplicabilità degli studi di settore alle imprese marginali. In particolare, la sperimentazione del forfettone sarebbe servita ad ampliarne la portata, fino a coinvolgere (come indicato nel programma elettorale del Pd) una platea potenziale di quasi 2 milioni di partite Iva, ossia oltre la metà delle attività di lavoro autonomo e di micro e piccole imprese operative in Italia. In sintesi, l’analisi differenziata del fenomeno portava ad un insieme di politiche coerenti e specifiche per i diversi segmenti da affrontare. L’obiettivo ultimo era redistribuire il carico fiscale, ridurre le aliquote effettive sulle famiglie e sulle imprese, salvaguardare il gettito, condizione fondamentale per proseguire la via del risanamento finanziario. La strategia della destra va in direzione diametralmente opposta. L’operazione che il Governo Berlusconi porta avanti utilizza come "scudi umani" i contribuenti minimi e marginali, gli evasori di necessità, per lasciare indisturbati gli evasori patologici. Il malessere dei lavoratori autonomi, in particolare nel Nord del Paese, con l’acqua alla gola per le pressioni competitive, gli ostacoli burocratici, i ritardi infrastrutturali viene usato come grimaldello per disarticolare i processi di riforma faticosamente messi in moto nella breve legislatura alle nostre spalle. Di conseguenza, in nome della semplificazione, sin dal primo decreto di finanza pubblica, si smantellano tutte le principali misure di contrasto all’evasione introdotte nella scorsa legislatura. Al contempo, si abbandona il potenziamento del forfettone, la vera semplificazione per "gli stressati della globalizzazione" (secondo l’efficace definizione di Aldo Bonomi), in quanto elimina Iva, Irap e studio di settore ed abbatte il carico fiscale. In sintesi, il risultato è opposto a quello cercato dal centrosinistra: il gettito fiscale ricomincerà a ridursi, non perchè la destra riduce le aliquote effettive sulle famiglie e sulle imprese, ma perchè accresce l’evasione. L’operazione compiuta dalla destra ha tutte le implicazioni distributive tipiche delle politiche delle destre populiste (nonostante i patetici tentativi di Tremonti di presentarsi come Robin Hood e la ridicola autocelebrazione del Presidente del Consiglio per le sue politiche di sinistra): sposta reddito ed opportunità da chi ha meno a chi a di più, rende ancora più soffocante l’immobilismo sociale, alimenta l’egoismo sociale. Ovviamente, i risultati politici di breve periodo di tale operazione sono positivi, vincono tutti, evasori di necessità ed evasori patologici, si consolidano le basi elettorali della destra, di Forza Italia in particolare. Perde ovviamente chi non può e non vuole evadere. Perde il Bilancio dello Stato all’interno del quale non vengono tagliati solo sprechi, ma anche diritti ed investimenti pubblici. Perdono, quindi, le famiglie beneficiarie di servizi pubblici, in particolare locali (mense, scuole, sanità, assistenza ai cittadini non autosufficienti, trasporto pubblico). Perdono le imprese alla cui competitività sono indispensabili le intrastrutture finanziate da spesa pubblica in conto capitale. In realtà, a guardar bene, perdiamo tutti. Perdono anche quanti oggi beneficiano della riapertura degli spazi di evasione: l’abbattimento illecito del carico fiscale è un surrogato insostenibile per vincere in contesti segnati dalla competizione internazionale. Nessun grande Paese è andato avanti con l’evasione. Per vincere sono necessarie le riforme. Puntare a mantenere in vita il compromesso al ribasso degli anni 80 è una strada senza uscita, poichè oggi siamo privi delle condizioni necessarie per sostenerlo: deficit pubblico e svalutazione della Lira. www.stefanofassina.it

Pubblicato il: 19.08.08
Modificato il: 19.08.08 alle ore 8.21   
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« Risposta #4 inserito:: Settembre 11, 2008, 08:55:31 am »

Il federalismo impossibile

Stefano Fassina


Il “Calderoli.2” non funziona. I commenti alla seconda “bozza Calderoli” sul federalismo fiscale hanno riscontrato «passi avanti» perché si sono concentrati su aspetti particolari: primo, la surrettizia reintroduzione dell’Ici (in realtà è peggio: alla vecchia imposta patrimoniale dall’impatto progressivo, nonostante l’evasione legittimata dai dati catastali, si sostituisce un’imposta/tariffa sui servizi dalle ricadute regressive, ossia chi meno ha, più paga).

Secondo, l’espansione dell’autonomia impositiva di Comuni e Province (ma in relazione a quale organizzazione?). Tutti aspetti rilevanti, non c’è dubbio. Ma è come se, per comprare una casa, si guardasse all’altezza dei soffitti, all’ampiezza delle camere da letto, alla dimensione delle finestre e si tralasciasse di guardare alla tenuta delle fondamenta e della struttura portante dell’edificio. Se guardiamo anche alle fondamenta e alla struttura portante, dobbiamo dire che l’edificio progettato da Calderoli & C. proprio non regge.

Il “Calderoli.2”, immutato rispetto alla prima versione, continua a prospettare l’eutanasia dello Stato centrale in materia di promozione e garanzia dei diritti civili e sociali sanciti dalla Costituzione. Si ripropone una lettura estremista del principio di territorialità delle imposte: le imposte appartengono soltanto al territorio nel quale si raccolgono. La comunità più larga di cui si è parte per cultura, storia, istituzioni, economia non ha titoli. Come se le performance economiche di un territorio non dipendessero anche dalle politiche nazionali (se negli anni ‘90 si fosse seguito l’antieuropeismo della Lega, dove sarebbe oggi la Padania?) e dai fattori produttivi provenienti da altri territori (quanto capitale umano si è formato nel Mezzogiorno e si consuma nel Nord?). Come se non fossimo una nazione, ma un puzzle di “piccole patrie”.

L’estremismo leghista nell’interpretazione del principio di territorialità ha una chiara conseguenza: le risorse necessarie a completare il finanziamento delle prestazioni fondamentali (scuola, sanità, assistenza ed, in parte, trasporti) nei territori svantaggiati sono nella esclusiva disponibilità delle Regioni più ricche, non dello Stato centrale, come previsto nella proposta della Conferenza delle Regioni, richiamata a sproposito da qualche distratto Governatore nordista di origine Pd. In altri termini, la perequazione è orizzontale: dalle Regioni più ricche alle regioni più povere, senza l’intervento di Roma, notoriamente “ladrona” nelle valutazioni del Ministro Calderoli.

L’interpretazione estrema del principio di territorialità delle imposte determina i rapporti finanziari tra Stato e Regioni: le Regioni possono modificare unilateralmente le quote a loro riservate di “una parte rilevante” dei tributi erariali. In sostanza, le risorse per lo Stato centrale sono residuali ed incerte. E la conferma che siano considerate tali viene anche dalla bizzarra definizione dei premi fiscali per gli enti territoriali virtuosi, ossia gli enti che arrivano a risultati migliori di quelli previsti nel Patto di Stabilità Interno. Essi, oltre a poter ridurre le imposte di propria competenza, beneficiano della “modificazione dell’aliquota di un tributo erariale”. In altri termini, la bravura degli amministratori di un territorio va a discapito dei cittadini e delle imprese di altri territori.

In sostanza, “Calderoli.2” conferma “Calderoli.1”: le fondamenta e la struttura rimangono le stesse. Cambia l’altezza dei soffitti, la dimensione delle camere da letto e delle finestre. Al fine di ottenere il consenso dei sindaci, viene attenuato l’ipercentralismo regionale del “Calderoli.1”. Si abbassa la soglia di numerosità di abitanti per definire i “supercomuni”, ossia i comuni affrancati dall’interazione finanziaria con le Regioni.

Si riconosce a tutti i comuni maggiore autonomia impositiva. Si prospetta il gettito del bollo auto per le Province. Si promette un’impossibile fiscalità di sviluppo per le Regioni del Mezzogiorno. Il problema Lombardo (inteso come Governatore della Sicilia) ha una soluzione tutta sua: il bilancio siciliano riceve una parte delle imposte pagate dalle imprese con stabilimenti nell’isola ma con sede legale altrove. Ulteriori eccezioni vengono fatte per evitare che Comuni piemontesi, veneti o lombardi prossimi ai confini regionali decidano di farsi annettere da Val d’Aosta, Trentino o Friuli: ad essi viene riconosciuto lo status di territori svantaggiati (!) e la possibilità di ricevere risorse a carico del Bilancio dello Stato (quando si tratta di pagare, il principio della territorialità viene derogato: minori imposte agli elettori veneti e lombardi, maggiori spese finanziate dal resto d’Italia). In sintesi, il disegno fiscale del “Calderoli.2” non ha alcuna razionalità economica, solo scambi politici per l’obiettivo separatista. Sembra una tela di Jackson Pollock, altro che semplificazione e trasparenza del rapporto finanziario tra amministrazioni e cittadino.

Oltre al merito, va sottolineato un decisivo problema di metodo.

Un disegno di legge sul federalismo fiscale non può che prevedere ampi principi di delega, vista la complessità della materia. Tuttavia, i punti da delegare sono decisivi. Solo un esempio per capirne la portata: tra le funzioni fondamentali da perequare nel campo dell’istruzione, ci limitiamo alla scuola dell’obbligo o includiamo anche la secondaria superiore? Se ci limitassimo solo alla scuola dell’obbligo, vorrebbe dire che renderemmo ancora più povere le scuole secondarie del Mezzogiorno. Data la rilevanza costituzionale degli elementi da decidere nella legislazione di secondo livello, l’approvazione dei decreti delegati deve essere bipartisan. Non ha alcun senso che le opposizioni vengano coinvolte soltanto per la scrittura della legge-delega. Non basta, quindi, prevedere una “Commissione paritetica”, tra l’altro solo consultiva, con gli enti territoriali. È necessaria, se si vuole veramente osservare l’impegno bipartisan, una Commissione Bicamerale paritetica (ristretta) alla quale riconoscere parere vincolante. Il parlamento non può rimanere fuori da passaggi di rilievo costituzionale.

È inaccettabile il tentativo della Lega di considerare esaurito lo sforzo bipartisan attraverso il coinvolgimento, comunque dovuto, delle organizzazioni delle autonomie territoriali in quanto presiedute da autorevoli dirigenti della principale forza di opposizione.

Ha scritto Giorgio Ruffolo qualche giorno fa: «Mai come oggi l’Italia è apparsa così fragile. E la sua unità così in pericolo... Il pericolo non è un nuovo fascismo. È la decomposizione nazionale e sociale». Poi con amarezza ha aggiunto: «Compito della Sinistra avrebbe potuto essere quello di ricomporre l’unità nazionale in un grande progetto per lo sviluppo economico, l’equilibrio ambientale e il benessere sociale. E di fondare su questo il grande disegno federativo unitario indicato da Carlo Cattaneo». Non ci rassegniamo al condizionale passato.

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Pubblicato il: 10.09.08
Modificato il: 10.09.08 alle ore 9.56   
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 23, 2008, 11:56:25 pm »

Pagheranno solo i deboli

Stefano Fassina


Il dibattito di politica economica è segnato da previsioni molto diverse sulla durata della crisi economica in corso. Le posizioni sono tre. In ordine crescente di pessimismo (o di realismo): una crisi a forma di V (una caduta dell’attività economica e una rapida ripresa), posizione oramai assolutamente minoritaria; una crisi a forma di U (da 4 a 6 trimestri di recessione/stagnazione), la posizione più gettonata; infine, una crisi a forma di L (stagnazione di lunga durata, tipo Giappone anni ’90). Come noto, l’economia non è una scienza esatta. Non risponde a leggi fisiche. Il futuro dipende dalle scelte del presente. Innanzitutto, dalle scelte dei principali attori di politica economica: i governi; le autorità di politica monetaria e di regolazione dei mercati finanziari; i grandi operatori dei mercati, sia in ambito finanziario che manifatturiero o dei servizi non finanziari.

Nelle scorse settimane i governi hanno compiuto passi fondamentali e certamente non scontati (almeno per quanto riguarda l’Eurogruppo e l’Unione Europea). Per la prima volta, le principali banche centrali dei Paesi sviluppati e la Banca Popolare Cinese hanno agito all’unisono. Nei giorni scorsi sono stati annunciati altri passi potenzialmente di rilevanza storica. A livello globale, un G13 (G8 + Cina, India, Brasile, Messico e Sud Africa) per ridefinire i compiti delle istituzioni di Bretton Woods. A scala europea, l’avvio di una politica di bilancio comune per i Paesi dell’area Euro (iniziativa annunciata da Sarkozy nel suo impegnativo discorso al Parlamento di Strasburgo).

La durata della crisi, oltre che dalle iniziative multilaterali, dipende dagli interventi definiti a livello nazionale. In tale contesto, nonostante le celebrate capacità divinatorie del nostro Ministro dell’Economia, è evidente quanto sia fuori fase la politica economica del Governo italiano: che senso hanno le Robin tax, in un mondo bancario ed assicurativo in pesante difficoltà e la caduta dei prezzi del petrolio? A cosa serve la parziale detassazione degli straordinari, quando aumenta in modo esponenziale la cassa integrazione? Non era meglio utilizzare per chi non arriva alla quarta settimana i 2,5 miliardi di euro spesi per completare l’eliminazione dell’Ici sulle famiglie più ricche? Non è elemosina istituzionale una social card che riguarda meno di un milione di cittadini poveri quando abbiamo 20 milioni di famiglie in difficoltà, ossia anche milioni di famiglie della classe media?

Ma attenzione: i media, sempre più appiattiti sull’esecutivo Berlusconi, ci informano che "il Governo studia". Ma cosa studia il Governo? Il Governo studia di fare marcia indietro sul credito di imposta sugli investimenti nel Mezzogiorno. A Giugno, con il primo decreto-lampo, aveva di fatto annullato - nonostante l’opposizione del Pd e le proteste della base imprenditoriale- il taglio fino al 40% del costo degli investimenti introdotto, in via automatica, senza intermediazione politica o amministrativa, dal Governo Prodi. La presidente di Confindustria a Giugno taceva (perché?). Oggi, sollecitata dalla sua base, denuncia che gli imprenditori che hanno telefonato all’Agenzia delle Entrate per avere il credito d’imposta si sono sentiti rispondere "torni nel 2014". E chiede al Governo di ripristinare quanto era già operativo e ora va invece riavviato, con lunghi ritardi rispetto ai programmi di investimento previsti o addirittura l’impossibilità di recuperare, in una fase così difficile per il credito, quanto era stato deciso. Chi paga per l’errore di politica economica? Pagheranno i soliti noti, ossia le micro, piccole e medie imprese ed i lavoratori.

Il Governo studia di fare marcia indietro sui finanziamenti per "Industria 2015", il programma di sostegno alla ricerca e all’innovazione introdotto nel 2007 da Bersani. A Giugno, il Governo aveva tagliato 300 milioni di euro ai programmi avviati dal Ministero dello Sviluppo per destinarli ad Alitalia. In altri termini, per spostarli dall’investimento produttivo alla rendita. Ora, il Ministro Scajola si impegna a rifinanziare quanto era già finanziato. Anche qui, ritardi, nel migliore dei casi. Chi paga per l’errore? Anche qui, gli stessi di cui sopra. Il governo studia di confermare quanto già introdotto dal Governo Prodi: forti incentivi fiscali alla rottamazione di auto, moto, frigoriferi, fonti rinnovabili di energia, motori e interventi di manutenzione energy saving. Speriamo che studiando, il Ministro dell’Economia si renda conto che le agevolazioni fiscali previste dalle due finanziarie del Governo Prodi non avevano finalità anticicliche, ma erano misure di promozione di sviluppo sostenibile. Non vanno bene ora. I provvedimenti anticiclici per essere efficaci devono essere generalizzati, intervenire sul lato della domanda aggregata, beneficiare chi ha più elevata propensione al consumo (le famiglie a reddito basso e medio). Altrimenti, come si diceva un tempo, si porta l’acqua, ma il cavallo non beve. Misure supply side per ridurre i prezzi di vendita di alcuni beni durevoli sono scarsamente utili quando la domanda si contrae. Chi taglia la spesa alimentare (oltre il 40% delle famiglie italiane) comprerà, pur scontata, un’auto "euro 5" dopo averne avuto la possibilità e non averne approfittato per due anni? Non a caso, il Pd insiste su sgravi fiscali per i redditi da lavoro e da pensione e sull’estensione degli ammortizzatori sociali ai lavoratori colpiti da crisi e sprovvisti di copertura assicurativa. Infine, il Governo studia di garantire il credito bancario alle piccole e medie imprese, insieme ai redditi, la vera emergenza del Paese. Ottimo, è quanto il Pd ha proposto una decina di giorni fa in un Piano Anticrisi. Un Piano che prevede un ventaglio di interventi per micro, piccole e medie imprese tra i quali l’accelerazione dei rimborsi Iva e dei pagamenti dovuti dalle pubbliche amministrazioni. Un Piano al quale i grandi mezzi di comunicazione hanno dedicato un centesimo dell’attenzione riservata alla foto del manifesto per il 25 Ottobre, per poter tornare a sottolineare l’assenza di proposte del Pd. Nonostante la propaganda, la politica economica del Governo Berlusconi era ed è fuori fase. È concentrata sul patto corporativo con gli interessi forti. Sacrifica studenti, lavoratori, pensionati, micro, piccole e medie imprese.

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Pubblicato il: 23.10.08
Modificato il: 23.10.08 alle ore 8.55   
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 02, 2008, 08:42:52 am »

Decreto: norme che non servono e qualcuna che fa danno.

 Ecco perché.
 
di Stefano Fassina
 
Il cosiddetto Decreto Legge Anti-crisi (DL 185/08), approvato dal Governo il 28 Novembre scorso, e’ inadeguato e, per alcune misure in esso contenute, controproducente. Innanzitutto, va sottolineato che, in termini macroeconomici, non dà alcun sostegno alla domanda aggregata, in quanto le minori entrate e le maggiori spese, sono, sulla carta, interamente compensate. Infatti, i 6 miliardi di euro indicati come sostegno alle famiglie e alle imprese per il 2009 sono interamente “coperti” da aumenti di entrate o riduzioni di spese. A livello macroeconomico, quindi, non e’ anti-ciclico, neppure in misura modesta. Semplicemente neutrale. Nessun impulso alla crescita. Siamo l'unico Paese europeo a rinunciare all'apporto delle politiche di bilancio al fine di attutire le conseguenze della crisi in atto.
L’analisi delle singole misure evidenzia un impatto pro-ciclico, ossia di peggioramento delle dinamiche in corso. Sono pesantemente pro-cicliche le misure di cui all’art. 29, le quali di fatto annullano gli incentivi agli investimenti in ricerca ed innovazione e le spese per le ristrutturazioni edilizie con finalità ambientali, poiché rendono le agevolazioni fiscali incerte. Le “prenotazioni” rendono l'incentivo incerto. Un incentivo incerto equivale a nessun incentivo. Ritorna la stessa logica sottostante allo svuotamento del credito d’imposta per gli investimenti nel Mezzogiorno, realizzato con il Decreto legge 93/08 del Giugno scorso. L’obbligo di prenotazione delle agevolazioni per la ricerca (pari al 40% delle spese sostenute entro il limite di 50 milioni di euro ad impresa) ed il pesante ridimensionamento, non solo per il futuro, ma anche retroattivo, degli incentivi alla riqualificazione ambientale degli edifici (in origine, detrazione di imposta al 55% fino ad un massimo di 100.000 euro di spesa per immobile) sottrae risorse ad attività ad elevato moltiplicatore economico ed occupazionale (oltre che ad elevato contenuto innovativo), soprattutto per le micro, piccole e medie imprese artigiane.
Per i principali obiettivi perseguiti dal Decreto, ossia estensione dell’indennità di disoccupazione oltre il perimetro degli attuali assicurati e potenziamento delle garanzie per l’accesso al credito delle micro, piccole e medie imprese, i provvedimenti sono spostamenti di risorse tra diversi capitoli del Bilancio dello Stato ai quali si associano modestissime integrazioni.
Per l’estensione dell’indennità di disoccupazione (art. 19) sono previsti 289 milioni di euro nel 2009. Tale stanziamento e’ alimentato per 135 milioni da risorse previste in Bilancio per la formazione professionale e per facilitare l’accesso ai finanziamenti del Fondo Sociale Europeo, per 54 milioni da risorse stanziate per altre indennità di disoccupazione e solo per 100 milioni da risorse aggiuntive.
Per favorire l’accesso al credito delle micro, piccole e medie imprese (art. 11), le uniche dotazioni certe ammontano a 150 milioni di euro per il 2009 interamente provenienti dal “Fondo per la finanza d’impresa”. Le eventuali ulteriori risorse, qualora effettivamente disponibili (ex 488/92), verrebbero comunque sottratte ad altri provvedimenti a favore delle imprese. I Confidi ricevono una somma pari al 30% del totale degli stanziamenti per l’estensione delle garanzie. Quindi, possono contare soltanto su 45 milioni di euro per il 2009.
La riduzione di 3 punti percentuali degli acconti Ires ed Irap riguarda solo le societa’ di capitali ed e’ configurata come misura una tantum. In sostanza, le imprese beneficiate oggi, si troveranno a pagare un conto fiscale maggiorato nel corso del 2009, in una fase economica prevista in peggioramento rispetto a quella attuale. Per quanto riguarda l’intervento di sensibilizzazione al ciclo degli studi di settore, si prospetta solo un generica intenzione lasciata alla completa discrezionalità del Ministro dell’Economia. Anche per l’Iva per cassa si prevede un intervento di bandiera. Come abbiamo sottolineato più volte,  l'Iva per cassa non e’ nelle disponibilità unilaterali degli Stati nazionali, poiché l'Iva e’ un'imposta, l’unica, finalizzata ad alimentare il bilancio dell’UE e pertanto disciplinata da una specifica Direttiva Comunitaria. Pertanto, il Decreto introduce l'Iva per cassa sotto condizione di autorizzazione da parte della Commissione e senza specificare i limiti di fatturato entro i quali si potrebbe applicare.
In sostanza, i provvedimenti per le imprese, fatta salva la deducubilità parziale e forfettaria dell’Irap, sono tra l’irrilevante (Studi di Settore ed Iva per cassa) ed il dannoso (“prenotazione” delle agevolazioni fiscali e riduzione delle percentuali di acconto da ripagare nel 2009). La vera politica fiscale per le imprese viene realizzata surrettiziamente attraverso l’allentamento delle maglie della rete anti-evasione. Il Decreto, ufficialmente con finalità di semplificazione, continua l’opera di smantellamento delle misure anti-evasione introdotte dal Governo Prodi. In particolare, viene eliminato il filtro dell’Agenzia delle Entrate per le l’utilizzo di crediti Iva superiori a 10.000 euro ad operazione.
Il bonus per le famiglie (art. 1) e’ sostanzialmente la ripetizione dell’intervento effettuato dal Governo Prodi nel 2007, quando il Pil era intorno al 2%. Nel 2007, il bonus aveva senso in quanto si perseguiva una finalità redistributiva. Oggi, date le condizioni attuali ed attese dell’economia, sarebbe stato necessario un intervento di portata ben più ampia, sia per importo medio, sia per numero di contribuenti interessati. Data la necessita’ di sostenere anche i redditi medi, la misura da attuare sarebbe stata un innalzamento permanente delle detrazioni, per un importo medio di 500 euro all’anno, per redditi da lavoro e da pensione.
L’intervento sui mutui (art 2) e’ il riconoscimento del fallimento, anche questo ampiamente previsto, del Protocollo MEF-ABI del luglio scorso: il Governo accoglie la proposta dell’opposizione e dispone che le banche offrano contratti di mutuo a tasso variabile indicizzato al tasso di rifinanziamento principale della BCE in alternativa all’Euribor (ancora in questi giorni quasi 100 punti base superiore al tasso di rifinanziamento BCE). Il ritardo del Governo implica un costo di diverse centinaia di euro per le famiglie con mutui a tasso variabile. In ogni caso, va sottolineato che gli oneri per i minori interessi pagati dalle famiglie saranno a carico del Bilancio dello Stato. Ancora una volta, nessun impulso alle competizione tra aziende di credito e nessun sostegno al meccanismo della portabilità dei mutui.
Ulteriore misura di rimpacchettamento delle risorse già stanziate e’ il cosiddetto “Fondo cicogna” (art. 4) per i sostegno ai neonati. Il Fondo e’ interamente alimentato da risorse sottratte al Fondo per la famiglia. L’art. 4 contiene anche un colpo pesantissimo al Servizio Civile poiché pone a carico di chi svolge tale attività di volontariato la contribuzione previdenziale (oggi a carico del Fondo Nazionale del Servizio Civile).   
Il Governo abbandona gli incentivi fiscali al lavoro straordinario, i quali, come riportato in una recente survey della Banca d'Italia, hanno determinato, in una fase recessiva, un prevedibile effetto negativo sull'occupazione (un'ampia fetta di imprese ha preferito allungare l'orario di lavoro fiscalmente agevolato ai lavoratori già occupati piuttosto che ricorrere ad assunzioni). Viene, invece, prorogata e potenziata (innalzando il tetto di retribuzione da 30.000 a 35.000 euro e l'ammontare massimo detassato da 3.000 a 6000 euro) la parziale detassazione dei premi di produttività. La misura, in una fase di contrazione dell'attività economica, è inutile dato che, come è noto,  nelle fasi di recessione la produttività diminuisce poiché la diminuzione percentuale dell'occupazione è minore della riduzione del Pil. La misura sembra, quindi, finalizzata ad offrire, a costo zero per il bilancio pubblico, una sponda alla parte delle organizzazioni sindacali più disponibili nei confronti del Governo. L'assenza di effetti sostanziali sulla produttività non esclude la possibilità di pratiche elusive da parte delle imprese, le quali potrebbero ri-etichettare una parte della retribuzione tabellare come premio di risultato ed ottenere una riduzione del costo del lavoro.   
L’intervento sulla CDP è potenzialmente di rilevante portata. Si estende la possibilità di utilizzo del risparmio postale per investimenti infrastrutturali. Non sono chiari eventuali riflessi sul Bilancio dello Stato e sul Patto di Stabilità Interno. In una prossima nota, si forniranno valutazioni puntuali.
Infine, le misure sul settore energia presentano significative criticità sulle quali torneremo in una successiva nota. In via preliminare, va segnalata la priorità data al Governo all'ambito dell'energia elettrica, ossia l'ambito che, negli ultimi anni, è stato più investito da processi di liberalizzazione rispetto, ad esempio, al settore del gas.
 
Stefano Fassina
 
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 20, 2009, 11:18:09 pm »

Arlecchino e il federalismo fiscale

di Stefano Fassina


Il vestito di Arlecchino.
È la prima immagine che viene in mente a leggere il disegno di legge delega sul federalismo fiscale da oggi in aula al Senato. Tante affermazioni di principio contraddette dai dispositivi tecnici specificati. Il ministro Calderoli ha cercato di accontentare un po’tutti, a discapito della trasparenza dell’imposizione fiscale e della semplificazione per i contribuenti, in particolare imprese. Sono state accolte anche tante proposte importanti del Pd, miglioramenti sostanziali (la Commissione bicamerale per i pareri sui decreti delegati, il richiamo alla progressività delle imposte, l'integrale finanziamento di tutte le funzioni pubbliche degli enti territoriali, per citarne alcuni).

Ad un’analisi approfondita, il vestito di Arlecchino diventa il Triangolo Impossibile di Penrose, un oggetto che può esistere solo sulla carta, ma non può essere costruito. Infatti, il ddl propone di:

1) garantire, al costo standard, adeguati ed omogenei livelli, qualitativi e quantitativi, delle prestazioni sociali e civili e delle                   funzioni pubbliche su tutto il territorio nazionale;

2) non aumentare la pressione fiscale complessiva;

3) rispettare il Patto di Stabilità.

Nella realtà, per raggiungere l’obbiettivo al punto 1), è inevitabile forzare i vincoli al punto 2) e 3).
I dati lo indicano chiaramente e non a caso non vengono ufficializzati dal ministro dell’Economia. Allora, per attuare il federalismo fiscale, data la rigidità dei vincoli, l’obbiettivo salterà. Per farlo saltare, il Governo ha respinto ogni tentativo di attenuare l’interpretazione estremistica del principio di territorialità delle imposte, di rivedere la titolarità regionale delle compartecipazioni alle imposte erariali e di rendere verticale il meccanismo di perequazione.

Grazie a tali ancoraggi e con la Conferenza Stato Enti Territoriali spostata a destra dopo le tornate elettorali amministrative del 2009e del 2010, il Governo tenterà, con i decreti attuativi, di minimizzare i livelli delle prestazioni sociali e civili e delle funzioni pubbliche garantite.
In altri termini, tenterà una privatizzazione del welfare. Una privatizzazione a geometria territoriale variabile, la quale potrà essere evitata soltanto nei territori più ricchi attraverso l’innalzamento delle aliquote oltre il livello standard.

Il federalismo fiscale è un’occasione per modernizzare l’Italia e riqualificare la politica. Il testo in discussione al Senato, se approvato, nel migliore dei casi, rimarrà sulla carta come il Triangolo di Penrose. Se, invece, sarà attuato renderà ancora più iniqua la distribuzione di opportunità e diritti e le prospettiva di crescita civile ed economica del Paese.
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20 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #8 inserito:: Ottobre 06, 2010, 05:22:55 pm »

Se non ora quando?

di Stefano Fassina

Torniamo alla realtà. Lavoro che manca ed imprese in sofferenza. Viaggio di sola andata dalla precarietà alla disoccupazione per troppi giovani. Esodo di braccia abili e cervelli freschi dal Mezzogiorno. Metà delle donne, soprattutto madri, fuori dal mercato del lavoro. Una quarta settimana sempre più lunga e sempre più vuota per milioni di famiglie. Redditi e ricchezze immense in sempre meno mani, sempre più potenti nella finanza, nell’economia, nei media, nella politica. Furti di futuro per i figli del popolo, in una scuola pubblica umiliata dal Ministro Gelmini, braccio operativo del mitico Tremonti. E poi, smarrimento dell’Europa, guidata da una destra miope, lontana dai padri fondatori, prigioniera di una “cultura della stabilità” ottusa ed autolesionista in quanto priva di una strategia per la crescita ed il lavoro. Quindi, regressione del lavoro in nome della modernità, più lavoro, meno diritti, la linea del Ministro Sacconi nell'epoca Dopo Cristo. Fabbrica Italia non partirà se non ci sarà l’impegno formale delle organizzazioni sindacali ad assumersi precise responsabilità del progetto: ma quale progetto, quali responsabilità dott. Marchionne?

Il più grande ostacolo per l'uscita dalla crisi è di ordine culturale: siamo da quattro anni nel tunnel, sempre più nubi si vedono all'orizzonte, ma il pensiero diffuso non si è svegliato dal “sonno dogmatico”. Dobbiamo guardare alla logica di funzionamento del sistema, indicano Böckenförde e Bazoli in Chiesa e capitalismo. Invece, per inerzia intellettuale e corporativismo cieco, si continuano a riproporre le ricette fallite della crescita bugiarda. È necessaria una svolta culturale, prima che politica, per rimettere a posto un ordine economico e sociale insostenibile, per rianimare la voglia di futuro. «La radicalità non è in noi, ma nella realtà di fronte a noi». Ha ragione Alfredo Reichlin.

Allora, incominciamo ad affrontare la causa di fondo dell’afasia dei riformisti: lo scarto tra la forza dell’economia globale e la triste anemia della politica locale. Proviamo a costruire un’offensiva per riportare la politica a dimensione dell’economia. Al di là dei tecnicismi, ecco il senso della proposta di tassa sulle transazioni finanziarie, una piccola tassa sulla compravendita di derivati ed altri prodotti scambiati a fini meramente speculativi. Certo, c’è bisogno di coordinamento internazionale. Ma, l'Unione Europea può far da apripista per mettere al centro del G20 di Seul a Novembre una tassa sulle transazioni finanziarie dello 0,05%. Si rallentano le speculazioni di brevissimo periodo e si raccolgono risorse per gli investimenti produttivi. Il Global Progressive Forum, partecipato da tutti i partiti democratici e socialisti del mondo, da oltre un anno è impegnato, insieme a mille sindacati, associazioni e movimenti, in Italia zerozerocinque.it, a portare avanti l’iniziativa.

Secondo i calcoli della “Foundation for European Progressive Studies”, nel 2011, con l’aliquota dello 0,05%, si possono raccogliere nella UE quasi 200 miliardi di euro, l’1,5 del Pil. In Italia, si può arrivare a quasi 4 miliardi, l’equivalente di un anno di tagli alla scuola pubblica.

Alziamo lo sguardo. Se non ora, quando?

06 ottobre 2010

http://www.unita.it/news/economia/104296/se_non_ora_quando
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« Risposta #9 inserito:: Agosto 05, 2013, 10:52:04 am »


Fassina: «Se il Pdl non si ferma è la fine di questo governo»

Di Simone Collini

4 agosto 2013


O il Pdl cambia radicalmente rotta, oppure non ci sono le condizioni per andare avanti. Stefano Fassina continua a pensare che la fine del governo Letta sarebbe drammatica per l’Italia: «Rischieremmo di vedere ulteriormente ridotti i nostri spazi di sovranità e di dover seguire un programma dettato dalla Troika».

Però di fronte alle pressioni del Pdl sul Quirinale per la grazia a Berlusconi, di fronte alle parole «al limite dell’eversione » di Sandro Bondi, di fronte alla minaccia di dimissioni dei ministri berlusconiani, il viceministro dell’Economia scuote la testa: «Il Pdl cerca di usare l’emergenza economica e sociale dell’Italia per ricattare il governo e arrivare a una soluzione extra-costituzionale per recuperare agibilità politica a Berlusconi dopo la condanna confermata dalla Cassazione. È un ricatto per il Pd inaccettabile. Sarebbe un gravissimo vulnus alle nostre istituzioni e al futuro dell’Italia».

È la fine della maggioranza Pd-Pdl,onorevole Fassina, o c’è ancora un modo per uscire da questa situazione?
«Di fronte al Pdl vi sono due strade: o ritorna in un alveo di normalità democratica, di rispetto della Costituzione, degli equilibri tra i poteri, oppure vadano fino in fondo e dopo la minaccia i ministri diano davvero le dimissioni».

A quel punto?
«Ci sarebbe l’impossibilità per il governo Letta di andare avanti. Il che implicherebbe gravissimi danni per l’Italia. È chiaro che la responsabilità sarebbe tutta del Pdl, che riporterebbe il Paese sull’orlo del baratro, dove lo lasciarono nel novembre del 2011».

Schifani dice che loro vogliono “solo difendere il capo” e che è meglio se il Pd evita di “infiammare il clima”: cosa risponde? «Che l’assemblea dei parlamentari del Pdl è stata un fatto politico gravissimo. La richiesta di grazia rivolta al Capo dello Stato rappresenta una provocazione irricevibile. Le parole di Sandro Bondi poi, che prospetta una guerra civile in assenza di un intervento extra-costituzionale per salvare Berlusconi, sono al limite dell’eversivo. Il Pd sta soltanto dicendo che non cede ai ricatti per senso di responsabilità verso il Paese, oltre che per dignità propria».

Anche se non cedere ai ricatti volesse dire nuove elezioni?
«È il Pdl che si assume le responsabilità di eventuali elezioni anticipate».

Al voto col Porcellum ancora in vigore?
«No, in Parlamento cercheremmo una maggioranza per cambiare la legge elettorale, prima di tornare alle urne».

Magari con i grillini, visto che dal M5S sono arrivate aperture in questo senso?
«Il partito di Grillo ha perso una grande opportunità all’avvio della legislatura. L’affidabilità delle parole che oggi pronunciano è tutta da verificare. In ogni caso in Parlamento si dovrebbe cercare una maggioranza tra tutti coloro che hanno come priorità il bene dell’Italia e sarebbero disponibili a modificare la legge elettorale prima di tornare al voto».

Ma dopo quello che è successo non è comunque preferibile andare nuove elezioni che stare in una maggioranza con un alleato così poco affidabile?
«C’è il rischio, come in un gioco dell’oca impazzito, di tornare al novembre di due anni fa, di vedere ulteriormente ridotti i nostri spazi di sovranità, di avere elevate probabilità di dover seguire un programma dettato dalla Troika, cioè da Fondo monetario, Bce e Commissione europea. Di conseguenza ci sarebbe la sottomissione del Paese a una politica economica insostenibile che tanti danni ha già prodotto in Europa e che allontanerebbe la prospettiva di una ripresa dell’economia, dell’occupazione e anche gli obiettivi di finanza pubblica».

Cosa risponderebbe a quanti oggi dicono: ma il Pd non sapeva con chi si stava alleando?
«Sapevamo bene anche ad aprile chi fosse Berlusconi e i problemi giudiziari che gravavano su di lui, certo. Abbiamo scommesso, date le emergenze economiche, sociali, istituzionali, su un’evoluzione politica in senso europeo della destra italiana, che al suo interno ha un pezzo di classe dirigente che sta nel solco del centrodestra comunitario. Purtroppo ancora una volta è prevalso il partito padronale, che antepone agli interessi del Paese gli interessi del capo».

Quali ripercussioni avrà questa vicenda sui tempi e i temi del congresso del Pd?
«Il congresso oggi è il nostro ultimo problema. Adesso dobbiamo essere uniti per rispondere a un’offensiva senza precedenti nella storia dell’Italia repubblicana nei confronti delle istituzioni, dell’indipendenza e l’autonomia della magistratura e del corretto funzionamento della democrazia. E adesso è necessario avere al più presto una riunione della Direzione nazionale con il presidente Letta per muoverci uniti».

Una previsione di quel che può succedere nelle prossime ore? «La faccio di quel che non può succedere: sarebbe insostenibile sul piano politico la tattica del ridimensionamento dei problemi. Noi vogliamo garantire un governo utile all’Italia e all’Unione europea. Ora, ripeto, sta al Pdl scegliere: o cambia rotta, oppure come minacciato da Alfano, i loro ministri si dimettano e si assumano tutte le responsabilità delle conseguenze».

In caso di elezioni anticipate l’appuntamento congressuale sarà da rivedere?
«È evidente che in quel caso l’appuntamento sarebbe quello delle primarie aperte per la scelta del candidato premier».

da - http://www.unita.it/italia/fassina-se-il-pdl-non-si-ferma-br-e-la-fine-di-questo-governo-1.514556?page=3
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« Risposta #10 inserito:: Agosto 29, 2013, 04:25:58 pm »

Politica
29/08/2013 - intervista

Fassina “Non ha vinto il centrodestra. Abbiamo raggiunto un compromesso utile”

Il viceministro dell’Economia : questo governo oggi è senza alternative

Alessandro Barbera
Roma

Fassina, l’Imu non c’è più. Possiamo dire che ha vinto Berlusconi? Ha minacciato la caduta del governo e ha ottenuto quel che chiedeva. 

«Non è così. Purtroppo siamo al governo con una forza orientata alla facile demagogia: la Service tax sarà una tassa che terrà conto anche del valore catastale delle prime case. Inoltre in questo decreto ci occupiamo di esodati e cassintegrati. Non è poco».

 

Dunque non cambia nulla? 

«Abbiamo trovato un compromesso utile per il Paese. I ceti popolari pagheranno meno per la prima casa: questo è quel che conta. Il Pdl pensa agli interessi dei più abbienti».

 

Imu, esodati, cassintegrati, statali, ricchi e poveri. Non le sembra, come ha fatto notare su questo giornale Luca Ricolfi, che invece dei cittadini vi state occupando della somma degli interessi che ciascuno di voi rappresenta o crede di rappresentare? 

«I cittadini? E chi sono gli esodati, i disoccupati, i possessori di prima casa se non cittadini? I cittadini come categoria astratta non esistono!»

 

Qui però di riforme utili se ne vedono poche. E quando ci sono, come quella dell’Imu, sembrano dettate da argomenti demagogici, come lei stesso ammette. Ad esempio: che ne é della riforma degli ammortizzatori sociali? O della riduzione delle tasse sul lavoro? 

«Questo è un intervento in parte emergenziale, lo ammetto. Però quella dell’Imu è una riforma vera. Tanto per capirci: stiamo introducendo la deducibilità della tassa per i capannoni industriali. E che cos’è, se non una riduzione degli oneri a carico delle imprese?». 

 

Questo governo durerà? È «senza più scadenza», come dice Letta? 

«Non è il miglior governo possibile, ma oggi non ha alternative e sta comunque affrontando le emergenze del Paese».

 

E fino a quando? Davvero credete che durerà fino alla chiusura del semestre di presidenza italiana dell’Ue? 

«Saremmo autolesionisti se interrompessimo il percorso. La sfida più importante dei prossimi mesi si gioca a Bruxelles, e noi dobbiamo esserne protagonisti. Nessuno, nemmeno le economie più forti dell’area euro usciranno da questo tunnel senza una radicale correzione di rotta delle politiche conservatrici».

 

Di qui a qualche giorno, al massimo qualche settimana, ci sarà il voto in Parlamento sulla decadenza di Berlusconi. Lei crede che il governo reggerà l’urto? 

«Se il Pdl farà mancare il suo consenso si assumerà la responsabilità di aver anteposto gli interessi di Berlusconi a quelli del Paese. Non si può chiedere al Pd di sovvertire le regole dello Stato di diritto. Ma sono convinto che alla prova dei fatti il Pdl saprà ascoltare i suoi elettori. Non credo che - al di là dello zoccolo duro dei militanti - gli elettori del Pdl perdonerebbero una mossa del genere». 

 

Se il governo dopo quel voto cadesse ci sarebbe un Letta bis? 

«In quel caso si dovrà cercare ogni soluzione per approvare la legge di Stabilità e la riforma della legge elettorale. L’unica cosa certa è che col Porcellum non si può tornare a votare». 

 

Twitter @alexbarbera 

da - http://lastampa.it/2013/08/29/italia/politica/fassina-non-ha-vinto-il-centrodestra-abbiamo-raggiunto-un-compromesso-utile-SG0NKoBqLgMlGwQEaGvD5K/pagina.html
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« Risposta #11 inserito:: Agosto 31, 2013, 08:25:10 am »


È abolita l'imu, ma non la tassa sulla prima casa

Pubblicato: 29/08/2013 10:51

Stefano FASSINA


Ieri, come nei provvedimenti dei mesi scorsi e come speriamo negli atti a venire, il governo Letta ha raggiunto un compromesso utile all'Italia su alcune emergenze economiche e sociali del Paese. È un compromesso perché il governo Letta è un governo di compromesso tra due forze politiche che sono e rimangono alternative per valori, programmi e interessi materiali rappresentati.

Il PdL ha ottenuto una parte delle sue priorità. Noi abbiamo realizzato parte delle nostre. Pertanto, inevitabilmente, il compromesso contiene parti, secondo la nostra lettura delle priorità del Paese, giuste. Ma, insieme, contiene parti, per noi, sbagliate. Dobbiamo dire la verità. Altrimenti, non siamo capiti e riconosciti nella nostra identità alternativa al profilo e al programma della destra.

Le parti giuste sono, innanzitutto, il rifinanziamento della Cassa Integrazione in deroga che, con il mezzo miliardo di euro di ieri, arriva a 2,5 miliardi per l'anno in corso. Sono sufficienti? Vedremo. Nelle prossime settimane verrà completato il monitoraggio e in caso servano ulteriori risorse il governo interverrà con la Legge di Stabilità.

È giusto anche l'intervento, per circa 700 milioni di euro, sulla categoria più debole di esodati: i licenziati individuali, ossia le persone licenziate al di fuori degli accordi sindacali. Non siamo ancora alla soluzione completa del dramma incominciato a dicembre 2011, ma è un ulteriore e significativo passo avanti.

È giusta anche la conferma della tassazione della prima casa. Infatti, è abolita l'Imu. Non è abolita la tassazione sulla prima casa. Non per sadismo comunista, ma per evitare di tagliare servizi fondamentali o caricare ulteriormente sul piano fiscale i produttori, ossia il reddito da lavoro e di impresa.

La service tax (denominata "Taser", Tassa sui servizi comunali) tratteggiata nel documento allegato al verbale del consiglio dei ministri va nella direzione di un impianto pienamente federale dell'imposta, indica la rendita catastale come base imponibile, fissa, nel caso di abitazioni affittate, il contributo prevalente a carico del proprietario e impegna il legislatore a tutelare le abitazioni di minor valore (oggi esenti dall'Imu grazie alla detrazione). In sintesi, conferma una componente patrimoniale dell'imposta come è per l'Imu. È, infine, giusto, il taglio dell'Imu sui beni strumentali delle imprese.

Le parti sbagliate riguardano l'intervento sull'Imu per il 2013, in particolare la cancellazione per tutti della prima rata "saltata" a giugno scorso: in una fase così difficile, dedicare un miliardo per eliminare l'Imu per meno del 10% degli immobili di maggior valore, ha sottratto preziose risorse a finanziare, ad esempio, il rinvio dell'aumento dell'Iva previsto, oramai irrimediabilmente grazie alla "vittoria" del PdL sull'Imu, per il 1 ottobre. O per allentare il Patto di Stabilità Interno dei Comuni e rianimare i piccoli cantieri e l'attività di migliaia di imprese artigiane e relativi lavoratori.

L'errore va evitato nel reperimento dei 2,4 miliardi necessari a finanziare la cancellazione della seconda rata dell'Imu 2013 dovuta a dicembre. Vanno chiamate a contribuire anche le prime abitazioni di valore più elevato attraverso un acconto della service tax o altre soluzioni temporanee. Altrimenti, priorità di interesse generale continuano a soffrire.

In alternativa all'intervento voluto dalla destra, noi, il centrosinistra, saremmo intervenuti sull'Imu in modo equo e efficace anche per il 2013: avremmo innalzato la detrazione Imu per esentare fino a l'85% dei proprietari. Avremmo portato a regime la soluzione e evitato la ricerca di una complicata, per amministrazioni comunali e contribuenti, approssimazione dell'Imu attraverso la service tax.

Purtroppo, il governo Letta non è il governo del centrosinistra. È un governo di compromesso. Il compromesso raggiunto è utile all'Italia. Merito, in primis, di Enrico Letta. Ma la macchina della propaganda della destra va a mille. "Silvio vince". "Missione compiuta". Sono i titoli degli house organ della famiglia Berlusconi.

Tanti, a sinistra, contrari alle larghe intese, si indignano e, inconsapevoli o subalterni al vento dell'anti-politica, amplificano stupidamente il messaggio berlusconiano. Si prescinde, come è solito, dai dati di realtà.

da - http://www.huffingtonpost.it/stefano-fassina/e-abolita-limu-ma-non-la-tassa-sulla-prima-casa_b_3834642.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #12 inserito:: Febbraio 09, 2014, 05:45:41 pm »

Partito democratico
DA Stefano Fassina
 
Questo post è firmato da Stefano Fassina con Alfredo D'Attorre, Enrico Gasbarra, Maurizio Martina, Danilo Leva, Cesare Damiano

Finalmente, dopo settimane di incertezza, siamo a un tornante decisivo per il governo del Paese. Prima di presentare il nostro contributo alla revisione del programma di governo, dobbiamo condividere un punto politico: riforme elettorale e istituzionali e incisive risposte alle emergenze economiche e sociali sono obiettivi inscindibili. Senza un attivo sostegno e un pieno coinvolgimento del Pd, delle energie mobilitate dal congresso, nessun governo nella legislatura in corso può andare avanti e avere la forza per incisive riforme. Dobbiamo scegliere. Una chiara scelta politica è premessa per il programma.

Il programma di governo deve avere come stella polare il lavoro. Il problema del lavoro è essenzialmente un problema macro-economico. Poi, di politiche industriali, di contesto produttivo, di modello di impresa e di investimenti in innovazione di processo e di prodotto. Nella fase storica in corso, è anche un problema di redistribuzione dei tempi di lavoro. Il costo del lavoro, le regole del mercato del lavoro e le forme contrattuali possono essere, con soluzioni adeguate, un utile complemento.

Oggi, la scarsità di lavoro e la regressione delle condizioni della persona che lavora sono principalmente l'inevitabile conseguenza della caduta del livello di attività produttiva, in Italia arrivata a quasi 10 punti percentuali in meno dall'inizio della crisi (secondo trimestre 2008). L'analisi vale per noi come per ogni altro Paese europeo e per gli Stati Uniti. Senza una significativa ripresa dell'attività economica, interventi finalizzati a introdurre maggiore flessibilità nel mercato del lavoro portano a un ulteriore indebolimento delle capacità negoziali dei lavoratori, quindi a un'ulteriore riduzione delle retribuzioni, a una più pesante contrazione della domanda interna impossibile da compensare con le eventuali maggiori esportazioni recuperate da una competizione di costo.

Il focus del programma del governo deve essere l'innalzamento del livello dell'attività produttiva. Quindi, il sostegno alla domanda aggregata, ossia maggiori consumi e maggiori investimenti, miglioramento della distribuzione del reddito e apertura di spazi di finanza pubblica per alimentare investimenti produttivi.

Per la svolta, va radicalmente corretta la politica economica dell'euro-zona. Dobbiamo maturare autonomia culturale e politica rispetto a Berlino e Bruxelles. La rotta mercantilista dell'eruo-zona, segnata dall'austerità cieca e dalla svalutazione del lavoro, è insostenibile: aggrava le condizioni dell'economia e gonfia i debiti pubblici, aumentati nell'euro-zona dal 65% del 2008 al 95% del 2013.

Nell'euro-zona, una ripresa in grado riassorbire disoccupazione non è in vista. Le riforme strutturali non sono condizione sufficiente per l'uscita dal tunnel. L'invocazione disinvolta, tanto di moda, al taglio di una indefinita "spesa pubblica improduttiva" per la riduzione delle tasse e del costo del lavoro è propagandistica. La spesa pubblica italiana al netto degli interessi sul debito, in termini pro-capite, è tra le più basse dell'euro-zona. Va liberata da inefficienza e sprechi.

Risparmi significativi possono derivare soltanto da una profonda ristrutturazione dell'organizzazione dello Stato e delle articolazioni della Repubblica. La revisione del Titolo V, anche a tal fine, è un occasione da non perdere. Le risorse recuperate devono integrare i capitoli decimati dai tagli orizzontali, in particolare la scuola pubblica e le politiche sociali. L'insostenibile peso delle imposte va ridotto attraverso il recupero di evasione fiscale, la variabile davvero fuori linea (il doppio) rispetto alla media europea. Portare l'evasione italiana al livello medio europeo nell'arco di una legislatura vuol dire raccogliere 50 miliardi di euro all'anno per abbattere il cuneo fiscale sui redditi da lavoro e sui redditi di impresa. Ogni euro recuperato dal contrasto all'evasione deve andare a riduzione di imposte. Invece, puntare a un consistente taglio della spesa non vuol dire riformare ma ridimensionare, fino allo snaturamento, il welfare. Sarebbe un sacrificio inutile, anzi dannoso, poiché un taglio della spesa accompagnato da una corrispondente riduzione di tasse ha, documentatissimi, effetti recessivi.

Al centro dell'agenda del governo va posto l'impegno per avviare, durante la presidenza italiana dell'Unione europea, una politica economica alternativa per l'euro-zona. Le difficoltà politiche nell'euro area per una svolta sono enormi. Ma l'euro-zona è sulla rotta del Titanic e dobbiamo comunque tentare. Nel breve periodo, è necessaria una politica monetaria più aggressiva. La politica di bilancio deve cambiare segno: rilassarsi nella periferia e diventare decisamente espansiva nei paesi del centro. A tal fine, è urgente introdurre una golden rule nei bilanci nazionali per consentire di finanziare investimenti produttivi validati dalla Commissione europea. Inoltre, vanno avviati investimenti europei, definiti in una strategia green di politica industriale, finanziati mediante euro-project bonds e imposta europea sulle transazioni finanziare speculative. Infine, lungo i confini dell'Unione vanno introdotti standard ambientali e sociali per lo scambio di merci e servizi e controlli ai movimenti di capitali. E va profondamente ri-orientata l'autolesionistica politica anti-trust della Commissione.

La priorità è rivedere l'inadeguata soluzione sulla banking union e dare efficacia alla regolazione del sistema bancario europeo. Sono condizioni necessarie per riportare le banche a erogare credito alle piccole e medie imprese. Va ripreso il coordinamento delle politiche di tassazione e rafforzata l'offensiva contro i paradisi fiscali intra e extra Ue. Infine, va introdotto un meccanismo condiviso di ristrutturazione dei debiti sovrani insostenibili (es. Grecia).

Per il medio periodo, sono necessari aggiustamenti istituzionali di grande portata: l'unione bancaria dovrebbe essere solo un primo passo verso l'unico assetto unitario in grado di sopportare shock asimmetrici di portata rilevante.

I tempi per una radicale correzione di rotta del "Titanic Europa" sono strettissimi. La presidenza italiana dell'Unione europea è decisiva. La presidenza italiana deve provare a mettere ciascun governo e classe dirigente nazionale di fronte alla realtà e prospettare l'alternativa, non come patetico ricatto, ma come inevitabile conseguenza della deprimente continuità politica dei vertici di Bruxelles, coperta da scelte positive ma marginali (come la "Youth Guarantee" o il potenziamento del programma Erasmus). L'alternativa alla svolta nella rotta di politica economica è, per noi, un Piano B: la rinegoziazione degli impegni sottoscritti. È, infatti, impossibile ridurre, finanche stabilizzare, il debito pubblico in uno scenario di stagnazione di medio-lungo periodo. Per il 2014, sono a rischio gli obiettivi di finanza pubblica (in particolare, deficit e debito) previsti nella Nota di Aggiornamento al Def (Settembre 2013). Sarebbe autolesionistico e controproducente accanirsi e tentare di raggiungere gli obiettivi con ulteriori manovre correttive.

Data l'emergenza lavoro sul fronte giovanile, proponiamo la creazione di un "Servizio civile per il lavoro", nel quadro della "Youth Guarantee", per consentire una prima esperienza lavorativa pur limitata nel tempo (1 anno) e un sostegno al reddito analogo all'indennità di disoccupazione "Il servizio civile per il lavoro" dovrebbe articolarsi in "progetti" finanziati da risorse pubbliche e realizzati dal Terzo Settore/ONG nel loro specifico ambito di attività (tutela ambientale, del patrimonio culturale, servizi sociali, cure della persone, ecc).

Per promuovere il lavoro e migliorare le condizioni della persona che lavora è necessario un Piano per la redistribuzione del tempo di lavoro. Le prospettive di crescita di medio periodo, dati i tempi necessari, anche nello scenario più favorevole, alla correzione di rotta della politica macro-economica, non consentono di riassorbire la disoccupazione. Non si tratta di fissare rigidi limiti all'orario di lavoro (le "35 ore"). Si tratta di: introdurre flessibilità nell'uscita dal lavoro per pensionamento e pensionamento part-time; incentivare il part-time e congedi parentali; eliminare gli incentivi allo "straordinario"; potenziare gli incentivi fiscali per i contratti di solidarietà (da finanziare mediante i risparmi di spesa per le indennità di disoccupazione e la Cassa Integrazione); promuovere l'introduzione del part-time agevolato e volontario; incentivare il rientro al lavoro delle donne ultra-quarantenni; potenziare, secondo i principi della sussidiarietà, i servizi alla famiglia (dagli asili nido all'assistenza agli anziani non-autosufficienti).

Le politiche industriali per il made in Italy innovativo e di qualità. Le linee guida del Jobs Act contengono un importante richiamo alle politiche industriali. L'obiettivo da perseguire è in un mix di politiche orientate, oltre che all'offerta, anche alla domanda perché l'intervento pubblico non può essere limitato alla mera "definizione del campo di gioco" o delle condizioni di contesto. L'emergenza è evitare l'impoverimento tecnologico del Paese: su Telecom Italia, il governo non può essere spettatore. Il programma di vendita di quote delle aziende pubbliche va rivisto e subordinato a specifici piani industriali. I proventi devono andare a finanziare il "Servizio civile per il lavoro", invece che a un'irrilevante riduzione di debito pubblico. È prioritario promuovere l'utilizzo intensivo di tecnologie digitali, con un focus sulla manifattura avanzata (new makers e stampe in 3D). E poi: beni comuni, salute e benessere delle persone; patrimonio paesaggistico e culturale; agroalimentare. Con la Politica Agricola Comunitaria 2014-2020 ed in vista di Expo Milano 2015, l'agroalimentare (vale 17% del Pil) va valorizzato con misure in grado di favorire l'internazionalizzazione, la competitività e la distintività.

Per attuare le strategie di politica industriale, è fondamentale chiarire la missione e potenziale la CdP, catalizzatrice anche di investitori istituzionali. Va costruita a livello del governo una cabina di regia per coordinare in una strategia di politica industriale le partecipazioni azionarie dello Stato. E un utilizzo della domanda pubblica di beni e servizi a livello nazionale e locale come motore di innovazione.

Tra gli obiettivi delle politiche industriali va inclusa anche la promozione dell'efficienza energetica, la bonifica dei siti industriali inquinati, la riqualificazione energetica degli edifici, sostenuta dal 2007 da crediti d'imposta ad hoc ma di carattere temporaneo.

Le riforme strutturali. Invocare una radicale correzione di rotta nell'euro-zona e proporre la redistribuzione dei tempi di lavoro non vuol dire evitare di affrontare i nostri deficit di riforme, necessarie ma costose in termini di consenso. La lista è nota. Richiamiamo i titoli (le proposte, oltre che in Progetti di Legge depositati, si possono trovare nel contributo del Pd al Programma Nazionale di Riforme dell'Italia del 2012): ricostruzione di partiti capaci di autonomia culturale e di formazione e selezione di classe dirigente adeguata; riforma delle istituzioni e della legge elettorale, come dalle iniziative in corso; affermazione del primato della legalità in ogni territorio del Paese; e poi giustizia, pubbliche amministrazioni, fisco, regolazione mercati e, in via emergenziale, il credito alle micro e piccole imprese. L'avvio del "Sistema Nazionale di Garanzia" (garanzia pubblica alla CdP per l'acquisto di crediti cartolarizzati alle pmi, potenziamento del Fondo Centrale di Garanzia e rifinanziamento dei Consorzi Fidi) previsto nella Legge di Stabilità per il 2014 va immediatamente reso operativo.

Per le riforme del mercato del lavoro e degli strumenti di sostegno al reddito, la legislazione sulla rappresentanza, i modelli di impresa e la partecipazione dei lavoratori alla governance delle imprese rinviamo al "Decalogo per il Jobs Act" preparato da "Lavoro e welfare", frutto dell'attività svolta nella scorsa legislatura dai gruppi parlamentari di Camera e Senato e dalla segreteria nazionale del Pd. Integriamo le proposte del richiamato Decalogo, con le seguenti:

    1. incentivazione del contratto a tempo indeterminato attraverso il minor costo della stabilità rispetto alla precarietà, ossia mediante la riduzione del cuneo contributivo (primo tassello di una complessiva riforma per spostare il carico fiscale dai redditi da lavoro ed impresa ai redditi da capitale);

    2. introduzione di un salario o compenso minimo, determinato in riferimento agli accordi tra le parti sociali, per i lavoratori e le lavoratrici escluse dai contratti collettivi nazionali di lavoro, per i contratti a progetto, stage;

    3. universalizzazione, dopo la fase di sperimentazione in corso, del Sostegno all'Integrazione Attiva, per combattere la povertà e l'esclusione sociale, in particolare la povertà estrema e minorile e promuovere l'inserimento o il re-inserimento al lavoro. Risoluzione strutturale della drammatica condizione degli esodati;

    4. trasformazione dell'indennità di maternità in diritto di cittadinanza e relativo finanziamento a carico della fiscalità generale; per incentivare l'occupazione femminile, maggiorazione della detrazione fiscale per il reddito da lavoro per le donne in nuclei famigliari con figli minori; superamento degli assegni famigliari e della detrazione per figli a carico ed introduzione di un contributo annuale di 3000 euro all'anno per ogni figlio fino alla maggiore età, a cominciare dalla fascia 0-3 anni, esteso anche ai lavoratori autonomi e professionisti. Sostegno al reddito e servizi alle mamme che hanno perso il lavoro.

Da - http://www.huffingtonpost.it/stefano-fassina/memo-x-il-programma-di-un_1_b_4751051.html?1391868996&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 28, 2014, 04:18:56 pm »

Leopolda, Stefano Fassina risponde a Matteo Renzi: "La scissione è in atto, il premier la alimenta"

Pubblicato: 26/10/2014 17:05 CET Aggiornato: 26/10/2014 20:19 CET
STEFANO FASSINA

A un certo punto della conversazione Stefano Fassina nomina la parola scissione: “Una scissione molecolare è in atto. Ieri abbiamo incontrato molte persone che ci hanno detto che hanno lasciato il Pd. Oggi dico che la dovremmo evitare. Ma è il presidente del Consiglio che alimenta la contrapposizione, ricercando un nemico”. La posizione è simile a quella che esprime il bersaniano Alfredo D'Attorre, il quale si domanda se sia Renzi ad auspicare una rotture e aggiunge che "se spera questo, se lo tolga dalla testa". Il discorso di Renzi alla Leopolda è appena finito. Fassina, di ritorno con i figli dallo zoo, pare stupito dai toni aspri: “Mi colpisce la straordinaria capacità che ha Renzi di evitare sistematicamente il merito. Mi sarei aspettato dal presidente del Consiglio alla sua prima uscita dopo l’approvazione della legge di stabilità che spiegasse i punti importanti del disegno di legge. E invece purtroppo ho sentito il solito comizio teso alla ricerca sistematica di un nemico da dare in pasto all’opinione pubblica”.

Andiamo con ordine. Renzi dice che il precariato non si sblocca con cortei. E che dovete farvene una ragione: il posto fisso non c’è più.
Guardi, che il posto fisso non c’è più lo abbiamo capito da 30 anni a questa parte. Il punto è se vogliamo archiviare insieme al posto fisso il tema della dignità della persona che lavora come un vecchio arnese del novecento.

Appunto, siamo sempre alla difesa dell’articolo 18. Lei, per dirla con Renzi, insiste a voler mettere il gettone nell’I Phone.
Se poi vogliamo fare le battute gli dico che anche il leader coreano Kim Jong-un, trentenne di successo, ha l’ultima versione dell’i-Phone… Ma converremo tutti che non è un modello di progresso. Con rispetto farei notare a Renzi che innovazione non è scopiazzare i conservatori con 30 anni di ritardo. Però al fondo vedo una mistificazione.

Quale?
La piazza non era solo sull’articolo 18. La piazza ha chiesto e ha proposto una politica economica alternativa all’agenda liberista portata avanti da un presidente che non indossa più il loden ma uno smagliante giubbotto di pelle. Ed è su quella agenda che Renzi non vuole rispondere. Che sinistra è quella che dà 80 euro al mese a chi ha 90 mila euro di reddito annuo e non dà nulla a chi è in povertà assoluta o a una partita iva senza lavoro?

Non giriamoci attorno: voterà il jobs act?
Non ci giro attorno. Senza correzioni significative, no. Così com’è la delega lavoro aggrava la precarietà e la conferma arriva dalla legge di stabilità che nonostante le promesse non ha risorse aggiuntive per ammortizzatori e precari. Questo è il merito su cui il presidente del Consiglio evita il confronto.

La legge di stabilità individua per il 2015 meno risorse per gli ammortizzatori di quante ce n’erano nel 2014 per la sola cassa in deroga. La legge dunque smentisce le promesse del premier. E i meriti che si attribuisce non sono novità. Vorrei ricordare che l’indennità di maternità universale fu introdotta da Livia Turco nel corso del primo governo Prodi nel ’97.

Scusi Fassina, torniamo al jobs act. Alla Leopolda sia Renzi sia Poletti hanno dichiarato che si introduce il contratto unico a tempo indeterminato.
Il contratto unico non c’è nella delega lavoro. Basta leggerla. Nella delega si va sulla piattaforma Sacconi-Ichino: si elimina l’articolo 18 ma senza disboscamento della giungla contrattuale. E, insisto, nella legge di stabilità non vi sono risorse aggiuntive sugli ammortizzatori sociali. Le due cose configurano un clamoroso raggiro di tanti giovani che vivono condizioni di precarietà. Sono utilizzati come scudi umani per continuare a colpire le condizioni del lavoro.

Bene, se Renzi pone il voto di fiducia come al Senato?
Per quanto mi riguarda vale il merito. Se non cambia il merito significativamente non voto la delega lavoro.

Capisce però che in un partito ci deve essere un minimo di disciplina.
Non accetto lezioni di disciplina di partito da chi ad aprile 2013 di fronte a un passaggio decisivo per la legislatura come l’elezione del capo dello Stato non solo votò in maniera difforme dall’indicazione del suo gruppo ma si attivò per far saltare il tavolo.

Ricapitoliamo. Lei ha partecipato a un corteo contro il governo. Renzi alla Leopolda si è scagliato contro il corteo. Siamo alle prove di scissione?
Una scissione molecolare è in atto. Ieri abbiamo incontrato molte persone che ci hanno detto che hanno lasciato il Pd. Oggi dico che la dovremmo evitare. Ma il presidente del Consiglio alimenta la contrapposizione.

Sta dicendo che Renzi cerca di farvi uscire dal Pd?
Il discorso di oggi non è quello di chi vuole ascoltare ragioni diverse dalle sue. Il segretario del partito dovrebbe essere di tutto il partito, il primo interessato a costruire una mediazione.

Renzi ha rivendicato con orgoglio di interpretare una linea di sinistra?
Quando c’è qualcuno che propone di intervenite sul diritto di sciopero, che chiede provvedimenti per sostenere le banche e vuole l’iscrizione al Pd forse la nostra collocazione a sinistra va verificata.


Il caso Serra.
È l’indicazione che la collocazione del Pd va quantomeno verificata.

Se questa è la situazione che state a fare insieme? Scusi, ma perché non ve ne andate?
Certamente ci sono visioni diverse. Ma resto convinto che dovremmo trovare una sintesi perché quella che viene considerata una minoranza fuori dal Palazzo ha riferimenti sociali ed economici significativi, come si è visto dalla manifestazione.

Fassina, concludiamo così. Lei dice: “Io resto nel Pd fino a…”.
Resto nel Pd e chiedo al segretario di costruire le condizioni per una convivenza. Se non creare le condizioni per una convivenza finisce il Pd e diventa il partito dell’establishment.

Una “Forza Renzi”?
Buona questa.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2014/10/26/leopolda-fassina-renzi_n_6049858.html?1414339524&utm_hp_ref=italy
« Ultima modifica: Novembre 25, 2014, 04:41:14 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #14 inserito:: Novembre 25, 2014, 04:42:02 pm »

Dal Pd a Forza Italia, l'esito delle Regionali 'accende' le minoranze interne
Dopo il flop dell'affluenza, in casa dem Fassina avverte: "Renzi è autolesionista se non guarda la realtà".
In Emilia la Lega doppia i berlusconiani e Fitto attacca: "Azzerare tutte le nomine nel partito"

24 novembre 2014
   
ROMA - Dal Partito democratico a Forza Italia, il day after delle elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria scatena le reazioni delle minoranze interne ai due partiti. Il flop sul fronte dell'affluenza - mai nel 'cuore rosso' dell'Italia l'astensione aveva raggiunto percentuali così basse (video) - e i risultati in termini di (scarso) consenso portati a casa dai berlusconiani hanno 'acceso' gli animi delle due opposizioni intestine.

Tra i primi a parlare in casa dem c'è il deputato Stefano Fassina che parla di dati "preoccupanti" e attacca: "Minimizzare o addirittura cercare conforto con l'invenzione dei risultati di chi sostiene lo sciopero del 12 dicembre è autolesionismo. Larga parte del Pd che non è andata a votare non condivide le misure del governo sul lavoro, nonostante la propaganda a reti unificate. Renzi guardi in faccia la realtà e ascolti un minimo le posizioni diverse dalle sue". Su Twitter il presidente del Consiglio stamani aveva sottolineato la "vittoria netta" in un post.

L'esponente della minoranza Pd fa poi "i migliori auguri di buon lavoro a Stefano e Mario (Bonaccini e Oliverio, ndr)", per poi aggiungere: "Oltre alla loro vittoria, dobbiamo rilevare i dati drammatici dell'astensione e i risultati molto preoccupanti per il Pd. E' evidente che nel voto vi è una componente specifica ma è altrettanto evidente il messaggio al governo Renzi. In Emilia Romagna abbiamo perso oltre la metà dei voti del 25 maggio, circa 700mila in meno, e oltre 300mila in meno delle regionali del 2010. Una parte molto rilevante del popolo del Pd, che aveva creduto alle aspettative e alle promesse di Renzi, ora è profondamente delusa, non condivide i continui attacchi al mondo del lavoro, si allontana da un Pd riposizionato verso gli interessi più forti. Chiede radicali correzioni di rotta".

A Fassina fa eco la vicepresidente del Nazareno, Sandra Zampa: "Per le sue dimensioni, il fenomeno dell'astensione è estremamente grave. Esso consegna al Pd e a tutti coloro che hanno a cuore i destini della democrazia un problema da affrontare con urgenza e verità". Secondo Zampa, se da un lato "Bonaccini dovrà recuperare la fiducia dei cittadini emiliano romagnoli e lavorare per restituire alla Regione l'autorevolezza e la credibilità persa" dall'altro "soprattutto e subito, nel Pd si deve aprire una vera riflessione per comprendere tutte le ragioni di una situazione inedita per l'Emilia Romagna: il popolo democratico ha certamente rivolto un messaggio alla classe dirigente del partito. Non possiamo ignorarlo se abbiamo a cuore la democrazia, primo e superiore bene".

In casa Fi, invece, è l'europarlamentare Raffaele Fitto a cogliere la palla al balzo per chiedere l'azzeramento di tutti gli incarichi: "Mi auguro - dice - che nessuno si azzardi a minimizzare o a cercare alibi per il nostro drammatico risultato in Calabria e in Emilia Romagna, regione in cui siamo stati addirittura doppiati dalla Lega".

Il mondo berlusconiano diviso in correnti, come la vecchia Dc: ecco le fazioni dentro Forza Italia
"E sarà bene ricordare - prosegue -, passo dopo passo, tempi e modalità delle scelte che sono state compiute (con clamorosi errori) per definire le candidature e le alleanze. Non abbiamo il diritto di nasconderci dietro l'astensione, che colpisce soprattutto noi, aggravando la tendenza già manifestatasi alle Europee" di maggio. "A questo punto, mi pare il minimo azzerare tutte le nomine, per dare il via a una fase di vero rinnovamento. Basta con le nomine, basta con i gruppi autoreferenziali che hanno determinato in questi mesi una politica e una comunicazione inefficaci e prive di qualunque credibilità, bocciate senza appello dai nostri elettori. E soprattutto basta con una linea politica incomprensibile, ambigua, che oscilla tra l'appiattimento assoluto verso il governo nei giorni pari, e gli insulti al governo nei giorni dispari. Serve un'opposizione che sfidi il governo in positivo predisponendo e organizzando una chiara alternativa. Forza Italia deve letteralmente rifondarsi".

© Riproduzione riservata 24 novembre 2014

DA - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/24/news/dal_pd_a_forza_italia_l_esito_delle_regionali_accende_le_minoranze_interne-101289454/?ref=HREA-1
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