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Autore Discussione: Luigi Cancrini. Patologia di «er Vampiro»  (Letto 2586 volte)
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« inserito:: Febbraio 29, 2008, 06:32:36 pm »

Patologia di «er Vampiro»

Luigi Cancrini


Er vampiro ha problemi. Gli è morta la nonna nella notte ma mentre in casa si piange lui si aggiusta per la serata. «Vojo brucià tutto. Stasera vojo brucià tutto». Lo scrive Carlo Bonini su la Repubblica . Proponendo una sintesi efficace, a proposito «der vampiro», di quella che è la convinzione attuale di tanti studiosi a proposito delle persone che presentano, come lui, un disturbo antisociale di personalità: persone ubriache di rabbia e di frustrazioni, la cui sostanziale incapacità di affrontare normali problemi della vita si trasforma, giorno dopo giorno, in un odio contro tutto e contro tutti.

Persone, che fuggono da se stesse prima che dagli altri. Che funzionano continuativamente e furiosamente a un livello borderline. Che vivono, mentalmente, all’interno di una guerra personale o di gruppo contro il nemico che è il mondo e che lo guardano, il mondo da cui si sentono accerchiati e oppressi, con gli occhi del bambino pieno di rabbia e pieno di paura.

La mia professione mi mette spesso in contatto con questo tipo di persone e di situazioni. A distanza di anni, quando alcuni di loro riescono a rendersi conto di quello che hanno fatto ma anche nel tempo della loro follia, quando l’occasione dell’incontro è l’incidente fisico o legale che li costringe a fermarsi e a chiedere aiuto. Mettendo di fronte il terapeuta, inaspettatamente, a uno strano tipo di cucciolo cresciuto male, disorientato dalla impossibilità di muoversi che lo costringe a pensare, disorientante per la sua incapacità di parlare e per l’ingenuità delle sue argomentazioni. Perché c’è sempre un bambino infelice e rabbioso dietro al portatore di un disturbo antisociale di personalità e perché importante è saperlo quando si pensa di voler davvero affrontare il problema.

Sono gli studi sull’infanzia negata di tanti di questi ragazzi quelli su cui sarebbe importante mettere più attenzione di quella che mettiamo abitualmente quando parliamo di ultras e di bande giovanili più o meno apertamente criminali. Sta nella miscela velenosa, di negligenza per il bambino reale e di eccesso di attenzione per il bambino che esiste solo nella fantasia e nelle aspettative dei genitori più sprovveduti, l’origine lontana di tante moderne devianze adolescenziali. Come bene è dimostrato, in fondo, dal modo in cui assurdamente tante famiglie reagiscono al poliziotto, al giudice o all’insegnante che interviene contro il ragazzo: senza rendersi conto del modo in cui la patologia del figlio si aggrava, immediatamente e drammaticamente, quando loro si schierano con lui. Cercando magari l’aiuto dei più abili fra gli avvocati per evitargli la sconfitta del giudizio e il dolore della pena e bene illustrando, con l’assurdità di questa loro reazione, la responsabilità che hanno avuto nella costruzione del piccolo mostro di vanità e di violenza di cui non sono in grado neanche oggi di raccogliere la difficoltà. Mimando un affetto che non c’è perché non si può mai voler bene ad un figlio che non si riesce a vedere e continuando ad alimentare il delirio di chi può continuare ad evitare il confronto con sé stesso solo se riesce a sentirsi il martire di un’ingiustizia. Sviluppando un processo della cui gravità spesso non ci si rende conto nei tribunali dove ci si accanisce sulla cattiveria o sulla patologia della persona: senza tenere conto sufficientemente del luogo interpersonale e sociale in cui i suoi comportamenti folli sono nati e continuano a rinforzarsi e scioccamente trascurando, in questo modo, la possibilità di aiutarlo sul serio.

Insisto su questo punto con forza per un motivo semplice. C’è, in articoli come quelli di Repubblica sugli ultras della Lazio legati all’estrema destra più violenta e più sconclusionata della capitale, sulla gente «che pensa di sfruttare il palcoscenico offerto dalla partita di calcio per dare risonanza mediatica ad una violenza senza contenuti», una sorta di compiacimento ammiccante verso un lettore di cui si suppone si senta e sia diverso da loro. C’è un piacere difensivo, voglio dire, nella descrizione degli orrori e della stupidità cui possono arrivare solo gli esponenti del tifo e del fascismo più primitivo e più settario. Orrori e stupidità da cui chi scrive si distacca sottolineando la propria diversità culturale e politica in un clima di sostanziale rassegnazione: suggerendo che poco o nulla ci sia da fare, cioè, di fronte ad aberrazioni tanto gravi oltre alla punizione di cui si pensa e si auspica, ovviamente, che sia la più severa e la più lunga possibile. Anche se quello che poi si fa, per evitare l’accusa di razzismo alla rovescia (una specie di razzismo contro i razzisti) è il tentativo sociologico di confondere la specificità delle storie in un discorso più o meno confuso sulla società senza ideali di cui altro non sono, questi «ribelli senza bandiera», che riflessi allo specchio.

Per quello che mi riguarda so di non essere «politicamente corretto» ma quella che sento nei confronti di tutte queste persone è soprattutto una grande pena del loro modo di essere sguaiato e ridicolo. Del bambino infelice che si portano dentro senza saperlo. Dei loro soprannomi infantili e della povertà apparentemente senza rimedio dei loro gusti e della loro vita. Incontrato da solo, penso, ognuno di loro ha ancora intatto dentro di sé quell’insieme miracoloso di risorse che c’è (se lo si sa cercare, se si ha il tempo di cercarlo) in ogni essere umano. Proponendo, anche per degli ultras che sanno desiderare solo di «sparare in faccia agli sbirri», la possibilità di un intervento in senso lato terapeutico: possibile solo se li si ferma, ovviamente, inchiodandoli alle loro responsabilità; senza farsi illusione alcuna, tuttavia, del fatto che questo tipo di intervento repressivo, pur necessario, sia sufficiente da solo


Pubblicato il: 29.02.08
Modificato il: 29.02.08 alle ore 13.07   
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