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Autore Discussione: ANTONIO SCURATI.  (Letto 14524 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Luglio 25, 2011, 12:01:38 pm »

24/7/2011

La verità che non vediamo

ANTONIO SCURATI

I giornali si chiamano così perché durano solo un giorno. Leggendoli ieri, abbiamo pensato che l’Occidente fosse di nuovo sotto attacco da parte del terrorismo islamico mediorientale, suo acerrimo nemico esterno dell’ultimo decennio. Leggendoli oggi scopriamo, invece, che a colpire l’Occidente, devastando il centro di Oslo, è stato l’Occidente stesso, maleficamente incarnatosi in Anders Behring Breivik, giovane, alto, biondo, appassionato di caccia, videogiochi di guerra e di John Stuart Mill, single, cristiano fondamentalista e conservatore per sua stessa definizione, fanatico, xenofobo e stragista per tragica deduzione. Ieri, dunque, a colpirci pareva esser stato l’islamismo, oggi, soltanto ventiquattro ore dopo, appare certo sia stato invece l’antislamismo. Ieri l’arabo musulmano basso, olivastro e segaligno, oggi il bianco caucasico massiccio e imponente. Ieri il nemico esterno, oggi quello interno. E domani? Chi ci colpirà domani?

La risposta dipende molto dalle forme che vanno assumendo le nostre paure.
Come si è potuti passare, nel volgere di una notte e di un mattino, dalla fuorviante quasi certezza riguardo alla matrice qaedista - «Era naturale che sarebbero arrivati fino a qui», dichiarava ieri, riferendosi a fantomatici terroristi islamici, Stale Ulriksen, capo di un’agenzia governativa per la sicurezza - alla agghiacciante smentita?

Che cosa significa il fatto che, da molto tempo a questa parte, ogni volta che udiamo un’esplosione ci voltiamo istintivamente verso Oriente come il fedele che si rivolga alla Mecca? Quale avvenire riserva il destino a un popolo che cerchi sempre e ossessivamente l’origine del male oltre i propri confini? Dove ha condotto e dove condurrà l’Occidente la paranoia mediorientale?

Saranno oramai dieci anni a settembre che viviamo sotto l’oppressione di una muta da panico. Nelle prime pagine del romanzo di Marcel Beyer, «Le forme originarie della paura», si suggerisce un paragone etologico per la paura umana: spesso i cardellini, quando odono uno sparo, anche se non colpiti lasciano cadere cospicui ciuffi di penne imitando gli effetti della ferita. Qualunque sia la provenienza, la traiettoria e la destinazione del proiettile, la loro risposta è sempre la stessa: il trauma, la ferita. Talora, sebbene incolumi, non sopravvivono alla muta. Ecco, noi negli ultimi dieci anni abbiamo vissuto proprio così: cardellini scossi da ripetute mute da panico. Ogni volta che è risuonato uno sparo nel cielo, la psiche collettiva ha risposto con il trauma da attacco terroristico mediorientale. Il nemico esterno, straniero, estraneo, ci stava dando la caccia.

Non abbiamo sempre reagito così in passato. Tutti gli Anni 50 e 60 sono stati dominati da questa stessa forma di paura esternalizzante. Il mondo suddiviso in blocchi induceva a proiettare ogni male sul nemico comunista esterno, applicando il paradigma proiezione-esclusione (tutto il male viene da fuori, nessuno deve venire da fuori) e paventando l’invasione (da qui anche la fortuna della fantascienza). Ma già a cominciare dai ’70 quel paradigma è stato scalzato da quello del «nemico in casa».

I feroci comunisti oramai crescevano nelle nostre dimore, erano i nostri figli ideologicamente traviati, i terroristi nostrani. Di questo passo la paura si «internalizzava». Tramontato il terrorista autoctono, a subentrargli nell’immaginario del terrore furono altri nemici interni: i serial killer psicopatici alienati dalla vita metropolitana iperconsumista (oppure ancora i nostri figli adolescenti alienati da quella stessa vita ma in cerca della nostra eredità). La vergognosa menzogna con cui la destra spagnola cercò di strumentalizzare le stragi di Atocha attribuendole all’Eta segnò l’ultima occasione in cui si cercò di riesumare il paradigma introiezione-eliminazione a discapito di quello proiezione-esclusione. Non funzionò. La mossa fallì anche perché cadeva nel pieno di un decennio tutto consacrato al «nemico esterno».

La reazione psico-mediatica all’attentato di Oslo ci dice che, purtroppo, non siamo ancora usciti da quel decennio. E allora torna l’interrogativo di prima: che effetti sta producendo sulla nostra comunità il perdurare di questa forma di paura? L’effetto principale va ricercato nella rimozione di una verità inconfessabile che il paradigma proiezione-esclusione porta sempre con sé. A volte questa rimozione si spinge fino alla denegazione: la verità è lì, davanti agli occhi di tutti, eppure ci si ostina a non vederla. In questo caso, la verità denegata è che buona parte del sentimento e del pensiero reazionario della destra europea - soprattutto quella nordica ma non solo - è fortemente tentato da una deriva violenta, xenofoba e razzista. E’ questo il nemico interno occultato e alimentato dal fantasma del nemico esterno. Diciamolo chiaramente: la guerra tra le razze, che afflisse la parte centrale della storia europea del XX secolo, si affaccia di nuovo all’orizzonte del XXI. Lo spettro del neonazismo si aggira ancora per l’Europa.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9013
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« Risposta #16 inserito:: Settembre 12, 2011, 03:50:08 pm »

Cultura

12/09/2011 -

Il nuovo libro di Scurati - Venezia affonda e riemerge in Cina

"La seconda mezzanotte" immagina che la Laguna sprofondi nel 2072 e che Pechino la trasformi in un’arena

In anteprima il nuovo romanzo, ambientato in un futuro apocalittico alla fine del XXI secolo


ANTONIO SCURATI

Si intitola La seconda mezzanotte il nuovo romanzo di Antonio Scurati, in uscita mercoledì per Bompiani (pp. 550, 19), di cui anticipiamo qui una parte del prologo. Collocato nel 2092, in un mondo post-catastrofe sprofondato nella barbarie ipertecnologica, il racconto si svolge in una Venezia colonizzata dai cinesi, nuovi signori del pianeta, che l’hanno trasformata in una sorta di Las Vegas, teatro di cruente lotte gladiatorie. Su tutto, si stagliano le figure ribelli di due guerrieri che non hanno perso la memoria di com’era la vita una volta. Una storia apocalittica e insieme realistica, che farà guardare con occhi nuovi anche il mondo di oggi. Scurati presenterà il suo libro in prima assoluta sabato a Pordenone (ore 17, piazza San Marco), nella penultima giornata del festival Pordenonelegge, al via giovedì 14.

Alla fine la sera occidentale era arrivata, ma gradualmente, e noi non ce n’eravamo nemmeno accorti. La mattina seguente ci eravamo svegliati e non sapevamo più riconoscere la nostra immagine allo specchio. Eppure non potevamo chiamare le nostre mogli o i nostri figli per rammentarci chi eravamo, perché dalle mogli avevamo divorziato e figli non ne avevamo.

Allora, semplicemente, ci siamo voltati indietro e abbiamo scoperto che ci trovavamo già a valle del punto di rottura. La catastrofe era stata a lungo un evento che andava compiendosi, ma noi non avevamo avuto occhi per vederla né orecchie per udirla: era stata una catastrofe al rallentatore. E così, in calce a tutto il resto, dovemmo scoprire che perfino l’apocalisse aveva fatto ben poco rumore.

A Venezia, la notte tra l’8 e il 9 novembre del 2072 il mare entrò in laguna dai varchi aperti lungo i litorali, attraverso i sottopassi alberghieri, superando i cordoni litoranei, rigurgitando i fiumi e sormontando, infine, le difese murarie. L’onda si franse contro la facciata di Palazzo Ducale, poi si abbatté sugli uomini annegati assieme ai cani, ai topi, agli uccelli, tra i tavoli e le poltroncine in vimini dei bar e sui televisori che galleggiavano in impietose correnti di deriva. Nelle ore successive i pochi medici sopravvissuti, attendati nell’ospedale da campo allestito dentro lo stadio di Sant’Elena, dovettero decidere quali feriti curare e quali lasciar morire.

Da qualche parte, su a Nord, accompagnata dai rombi di laghi glaciali che si svuotavano nei fiumi artici, la calotta polare precipitava a mare. Più a Sud, molto più a sud, un altro mare si era tuffato in laguna. La laguna era affogata.

Venezia, dopo un millennio di vita anfibia, si era di nuovo impaludata in una zona morta.

Le dighe interne vennero alzate una decina d’anni dopo, quando i manager della Tnc – il colosso cinese di telecomunicazione, informazione ed entertainment controllato dai burocrati del Partito –, mettendo fine al periodo di abbandono seguito alla Grande onda, acquistarono il relitto della città dal governo del Nord Italia, di fatto un protettorato di Pechino da quando i cinesi ne avevano rilevato l’intero debito pubblico. Con la rifondazione di Nova Venezia, fu così istituita la prima delle molte Zone politicamente autonome che l’egemonia cinese avrebbe poi disseminato lungo le coste del Mediterraneo ed entro i territori un tempo appartenuti agli stati nazionali dell’Europa meridionale.

Rifluite le acque salmastre che, sormontando le dighe a mare, avevano sommerso la vecchia Venezia, i pochi superstiti furono acquistati assieme alle macerie dei palazzi in cui un tempo erano vissuti. Strappati a un’esistenza ferina, accasermati nei pressi degli antichi arsenali, furono impiegati nella ricostruzione della città emersa. Un’area che, grossomodo, coincideva con l’antico sestiere di San Marco, più una parte di Castello e un lembo di Cannaregio, fino a inglobare il ponte di Rialto. Lì furono drenati i fanghi, scavati i rii, innalzate le fondamenta. Le dighe interne e il Muro di separazione fecero il resto: nessun fossato, nessuna torre di controllo, nessun varco di passaggio si rese necessario. Soltanto una barriera di mattoni a vista alta otto metri, un argine camuffato da edificio antico che serpeggiava nel ventre della città seguendo un percorso segmentato, scomparendo dietro i palazzi e riapparendo nei canali interrati.

Ciò che cadeva oltre quella linea fu ceduto alla palude. Da allora nessuno vi mise più piede. La città sommersa, ammesso che esistesse ancora, esisteva solo nelle leggende delle taverne dove trascorrevano le loro giornate di mangiatori d’oppio i reduci dell’alluvione.

Nova Venezia fu così rifondata come un territorio senza orizzonte. Il vomere aveva nuovamente segnato il confine tra la natura selvaggia e gli uomini. Il solco, però, non era stato tracciato con l’aiuto di buoi sacri ma con le scavatrici meccaniche.

La cupola del Superdome fu inaugurata con una cerimonia solenne in tempo per il decennale della Grande onda. Un immenso emisfero in vetrocemento. Una mezza sfera plasmata grazie ai materiali messi a punto la prima volta per il padiglione italiano dell’Expo di Shanghai nel 2010. Miracolosi per tenuta, trasparenza, levità. Poggiata su una base quadrata – il molo a meridione, il rio di San Zulian a oriente, la calle dell’Ascensione a occidente e una perpendicolare della calle dei Fabbri a settentrione –, la cupola sovrastava l’intero complesso di piazza San Marco, più un piccolo rettangolo di edifici a nord delle Procuratie Vecchie. Con il campanile di San Marco ricostruito dalle macerie a fare da ideale asse centrale nel punto più alto. Il palo di collegamento tra la terra e il cielo. Un cielo finto.

Racchiudendo l’intero complesso di San Marco entro un guscio cementizio, la Tnc celebrò la rinascita della città trasformandola in una fosforescente necropoli apogea. Calando su di essa, la cupola tagliò piazza San Marco fuori dall’atmosfera acida che corrodeva la pianura padana e, soprattutto, fuori dalla storia. Le conferì una nuova grandezza, una monumentalità non temporanea ma tutta mirata al presente. Un istante presente replicabile all’infinito. Ne fece, insomma, la rovina definitiva.

Quella caverna radiosa divenne immediatamente un simbolo mondiale del nuovo mondo. Da quel momento in avanti, tutti gli uomini più ricchi e potenti del pianeta desiderarono, almeno una volta nella vita, di poter trascorrere una breve vacanza di lussi estremi e vizi efferati in quell’ambiente modificato e protetto. Il secolo cinese, inglobando le cinque cupole in piombo e oro della basilica di San Marco sotto quell’unica calotta in cemento trasparente, aveva elevato una maestosa cattedrale sorretta dall’aria condizionata. Un tempio in cui si consumavano riti di sangue.

Ben presto, infatti, il Superdome divenne il più prestigioso tra i tanti teatri della violenza che andavano sorgendo lungo tutta la Fascia di acclimatazione, nome con cui i tecnocrati della Tnc avevano ribattezzato l’alto bacino del Mediterraneo smottato verso condizioni climatiche nordafricane. Nizza, Santorini, Spalato, Formentera, Salonicco seguirono l’esempio di Nova Venezia, ma senza mai contenderle il primato. Fin dal giorno del completamento dei lavori, a più riprese durante l’anno, grazie a strutture effimere montate per l’occasione la grande piazza antistante la Basilica prese a essere trasformata in una gigantesca arena gladiatoria. Il nuovo Colosseo: un teatro della ferocia e del furore cui venne accordata, però, la grazia di un clima delizioso. Nel mondo lasciato sulla riva dalla risacca della Grande onda il comfort era, infatti, oramai la sola forma di giustizia.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/419786/
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« Risposta #17 inserito:: Ottobre 06, 2011, 09:28:43 am »

6/10/2011

Non voglio morire cinese

ANTONIO SCURATI

Non so voi ma io non avrei nessuna voglia di morire cinese. E, per come si mettono le cose, a questo punto la probabilità è piuttosto alta.

Giusto a metà settembre, proprio mentre tutto cominciava a precipitare verso il disastro nelle regioni meridionali d’Europa, nel corso dell’annuale convegno del World Economic Forum che dal 2007 si svolge - guarda caso - in Cina (quest’anno intitolato «New Champions 2011»!) il premier Wen Jabao annunciava che la Cina avrebbe continuato ad aumentare i propri investimenti nel «vecchio» continente. Con tempismo sinistro, nei giorni precedenti erano circolate voci insistenti sulle intenzioni di acquisto massiccio da parte cinese di buoni del Tesoro italiano, avvalorate dal viaggio a Roma del presidente della China Investment Corp, uno dei più ricchi fondi d’investimento del mondo, venuto in riva al Tevere per valutare significativi investimenti in società strategiche del nostro Paese. Da allora non passa giorno senza che tutti noi ci si chieda se i cinesi ci stiano salvando o invadendo.

Nel mio caso la domanda si fa piuttosto inquietante avendo io dato alle stampe un romanzo - La seconda mezzanotte , pubblicato per decreto del fato proprio il 14 settembre mentre le agenzie di stampa battevano la notizia degli annunci di Wen Jabao - in cui si prevede che nel 2092 l’Italia diverrà un Paese satellite della Cina dopo averle ceduto il suo intero debito estero e Venezia, acquistata da una azienda transnazionale di Pechino a seguito di una terribile alluvione, verrà rifondata come Zona Politicamente Autonoma e consegnata a un destino di parco giochi per il lusso e i vizi sfrenati dei nuovi ricchi orientali. Nel mio caso, dunque, a domanda inquietante si dà risposta inquietante. Lo dico quasi con una punta di dispetto (oltre che di sconforto): se cominciare a scrivere tre anni fa un romanzo apocalittico sul futuro dell’Italia (e di tutta l’Europa mediterranea) significava essere sfrenatamente visionari, pubblicarlo oggi significa essere banalmente realisti. Sì, perché tre anni or sono, è bene non dimenticarlo, l’Italia si riconsegnava, con una maggioranza parlamentare senza precedenti, all’uomo che da trent’anni aveva fatto del falso ottimismo forzoso la lugubrebandiera della nostra autentica decadenza.

Catastrofismi letterari a parte, a me pare, però, del tutto evidente che l’avvento di una ipotetica sovranità politico-finanziaria cinese sulle nostre antiche terre precipiterebbe il declino della civiltà europea per come l’abbiamo conosciuta, sognata e amata (magari anche solo idealmente). Temo che rappresenti una grave minaccia per i fondamenti culturali della civilizzazione occidentale europea moderna: sovranità politica del popolo, libertà di pensiero e d’espressione, diritti dei lavoratori e del cittadino, autonomia dell’individuo, solidarietà tra gli individui riuniti in società, valore della persona, sicurezza alimentare, sacralità della vita. Lo temo non solo perché ho ancora negli occhi quel ragazzo che in piazza Tienanmen affrontò un tank armato solo di due flosci sacchetti della spesa (il ragazzo era anche lui cinese, non va dimenticato), o perché preveda un conflitto di civiltà tra Europa e Cina ma perché mi spaventa la deriva di un capitalismo finanziario, di cui i fondi sovrani cinesi rappresentano oggi una punta avanzata, un uso del capitale nato per finanziare il lavoro e l’impresa ma finito con l’affossarla. Se in un futuro prossimo la politica non dovesse riuscire a ripercorrere all’indietro il cammino che l’ha condotta dalla sovranità all’oscenità, il rischio è davvero che in un futuro nemmeno tanto remoto si scateni un gigantesco conflitto di interessi tra gli interessi speculativi della finanza apolide - e qui che sia cinese, americana o nostrana poco importa - e i bisogni, le legittime aspettative,le speranze di noi tutti.

* Antonio Scurati presenterà il suo nuovo libro «La seconda mezzanotte» oggi alle 18 al Circolo dei Lettori di Torino con Mario Calabresi e Giorgio Vasta

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9285
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« Risposta #18 inserito:: Aprile 17, 2012, 12:00:16 pm »

17/4/2012

La Sindrome di Oslo

ANTONIO SCURATI

Sono uno scrittore. Chi proclama con orgoglio stentoreo al cospetto del mondo un onore tanto dubbio? Chi s’insuperbisce per così poco? Forse il romanziere misconosciuto, colto da un raptus di solitaria esaltazione nella sua soffitta mal aerata?

Oppure il deejay baciato da smodato successo di vendite mai la fortuna fu dea più bendata - per aver messo su carta la sua chiacchiera radiofonica?

Né l’uno né l’altro. A dichiararsi tale è Anders Behring Breivik, il militante di estrema destra norvegese responsabile delle stragi di Oslo e Utoya costate la vita a 77 ragazze e ragazzi inermi, primaverili, moderatamente fiduciosi nell’avvenire.

«Sono uno scrittore». Breivik lo dichiara davanti al tribunale che da ieri lo processa. Lo fa subito. E’ la prima cosa che dice presentandosi al cospetto del tribunale e al cospetto dell’intero Paese da lui martirizzato. Il procedimento a suo carico viene, infatti, trasmesso in diretta televisiva da monitor a circuito chiuso in altre diciassette procure disseminate in tutta la nazione norvegese, nonché dai media del mondo intero. Con quelle tre parole di auto-identificazione, il delirante assassino dà inizio a un teatro fatto di saluti camerateschi, proclami farseschi, commozioni improvvise, invettive roboanti e annunci apocalittici. Uno show iniziato ieri e lungo, verosimilmente, quanto l’intero processo. Il video del suo ingresso in aula è, infatti, accompagnato da un ronzio insistente fuori campo, quasi un rumore di basso continuo: è il concerto dei motori delle macchine fotografiche che scattano a ciclo continuo.

La reazione più sana di fronte a tutto questo sarebbe probabilmente di ignorarlo. Coglierne per un istante l’aspetto grottesco e poi voltarsi dall’altra parte. Ma non accadrà. Daremo retta, a lungo e a milioni, all’affabulazione demente di questo uomo atroce auto-proclamatosi «scrittore». E, così facendo, gli daremo in parte ragione. La nostra spasmodica attenzione riconoscerà che il suo orribile atto criminale proviene da e ritorna a un immaginario finzionalizzato. E’ figlio cioè di un mondo scivolato senza accorgersene in una zona di confusione tra sogni, miti e finzioni narrative, un mondo che comincia con il delirio paranoide di un potenziale assassino e finisce con le suggestioni esercitate sulle masse di telespettatori globali dalle sue fanfaronate, un mondo in cui la progressiva sfocatura dei confini tra realtà e finzione presenta a un capo del processo di comunicazione un caso di indistinzione psicotica e all’altro un caso speculare di indistinzione mediatica. Nel mezzo, la realtà è solo un pretesto, un labile punto d’appoggio per far girare la ruota impazzita. Anche quando la realtà sia la morte atroce di 77 giovani innocenti.

Insomma, standolo a sentire, stiamo riconoscendo a Breivik la facoltà di influenzare il nostro immaginario collettivo, prerogativa di alcuni, pochi, grandi scrittori. Inoltre, la nostra spasmodica attenzione, se non arriverà ad attribuire a Breivik il rango di autore in prima persona di narrazioni influenti, sicuramente ne farà un oggetto privilegiato di esse: infiniti racconti lo eleveranno al rango di propria materia d’elezione. Racconteremo di lui, a lungo e diffusamente, e ci staremo ad ascoltare. Così il criminale demoniaco parlerà per tramite nostro, ventriloqui del mostro.

E’ una storia che viene da lontano. Nella sua versione attuale comincia probabilmente nel luglio del 1970 in California, quando Charles Manson si presenta con una X incisa sulla fronte alla prima delle moltissime udienze preliminari del lunghissimo processo show intentato a lui e alla sua banda per il massacro di Cielo Drive. Anche prima di allora l’interesse per i processi ai criminali efferati era stata molto forte ma da quel momento in avanti il pluriomicida diventa una figura centrale di una celebrity culture uscita di senno, risucchiata nella perdita di quello stesso principio di realtà che è sempre stata all’origine dei crimini medesimi. Ben presto anche il pluriomicida con motivazioni politiche - il nostro terrorista quotidiano entrerà in questo girone infernale. Di lì a poco, primo fra tutti sarà Ilich Ramirez Sanchez, meglio noto come Carlos «Lo sciacallo». Il primo di una lunga serie, purtroppo.

Facile, oramai, per noi individuare le dinamiche di questi fenomeni. Difficile, invece, trovarvi un qualsiasi senso. C’è, però, sicuramente il fatto inoppugnabile di una psiche occidentale rimasta vittima di una colossale Sindrome di Stoccolma: ci invaghiamo dei nostri carnefici. Pendiamo dalle loro labbra in attesa di parole rivelatrici. Contempliamo, sgomenti e sedotti, chi ci conficca nella posizione della vittima.

Non riesco davvero a spiegarmi perché lo si faccia. So, però, che l’alternativa a questo colossale autoinganno è una verità ben più dura da sopportare. La verità è che questi assassini diabolici, questi grandi uccisori titanici non hanno proprio niente da dire, nessuna storia da raccontare.

«L’ultima volta che ho visto quest’uomo di persona stava sparando a un mio amico». Così ha commentato l’ingresso teatrale in aula di Breivik un ragazzo scampato alla strage. Dovremmo tutti attenerci alla tragica, lapidaria saggezza di questo commento. La storia di quella ignobile canaglia comincia e finisce lì, in quella breve voragine di nulla.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10004
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« Risposta #19 inserito:: Ottobre 19, 2012, 05:14:45 pm »

Editoriali
18/10/2012 - le idee

Ecco perchè non voto per il sindaco di Firenze

Antonio Scurati


Trenta ottobre duemilaundici, stazione Leopolda di Firenze, Big Bang di Matteo Renzi. 
Sono arrivato all’ultimo momento, un po’ trafelato, appena sceso dal treno. Sono qui mosso da curiosità umana e intellettuale nei confronti di questo giovane uomo politico che annuncia di voler rinnovare la politica e, soprattutto, nei confronti della sua gente che, lo spero vivamente, possa essere la «mia gente».

Affido la valigia a qualcuno e attendo nel back stage che venga il mio turno. 

Prima di me sale sul palco un giovane regista assurto a popolarità e successo (la fama è un’altra cosa) adattando per il grande schermo un romanzo di Moccia. Vabbè, andiamo avanti. Ora tocca a me. Abbiamo tre minuti per dire cosa faremmo nei primi quindici minuti di governo se divenissimo il Presidente del Consiglio. Tre minuti per dire i quindici minuti di tutta una vita. Proviamo. Salgo e dico la mia. Dico che mi chiuderei a chiave e raddoppierei di netto gli investimenti italiani in istruzione e ricerca. Dico che un Paese come l’Italia o è la sua grande cultura oppure non è niente. Applausi. Applausi gratificanti ma moderati. Niente di fragoroso. Non è questo discorso che scalderà questa platea. O, comunque, non è questo uomo. Benissimo, ho detto la mia. Scendo dal palco e ascolto. Tra meno di mezz’ora parlerà Renzi, l’uomo che forse la mia generazione stava aspettando invecchiando nella sua attesa. 

Parla Luigi Zingales. Tiene un bel discorso sull’importanza anche economica di rimettere al centro il criterio del merito. Sottoscrivo. Applaudo. Parla qualcun altro. Condivido e mi dispongo al buon umore. Poi sale sul palco Giorgio Gori. La mia curiosità si accende. Non lo conosco personalmente ma la mia generazione ha avuto il suo apprendistato all’irrealtà televisiva della vita attraverso le reti da lui dirette. Sono quasi emozionato: per un attimo spero che stia per consumarsi l’esame di coscienza di una Nazione. Accade, invece, qualcosa di surreale. Ascolto con queste orecchie Giorgio Gori, già responsabile delle tre reti del gruppo Mediaset grazie al quale Berlusconi ha plasmato l’immaginario italiano, lamentare con toni accorati «il degrado culturale del nostro Paese». Lo ascolto dirsi pronto a riformare la Rai, ascolto l’uomo che ha dato all’Italia «Il Grande fratello» e «L’isola dei famosi» protestare la servitù morale della Patria quasi fosse un eroe risorgimentale. Lo ascolto sempre più emozionato perché mi dico adesso viene il momento, adesso fa autocritica, rinnega il suo passato, si cosparge il capo di cenere. Poi potremo tutti assieme ripartire. Ma quel momento non viene. L’attesa è delusa. Il nostro scopo mancato. Sono le 12 e 45. Gori, come se nulla fosse, cede la parola a Renzi. Lo fa da padrone di casa. Siamo ancora nella casa del Grande Fratello.

E’ stato in quel momento preciso che ho smesso di ascoltare. Ieri, su questo stesso giornale – che è anche il «mio» giornale – mi è stata attribuita l’intenzione di voler votare per Renzi. Attribuzione infondata. Ed eccomi, dunque, qui a scrivere queste righe. Perché? Non per correggere una notizia errata (la mia intenzione di voto è socialmente irrilevante) ma per dire una delusione e proporre un ragionamento elementare. Eccolo: il declino economico, politico e morale dell’Italia è figlio di un degrado culturale. L’impoverimento materiale, l’immoralismo dilagante, la bassezza gaudente e impotente del potere s’irradiano fino a noi da quegli Anni Ottanta durati trent’anni che già allora brillavano della luce equivoca di un diamante ricettato. Gli Anni Ottanta sono finiti ieri. La sottocultura televisiva imposta da quel decennio trentennale – non la televisione in quanto tale – è stata l’autobiografia di una Nazione divenuta succube del proprio lugubre edonismo. Se vogliamo davvero voltare pagina, dobbiamo chiudere i conti con quegli anni e con i loro uomini. La generazione che risolleverà l’Italia sarà una generazione culturale, non anagrafica. Donne e uomini, di qualsiasi età, che praticheranno una diversa idea di mondo. Non vale l’argomento secondo il quale Gori sarebbe solo un consulente per la comunicazione. Per gli uomini di quegli anni, che ci vorremmo lasciare alle spalle, la comunicazione è stata tutto. E non ne faccio un caso personale nei confronti di Giorgio Gori. Renzi, se dovesse riuscire nella sua impresa, rappresenterà non delle singole persone ma un’intera generazione troppo a lungo delusa. Proprio per questo motivo, il fatto che il sindaco di Firenze non sembri avere molte idee sue potrebbe essere addirittura un bene. Potrebbe fare di lui un diapason, potrebbe farlo vibrare di risonanze finora inaudite. La sua nota di rinnovamento è sacrosanta, la guerra che gli muovono meschina. Ma se suonerà la musica della continuità culturale non potrà che prolungare la nostra attesa.

da - http://lastampa.it/2012/10/18/cultura/opinioni/editoriali/ecco-perche-non-voto-per-il-sindaco-di-firenze-lkT5qm7Z4UEYiblSOIkNbP/pagina.html
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« Risposta #20 inserito:: Novembre 10, 2012, 05:59:54 pm »

Editoriali
10/11/2012

Meno lacrime più verità

Antonio Scurati

Non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, sudore e lacrime. Ve lo immaginate Winston Churchill che piange pronunciando queste memorabili parole di fronte alla camera dei comuni il 13 maggio del 1940 mentre i motori dei cacciabombardieri nazisti rombano sul cielo d’Inghilterra?

 

Assolutamente inconcepibile. Quel grande leader della democrazia liberale – il che non gli impediva di essere razzista, alcolista, bellicista e verosimilmente sessista – un sigaro di grossa taglia sempre in una mano e nell’altra un bicchiere di whiskey, non avrebbe mai potuto né voluto piangere in pubblico (ammesso pure che piangesse in privato) perché gli uomini come lui le lacrime le promettevano al loro popolo, alla loro Nazione, non le spendevano e spandevano per sé. Se gli statisti che, nel corso del Novecento, hanno prima distrutto e poi ricostruito l’Europa e l’Occidente si fossero abbandonati al pianto nei momenti commoventi della loro storia, avrebbero passato buona parte del secolo a piangere. Soprattutto, se avessero pianto, non sarebbero stati degli statisti.

 

Barack Obama, il Presidente degli Stati Uniti d’America, il comandante in capo del più potente esercito del mondo, invece, piange in pubblico. Si lascia andare alle lacrime davanti ai volontari della sua campagna elettorale, nel quartier generale di Chicago, il giorno dopo la sua rielezione e subito Jim Messina, capo dello staff elettorale, si affretta a mettere in rete il video pubblicizzandolo a livello globale.

 

Non potrebbe essere più netta la differenza tra Obama e Churchill eppure, fate attenzione, è pronunciando le medesime parole che, allora come oggi, si piange o non si piange. Obama si commuove nell’istante in cui nomina l’orgoglio («I’m proud of you», dice ai suoi ragazzi nel momento fatidico), la fiducia in se stessi, la speranza nel futuro, piange nell’attimo in cui si sente parte di una comunità al cospetto della Storia («Il vostro lavoro rimarrà nei libri di storia»).

 

Che cosa abbiamo perduto e che cosa guadagnato con la trasformazione della leadership dal modello Churchill a quello di Obama? Abbiamo perduto il Padre – in questo caso il Padre della Patria – e guadagnato una figura meticcia – anche sul piano razziale Obama la incarna alla perfezione – cui ancora non sappiamo dare un nome. In questi ultimi decenni la società si è femminilizzata, la politica si è maternizzata (stando ai codici del vecchio mondo maschilista, sessista e patriarcale, sia ben chiaro), vivono entrambe in un amnio dominato dalla prevalenza degli affetti, alla cui mozione sempre puntano i virilissimi signori dei media e perfino quelli della guerra, un amnio di soddisfazioni allucinatorie e immediate dei nostri bisogni che ci fa psicologicamente regredire in quanto massa verso i primissimi stadi dell’evoluzione infantile. Questo è stato il gonfiarsi a dismisura del debito nelle democrazie occidentali degli ultimi decenni: l’ostinazione nel voler dare al pubblico la tetta.

 

Ci suscitano molta simpatia i nostri leader politici piangenti (ne abbiamo visti una sfilza anche da queste parti). Sarebbe, forse, però, più opportuno se ritirassimo loro un pochino della nostra affettuosa simpatia e li richiamassimo alle responsabilità che un tempo furono dell’archetipo paterno: essere forti ma giusti, avere un progetto, un carattere, un’intenzione, rinunciare al godimento immediato in nome di un futuro possibile, lasciarsi guidare da una decisione etica nel proprio incerto cammino in questo mondo, riaffermare il senso della continuità che vince il tempo. Forse si può tentare di fare tutto questo senza sessismo, senza bellicismo, senza razzismo e senza alcolismo. Di certo la prima cosa che dovrà fare Barack Obama, questo grande leader debole, questa promessa non mantenuta, sarà di togliere di bocca all’America e a tutto l’Occidente la tetta del debito.

da - http://lastampa.it/2012/11/10/cultura/opinioni/editoriali/meno-lacrime-piu-verita-ndKeIu8GCmehTMoY17qKcI/pagina.html
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« Risposta #21 inserito:: Giugno 16, 2016, 12:38:17 pm »

Quella fatale passione per il volo

14/06/2016
ANTONIO SCURATI

Il volo libero. Chi di noi non ha sognato, almeno una volta nella vita, di potersi librare in volo? 
 
E allora perché gli emoticon a commento della notizia riguardante la morte di Dario Zanon, schiantatosi durante un volo con la tuta alare, esprimono rabbia più che tristezza? Perché quelle faccine arrabbiate e non tristi? 
 
Dario Zanon, padovano di San Giorgio in Bosco, era un giovane uomo, caduto nel fiore degli anni (33 anni segnavano nel mondo antico il compimento della vita attiva – vedi Cristo e Alessandro Magno – ma nel nostro indicano l’ingresso in quella adulta). E per questo va ai suoi parenti e amici, alla madre, alla fidanzata, ai due fratelli, il nostro sincero cordoglio. Zanon amava lanciarsi nel vuoto dall’alto dei picchi alpini dotato solo di una tuta che riesce ad ampliare la superficie del corpo umano conferendogli un profilo alare e di un paracadute per l’atterraggio. Niente altro. E questo suscita in noi la pura ammirazione.
 
Però sì, c’è un «però». Le circostanze di questa morte, e di tante altre simili a essa – le statistiche registrano un morto ogni tre giorni causato dalla fatale passione per il volo – non possono non suscitare un pensiero, non solo sulla sua evitabilità, ma addirittura sulla sua gratuità. Forse qui, in questo pensiero disturbante, va cercata la ragione di quegli emoticon arrabbiati.
 
La vertigine del rischio mortale, l’audacia d’imprese ai limiti dell’umano – e l’uomo non è fatto per volare – hanno accompagnato l’umanità fin dalle sue origini. Di quelle origini, anzi, prima il mito, poi l’epica, e infine la storia, hanno tramandato quasi solo quelle imprese. Ma la differenza tra quelle imprese, narrate dal mito, dall’epica, dalla storia e queste, affidate alla pagina effimera della cronaca, riguarda proprio la nozione, sempre più obliata, di «umanità». Nell’eroe mitico, epico o storico, che sfidava le leggi della natura, i confini del mondo conosciuto, le anguste estensioni della nostra specie fatta di animali fisicamente inetti alla lotta per la sopravvivenza, c’era sempre un’ipotesi migliorativa, uno slancio progressivo, una perorazione appassionata a favore dell’intera umanità. L’eroe che sfidava la morte, conquistando una vetta, esplorando l’Antartico, o arrembando il cielo, lo faceva sempre, in qualche misura, in nome di tutti noi umani, nel nome di questo «animale povero» che calca goffamente la terra su due sole zampe, privo di zanne e di artigli, esposto a ogni sorta di minaccia mortale.
 
I pionieri del volo tra fine Ottocento e inizio Novecento dimostrano questo assioma al massimo grado. Non è un caso se i profeti del volo a motore nei primi decenni del ventesimo secolo furono anche i cantori della religione della Patria, aedi, spesso deliranti, di quel culto della Nazione cui si associò tanta parte della speranza in un futuro migliore da parte delle masse politicizzate al loro apparire sulla ribalta della storia. In Icaro, insomma, c’è sempre stato un po’ di Prometeo che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini.
 
A confronto di ciò, non si può fare a meno di pensare al carattere «domenicale», puramente sportivo, meramente dilettevole, di questa nuova dilagante passione per la vertigine del volo libero, per il rischio mortale. Piangendo le vittime di quella passione, non si può evitare di interrogarsi su questo bizzarro e sintomatico dilettantismo della morte.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/06/14/cultura/opinioni/editoriali/quella-fatale-passione-per-il-volo-cXygvb0KIF8UKBuJ0ZAAXJ/pagina.html
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« Risposta #22 inserito:: Settembre 10, 2016, 10:39:23 pm »

Le domande che poniamo all’aldilà

07/09/2016
Antonio Scurati

Una donna si risveglia dopo quattro anni di coma profondo. Smentendo ogni prognosi medica, rivive. Qual è la prima domanda che le rivolgereste? Ovvio, mi direte: le chiederei cosa c’è di là. Oltre la coscienza, oltre la vita. Mica così ovvio, invece. Tra le tante idee antichissime morte a questo inizio di Ventunesimo secolo, forse l’idea dell’aldilà è la più morta di tutte.

I risvegli, i redivivi, i ritornanti popolano l’odierno immaginario mediatico eppure il fuoco del racconto si concentra quasi sempre sul difficile reinserimento nel loro mondo quotidiano più che su quell’altro mondo da cui ritornano, sul loro reintegrarsi nella vita a noi nota più che sull’ignoto di cui potrebbero farsi ambasciatori. L’aldilà trapela attraverso piccoli segni – interruzioni di corrente elettrica, ferite sui corpi – ma non interessa davvero. Pare quasi che, alla luce di questo soprannaturale crepuscolare di terzo millennio, l’elemento miracoloso sia la nostra esistenza ordinaria, rivelata al nostro sguardo cieco da questo brillio di straordinario. 

Il modo in cui l’Ansa ha battuto la notizia del misterioso risveglio sembra dimostrarlo: «Dopo 4 anni di coma si risveglia e intona canzoni di Massimo Ranieri». Un altro modo per dire che non esiste altra vita oltre questa. L’intero nostro orizzonte è racchiuso nel cerchio di un cantante melodico. Alla musica leggera si limita il repertorio dell’universo. Al miracoloso, al numinoso, al portentoso, non chiediamo nulla di più di quel che già conosciamo, di quel che siamo. Forse per malinconia, forse per paura. Temiamo che, se osassimo la domanda delle domande, riceveremmo la stessa risposta ottenuta da Melisandre quando, ne Il trono di Spade, dopo averlo riportato in vita, chiede a John Snow: «Ascolta, quando sei morto, dopo le pugnalate, dove sei andato? Che cosa hai visto?». «Nulla … assolutamente nulla», le risponde il più celebre ritornante del nostro tempo senza aldilà.

La scomparsa dell’orizzonte metafisico, la «morte di Dio», il disincanto del mondo, la secolarizzazione, sono state le questioni filosofiche fondamentali dell’età moderna, i temi capitali di un’epoca oramai alle nostre spalle e non ho certo la pretesa di aggiungervi qualcosa in queste quattro righe. Mi pare, inoltre, del tutto evidente che, almeno in Occidente, si sia conclusa anche l’epoca della cosiddetta «sopravvivenza erratica del sacro», vale a dire il periodo in cui la ricerca del senso ultimo della vita umana e della posizione dell’uomo nel cosmo, tramontata la visione religiosa del mondo, perdurava andandosene a zonzo nei miti della modernità: il progresso scientifico e sociale, le grandi ideologie totalitarie, la religione della politica da cui ci si attendeva una rinascita tutta terrena. 

 Rimane da chiedersi, però, che cosa ne è di noi quando gli interrogativi che hanno guidato l’umanità fin dal suo apparire sulla terra trovano posto soltanto ai margini di una breve in cronaca, quando ogni residua metafisica è lasciata alle serie di una televisione a pagamento. Quando sei morto, dove sei andato? Che cosa hai visto? Cosa c’è oltre la vita? E che cos’è la vita se non trascende la morte? Sono interrogativi in compagnia dei quali non si può vivere ma senza i quali la vita non ha senso.

Ma poi, forse, la domanda rimane la stessa ed è cambiato solo il modo di porla. Chi l’ha detto, in fondo, che un romanzo o una serie tv valgono meno di un sermone o di un trattato politico? In un suo libro di alcuni anni fa, Carlo Ginzburg osservava la somiglianza profonda che lega tutti i miti poi confluiti nel sabba. Tutti rielaborano un tema comune: andare nell’aldilà, tornare dall’aldilà; e concludeva affermando che raccontare significa sempre parlare qui e ora con un’autorità che deriva dall’essere stati, metaforicamente o letteralmente, là e allora, che la capacità di partecipare al mondo dei vivi e a quello dei morti, alla sfera del visibile e a quello dell’invisibile, proprio questo sarebbe il tratto distintivo della specie umana.
Forse resta sempre vero, qualunque sia il genere del racconto.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/09/07/cultura/opinioni/editoriali/le-domande-che-poniamo-allaldil-OMy7P0BZrzAC1y7Ybh5ZvJ/pagina.html
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« Risposta #23 inserito:: Ottobre 28, 2016, 06:24:04 pm »

Il Paese del fragile benessere

28/10/2016
ANTONIO SCURATI

Siamo il Paese del fragile benessere, non quello della grande bellezza (quella va bene per la notte degli Oscar). Viviamo sotto il vulcano. Da sempre e, forse, per sempre. Un meraviglioso vulcano, spruzzato di neve in inverno e splendente di Ginestre in estate.
 
Per questo ce ne dimentichiamo: il vulcano è ancora attivo. 
 
Che cosa significa vivere sotto il vulcano? Sotto il vulcano e sopra la faglia. In che misura questo nostro essere figli di una terra dove la terra trema ha influenzato e influenza il carattere degli italiani? In che modo un’esistenza condotta quotidianamente con nelle orecchie il ronzio sinistro di sciami sismici modula la psicologia di una nazione? Un tempo lo sapevamo e adesso abbiamo smesso di chiedercelo.
 
Personalmente rigetto la facilità cialtrona con cui l’italiano spesso vanta, di solito davanti a un piatto di spaghetti, di vivere nel «Paese più bello del mondo». Ma basta viaggiare per il mondo - non a Parigi, Londra o New York, ché quello non è il mondo - per rendersi conto di essere stati privilegiati dalla sorte. Per noi la roulette delle nascite si è fermata su di una casella fortunata. Per mitezza climatica, pregevolezze paesaggistiche, bellezze artistiche, varietà umane, ricchezze culturali, l’Italia è sicuramente uno dei luoghi del pianeta dove si conosce in abbondanza la dolcezza del vivere. Anche la sua mollezza, ovviamente. E tutti ce lo riconoscono. L’idea dell’italiano bon vivant, che ci crocifigge con lo spillo dell’entomologo nella teca degli esemplari magnifici e inutili, ci corrisponde. Sono luoghi comuni, è vero, ma nei luoghi comuni albergano verità profonde e vastissime, spesso inesplorate solo dagli autentici imbecilli. Ma le condizioni che fanno dell’Italia il Paese della «dolce vita», della «bella giornata», del buon vivere e del benessere ricevuto come diritto di nascita, sono in buona parte le stesse che lo minano fin dalle fondamenta. 
 
Questa penisola snella, agile, lunga e stretta, protesa come un dito puntato su di un mare antico, questo paesaggio rinfrescato da decine di salubri brezze, variegato di pianure, colli, coste e montagne, è terra di terremoti. Questo popolo di poeti, santi, navigatori, cantanti e chef stellati è capace di coltivarla con una mano ricca di sapienza artigiana nella bellezza di orti e di borghi e con l’altra di abbandonarla all’incuria di decadenza e crolli.
 
La mappa della pericolosità sismica è un emblema di questa nostra mirabile miscela di fragilità e complessità policroma: uno stretto lacerto di mondo ospita l’intera gamma dei colori, dai rossi della terribile dorsale appenninica, ai gialli delle zone collinari adiacenti, ai verdi delle coste tirreniche, fino agli azzurri tenui della Pianura Padana e ai grigi rassicuranti della prealpina. Nati e cresciuti su questo manto d’Arlecchino, stiamo fragili nell’esistenza storica, in un disquilibrio perenne tra ipermodernità d’avanguardia e brutale premodernità, stiamo incerti nella mappa geografica tra Europa e Africa, tra Occidente e Levante. Il manto terrestre su cui muoviamo i nostri passi è una crosta sottile - lo sappiamo, lo avvertiamo nelle vibrazioni sorde della terra -, la nostra smagliante civilizzazione è appena uno strato di smalto sul nulla. Siamo gente di confine, passeurs perenni, migranti per vocazione, frontalieri tra la gioia e la disperazione, tra la vita brillante e la morte improvvisa.
 
A lungo si è pensato che questa condizione fosse all’origine sia dei vizi sia delle virtù del carattere nazionale. Le dobbiamo il peggio di noi stessi: gli egoismi, i campanilismi, i servilismi, le superstizioni, gli odi di fazione, il respiro corto, il ghigno furbo, le mani sporche, la rarità di autentici statisti, il troppo cinismo, scetticismo, individualismo, pagnottismo, familismo, fatalismo. La facilità con cui dubitiamo delle magnifiche sorti e progressive, l’incapacità di credere in qualsiasi idea o persona che non si possa invitare a cena. Tutto ciò è all’origine dell’inclinazione meschina che ci spinge, davanti ad ogni nuovo terremoto, alluvione, naufragio, a fare gli scongiuri e a mormorare: «E’ toccato a te e non a me». Ma la policroma, variegata mappa della pericolosità sismica, è anche, in qualche, modo, all’origine della nostra parte migliore: la nostra preferenza per la speranza comica piuttosto che per la disperazione tragica, il nostro genio per il melodramma, l’amplissima articolazione della nostra esperienza che ci consente, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi tempo, di incontrare gli altri, di adattarci alle situazioni, di «inventarci la vita», la nostra rara e preziosa capacità di empatia, di solidarizzare con il prossimo. E’ la somma delle virtù che, di fronte al sisma, ci spinge a pensare: è toccato a te ma sarebbe potuto toccare a me.
 
Oggi viviamo di nuovo al crocevia di due grandi cataclismi, uno ambientale e l’altro umano: l’emergenza ecologica (di cui le distruzioni causate dai terremoti fanno parte) e le migrazioni dei popoli che vengono a morire sulle nostre coste. Sarebbe bello se questa tormenta di terremoti aiutasse noi italiani, in un’epoca che favorisce con ogni mezzo l’indifferenza mediatica verso le sciagure altrui, a ritrovare il meglio di noi stessi: il pietoso sentimento di appartenenza a un comune destino umano.
 
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« Risposta #24 inserito:: Luglio 11, 2017, 09:21:24 am »

Difendersi dalla malvagità di ogni giorno

Pubblicato il 11/07/2017

ANTONIO SCURATI

Ci sono momenti in cui la macina della cronaca finalmente si ferma. Questo sembra essere uno di quei momenti. Ci sono delitti che riescono a risvegliare la torpida coscienza di un’opinione pubblica frastornata dal chiasso quotidiano di notiziari tragici, fragorosi, sovraccarichi di sventure appena orecchiate e, per questo, alla fine, indifferenti.

Il crimine stradale che ha letteralmente schiantato in sella a una motocicletta all’imbocco di un’anonima rotonda della Valsusa le vite di Elisa e Matteo sembra essere uno di quei delitti. 
 
Siamo tutti da anni, da decenni, immersi nel fiume della cronaca che trascina, torrentizio, verso la foce delle nostre giornate banali centinaia di casi drammatici, di situazioni-limite, di tragedie bibliche. E’ un fiume che, per sua paradossale natura, ci scorre addosso, attraverso, ci sommerge perfino, ma non ci bagna mai, o quasi mai. L’abitudine, l’assuefazione, le quantità industriali dell’informazione, la sua capillarità, la sua ubiquità, la sua superficialità, fanno sì che la nostra pellaccia di animali anfibi - adattati tanto all’ambiente dell’esperienza vissuta quanto a quello dell’esperienza mediatica - si dimostri quasi sempre impermeabile alla sofferenza altrui, alla sciagura altrui. E’, perciò, difficile, forse impossibile predire quale notizia, nel mezzo di questa insensibile moltitudine, possa penetrare la coriacea pelle psichica che ci protegge dall’insostenibile peso di una compassione infinita.
 
Perché, tra i tanti delitti efferati notiziati ogni giorno, a commuovere centinaia di migliaia di persone è proprio il dramma che, sotto forma di un Ford Transit lanciato con furia omicida contro due ragazzi inermi a seguito di un banale diverbio, ha ucciso Elisa e ferito gravemente Matteo? Perché questo delitto e non un altro? Forse perché i due motociclisti erano giovani e innamorati? Forse perché Elisa era bionda e bellissima? Forse perché si tratta, in questo caso, di un crimine totalmente, bestialmente insensato?
 
Di certo l’insensatezza totale del delitto è tra i motivi del nostro appassionato, pietoso interesse. Ci sono crimini e sciagure che hanno una rilevanza storica, politica, sociale maggiore di questo straziante caso di cronaca nera (si pensi ai delitti di mafia, alle stragi terroristiche, agli olocausti di migranti in mare). Quei delitti e quelle sciagure chiamano a una riflessione che può individuare cause, antecedenti, talvolta perfino ragioni, prevedere conseguenze, effetti, raramente perfino rimedi, nella sfera politica, storica o sociale. Poi c’è l’assurdità totale di queste morti atroci. E la loro brutale insensatezza risucchia anche dal midollo delle nostre esistenze che restano inorridite a contemplarle quel poco di senso che faticosamente, quotidianamente ci sforziamo di trovare in esse o, coraggiosamente, di costruire attraverso di esse. Agli autori di questi delitti feroci e insensati dovrebbe essere imputato un aggravio di colpa per il fatto di gettare anche sulle vite di milioni di testimoni mediatici inorriditi l’ombra del non senso. Che senso potrà mai avere l’esistenza umana sul pianeta Terra se un fiore stupendo come Elisa può essere reciso da un malvagio automobilista ubriaco per un futile motivo? Inutile nascondersi che ci siamo posti questo inquietante interrogativo e che ce lo porremo ancora.
 
Non è, forse, un male porsi questo genere di domande. Non è, forse, del tutto inutile, talvolta, fermare la macina della cronaca e raccoglierci, come comunità, a meditare il senso delle nostre vite sulla tomba di una meravigliosa vita spezzata come quella di Elisa. Questi brevi, rari momenti di raccoglimento, di silenzio esterrefatto, valgono come una preghiera laica per l’anima di quella ragazza assassinata, che la terra le sia lieve.
 
Ma questi momenti devono anche servire come una severa, severissima scuola di civismo. Sempre più spesso l’automobile si trasforma in una perversa tecnologia di abbrutimento, sempre più spesso le nostre strade si trasformano in scene del crimine, le nostre utilitarie acquistate a rate in armi improprie nelle mani di guidatori ubriachi, drogati, scriteriati, ottenebrati come cani rabbiosi. Perfino ai più miti ai più pacati tra noi capita di inveire al volante per una manovra maldestra o per una mancata precedenza. Chiediamoci allora - lo dobbiamo alle vittime dei crimini stradali, lo dobbiamo a noi stessi - cosa ci sia che non va, cosa debba essere cambiato nella psiche collettiva di un popolo che si abbrutisce e inferocisce non appena si senta protetto da un abitacolo metallico ed esaltato da un motore rombante.
 
Detto ciò, l’insensato, feroce delitto compiuto dall’automobilista ubriaco e forsennato che ha deliberatamente investito Elisa e Matteo non trova nessuna spiegazione sociologica, non merita nessun ragionamento psicologico. Sta solo a dimostrare che la pura malvagità esiste. E anche da questa, per quanto difficile, una società civile dovrebbe provare a difendersi.
 
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