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Autore Discussione: ANTONIO SCURATI.  (Letto 14458 volte)
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« inserito:: Febbraio 29, 2008, 03:44:24 pm »

29/2/2008 (7:3) - LA STORIA, I DUE VOLTI DI UN DESTINO

L'Italia perduta in fondo al pozzo

Dalla speranza di Vermicino all'orrore di Gravina

ANTONIO SCURATI


GRAVINA
Di nuovo l’Italia trattiene il respiro per dei bambini caduti in un pozzo. Questa volta, però, non si tratta di un pozzo artesiano scavato in una contrada anonima fuori Roma, impigliata tra un cantiere edile della nuova edilizia popolare e un sentore svanito di campagna. Questa volta si tratta di una cisterna per la raccolta di acque piovane, dimenticata nel ventre di un antico edificio in rovina, anch’esso dimenticato nel ventre di un antico borgo decrepito. Soprattutto, questa volta l’Italia non trattiene il fiato per la vita di bambini in pericolo ma per la loro morte. Non è un’apnea di speranza ma d'orrore. E questo, forse, a voler divinare dai visceri rovesciati della cronaca nera un oroscopo per il nostro sciagurato Paese, ci profetizza il differente destino dell’Italia di oggi e di allora.

L’orribile dramma dei due fratellini di Gravina di Puglia, caduti, a quanto pare, ancora vivi, in una cisterna a venticinque metri sotto terra, e lì morti di stenti o per dissanguamento senza ricevere soccorso, questo dramma dello spaventoso recesso e dell’agghiacciante solitudine, richiama inesorabilmente un altro dramma.

Il dramma di un bambino che spirò, dopo una lunga agonia, a sessanta metri di profondità in una campagna romana nonostante in superficie ci fosse l'intera popolazione d’Italia a trepidare per lui in un vano tentativo di portargli soccorso.

Lo ricordiamo tutti Alfredino. Aveva 6 anni quando in un pomeriggio afoso del giugno del 1981 venne inghiottito da un budello scavato nell'argilla e nel tufo della terra accanto alla casa in costruzione dei suoi nonni. Lo ricordiamo tutti perché sulla sua straziante agonia si accese, per la prima volta nella storia del nostro sciagurato Paese, l'occhio della televisione. Fu quell'occhio, al tempo stesso pietoso e impietoso, complice e supplice, a trasformare un tragico incidente in una tragedia collettiva, con l'Italia intera a fare da coro, sgomento e dolente, al destino di uno di noi.

Ventuno milioni di spettatori
Fu la prima lunghissima diretta della storia della Rai: diciotto ore ininterrotte. Mai, prima di allora, la televisione aveva avuto un pubblico così vasto: durante il pomeriggio, la serata e per buona parte della notte furono ventuno milioni gli italiani, con punte di trenta, che assistettero agli inutili tentativi di salvare Alfredino, che udirono le invocazioni della madre e quelle ancora più strazianti del figlio alla madre. Nemmeno per l'epica semifinale tra Italia e Germania nel giugno del '70 tante persone erano rimaste ipnotizzate dal televisore tanto a lungo, nemmeno per il momento culminante dell'epica conquista dello spazio la notte del 21 luglio 1969, la notte dello sbarco sulla Luna. Durante quelle lunghissime diciotto ore, l'Italia scoprì che il racconto televisivo si prestava certo al genere epico, alla celebrazione delle grandi imprese dell'umanità, ma si prestava altrettanto bene al genere tragico, alle cerimonie funebri.

Il Paese mediatico scoprì che valeva per il mondo della tv l'inverso di ciò che Marcel Proust aveva scoperto sul proprio mondo letterario: in tv esiste una sola cosa che fa più rumore del piacere ed è il dolore. Erano i giorni della loggia P2, del processo Calvi, gli anni dell'edificazione di Milano 3 e della nascita delle prime televisioni commerciali. Era l'alba di una nuova Italia, finalmente, improvvisamente entrata nella tarda modernità senza esser mai passata attraverso la prima modernità, e in quei giorni il Bel Paese scopriva la potente, ambigua malia dello spettacolo della sofferenza mediatica, del dolore reale per chi lo patisce e virtuale per chi vi assiste, si scopriva incantato dalla morte in diretta.

La Nazione mediatica
Fu una scoperta folgorante che gli italiani non avrebbero più dimenticato. Risuonava in essa un'antica eco della più nobile memoria culturale nazionale, quella del canto trentesimoterzo della Commedia, nel quale Dante, per bocca dello sventurato conte Ugolino, pretende dal proprio pubblico il pianto per il pianto dei bambini, proclama l'obbligo morale alla commozione nazionale dinanzi a creature innocenti costrette a morire di stenti in una torre buia, tanto simile alle profondità di un pozzo (Ben se' crudel, se tu già non ti duoli/pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava;/e se non piangi, di che pianger suoli?). E fu, perciò, quello provato dalla Nazione mediatica nei confronti di Alfredino, un autentico afflato di compassione corale. Lo ha colto magnificamente Giuseppe Genna quando apre Dies Irae (Rizzoli, 2006), il suo romanzo sugli Anni '80, rievocando la tragedia di Vermicino con pagine di canora prosa poetica che ricalcano il celebre coro del Nabucco verdiano.

E' pur vero, come scrisse Leonardo Sciascia, che nella tragica notte di Vermicino l'Italia fu colta da «un senso di angosciosa impotenza, di disperazione» per un'umanità che aveva conquistato la Luna e si ritrovava incapace di salvare un bambino caduto in un pozzo. Ma è anche vero che, prima di disperare, il cuore degli italiani aveva battuto all'unisono nella speranza di poter tenere in vita il piccolo Alfredino.

Ora, invece, a distanza di quasi trent'anni, ci scopriamo ancora incantati dalla morte ma sulla superficie di quest'altro pozzo si racconta una storia di incuria, di degrado urbano, di ricerche sbagliate, di soccorsi omessi. Soprattutto, una storia di nessuna speranza. Spiace dirlo, ma il Paese mediatico sembra davvero essersi immalinconito. Non ci rimane che sperare nel cuore del Paese reale.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Novembre 27, 2009, 11:26:54 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 02, 2008, 03:32:57 pm »

2/8/2008
 
Bentornato sette in condotta
 
 
  
 
 
ANTONIO SCURATI
 
Si biasima sempre la violenza della corrente ma non si osserva mai la violenza degli argini. Da quarant'anni la pedagogia progressista si sforza di mettere in pratica questo monito di Bertolt Brecht. E a lungo, va detto, ha avuto ragione di farlo. A partire dagli Anni 60, ogni riforma della scuola, ogni svolta pedagogica, ogni innovazione didattica è stata rivolta a mitigare la «violenza degli argini». La didattica ha dovuto inchinarsi all'espressione della libera soggettività del discente, la scuola si sarebbe dovuta sviluppare all'insegna di una crescente autonomia. La disciplina doveva essere rigorosamente distinta da ogni criterio di merito. Ma il risultato finale è stato, indubbiamente, che il fiume ha esondato. Oggi abbiamo studenti che si diplomano o si laureano senza sapere niente, ragazzi che scivolano verso comportamenti sfrenati, una scuola che sembra consegnata a un destino non di crescente autonomia ma d'irreversibile entropia. Si potrebbe, dunque, anche salutare con favore la decisione del Ministero di ripristinare il valore dirimente del voto in condotta, di reintrodurre l'insegnamento dell'educazione civica e perfino l'uso del grembiule. A una condizione: che non si dimentichi la violenza della corrente.

E in questo caso la metafora tiene: si tratta, infatti, della corrente sociale. Una scuola che si abbandoni alla forza rovinosa del mainstream sociale è una scuola superflua, uno sciocco pleonasmo, ma una scuola che debba nuotare contro quella corrente è destinata ad affondare. «La società contro la scuola» Da troppi anni nel nostro Paese si è creata una paradossale situazione: se negli Anni 70 il motto dei giovani rivoluzionari fu «la società contro lo Stato», a partire dagli 80 quei giovani, una volta divenuti pubblicitari e comunicatori di grido, hanno urlato «la società contro la scuola». Tutti i grandi valori e sani principi che la scuola di tradizione umanistica avrebbe dovuto coltivare e trasmettere non solo venivano sistematicamente disattesi un metro fuori il perimetro scolastico, ma anche sonoramente smentiti dal discorso sociale promosso da mezzi ben più potenti della voce tenue degli insegnanti. In questo modo la scuola era comandata a compiere una missione suicida, a combattere su posizioni perdute. E i poveri insegnanti finivano per apparire dei disadattati, quando non degli alienati mentali. A che cosa varrà reintrodurre l'educazione civica in un Paese in cui il disprezzo di ogni civismo paga preziosi dividendi politici? Che senso avrà per delle sedicenni uniformarsi indossando un grembiule se saranno le loro madri per prime a insegnar loro che la distinzione sociale si conquista con una griffe e una scollatura vistosa? Il messaggio contraddittorio dei padri Perché un ragazzo dovrebbe educarsi attraverso la disciplina quando gli uomini delle istituzioni che gliela impongono devono il potere all'ostentato rifiuto d'ogni disciplina? Il rischio è quello di una tremenda situazione da doppio legame: il padre che intima al figlio «imitami!», ma, al tempo stesso, gli ingiunge «non m'imitare!». Il risultato è, come sappiamo, la schizofrenia. Personale e sociale. Ci si potrebbe consolare, e perfino esaltare, all'idea di una scuola «isola felice», extraterritoriale rispetto alla ferinità della vita sociale. Ma solo a condizione che sia un'isola nella corrente. Altrimenti quella legione d'insegnanti mandati a far valere la disciplina, a insegnare l'educazione civica, a far indossare il grembiule, finiranno come una retroguardia massacrata in un'imboscata. Suoneranno il loro corno, sputeranno il loro sangue. Intanto la testa dell'esercito, ignara del loro inutile sacrifico, marcerà in tutt'altra direzione.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Settembre 09, 2013, 10:54:08 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 22, 2008, 10:53:48 am »

22/9/2008
 
Milano, Africa
 
 
ANTONIO SCURATI

 
Nero è il colore della pelle ma nero è anche il colore della paura. Lo accertiamo in questi giorni. Le cronache ci riferiscono di ragazzi italiani, che parlano la stessa lingua immiserita dei loro connazionali, che vestono in ossequio alle stesse mode volgari dei loro conterranei, che hanno gli stessi atteggiamenti un po’ tracotanti dei loro coetanei ma che all’improvviso si ritrovano vittime di una ferocia razziale solo perché, figli di immigrati africani, ne conservano oramai soltanto il colore della pelle.

Fino a ieri, quando la società era ancora tormentata, ma anche vivacizzata dalla divisione in classi, la cultura faceva la differenza: chi apparteneva a una certa classe aveva certe idee, costumi, giudizi, comportamenti, una certa visione del mondo. E li rivendicava come segno di distinzione: il conflitto di classe si elaborava anche attraverso il conflitto di gusto. Oggi, quando tutto questo si è dissolto, rischiamo che a dividerci rimanga soltanto il colore della pelle. O altri simili trascurabili dettagli.

Ciò vale nella buona come nella cattiva sorte, nell’attrazione o nella repulsione, nella paura come nella speranza. Diciamoci la verità: se non fosse di pelle nera, non sarebbe forse Barak Obama un liberal come tanti altri? Il suo futuro, e dunque il futuro dell’America e del mondo, verrà deciso, nel bene come nel male, da una questione razziale. Proprio come il futuro di quei ragazzi italiani che vivono a Milano attorno a via Zuretti, che vestono come italiani, parlano come italiani, vivono come italiani ma si sono improvvisamente scoperti neri di pelle e di fatto.

In una società come la nostra, impaurita, spaventata, talora spesso terrorizzata, in una società in cui la speculazione sulla paura paga cospicui dividendi elettorali, finanziari, mediatici, in cui c’è tutta un’economia, tutta una politica, tutta una comunicazione che prospera sulla paura, sulla sproporzione tra rischi percepiti e rischi reali, in questa società in cui l’unica cosa di cui si dovrebbe veramente aver paura è la paura stessa, in questa società che ha paura dell’instabilità del villaggio globalizzato ma nella quale la paura è la principale fonte d’instabilità globale, in questo mondo curvo su se stesso come un serpente che si morde velenosamente la coda, da queste parti forse il razzismo rimarrà un male irriducibile.

Sì, perché quando hai paura perdi lucidità, perdi discernimento, quando hai paura la vista si annebbia, l’orizzonte si ottenebra e allora tutto ciò di cui senti di aver bisogno è un segno distintivo chiaro e netto, un’anomalia vistosa che si trasformi in stigma, un volto estraneo che funga da bersaglio. E cosa c’è di meglio, di più facile, di un uomo nero messo a contrasto con un uomo bianco? Quando un’intera popolazione ha paura si trasforma in massa, poi la massa in folla, poi la folla si solleva in turba. E il diventare folla della turba è una sola cosa con il richiamo oscuro che la riunisce e la mobilita, il richiamo all’azione che spinge per uscire da quell’insopportabile confusione, dalla notte della paura in cui tutte le cose si dissolvono in ombre e tutte le ombre sono minacce di morte. La folla sollevata in turba ha bisogno dell’azione ma, preda del suo stesso parossismo, non può agire sulle cause naturali, sociali, economiche. La sua brama di uscire dal buio cerca allora una causa accessibile, quale che sia. E allora il nero della paura trova il nero della pelle. La folla sollevata in turba dalla paura, impotente a ogni azione efficace, si risolve per la persecuzione.

È questa una dinamica sociale ben nota, osservata mille volte, eppure ritorna sempre, aggiornandosi a ogni nuovo cambio di stagione. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, il razzismo, la discriminazione violenta e arbitraria nei confronti di individui o gruppi sulla base di caratteristiche spesso esteriori come il colore della pelle, si sviluppa proprio in quelle società che smarriscono le loro differenziazioni interne, le loro articolazioni, le loro gerarchie. La persecuzione razziale è tipica di società come la nostra che vivono nell’orizzonte asfissiante di un pensiero unico, di un eterno presente, di un’omologazione di massa. C’è una circolarità viziosa tra la perdita di ogni differenziazione significativa all’interno di una comunità e attitudini persecutorie nei confronti del «diverso». È quando tutti si sentono tristemente grigi che dalla folla si leva il grido: «Dagli al negro!».

Va così quando la paura offusca lo splendore sensibile del mondo.

 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 01, 2008, 10:20:07 am »

1/11/2008
 
Non sperperate il sapere
 
ANTONIO SCURATI

 
C’è una cosa che il ministro dell’Università e della Ricerca deve sapere: il momento peggiore della vita di un giovane professore universitario non è quello in cui riceve il suo magro stipendio ma quello in cui esamina i propri studenti o ne discute le tesi di laurea.

È allora, infatti, che si assiste al disastro della pubblica istruzione. La rovina del millenario edificio del sapere assume i tratti somatici del tuo allievo che, seduto all’altro capo della scrivania, in un italiano stentato, smozzica frasi per lo più sconnesse, ciancica frattaglie di nozioni irrancidite, rimastica rigurgiti di conoscenze mal digerite. In quei momenti il nostro fallimento sta lì, a meno di un metro di distanza da noi, ci basterebbe allungare la mano per afferrarlo. Dire una parola per porre fine a esso. Ma non lo facciamo. Rimaniamo a guardare, come incantati dal fascino del disastro. Ascoltiamo, quasi ipnotizzati, la nenia dello studente oramai prossimo alla laurea eppure incapace di coniugare i verbi, di coordinare le frasi, di articolare un discorso. Tendiamo l’orecchio a quel balbettio perché in esso avvertiamo la vibrazione sorda di un grande organismo in decomposizione. Ce ne stiamo lì, soggiogati dalla malia dei cimiteri di campagna. Non chiudiamo nemmeno gli occhi, non distogliamo lo sguardo: abbiamo davanti a noi lo spettacolo di una catastrofe al rallentatore. Ed è quella della nostra istituzione.

Ecco cosa pensavo in questi giorni se mi trovavo a sfilare accanto a un ventenne che con me protestava contro i drastici tagli all’università. Pensavo: questo è probabilmente uno di quei miei tanti studenti che mi fa disperare quando li esamino, uno di quei ragazzi ai quali oramai ci accontentiamo di insegnare poco o niente, uno di quei ragazzi che, educati dalla televisione e dallo shopping center, intendono l’università come parte del loro tempo libero, per lo più devoluto a godersi la vita, consumare, concedersi ogni facile piacere.

C’è però un’altra cosa che l’opinione pubblica dovrebbe sapere ed è che quel ricercatore universitario che s’immalinconisce perché non riesce più a fare il suo mestiere percepisce in media uno stipendio di 1480 euro al mese.

Il che significa che i giovani scienziati da cui ci aspettiamo la cura del cancro, la scoperta di fonti di energia rinnovabile o, anche - perché no? -, la nuova cultura che ci consenta di interpretare e capire il nostro tempo, guadagnano meno dell’idraulico che ci ripara il lavandino. E, si badi bene, non è soltanto questione di conto in banca: questa sproporzione tra stipendi e valore sociale della conoscenza è indice di un immiserimento generale - materiale e morale -, è specchio di un’università in cui i fisici che lavorano nella facoltà che fu di Enrico Fermi fanno ricerca negli scantinati, in cui per trovare fondi si deve emigrare all’estero, in cui ogni giorno si laureano studenti semplicemente ignoranti. La miseria degli stipendi è, insomma, segno di un letterale disprezzo per il sapere.

In questi giorni, si è molto discusso di baronie, clientele, privilegi, inefficienze e sprechi vari. Giustissimo. Quel giovane professore sconfortato, quel ricercatore immiserito sarebbero i primi a volerle estirpare: dategli (simbolicamente) un’accetta e lo troverete al vostro fianco a far pulizia perché è lui il primo a soffrirne. Ma non dimentichiamo, per favore, che lo spreco più grande di cui ci stiamo macchiando è lo sperpero di forme di sapere che stiamo perdendo, di occasioni di scoperta che stiamo mancando, di capitali di conoscenza che stiamo depauperando, di livelli di conoscenza che vanno precipitando, di risorse umane che stiamo svilendo. Si tratta di valori inestimabili.

La riduzione indiscriminata di 600 milioni del budget per le università non sfronda i rami secchi, non estirpa le piante infestanti, ma rischia di menare un micidiale colpo d’accetta alla base del tronco, quella base dove cresce, con grande fatica, la speranza del giovane professore disperato. Un solo esempio: il blocco automatico dei concorsi significa, non solo e non tanto guerra alle baronie ma impossibilità di carriera per i giovani ricercatori. In questo modo, i baroni saranno ancora più baroni, i giovani ricercatori ancora più spiantati, asserviti e i nostri studenti sempre più ignoranti.

I tanti cittadini insofferenti nei confronti di un’università che si vuole «sprecona» farebbero bene a non confondersi su cosa stiamo sprecando, su chi stiamo «tagliando». Non sempre i nemici dei nostri nemici sono nostri amici. Vale anche per gli studenti. Stiamo pure al fianco dei ragazzi che marciano e protestano contro i tagli indiscriminati, ma poi stiamo loro di fronte e pretendiamo che studino.


da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 17, 2009, 03:51:28 pm »

17/3/2009
 
La vergogna del mostro

 
ANTONIO SCURATI
 
I quattro uomini sono presi dal basso. Il soffitto, per quanto alto, grava su di loro generando un senso di oppressione e di colpa, come in un’inquadratura di Orson Welles. Tre degli uomini, infatti, sono dei poliziotti. Il quarto è un criminale. Di più, il quarto uomo è «un mostro». Ha segregato sua figlia in un bunker per decenni, fin dall’infanzia, riducendola a sua schiava sessuale.

Ora l’aguzzino incestuoso si nasconde il volto con un faldone, con un qualche raccoglitore per documenti che lo decapita simbolicamente dinanzi agli occhi del mondo. Il mostro ha vergogna. Il mostro, qualunque siano le sue intenzioni, privandosi volontariamente del volto, e con esso della cartografia dell’umano, più che proteggersi si punisce da sé. Siamo al cospetto di un rito di espiazione. Edipo, scoperta la terribile colpa di cui si era inconsapevolmente macchiato, si cavò gli occhi. Per placare la divinità sanguinaria dell’opinione pubblica, il mostro di Amstetten si cava l’intera testa.

Chiedere perdono può essere un modo furbesco e farisaico per ingraziarsi il pubblico e lavarsi la coscienza a buon mercato ma può essere anche il modo per riparare al torto subito da altri e, simultaneamente, per rimediare a se stessi. Per placare le divinità oltraggiate o pacificare la comunità dilaniata dal male. Perché la ferita possa sanarsi, ci vuole però autentica contrizione, ci vuole ammissione vistosa e autosegregazione mortificante, ci vuole prima l’ostentazione della colpa e poi, subito dopo, volontà di recesso, ci vuole prima il centro della scena e poi la sparizione dalla scena. L’esibizione e l’oblio. Questa la formula dell’espiazione. La seconda senza la prima è fuga dalla responsabilità, la prima senza la seconda è perseveranza nell’errore. Diabolica, si diceva un tempo.

Quest’ultima sembra, purtroppo, la strada scelta da molti viziosi uomini di potere nostrani. In molti, negli ultimi anni ci hanno abituato al rito purificatore del chieder perdono (il Papa, un tempo sedicente infallibile; il finanziere ladrone; il leader fallimentare) ma non l’indecente ceto politico che ci governa. Quest’ultimo, all’espiazione della colpa ha preferito l’ostentazione del vizio.

Pensiamo al gossip, alla rapinosa deriva dell’informazione politica verso una mistura tossica d’indiscrezioni, indecenze, rivelazioni, intercettazioni, retroscena e messinscena, e pensiamo alla complicità totale con cui il ceto politico nostrano si presta a questo falso denudamento. Di questo passo, infatti, il re non è mai nudo. È sempre a brache calate, certo, ma la cosa è parecchio diversa. Il giornalismo gossipparo, oggi tanto di moda, non ha niente a che fare con la denuncia del malcostume, e tanto meno con la critica del potere. È, al contrario, una forma di cortigianeria attraverso la quale chierici asserviti forniscono a regnanti depravati la generosa assoluzione plenaria di un’opinione pubblica oramai rotta a tutto e a tutto assuefatta. In cambio ottengono la merce sensazionale da mettere in vetrina.

A ben guardare, il trionfo del gossip nell’informazione politica segna il momento in cui l’uomo di potere, che si confronta di necessità con il lato oscuro della forza, invece di rischiare la vergogna, sceglie spontaneamente e in anticipo di confessare ogni colpa, ogni vizio. Si tratta, ovviamente, di una confessione che non lava la coscienza, la cancella, che non purifica la ferita inflitta al corpo sociale, la manda in cancrena.

Non nascondono la faccia i nostri piccoli mostri quotidiani.
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 19, 2009, 02:35:17 pm »

19/11/2009

Ci rimane soltanto l'aria
   
Cosa succede se la globalizzazione raggiunge il rubinetto di casa

ANTONIO SCURATI


Nessun uomo è tanto pazzo da vendere la terra su cui cammina. Così, stando alla leggenda, il grande capo indiano avrebbe risposto al negoziatore bianco che gli offriva la scelta tra la guerra di sterminio e l’acquisto delle terre ataviche della sua tribù. Che cosa direbbe oggi quel capo indiano di noi che, dopo aver fatto ovunque commercio della terra su cui camminiamo, ci apprestiamo a venderci anche l’acqua che beviamo?

Niente direbbe, il fiero guerriero, perché, al pari di ogni altro ostacolo locale, fu spazzato via dalla storia che, è bene non dimenticarlo, è stata sempre storia del processo unilaterale attraverso il quale l’Occidente, esplorando, conquistando e colonizzando, ha globalizzato la terra unificandola in un sistema mondo interamente governato dalla legge del capitalismo. Ora che quella grande impresa è compiuta, ora che la fase di espansione è terminata, ora che l’auto-narrazione in cui si racconta di come il pianeta Terra divenne una sfera interna alla logica del capitale è giunta alla fine, ora non rimane che lavorare sulle condizioni di vita all’interno della grande serra planetaria del capitalismo avanzato. Questa nuova frontiera interna che avanza senza soste ha un nome preciso: privatizzazione della vita.

Rientra in questo quadro epocale anche la notizia secondo la quale in Italia, remota provincia dell’impero, il governo sarebbe pronto ad appaltare a privati il servizio di erogazione dell’acqua, che smetterebbe così di fatto di essere un servizio pubblico, trasformando l’approvvigionamento idrico, cioè l’accesso a una fonte basilare della vita, in una qualsiasi merce. In linea concettuale, infatti, anche questo sarebbe un ampio passo verso la privatizzazione della vita: l’acqua smetterebbe di essere qualcosa cui tutti noi abbiamo diritto inalienabile per il semplice fatto di stare al mondo, una dotazione comune d’ingresso, come l’aria che respiriamo, e diverrebbe un bene voluttuario diversamente accessibile in base alla nostra individuale capacità di spesa. Ecco, dunque, un altro esempio della regola della deprivazione che sembra governare i destini degli uomini in questo nuovo scorcio di millennio: a ogni nuovo giro di giostra, man mano che il «pubblico» diventa «privato», ci viene sottratto ciò che è necessario per vivere o, almeno, ciò che fino a una generazione precedente era stato considerato un diritto naturale e inalienabile. La privatizzazione della vita agisce simultaneamente su due versanti, contigui e interconnessi come le due facce di un'unica moneta. Su un versante si procede a privatizzare la proprietà non più solo dei mezzi di produzione ma anche dei mezzi di sussistenza della vita della specie, sull’altro si mette in scena la riduzione della vita sociale a fatto privato.

Sul primo versante accade che, in un quadro globale di progressivo impoverimento delle risorse naturali, di cambiamenti climatici che rischiano di mettere fine al lussureggiare della vita planetaria e di fosche previsioni sull’aumento della popolazione mondiale, il controllo sui beni basali per l’esistenza, sulle condizioni di sopravvivenza, e finanche sulle matrici di riproduzione della vita biologica, viene via via affidato a soggetti d’impresa, cioè a privati mossi dalla logica del profitto e, spesso, da intenti speculativi. È il caso del controllo delle risorse idriche, delle biotecnologie in agricoltura, ma è anche il caso della privatizzazione della guerra subappaltata a contractors privati, della privatizzazione della ricerca medico-scientifica e, sopra ogni altro, è il caso della ricerca sul genoma umano condotto da privati. Il secondo versante, meno serio ma non meno preoccupante, è quello della trasformazione della politica in talk show, un osceno teatrino di faccende un tempo confinate nella vita privata che ha l’effetto di svilire, fino all’annichilimento, la nozione di «pubblico interesse». Il «pubblico», come ci ha insegnato Bauman, è così svuotato dei suoi contenuti, privato di un’agenda propria: è solo un agglomerato di guai, preoccupazioni e problemi privati. È l’eclissi della politica, un tempo intesa come possibilità di fare uso di mezzi collettivi per affrontare i problemi individuali. È anche la fine del sentimento di comunità. E, con esso, la fine del principio di un bene comune.

Da entrambi i lati dello schermo televisivo, la collettività scade ad aggregato di agenti individuali, le esistenze a questioni private. La lezione che si ricava da questa rappresentazione che rimodella la nostra capacità di pensare il mondo in comune è che ciascuno può solo lodare se stesso per i propri successi o, più probabilmente, incolpare se stesso per i propri fallimenti. Tutti gli individui assistono al grande talk show della vita privatizzata soli con i loro problemi e, quando lo spettacolo finisce, si ritrovano sprofondati nella loro solitudine, immersi nel buio di una stanza in subaffitto davanti a un televisore sintonizzato su di un canale morto.

da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Novembre 27, 2009, 11:15:35 am »

27/11/2009

Mani mozzate, l'assassino ispirato da Csi
   
ANTONIO SCURATI


Un’epidemia dell'immaginario. Una pestilenza psichica capace di contagiare via etere le menti fino a tradursi in fatto criminale. Un virus mutante che muta la finzione in realtà. Questa l’ipotesi inquietante emersa dall’ultimo caso di cronaca nera. Che l’influenza più minacciosa, più perniciosa, non sia quella suina ma quella televisiva?

Ecco i fatti: nella solita cittadina dal nome improbabile (Cocquio Trevisago) della solita sonnacchiosa provincia, un uomo di mezza età, vedovo di una moglie morta carbonizzata in circostanze sospette a seguito di un incidente stradale, viene arrestato con l'accusa di aver trucidato un'anziana signora. C'è, però, un dettaglio raccapricciante: alla vittima sono state mozzate entrambe le mani. Il raccapriccio diventa indizio di reato: il presunto assassino è, infatti, notoriamente, un appassionato di quel genere fiorente di programmi tv che mette in scena le più avanzate tecniche d'investigazione scientifico-poliziesca. Che la vittima si sia difesa graffiando l'aggressore? Che il mozzatore di mani di Cocquio Trevisago si sia ispirato a uno dei suoi spettacoli tv preferiti per cancellare, nel modo più drastico, le tracce del proprio DNA dalle unghie della sua vittima?

Eccoci, dunque, ancora una volta, riuniti per una veglia funebre a chiederci se il dilagare del crimine nel nostro immaginario collettivo abbia la forza di plasmare i nostri comportamenti sociali; se i modellini della scena del crimine con cui gli apprendisti stregoni si trastullano impunemente dagli schermi tv sera dopo sera, anno dopo anno, decennio dopo decennio, non finiscano, poi, col diventare modelli di comportamento criminale. Il mozzatore di mani di Cocquio Trevisago indica una nuova frontiera: oltre che di una pedagogia del male, la televisione perversa sarebbe capace anche di una didattica del male. Principi e pratiche. Teoria e tecnica.

Nel Medio Evo della peste nera, la superstizione popolare voleva che il contagio passasse attraverso la vista. Si ammoniva chiunque avesse a cuore la vita di non fissare negli occhi un moribondo infetto. Forse, ammesso che ci stia ancora a cuore la vita, faremmo bene anche noi a seguire quella regola d'igiene. Non teniamo troppo a lungo lo sguardo fisso sugli untori dell'immaginario pestilenziale di questo nuovo Medio Evo Tv.

Lasciamoli soli a giocare con i loro modellini di morte.

da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 18, 2010, 10:21:23 pm »

18/4/2010

Purificati da una nube

ANTONIO SCURATI

Una nube ci ha imprigionati, una nube ci renderà liberi. Siamo cresciuti sotto cieli malsani, percorsi da nubi venefiche. Alzando gli occhi al cielo, abbiamo imparato più a diffidare che a pregare, più a temere che a sperare. Dall’alto - come dal basso, del resto - non c’era da attendersi nulla di buono.

In principio, a incombere sul nostro futuro, fu la nube atomica, quella fungiforme che si levò sopra Hiroshima il 6 agosto del 1945. Dopo di allora, una lunga serie di nubi si sono addensate all’orizzonte delle nostre vite minacciando olocausti ambientali, estinzioni planetarie, sindromi respiratorie. Procedendo a memoria d’uomo, trovo la prime nube tossica della mia vita nei ricordi d’infanzia. Era l’estate del 1976 e alle porte di Milano, nella cittadina di Seveso, scoppiava il reattore di una fabbrica chimica. Un miasma si stendeva sul territorio circostante come una nebbia autunnale. Ma puzzava. Era diossina. Prima caddero gli insetti stecchiti, poi stramazzarono le rondini, poi i cani impazzirono, poi le mucche levarono muggiti strazianti, infine, toccò ai nocchieri dell’arca. «Ci avevano detto che non esisteva alcun pericolo», dichiareranno gli abitanti della zona evacuati con 15 giorni di ritardo.

Esattamente dieci anni più tardi, il 26 di aprile del 1986, un altro disastro vaporoso, un’altra evacuazione tardiva. Questa volta la nube era composta di materiali radioattivi fuoriusciti dal reattore di una centrale nucleare nella remota località di Cernobil, ai confini tra Bielorussia ed Ucraina. Veniva di lontano ma giunse fino a noi. Avevo diciassette anni allora e, con la spavalderia della gioventù, assieme a un compagno di sbronze, la sfidammo addormentandoci ubriachi a Venezia sotto l’ala di bronzo del leone ai piedi del monumento a Manin proprio nella notte in cui i telegiornali ne annunciavano l’arrivo sulle nostre teste. La baldanza, l’incoscienza, non ci preservò, però, da una gran quantità di altre nubi, tutte più o meno maligne: gas di scarico, cortine fumogene, nubi di smog, nubi d’informazione e di disinformazione, vapori di benzina e vapori di nulla.

Siamo cresciuti così, nelle nostre città del benessere: sottoposti a un cielo gravato da miasmi, foriero di pestilenze vaporose, dove tutto è prodigio o funesto presagio. Proprio come nelle antiche città delle tragedie greche. Per la mia generazione, il privilegio di respirare liberi, a pieni polmoni, non è mai stato un diritto naturale, una gioia senza condizioni. Per noi, figli dell’estremo progresso, anche l’aria, soprattutto l’aria, è condizionata.

Eppure, guardando oggi le immagini di questa massa calda di gas formata da anidridi, idrogeni e vapori acquei, guardando i raggi del sole che, cosparsi di ceneri e aerosol, danno ai tramonti nordici colorazioni più intense, guardando dal satellite la scia marroncina stendersi sull’Europa, come sbavando da un vulcano islandese, guardando, soprattutto, la mappa del traffico aereo che si va cancellando da Nord a Sud, da Ovest a Est, immaginando questa nube boreale muoversi leggera a cinquemila metri d’altezza su cieli deserti, sorge in noi una chimera di quiete.

Certo, siamo consapevoli del grave danno economico, della crisi del traffico aereo, dei gravi rischi d’intossicazione, eppure si fa strada, irresistibile, una fantasia di azzeramento e rinascita. Fantastichiamo che, per un istante, lasciandoci tutti a terra, liberando i cieli sopra le nostre teste, la nube possa riportarci quel senso perduto della vita come qualcosa che può ricominciare da zero.

E’ la cosa di cui avremmo, forse, più bisogno. Una nube che faccia piazza pulita, dopo tante, troppe nubi che hanno ammorbato le nostre esistenze di asmatici immaginari.

da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 22, 2010, 06:19:50 pm »

18/5/2010 - LE IDEE

Solo chi paga le tasse merita i diritti
   
ANTONIO SCURATI

Questo non è un articolo di commento, è un articolo di protesta. Sarà, perciò, breve, diretto, persino un po’ rozzo e brutale. Altri esporranno, spero, pacatamente le loro ragioni, io qui mi limiterò a urlare le furibonde ragioni dei miei oppressi e i miei oppressi sono i lavoratori salariati vittime della vessazione fiscale.

Protesto perché nel nostro Paese, al principio del nuovo secolo e millennio, la principale causa d’ingiustizia sociale è la sperequazione fiscale. Protesto da dipendente pubblico perché la principale forma di sperequazione fiscale non è tra Nord e Sud (come vorrebbe una parte politica i cui elettori hanno finanziato le loro imprese con l’evasione fiscale e con il lavoro nero) ma tra salariati (per lo più dipendenti statali) e lavoratori autonomi. Protesto perché, sul piano fiscale, la popolazione italiana è divisa in due parti.

Da un lato c’è un ceto produttivo (quelli a cui le tasse le prelevano alla fonte), dall’altro un ceto di parassiti evasori (per lo più commercianti, liberi professionisti, imprenditori). Protesto perché, per colmo della beffa, la prima metà è quella più povera, la seconda quella più ricca, la quale diventa ancora e sempre più ricca grazie al sangue fiscale succhiato ai più poveri. Protesto perché sono stufo di pagare con il mio modesto stipendio di ricercatore universitario la scuola d’élite al figlio del ristoratore dove una volta al mese posso forse permettermi di andare a mangiare il pesce, perché sono stufo di pagare con quel modesto stipendio la polizia che sorveglia la sontuosa villa del dentista da cui mi sono fatto otturare un dente cariato, perché sono arcistufo di pagare le strade su cui sfreccia con il suo SUV corazzato il commercialista arricchito o il pronto soccorso a cui ricorre in una notte sbagliata l’imprenditorello impippato, protesto perché non ne posso più di pagare con i miei 1500 euro mensili la escort da duemila euro a botta al riccastro viziato.

Lo Stato Moderno, ombrello della convivenza civile, nasce sulla base di un patto preciso: sottomissione contro protezione, soggezione (anche fiscale) contro sicurezza. In questi giorni assistiamo a una versione caricaturale, degenerata, di quell’antica alleanza. Una violenta cricca internazionale di grassatori dell’alta finanza decide, dai suoi grattacieli dorati di New York, Lussemburgo o Shanghai, una razzia ai danni della povera gente di alcune antiche e dissestate nazioni mediterranee. E i governanti di quelle nazioni che fanno? Per ergere una barriera finanziaria a difesa della loro gente non trovano di meglio che salassare ulteriormente i già vessati salariati e pensionati. Io contro questa barzelletta di democrazia protesto e denuncio la rottura fraudolenta del contratto sociale.

La più grande democrazia moderna, quella statunitense, comincia da una protesta fiscale. No taxation without representation. Niente tasse senza rappresentanza politica, urlarono i ribelli delle colonie della Nuova Inghilterra. Non essendo questi - purtroppo o per fortuna, per fortuna o purtroppo - tempi di rivoluzioni, io propongo di invertire la formula: no representation without taxation. Si tolgano i diritti civili, a cominciare dal diritto di voto, a tutti gli evasori fiscali (prima, però, bisognerebbe, ovviamente, pescarli). Chi di fatto non fa parte del consesso civile statale che si costruisce e conserva grazie al contributo fiscale di tutti, non ne faccia parte nemmeno di diritto. Altrimenti, il paradosso è che un ceto di evasori fiscali, parziali o totali, continuerà a eleggere un ceto politico che poi ne preserverà il privilegio d’immunità, perpetuando questa tremenda ingiustizia sociale. Contro la quale io, personalmente, protesto e spero protestino in tanti.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7363&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #9 inserito:: Luglio 16, 2010, 05:15:58 pm »

16/7/2010

L'assessore alle schifosate
   
ANTONIO SCURATI


Soprattutto, mi raccomando, ragazzi: niente schifosate!

L’assessore alla Cultura della Provincia di Milano ha appena enunciato il principio cardine della sua linea culturale: niente «schifosate». Noi lo guardiamo perplessi, lui ribadisce: «E’ finito il tempo delle deleghe in bianco; ora interverremo sui contenuti; quindi, niente schifosate!». Dopo lo sforzo di eloquenza, si aggiusta gli occhiali sul naso, poi, soddisfatto, tace. Noi ci guardiamo interdetti: cosa intenderà il neo-assessore con l’inaudita categoria estetica delle «schifosate»?

È una tarda mattinata del novembre 2009. Io e un mio amico siamo venuti a illustrare il progetto di una piccola e rinomata rassegna letteraria che organizziamo da anni in città con il sostegno dell’assessorato alla Cultura di Comune e Provincia. Abbiamo atteso a lungo che l’assessore ricevesse uomini con nodi alle cravatte grossi come palle da tennis, poi, una volta giunti al suo cospetto, dopo aver capito che l’assessore alla Cultura ignora, in particolare, l’attività culturale svolta dal suo ufficio negli anni passati e, più in generale, la vita culturale cittadina o nazionale, abbiamo udito il verbo delle «schifosate». Ora ce ne stiamo lì, silenti e riverenti, facendo immani e vani sforzi esegetici.

Lui deve finalmente aver letto lo smarrimento nei nostri occhi e chiarisce: «Sì... schifosate... roba del tipo che m’invitate Travaglio a parlar male di Berlusconi, oppure roba omosessuale... oppure, non so, avete presente quell’artista lì… come si chiamava?... aiutatemi... Cos’era, polacco? Insomma, quell’artista che quando hanno inaugurato quel museo di Napoli… sì, quel museo lì… come si chiamava il museo? Vabbè, insomma, quell’artista che ha messo un preservativo in testa a un crocifisso. Ma ve lo immaginate l’imbarazzo delle autorità?! Insomma, niente schifosate!».

Quella tarda mattina di novembre, io e il mio amico ce ne uscimmo mesti dall’ufficio di quello che per noi divenne, da allora, «l’assessore alle schifosate» (il suo nome proprio non conta). Ci chiedevamo dove ci avrebbe condotti una guida tanto illuminata (nel nostro caso, condusse a una rottura; mesi dopo rifiutammo un’offerta di patrocinio giunta a una settimana dall’inizio della manifestazione perché la ritenemmo tardiva nei tempi, triviale nei modi e sprezzante nell’entità: 1500 euro).

Ma al di là del caso personale, la cronaca di questi giorni risponde al nostro interrogativo di allora. Dopo aver già fatto calare su varie manifestazioni la mannaia del taglio per motivi moralistici, ideologici o di semplice incompetenza, ora l’assessore convoca in Provincia i direttori di vari teatri milanesi indicando gli spettacoli da sopprimere in base all’estetica delle «schifosate». All’Out Off si chiede di «sostituire» Orgia di Pasolini, a Renato Sarti di cancellare la Trilogia del benessere (tre atti unici portati in scena per la prima volta da Strehler nel ’91) e via dicendo. Tutte «schifosate», evidentemente. E chissà quante altre dovranno ancora essere ripulite da igienici interventi censori...

A questo punto, però, si deve deporre ogni sarcasmo e sgombrare il campo da ogni equivoco. Qui non è questione di destra o sinistra (l’assessore alle «schifosate» è di destra). Alla favola della perdurante egemonia culturale della sinistra non crede, oramai, più nessuno visto che la destra italiana detiene da decenni quasi tutte le leve del potere simbolico. Milano e la Lombardia, poi, sono governate da molto tempo, con un potere quasi assoluto, da giunte di centrodestra. Abbiamo avuto già vent’anni fa un sindaco leghista eppure si dotò di un assessore alla Cultura di alto profilo. Esiste del resto, lo sappiamo tutti, una feconda e potente cultura di destra. No, il punto non è questo. Il punto è che futuro vogliamo per Milano e per il Paese. Una Milano che guardi all’Esposizione Universale del 2015 (ammesso che ci guardi) non può tollerare un personale politico così. Qui è questione non di contrapposte politiche culturali ma di livello di civiltà, è questione di competenza, di decenza e di potenza. Ciò che inquieta della grottesca estetica delle «schifosate» è più la sua natura reattiva che non quella reazionaria, più il suo essere arretrata che non il suo essere retrograda. Ci sono forme molto più evolute, ed efficaci, anche di propaganda politica o di offerta culturale ideologica. Questi sono censori che fanno il vuoto, non il pieno. La mano lasciata libera dalla mannaia non sanno a cosa destinarla.

È questa un’emergenza che dovrebbe preoccupare tutti, non solo quelli che vanno a teatro. Nelle nostre società non c’è sviluppo senza cultura perché la crescita dipende più dalla produzione di beni immateriali che di beni materiali: informazioni, servizi, simboli, conoscenza. Oggigiorno si può essere ricchi e ignoranti per una generazione, ma non per due.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7599&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #10 inserito:: Agosto 20, 2010, 12:42:20 pm »

20/8/2010

Vedi Amalfi e forse muori
   
ANTONIO SCURATI

La costiera amalfitana, patrimonio dell’umanità per l’Unesco, pare voler ammettere solo un’umanità vacanziera e gaudente, non un’umanità autentica e quindi dolente. In queste magnifiche terre ci puoi trascorrere una settimana di vacanza ma non ci puoi invecchiare, ci puoi contemplare il paesaggio ma non ti ci puoi ammalare, ci puoi ammirare le vestigia del passato ma non vivere (bene) nel presente.
Inebriati pure della superba vista dalla terrazza di Villa Cimbrone a Ravello ma non ti sognare di farti venire un infarto o di incappare in un incidente stradale. Saresti spacciato.

L’attuale proposta di Piano Sanitario Regionale prevede, infatti, per la Costa d’Amalfi, la sostituzione dell’ospedale con una struttura non ospedaliera. In buona sostanza significherebbe: niente più pronto soccorso, niente più rianimazione, cardiologia, chirurgia d’urgenza. In termini crudi e reali significa che una persona colta da accidente (infarto, ictus, incidente stradale ecc.) ad Amalfi, ad Atrani o a Ravello, avrebbe ottime probabilità di morire per strada, sulla strada lunga e tortuosa per Salerno, esalando il suo ultimo respiro in un ingorgo di torpedoni turistici, come è già successo molte volte in passato (si ricorda, fra l’altro, Salvatore Quasimodo, stroncato da infarto ad Amalfi).

Se consideriamo che l’attuale presidio ospedaliero di Castiglione minacciato di soppressione - il meno dispendioso dell’intera Campania in rapporto al numero degli abitanti -, oltre ai circa 10.000 accessi di solo pronto soccorso l’anno, effettua almeno 50 interventi «salvavita» di rianimazione, si può facilmente calcolare che oggi più di due persone al mese vi vengano strappate alla morte. Insomma, da queste parti il piano di tagli della Regione Campania costerebbe almeno un paio di morti al mese.

Ma c’è di più. Qui c’è in gioco una questione di civiltà: alla salvaguardia dell’ospedale di Castiglione sono appese le residue speranze riguardo al futuro della modernità (ammesso che ne abbia uno) in questa regione d’Italia e, forse, in tutto il suo Meridione.

L’attuale piccola struttura ospedaliera sorge sul territorio di un Comune, quello di Ravello, giustamente celebre nel mondo per la sua incomparabile bellezza paesaggistica e per la sua secolare storia artistica e civile. È, fra l’altro, un territorio in un certo senso ricco. Un «senso» che rischia di produrre significati aberranti. Negli ultimi anni, soltanto a Ravello sono sorti (o risorti) tre alberghi a cinque stelle lusso (oltre a quelli già esistenti). Se allarghiamo lo sguardo, incontriamo subito numerose altre contraddizioni brucianti. La Campania, ad esempio, è la regione italiana che ha il più alto numero di ristoranti «stellati», la maggior parte dei quali concentrati proprio negli ottanta chilometri di costa che vanno da Vietri a Sorrento.

Infine, si consideri questo: nel momento in cui scrivo, in molte delle spiagge della «divina costiera», poste sotto il patrocinio dell’Unesco, vige un divieto di balneazione. I rilievi del mese di luglio hanno riscontrato livelli di colibatteri dieci volte superiori alla soglia massima consentita. La causa è molto semplice e antica quanto una piaga atavica: gli esseri umani defecano. Ignorando questa circostanza, quasi tutti gli splendidi borghi della Costa d’Amalfi, a dispetto di ogni presunta vocazione turistica, non si sono mai dotati di un depuratore.

La conclusione, insomma, potrebbe esser sinistra. La Costa d’Amalfi rischia di candidarsi a triste paradigma del ritorno a un modello sociale premoderno, in cui il prestigio non produce sviluppo, in cui la ricchezza (di pochi) rimane disgiunta dal benessere (di molti), in cui un metro più in qua degusti delizie raffinatissime in una magione a cinque stelle a bordo di una infinity pool e un metro più in là muori come un cane colto da infarto in mezzo alla strada. Una spirale regressiva ben sposata ad alcune innovative tendenze del marketing avanzato che puntano tutto sull’effetto cartolina. Si tratta di inquadrare bene il panorama mozzafiato ignorando il contorno di abusivismo edilizio, di ammirare in lontananza un mare in cui non ci si può bagnare, di degustare gli spaghetti al limone nella saletta riservata di un ristorante gourmet dimenticando i limoneti abbandonati.

Una deriva del genere è inaccettabile. Lo è a maggior ragione perché la splendida, e per tanti aspetti privilegiata, Costa d’Amalfi rappresenta, per una regione luttuosa e dissestata come la Campania, un’ipotesi possibile di sviluppo virtuoso, quasi un sogno di felicità, quasi un barlume di speranza nel lieto fine di una travagliata modernità.

Quella deriva è inaccettabile proprio perché, a fronte di tutti i vizi e i rischi descritti, i segni di un possibile destino esemplare per queste terre antiche e, al tempo stesso, futuribili non mancano. Pensiamo proprio all’esperimento Ravello, al grande festival che vi si tiene durante tutta l’estate e alla recente costruzione del magnifico auditorium progettato da Oscar Niemeyer. Ma non può esserci un modello di civiltà moderna senza ospedale, non c’è lieto fine senza chirurgia d’urgenza. Tutti noi che amiamo queste terre e, soprattutto, la speranza che vive in loro, ci auguriamo che il nuovo governatore della Campania lo capisca.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7725&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #11 inserito:: Settembre 11, 2010, 05:06:52 pm »

11/9/2010

Bebè griffati, figli come decorazioni

ANTONIO SCURATI

Lo sfruttamento della prima infanzia a scopi commerciali è indubbiamente l’ultimo grido della moda. Dopo aver ampiamente colonizzato e spianato i territori un tempo impervi dell’adolescenza, i signori del marketing applicato alle stagioni della vita stanno ora marciando a tappe forzate e a ranghi serrati verso le pianure indifese della tenera età.
Un altro tabù, forse l’ultimo, è caduto: i bambini vengono platealmente dichiarati segmento merceologico privilegiato. La caccia commerciale al bebè è cominciata.

Per rendersene conto è sufficiente sfogliare i magazine allegati ai grandi quotidiani nazionali della prima settimana di settembre. Si noterà che una buona metà delle pagine pubblicitarie sono state acquistate da linee di abbigliamento per bambini. Le nuove collezioni autunno-inverno per mocciosi campeggiano a tutta pagina e quasi in ogni pagina. Evidentemente, il ritorno della famiglia italiana dalle spiagge, la riapertura delle scuole, significa innanzitutto un forte aumento della spesa legata ai beni voluttuari. Dopo le vacanze, il superfluo. Allegre economie domestiche di un Paese che figura agli ultimi posti in Europa per spesa delle famiglie per l’educazione e l’istruzione (lo stesso vale per la spesa pubblica). La scuola riapre ma ciò che pare starci a cuore è il poterla usare per improprie sfilate di moda.

A contendere il primato alle pubblicità di abbigliamento per bambini resistono soltanto quelle di abbigliamento intimo. Uomini e donne (ma soprattutto donne) esibiti in seminudità procaci, provocanti, sovraesposte e sovrailluminate. I bambini vestiti e gli adulti svestiti. Questa, insomma, pare essere l’ultima frontiera dell’ormai ben noto ribaltamento di ruoli tra età adulta e infantile. Gli adulti infantilizzati nell’impudicizia svergognata della nudità infantile e i bambini adultizzati in posa e pratiche da fashion victim.

Questo turba. Non il fatto che esistano da sempre aziende specializzate in prodotti e abbigliamento specifico per i bambini - aziende che spesso, nelle loro prestazioni migliori, arrivano perfino a supplire in modo virtuoso alle carenze dei servizi pubblici - ma il fatto che quasi tutti gli spazi pubblicitari siano stati acquistati da marchi di moda per adulti che lanciano la loro linea infantile. I bambini vi figurano come replicanti in miniatura delle pose stereotipate dell’immaginario adulto: c’è il bel tenebroso con il capo chino e le mani in tasca, la microsignora chic tutta plissettata, la vamp in erba carica di mascara e di ammiccamenti sessuali. Insomma, copie di copie, caricature di caricature. I bambini vengono così risucchiati in una logica mondana che fino a ieri si riteneva tipica dell’età adulta, prerogativa esclusiva del lussureggiante cervello dell’ominide di grossa taglia, tanto sviluppato e sovradimensionato da sapersi elevare a raffinatissimi sistemi di significazione del corpo, fino al punto di ricadere poi nel totale nonsense.

Questa retrodatazione di caratteri adulti, caratteri tardivi, alle origini infantili dell’avventura umana è resa particolarmente evidente dal procedimento della griffatura. La logica illogica della griffe viene anticipata addirittura ai primi mesi di vita in una sorta di evoluzione regressiva contro natura che trasforma il corpo imberbe del bebè, nudo per sua vocazione, spoglio di qualsiasi determinazione culturale che non sia l’universale appartenenza al genere umano, in un corpo di lusso.

C’è, in particolare, una campagna pubblicitaria che si spinge fino alle estreme conseguenze di questa inversione. Una ben nota coppia di stilisti che ha fatto della macroscopica ostensione autoreferenziale della griffe uno dei motivi della propria fortuna, ora applica la sua strategia vincente alla prima infanzia. Per vendere la loro merce, fanno fotografare due bebè camuffati da adulti modaioli. Avranno a stento un anno di età, biondi con gli occhi azzurri, uno di faccia e l’altro di schiena, entrambi tappezzati in vari punti del corpo (suola delle scarpe compresa) dalla griffe riprodotta a caratteri cubitali. Il bambino sulla destra, ignaro dell’uso che stanno facendo di lui, rivolge all’obiettivo del fotografo la sua testa grande, la sua fronte prominente, il naso piccolo, gli occhi enormi e infossati, le guance paffute e arrotondate, la pelle morbida e calda, i capelli fini. Tutte le caratteristiche morfologiche predisposte dalla biologia per suscitare trasporto istintivo, per innescare nei genitori programmi genetici di protezione e cura. E invece adesso innescano protocolli di sfruttamento commerciale, servono ai genitori come superfici di proiezione estetica di precari processi d’identificazione attraverso i cosiddetti stili di consumo.

Sì, perché così si spiega lo sconcerto che ci coglie davanti a questo genere di pubblicità. Diranno gli psicologi dell’età evolutiva quali conseguenze potrà avere sullo sviluppo di un bambino il suo precoce ingresso nella logica della moda e del consumo, dirà il futuro quali conseguenze avrà sulla società una generazione di adulti griffati fin dalla prima infanzia. Ma una cosa è certa fin da ora: i genitori a cui questo genere di pubblicità si rivolge tradiscono un’inquietante concezione del proprio ruolo e dei propri figli. Il bebè griffato rispecchia l’idea di un figlio come orpello. Qualcosa d’inessenziale, di tanto tanto carino, un sovrappiù che giunge a decorare le nostre vite scialbe quando l’età avanza, la carriera ristagna, la noia dei weekend al mare o in montagna incalza e la naturale amarezza che sale dalle cose condisce le nostre pietanze. Un pupazzo di carne e sangue a cui appiccicare le nostre griffe preferite. Un figlio come bene voluttuario, tutto sommato.

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« Risposta #12 inserito:: Novembre 18, 2010, 12:36:39 pm »

18/11/2010

Guardarsi negli occhi con serenità

ANTONIO SCURATI

Sono nato a Napoli, sono cresciuto a Venezia, vivo a Milano da 20 anni e fanno già 2 giorni che non so più in che città vivo.
Da 2 giorni - cioè da quando ho ascoltato in tv Saviano tenere la sua orazione sulle infiltrazioni mafiose in Lombardia - continuo a chiedermi se quando vado a cena in un ristorante nella cerchia dei Navigli non stia per caso finanziando la ’ndrangheta.

Se quando apro un conto nella filiale sotto casa non stia per caso prestando i miei piccoli risparmi a una banca ben lieta di accogliere i capitali del narcotraffico, se vivendo da cittadino lombardo mediamente rispettoso della legalità e delle regole non sia per caso inconsapevolmente complice di un sistema criminoso. Insomma, la ’ndrangheta è in Lombardia oppure la Lombardia è in mano alla ’ndrangheta?

La domanda è letteralmente inquietante, quel genere di inquietudine benedetta che la parola, artistica o letteraria, è capace di scatenare quando rompe l’ottusità del dire quotidiano, quella rara specie di inquietudine che ci porta a guardarci allo specchio una mattina e a non sapere più chi siamo. E, quindi, ancora una volta, ben venga Saviano. C’è, però, un problema. Nella sua orazione Saviano più che fornire e argomentare la risposta, la suggerisce. Par di capire che la Lombardia sia in mano alla ’ndrangheta (o, almeno, buona parte di essa) ma le sue parole non ci forniscono certezze.

Saviano ne ha parlato in televisione, in un’orazione, non ne ha scritto dettagliatamente in un libro. Il discorso televisivo, legato alla performance retorica, alla volatilità della parola orale, levita facilmente, immediatamente, verso dimensioni mitografiche (il giuramento di affiliazione messo in scena a Vieni via con me), giganteggia in suggestioni potenti e sfuggenti (20.000 bar e ristoranti milanesi in mano alla ’ndrangheta!). Sull’onda di quella parola, è difficile, se non impossibile, definire il contorno preciso delle cose, capire esattamente fin dove arrivino le nostre complicità involontarie, fin dove si spingano le responsabilità politiche. Ed è un controsenso perché proprio Saviano ha il grande merito di aver ridato peso etico (e politico) alla parola letteraria in Italia.

Saviano afferma che imprenditori e politici lombardi rimuovono il problema dell’infiltrazione criminale perché non vogliono rinunciare ai capitali del narcotraffico investiti nella regione, Saviano sostiene che c’è un Nord «completamente infiltrato». D’accordo, ma quella dell’infiltrazione è una metafora, utile, suggestiva, forse necessaria, adesso però è indispensabile accedere a una verità letterale. Saviano rivendica il fatto che il suo compito e merito di narratore sarebbe stato quello di aver rotto il silenzio. Benissimo, ma adesso si deve approfondire. Saviano afferma che la ’ndrangheta a Nord cercherebbe l’interlocuzione politica della Lega. Io sono portato a credergli, e non da ora, ma cosa significa di preciso «interlocuzione»? Adesso vogliamo sapere. Con un’affermazione celebre, riferita alle trame oscure della vita nazionale degli Anni 70, una volta Pasolini proclamò: io so, sebbene non abbia le prove. Oggi, di fronte alle rivelazioni di Saviano, credo che l’atteggiamento giusto sia quello di mantenersi ben stretta la propria inquietudine: non sappiamo e vogliamo sapere.

Per tutti questi motivi (e non per un’assurda pretesa di contraddittorio obbligato o di malintesa par condicio) sarebbe secondo me utilissimo e opportuno un confronto televisivo tra Saviano e il ministro Maroni. Non uno scontro polemico ma un confronto vero, chiarificatore. Lo sarebbe soprattutto perché la violenta reazione emotiva e verbale del ministro dell’Interno solleva un’altra questione capitale per il futuro del Paese: la cultura politica della Lega Nord, figlia del Settentrione, quando arriva al governo della Nazione, esprime o non esprime un ministro degli Interni portato a combattere duramente ed efficacemente le organizzazioni criminali? Fino a oggi, per ammissione dello stesso Saviano, era parso fosse così ed io, personalmente, mi auguro davvero che così sia. Ma adesso, proprio a seguito dei dubbi sollevati l’altra sera, ho un urgente e vitale bisogno di saperlo con certezza. La Lega, ci piaccia o non ci piaccia, qualunque sarà l’esito politico del rivolgimento che stiamo attraversando, rappresenta e rappresenterà tanta parte della cittadinanza del Nord, e al Nord, alla sua ricchezza, alla sua società civile, alla sua responsabilità storica, ovunque batta il nostro cuore, rimangono e rimarranno legate le residue speranze di risollevare l’intera Italia.

Per tutti questi motivi, sebbene li senta lontani da me su tante cose, io vorrei continuare a credere che i leghisti siano gente che combatte il crimine. Per tutti questi motivi, vorrei vedere Saviano e il ministro degli Interni sedersi a discutere guardandosi negli occhi. Non come si fissano minacciosi due nemici, ma come chi si parla con franchezza e comunione d’intenti. Aiutateci a capire, per favore, in che città vive chi vive a Milano.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8100&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #13 inserito:: Novembre 23, 2010, 10:02:05 am »

23/11/2010 - IL FILM

Martone, l'invezione dell'Italia
   
ANTONIO SCURATI

Chi siamo? Cosa ha fatto e cosa fa dell'Italia l'Italia? «Noi credevamo» non è solo un film sul Risorgimento è un film del risorgimento. Il film di Martone proclama che - se pure fummo mai un popolo di poeti, navigatori e santi - gli italiani di ieri e di oggi sono stati e sono un popolo di scenografi, costumisti e truccatori.

E bisognerebbe aggiungere: di registi inventivi, bravissimi attori, talentuosi coreografi, fotografi, parrucchieri, macchinisti e illuminotecnici. Rimettendo in scena i decenni del processo di unificazione, il film rivendica e riscatta il patrimonio storico della Nazione e lo fa dimostrando che si tratta innanzitutto di un patrimonio artistico. Ma la cosa confortante, addirittura entusiasmante, è che dimostra che si tratta di un patrimonio vivente.

La continuità che questo film bellissimo stabilisce con l'epoca lontanissima da esso narrata è una continuità di mezzi artistici. A farlo splendere è quell'insieme di abilità, saperi e mestieri legati alle arti della scena. Le stesse che ebbero tanta parte - una parte attiva, generativa, secondo alcuni addirittura propulsiva - nel movimento risorgimentale da cui scaturì l'unità d'Italia. L'Italia di Mario Martone è ancora l'Italia di Giuseppe Verdi. O, almeno, quella che ebbe Verdi come padre della Nazione.

In questa brillante espressione dell'estro artistico italiano c'è, forse, anche una diagnosi della crisi presente e, forse, addirittura una strategia per il futuro. L'Italia, come buona parte dell'Occidente, attraversa da decenni una crisi legata alla decrescita industriale. La si può rigirare come si vuole, ma il fatto è che il nostro formidabile ciclo di espansione economica si chiude con gli Anni 70. In Italia, poi, la crisi è più grave che mai (e più grave che altrove), se è vero, come è vero, che in base a una recente indagine del Fmi sul Pil di 180 Paesi di tutto il mondo nel decennio '00, al centottantesimo posto si trova Haiti e al centosettantanovesimo l'Italia.

Questa crisi di deindustrializzazione, ovviamente, investe anche il cinema. Da anni ci siamo rassegnati all'idea che - salvo rare eccezioni - i film italiani siano un po' meschinelli perché privi delle risorse e dei mezzi necessari al cinema, arte industriale per antonomasia. Certo, ci siamo detti tante volte, è ovvio, per esempio, che gli attori siano meno bravi di un tempo se un tempo si producevano 150 film l'anno e oggi se ne producono a stento trenta. Poi vai a vedere «Noi credevamo» e scopri che qualcosa può sovvertire quello che si annunciava come un fatale destino di declino. Gli attori sono quasi tutti bravissimi (mi perdonino gli altri se mi limito a menzionare Francesca Inaudi, che riesce nel miracolo di rendere credibile, innanzitutto sul piano erotico, Cristina di Belgioioso, una delle figure femminili più affascinanti e complesse di ogni tempo e il formidabile Valerio Binasco, che riesce a dare un volto al demone nichilistico fin de siècle già allignante nell'idealismo primo-ottocentesco, Lo Cascio recita invecchiato per tutto il film senza che si dubiti mai del trucco, le scene sono create magistralmente, i personaggi s'impongono già al loro apparire per la suggestione dei costumi, le inquadrature sono scelte una a una per sopperire alla scarsità di mezzi e via dicendo.

Il punto è proprio questo. Noi credevamo non è un film che abbia beneficiato di una ricchezza produttiva inusitata per questi tempi. Anzi, ha dovuto faticare moltissimo per reperire i finanziamenti adeguati a una grande epopea in costume e alla fine ne ha trovati molti meno di quanti sarebbero stati necessari. Ma, come già accadde con il cinema neorealista del dopoguerra, ha fatto di quella mancanza dei mezzi industriali la necessità della propria virtù artistica. E le arti che rivivono e risplendono in questo film sono, per l'appunto, quelle della più radicata e risorgimentale tradizione italiana: le arti della scena e dello spettacolo dal vivo. Non a caso, l'impianto teatrale del film si esalta nei suoi due medaglioni centrali, quando la storia si rinchiude negli interni claustrofobici di una prigione borbonica o negli interni non meno asfittici della paranoia complottistica e bombarola degli attentatori alla Felice Orsini.

Insomma, tu una sera vai a vedere «Noi credevamo» e scopri, incredulo, che il Risorgimento arriva fino a te. Scopri che quelle abilità, quei mestieri quelle arti che hanno prima contribuito a fare l'Italia e poi a farla grande nel mondo (Rossini, Verdi e Puccini sono ancora oggi tre dei principali motivi del nostro residuale prestigio internazionale) sono vive e lottano insieme a noi. Non siamo soli, non tutto il passato ci ha dimenticati. E perdonatemi se parlo di «lotta» ma mi è parso pertinente visto che proprio in questi giorni i lavoratori dello spettacolo «lottano» contro i tagli e l'abrogazione delle leggi che favoriscono i finanziamenti. Un film come «Noi credevamo» indubbiamente lotta insieme a loro. Non farlo, mi pare decisamente anti-italiano.

La storiografia più recente ci ha insegnato che il Risorgimento, prima di divenire una realtà storica, fu, alla sua origine, un'invenzione artistica, una potentissima macchina mitopoietica che, infiammando l'immaginazione attraverso narrazioni creatrici, generò le condizioni psicologiche, emotive, spirituali, perché si realizzasse quella Nazione italiana che all'epoca aveva lo statuto di una chimera più che di un'utopia. Quella trascinante forza comunicativa si sprigionò principalmente da un ampio ventaglio di forme d'arte popolare - la pittura, la poesia civile, il romanzo storico, soprattutto il dramma musicale. Insomma, i garibaldini furono uomini d'azione e di pensiero, uomini d'armi e di penna, e, a unire le due cose, brandirono un'immaginazione fiammeggiante.

Qui, forse, c'è il lascito al presente. Un Paese in grave crisi economica e sociale come l'Italia, in un cronico declino da decrescita industriale e morale, dovrebbe forse risollevarsi puntando proprio sull'immaginazione creativa, la cui prima formidabile invenzione fu l'Italia stessa.

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« Risposta #14 inserito:: Giugno 04, 2011, 04:33:33 pm »

4/6/2011

Il macigno che distrusse l'illusione dell'edonismo

ANTONIO SCURATI

Ci sono date che, sebbene rimangano in principio ignorate, segnano una controstoria segreta dell’umanità. Il 5 giugno ’81 è una di quelle. Quel giorno il centro per la prevenzione delle malattie degli Usa identificò un’epidemia di pneumocistosi polmonare in 5 pazienti gay di Los Angeles. Era l’inizio dell’epidemia dell’AIDS. Ma era anche l’inizio degli anni ’80, il più lungo e intenso periodo di finta allegria dissipatrice che la storia dell’Occidente contemporaneo ricordi. Un decennio lungo trent’anni e durato fino a oggi. Anzi, fino a ieri. Trent’anni di fasulla e perfino lugubre joie de vivre sottilmente venati da un corrosivo presentimento luttuoso. Quel primo campanello d’allarme rimase a lungo inascoltato. Soltanto nel 1984 ci si renderà conto che un agente infettivo è il responsabile del diffondersi di una nuova terribile malattia, soltanto nel 1986 sarà pubblicato il primo report statunitense sull’AIDS che dichiarerà la necessità di dare informazioni sul sesso, soltanto nel 1987 l’Assemblea mondiale della Sanità approverà una prima strategia globale per fronteggiare l’epidemia. Nel frattempo, mentre l’epidemia dilaga, derubricata nell’agenda mediatica come flagello circoscritto alla comunità gay (non dimentichiamo che in un primo tempo venne definita «immunodeficienza gay-correlata»), là fuori, nella società occidentale che si autorappresenta come ricca, sana, festosa, libera e gaudente, il party sfrenato continua fino alle prime luci dell’alba. Buttati dietro le spalle gli anni ’70 degli ultimi conflitti sociali manifesti e delle ultime dure lotte politiche, si predica ovunque euforicamente il nuovo verbo della società dei consumi, il cui hard core culturale e commerciale sta proprio, non a caso, nello scatenamento dei consumi sessuali. Ogni merce, anche la meno eccitante, viene sapientemente investita da un flusso di pulsioni libidinali ad opera di una legione di pubblicitari. La «liberazione sessuale», massima conquista dei movimenti di contestazione dei decenni precedenti, viene pervertita e irradiata sull’intero spettro delle merci. L’imperativo è uno solo: consumare, spandere, godere. Tre verbi che stanno chiaramente su di un continuum temporale e semantico con l’atto ed il concetto di «scopare».

Per le donne e gli uomini della mia generazione, nati tra la fine dei ’60 e il principio dei ’70, l’AIDS fu una prima apocalittica rivelazione riguardo alla fatuità e falsità dell’ideologia edonista profusa prima dai gruppi di potere e poi dai ceti di governo proprio a cominciare dagli anni ’80. La sperimentammo sulla nostra pelle quella menzogna anzi - è proprio il caso di dirlo - nella nostra carne. Ci affacciammo, infatti, all’età biologica del godimento sessuale proprio quando l’agghiacciante consapevolezza riguardante il diffondersi della malattia proclamava che la festa era finita (sebbene alcuni uomini degli anni ’80 si siano ostinati a negarlo fino a ieri, anzi, fino a oggi). Raggiunti i sedici anni, quando, carichi di ormoni e di fantasie sessuali alimentate dalla dilagante nudità dei corpi, ci sentimmo pronti a buttarci nell’orgia scatenata dai nostri fratelli maggiori che erano passati dalle ammucchiate fricchettone alle agenzie pubblicitarie, ci dissero che l’orgia era un brodo di cultura d’infezione. Non avremmo addentato il frutto proibito, e non per timore del peccato ma perché era un frutto avvelenato. Per noi occidentali, l’AIDS infettava direttamente il cuore della nostra mitologia tardo-moderna. Era una piaga tipica della società dei consumi, strettamente correlata agli «stili di vita», recentemente elevati a suprema ideologia libertaria (l’AIDS fu la prima malattia infettiva scoperta come tale con solo metodo matematico statistico, cioè indagandone l’incidenza in gruppi sociali connotati dalle medesime abitudini), alla gioia vacanziera (il turismo sessuale ad Haiti), propensa a falcidiare gli idoli dello star system cinematografico (Rock Hudson), musicale (Freddie Mercury) e intellettuale (Michel Foucault). Se ne ebbe l’apice simbolico quando, pochi mesi prima di morire, Rock Hudson, ospite del serial Falcon Crest - emblema di quel culto fatuo della nuova, facile ricchezza - baciò sulla bocca Linda Evans per ragioni di copione, gettando così nel panico la troupe e l’intera produzione. Il linguaggio, come sempre, veicolò il contagio nell’immaginario.

Da quel momento in avanti l’amplesso amoroso venne definito «evento a rischio», il rischio fu contrastato con «campagne preventive» e il momento in cui quel rischio si esaltava, vale a dire l’atto sessuale, sottoposto all’ ipoteca di un «rapporto protetto». Quella che sarebbe dovuta finalmente essere l’espressione di un’esuberanza vitale, di una libertà conquistata, di una natura emancipata dalle proprie fatalità e costrizioni grazie alla tecnologia medico scientifica (l’invenzione della pillola), veniva ora subito sottoposta ad un protocollo di sicurezza fatto di guerre antivirali preventive e speculazioni sul rischio. Ci è stato giustamente insegnato che trasformare una malattia in metafora è gesto spesso ideologicamente perverso ma è davvero difficile non notare come l’ossessione del «rapporto protetto» sia presto diventato un paradigma per l’Occidente in crisi dei decenni successivi. Dalla metà degli anni ’80 in avanti, quasi sempre, sia che si facesse l’amore sia che si facesse la guerra, non essendo affatto propensi a rinunciare al nostro sfrenato godimento, volendo anzi continuare a lussureggiare anche in futuro, a dispetto di tutto, illudendoci di essere ancora in grado di farlo, abbiamo creduto di poter continuare ad andare a letto con lo spirito del tempo dei fatui e sciagurati anni ’80 indossando un preservativo, una piccola guaina di lattice immunizzante che ci garantisse l’orgasmo preservandoci, però, dal contatto con la realtà del mondo, dell’altro e, soprattutto, di noi stessi.

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